martedì 27 novembre 2012

Gaza festeggia la vittoria ora Hamas oscura Abu Mazen
GAZA - Il giorno della "vittoria" ha l' aroma del caffè al cardamomo e l' odore delle shawarma che dai ristorantini invadono la Shuada Street, nel cuore di Gaza City, ai pochi bancomat ancora funzionanti si vedono file lunghissime. «Sembra che i soldi li regalino oggi», commenta secco Yusef Adal sulla porta del vicino negozio di casalinghi, che ha riapertoi battenti dopo otto giorni di bombardamenti, ma si sbaglia. Il "giorno della vittoria", proclamato festa nazionale nella Striscia, ha per caso coinciso con il pagamento degli stipendi arretrati dei dipendenti pubblici. Due porte più avanti Alì, commerciante di televisori, ne ha messo fuori uno - alimentato col generatore perché in città non c' è luce pubblica se non poche ore al giorno - acceso a tutto volume mentre il premier di Hamas Ismail Haniyeh indirizza un discorso alla «sua nazione». Si forma subito un capannello. «I combattenti della resistenza hanno cambiato le regole del gioco, hanno sconvoltoi piani di Israele. L' opzione di invadere Gaza dopo questa vittoria è svanita e non tornerà mai più», dice Haniyeh nel suo discorso, e promette che «difenderà questo accordo fino a quando Israele lo rispetterà». Nelle strade intanto il rumore dei caccia F-16 che sfrecciavano in cielo ha lasciato il posto all' abituale caos di auto e clacson. In piazza è un tripudio di bandiere sventolate dalle auto, dalle moto, appese alle finestre: quelle verdi di Hamas, quelle rosse dei Comitati popolari. Ci sono i miliziani della Jihad islamica, delle Brigate Al Quds, solo per citare i principali gruppi della galassia delle fazioni armate a Gaza. Persino simpatizzanti di Fatah, la fazione rivale fedele al presidente dell' Anp, sono scesi in strada a festeggiare. Ma è stato anche il giorno delle sepolture degli ultimi morti. Nel quartiere di Redwan - fra i più colpiti dai bombardamenti - centinaia di combattenti mascherati delle Brigate Ezzedin al Qassam hanno sfilato al funerale di cinque compagni morti. La "colonna d' onore" di Hamas era impressionante, a bordo di oltre cento pickup nuovi di zecca, i miliziani erano armati di lanciagranate, fucili d' assalto, mitragliatrici. Il movimento integralista non sembra fiaccato da questi otto giorni di bombardamenti e quasi 2500 raid contro obiettivi giudicati strategici dagli israeliani, che hanno provocato 161 morti - oltre metà dei quali civili - e più di 1500 feriti. Perché dopo l' uccisione di Ahmad Jabari - il capo militare di Hamas - l' intera leadershipè entrata in clandestinità, al sicuro nel sistema di gallerie collegate fra loro, rifugi sicuri che possono essere usati per settimane e non ha subito altre perdite significative. I suoi missili, ne ha sparati più di mille, sono arrivati a Tel Aviv e Gerusalemme, dimostrando una potenza di fuoco impressionante che ha sorpreso la Difesa israeliana. Dopo la caduta di Mubarak e di Gheddafi il contrabbando di armi verso la Striscia non solo è aumentato, ma è diventato più sofisticato. Oltre missili Grad (40 km di raggio) Hamas dispone adesso dei razzi anticarro Kornet che possono perforare la corazza dei tank israeliani. I missili Fajr-5 di fabbricazione iraniana, che arrivano invece via nave dal Sudan, con la loro gittata di 75 chilometri hanno cambiato lo scenario della guerra, dando al movimento integralista un minaccioso potere strategico nella regione. Anche il premier Benjamin Netanyahu ha dovuto prenderne atto e scegliere la tregua. Ma Israele non potrà accettare a lungo questa situazione, è difficile sentirsi al sicuro con ventimila missili puntati contro. Intanto, i servizi di sicurezza israeliani hanno arrestato a Ramallah il presunto autore dell' attentato di mercoledì contro un autobus a Tel Aviv. Gaza in questi otto giorni ha accolto visite a ripetizione di ministri arabi, del capo della Lega Araba, del premier egiziano, i ripetuti segni di stima e solidarietà del presidente Mohammed Morsi, l' artefice dello sdoganamento di Hamas. Israele e gli Usa, poi, sono stati costretti a ingaggiare con il gruppo, considerato un' organizzazione terroristica, negoziati seppure indiretti. «La primavera araba ci ha consegnato la vittoria e gli Stati Uniti stanno ascoltando (dagli arabi) parole nuove», dice Haniyeh in tv, conscio che in questi giorni Hamas ha oscurato la scena per l' Anp di Abu Mazen - costretto ieri addirittura a una formale telefonata di congratulazioni per la "vittoria"; la leadership laica moderata che incarna il presidente palestinese ne è uscita ridimensionata. La Striscia di Gaza, soprattutto adesso, si dimostra un' entità distinta dalla Cisgiordania. Un mini-Stato islamico nelle mani della Fratellanza musulmana palestinese dove si applica la Sharia, che non riconosce l' Olp come unico rappresentante dei palestinesi, che non crede nel processo di pace avviato a Oslo. Il sogno di una Palestina unica guidata da una leadership moderata sembra svanito. Nel futuro ci sarà "Hamastan" a Gaza e "Fatahland" in Cisgiordania, con seri pericoli però che nel futuro anche Ramallah possa essere risucchiata dall' onda islamica che sta cambiando gli equilibri mediorientali.

Fabio Scuto


Netanyahu ha emarginato l' Olp non vuole uno Stato palestinese
«DUE elementi emergono con nitidezza all' indomani della tregua fra Israele e Hamas. Punto primo, Hamas risulta rafforzato con un ruolo da protagonista e una forma di riconoscimento. Punto secondo, il premier israeliano Netanyahu ha forse raggiunto uno dei suoi obiettivi: emarginare il presidente palestinese Abu Mazen e la sua richiesta di riconoscimento della Palestina all' Onu. Lo suggerisce il tempismo dell' operazione militare». Yossi Alpher, 12 anni al Mossad, ex consulente di Barak per i negoziati di pace israelo-palestinesie direttore del Centro Jaffee di studi strategici, legge in controluce il quadro che va delineandosi. Alpher, secondo lei Netanyahu è disposto a concedere, nientemeno, una parte di rilievo a Hamas? «Perché tanta sorpresa? Uno degli effetti più evidenti dell' offensivaè la statura conquistata da Hamas, sia a Gaza che sulla scena internazionale. In questi giorni tutti erano a colloquio coi suoi leader: dal presidente egiziano Morsi al premier turco Erdogan agli inviati del Qatar. E nella stanza accanto c' era il Mossad. Questa è una forma di riconoscimento indiretto. A Gaza Hamas può presentarsi con gli allori di chi è sopravvissuto. Ha acquistato peso in tutto il Medio Oriente». Questo a scapito dell' Olp e del presidente palestinese Abu Mazen? E cioè del primo interlocutore di pace d' Israele? «Basta riflettere sulle azioni del governo israeliano nell' ultimo quadriennio per capire che Netanyahu non ha alcuna intenzione di trattare con Abu Mazen. Non lo interessa la soluzione dei due Stati, la restituzione del 95 per cento della Cisgiordania e di parte di Gerusalemme. Il suo desiderio è tutt' altro: appropriarsi della Cisgiordania e di Gerusalemme. Perciò preferisce Hamas come interlocutore al posto di Abu Mazen, tanto più che la sua richiesta di riconoscimento all' Onu era prevista entro pochi giorni». Lei vede una coincidenza fra l' offensiva israeliana e la richiesta dell' Olp? «Come non riconoscerla? Il 29 novembre Abu Mazen avrebbe depositato all' Onu la domanda di adesione della Palestina in qualità di Stato non membro. Questo preoccupa Israele: darebbe la possibilità all' Olp di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia, esponendo una serie di accuse e reclami contro Israele. È probabile che uno degli obiettivi di Netanyahu fosse di minimizzare l' evento, di distrarre l' attenzione internazionale».

Alix Van Buren


Morsi come Mubarak piazze in fiamme in Egitto contro il golpe istituzionale
GERUSALEMME - «Morsi come Mubarak», «Morsi, il nuovo faraone», «Morsi vai via!». In un crescendo di slogan e d' invettive che rimandavano al tempo della rivolta contro il vecchio regime, gli oppositori di Mohammed Morsi, il presidente eletto dopo la caduta di Hosni Mubarak, si sono ritrovati a piazza Tahrir, per denunciare il colpo di mano istituzionale con cui il nuovo raìs si è in sostanza dotato di poteri straordinari, sottraendoli ad ogni controllo della magistratura. Lui, Morsi, parlando ad una folla di fedelissimi su un palco allestito fuori dal palazzo presidenziale, lontano molti chilometri da piazza Tahrir, ha difeso il suo operato affermando di aver agito per salvare il Paese dai nemici della rivoluzione e per garantire che il processo costituente, impantanato da dispute interminabili, si concluda rapidamente. Ma le sue prevedibili rassicurazioni non hanno convinto le decine di migliaia di egiziani che, raccogliendo l' appello alla protesta lanciato dai principali partiti laicie liberali, sono scesi ieri in piazza non soltanto al Cairo, ma anche ad Alessandria, Porto Said, Asyut. La mobilitazione è degenerata in scontri particolarmente violenti ad Alessandria, dove sostenitori e oppositori di Morsi si sono affrontati per le strade del centro e sul lungomare (25 feriti, 100 in tutto il Paese) e dove alcune sedi del partito "Libertà e Giustizia", l' organizzazione politica paravento dei Fratelli Musulmani, trionfatori alle elezioni generali, al cui vertice Morsi appartiene, sono state saccheggiate e date alle fiamme. A piazza Tahrir, o per meglio dire, in un viale laterale che conduce alla piazza, gli incidenti con la polizia schierata in forze per evitare che il luogo simbolo della rivoluzione egiziana diventasse teatro dell' ennesima battaglia, sono cominciati quando il neo presidente ha iniziato a parlare dal palco di Heliopolis. E mentre la folla dei seguaci, 80 mila persone, applaudiva e scandiva slogan alla maniera degli islamisti, alzando il dito indice ammonitore verso il cielo, dai ranghi dei contestatori (anche lì diverse decine di migliaia) partivano bottiglie molotov verso le truppe in assetto antisommossa che rispondevano coi lacrimogeni. Una ventina le persone contuse, decine i fermati. Gli argomenti del presidente sembrano non avere convinto neanche il suo assistente Samir Morcos, copto, responsabile per la transizione democratica, che ieri in serata ha dato le dimissioni. E subito si è dimessa anche Sekina Fouad, consigliera per la Cultura, argomentando: «Tutti vogliono il giudizio degli assassini dei manifestanti, ma rifiutano che la Costituente e il consiglio consultivo del Parlamento siano al riparo di ogni giudizio sul loro scioglimento». A giudicare dalle risposte date a quanti lo hanno attaccato dopo i decreti emessi in questi giorni, Morsi non si è lasciato intimidire dalla mobilitazione. «L' opposizione non mi preoccupa - ha detto - ma deve essere una vera e forte opposizione». Se ha deciso di dotarsi del potere straordinario di prendere qualsiasi decisione e istituire qualsiasi procedura, per giunta sottraendosi al sindacato della magistratura, è «per difendere la rivoluzione» dai suoi nemici, «una minoranza», certo, ma pericolosa,e per garantire la stabilità del paese, non per istituire una dittatura personale. Al contrario, Morsi ha aggiunto di credere nella divisione dei poteri. Ma il processo che dovrebbe portare ad adottare la nuova Costituzione, rischiava di impantanarsi in interminabili diatribe. L' Assemblea Costituente stava per esaurire il mandato, in scadenza a dicembre, senza aver adempiuto il suo compito. «Ho deciso di dare all' Assemblea altri due mesi di tempo perché approvi la nuova Costituzione che sarà sottoposta a referendum popolare, e nuove elezioni politiche seguiranno». Ma ha preferito ignorare le critiche dei liberali che hanno, nella sostanza, deciso di scendere in piazza per protestare anche contro gli orientamenti di parte emersi in seno ad un' Assemblea Costituente dominata dagli islamisti, orientamenti che non garantiscono la tutela dei diritti delle donnee delle minoranze. Morsi s' è limitato ad affermare di essere il presidente di «tutti gli egiziani», un presidente che non si schiererà mai contro i diritti di nessun cittadino, uomo o donna, ricco o povero, musulmano o cristiano che sia. PER SAPERNE DI PIU' www.aljazeera.com www.haaretz.com

Alberto Stabile


Nella Striscia le prove per una guerra all' Iran così Israele ha testato i suoi sistemi di difesa
WASHINGTON - Il conflitto fra Hamas e Israele, conclusosi con una tregua, è a prima vista l' ennesimo episodio di una resa dei conti ripetuta a cicli regolari. Eppure, secondo Usa e Israele, c' è un' altra chiave di lettura: l' offensiva è servita come prova generale per un eventuale scontro armato con l' Iran. È Teheran la questione più urgente per il premier israeliano Netanyahu e il presidente americano Obama. Divisi dalle tattiche, entrambi concordano che il tempo stringa per risolvere lo stallo sul programma nucleare iraniano: resta solo qualche mese. Un elemento chiave delle simulazioni belliche di Usa e Israele è impedire che l' Iran introduca missili di nuova generazione nella Striscia di Gaza o in Libano, dove Hamas, Hezbollah e la Jihad islamica li lancerebbero su Israele per conto di Teheran nel caso di un attacco israeliano contro l' Iran. Per certi versi Israele ha usato la battaglia di Gaza per capire quali siano le capacità militari di Hamas e della Jihad islamica (il gruppo più vicino all' Iran). Il primo colpo del conflitto fra Hamas e Israele probabilmente è stato sparato quasi un mese prima a Khartoum, in Sudan, in un altro misterioso episodio della guerra ombra con l' Iran. Il 22 ottobre un' esplosione ha distrutto una fabbrica destinata ufficialmente alla produzione di armi leggere; due giorni dopo le autorità sudanesi hanno denunciato un raid militare israeliano. Il governo di Tel Aviv non ha commentato, ma fonti israeliane e americane affermano che il Sudan è uno dei principali punti di transito per il contrabbando di razzi iraniani Fajr, del tipo lanciato da Hamas su Tel Aviv e Gerusalemme. Ovviamente un conflitto con l' Iran sarebbe ben diverso. Poco prima dell' offensiva a Gaza, gli Usa insieme agli alleati Ue e alcuni Paesi arabi del Golfo, hanno condotto esercitazioni di sminamento in mare nell' eventualità che l' Iran dissemini di esplosivi lo Stretto di Hormuz per colpire il traffico commerciale. Ma nei piani israeliani e americani per un conflitto con l' Iran, Israele dovrebbe fronteggiare minacce a più livelli: i missili a corto raggio di Gaza, a medio raggio di Hezbollah dal Libano, e a lungo raggio dall' Iran. Questi ultimi, stando all' Intelligence israelianae americana, potrebbe comprendere gli Shabab-3, in grado di essere armati di testate atomiche qualora l' Iran riuscisse a costruirne. Secondo un ufficiale Usa, le forze armate americane e israeliane hanno ricavato «moltissimi insegnamenti» dalla campagna di Gaza. La sfida è armonizzare i sistemi radar antimissile - e gli intercettori per missili a corto, medio e lungo raggio- per fronteggiare le varie minacce nel prossimo conflitto. L' ufficiale è convinto, al pari di altri esperti, che anche gli iraniani stiano compiendo le loro valutazioni di fronte all' imprecisione dei missili forniti a Hamas, e potrebbero cercare di migliorarne la progettazione. Cupola di ferro, il sistema antibalistico israeliano, ora schiera 5 batterie antimissile, ognuna del costo di circa 50 milioni di dollari; l' obbiettivoè raddoppiarle. In due anni, gli Usa hanno contribuito oltre 275 milioni di dollari di finanziamenti. Solo tre settimane fa, nel corso delle più grandi esercitazioni militari congiunte mai realizzate fra i due Paesi, gli americani hanno manovrato batterie di difesa antimissile terra-aria Patriot, e navi equipaggiate con il sistema antimissile Aegis. Tuttavia, Cupola di ferro ha i suoi limiti. È programmata per contrastare solo i missili a corto raggio, con una gittata di 80 chilometri. «Nessuno ha mai dovuto affrontare prima d' ora questo tipo di battaglia», dice Jeffrey White, analista militare, «con missili che piovono sulla metà del Paese. In più, sono missili tutti diversi».

DAVID E. SANGER THOM SHANKER


Spari al confine, un morto ma a Gaza la tregua regge
GAZA - Forse Awar Qdeih, un giovane contadino di Khan Younis voleva davvero controllare quanti crateri di bombe c' erano nel suo campo coltivato a ridosso della "buffer zone" dopo 8 giorni di bombardamenti, o forse - nella versione israeliana del fatto - voleva appendere una bandiera di Hamas al filo spinato alto sei metri che corre in quel tratto sul confine della Striscia ed era l' avanguardia di un gruppo che si avvicinava minaccioso. I soldati israeliani dopo i colpi in aria di avvertimento hanno aperto il fuoco, uccidendo Anwar e ferendo altri 25 palestinesi. Non sono passate 48 ore dall' entrata in vigore del cessateil-fuoco tra Israele e i gruppi radicali della Striscia di Gaza, che Hamas ne ha già denunciato una prima violazione; certamente non grave e frutto di una manifestazione spontanea. Diverso sarebbe certamente stato se uno dei gruppetti armati che in questi giorni per le strade di Gaza cantano vittoria avesse aperto il fuoco contro una pattuglia israeliana o avesse lanciato un missile. Una violazione flagrante che non sarebbe rimasta senza risposta da parte israeliana. L' intesa mediata dall' Egitto stabilisce solo il cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas e la riapertura dei valichi di frontiera - quello di Rafah con l' Egitto a sud, quello di Erez con Israele nel nord - che ieri infatti erano aperti e non regolamenta l' accesso alle zone vicino alla frontiera durante la sospensione delle ostilità: le relative clausole devono ancora essere messea punto dalle parti nei prossimi giorni per una vera tregua. Hamas pur denunciando la violazione - presentando la protesta formale all' Egitto che ne è il garante - ha la piena consapevolezza che si tratta di un incidente circoscritto e reagire adesso non è nell' interesse del movimento integralista. Perché anche se la versione che Hamas fa passare parla di arsenali e capacità militari intatte, resta il fatto che gli israeliani sostengono di aver distrutto, oltre ai commissariati di polizia di Hamas ridotti in macerie ovunque, anche importanti depositi di armi e missili. Il continuo bombardamento poi dei caccia israeliania sud, durante questi otto giorni di guerra, ha sventrato molti dei tunnel che passano sotto il confine della Striscia con l' Egitto, che sono la "vena giugulare" per i rifornimenti di Gaza ma anche per il traffico dei missili. I tunnel del contrabbando che il presidente egiziano Mohammed Morsi garante dell' accordo si è impegnato a bloccare. Hamas si compiace della "vittoria" e la tv del movimento integralista oggi annunciava con enfasi la prossima visita del premier turco Erdogan, che proprio per il blocco israeliano sulla Striscia, ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele. È l' ennesimo segnale per Hamas della solidarietà del Nuovo Medio Oriente. Nelle moschee affollate di predicatori nella preghiera del venerdì hanno celebrato la "vittoria" nel conflitto, facendo appello all' unità nazionale. Toni duri e accesi ma anche inspirati alla solidarietà: la Striscia piange i suoi 166 morti, fra loro un centinaio di civili, donne, bambini e anziani.

Fabio Scuto


Gran parte dell'opinione pubblica mondiale e dei governi ha avuto parole di elogio per la prova di moderazione e di mediazione svolta dal presidente egiziano Morsi e dai Fratelli Musulmani nella recente vicenda della brutale aggressione che il governo criminale di Tel Aviv ha scatenato contro la martoriata Striscia di Gaza, provocandovi centinaia di vittime. Grazie al paziente lavoro del presidente egiziano si è bloccato il possibile allargamento del conflitto e un pericoloso focolaio di guerra è stato spento. Nonostante ciò i sedicenti mini movimenti "liberali e democratici" di Egitto, ripetutamente sconfitti nelle prime elezioni democratiche a suffragio universale che hanno portato alla elezione di Morsi e alla reintegrazione del parlamento eletto ed esautorato da un mini golpe dell'ex giunta militare di Mubarak, non hanno mancato di mostrare il loro vero volto di nemici della pace e della democrazia assaltando una sede dei Fratelli Musulmani uccidendone a sprangate un militante e accusando il presidente Morsi di golpismo e di vocazioni dittatoriali.
Non è difficile intravedere dietro gli attacchi e la mini mobilitazione dei mini gruppi sedicenti democratici che hanno mandato un centinaio di scalmanati ad agitarsi in piazza Tahrir al Cairo, la longa manus dei servizi segreti israeliani e, magari degli ex seguaci di Mubarak: e ciò non può suscitare grande meraviglia. Quel che sconcerta è che a queste stonate e isolate voci che hanno emanato i loro ragli in Egitto si siano associati i ragli ancora più stonati di qualche giornalaccio italiano per il quale è assolutamente intollerabile che i Fratelli Musulmani e le forze politiche ad essi vicini abbiano definitivamente consolidato il loro potere democratico nei paesi della Primavera araba e seguitino ad esaltare come un campione di democrazia un ambiguo personaggio come Al-Baradei, che non ha avuto il coraggio di presentarsi candidato alle elezioni presidenziali d'Egitto e il cui partito, nelle elezioni parlamentari, non è arrivato neppure al 10%. La concezione della democrazia di chi considera democratici gli "amici" e gli amici degli amici, non è una novità in una parte della stampa italiana e ricorda tanto lo stile della mafia e delle congreghe consimili. Ma piaccia o no ormai il mondo arabo sta marciando con le sue gambe e non ha bisogno dei consigli "interessati" di chi preferisce come amici i signori insediati a Tel Aviv. Non ci stancheremo mai di ripetere: Allahu Akbar, "Dio è il più Grande!", e sia pure a prezzo di dolori e di lutti la causa della giustizia e della libertà, e vincerà anche dove ciò sembrava impossibile.

venerdì 23 novembre 2012

LA GUERRA DI GAZA

Le conseguenze della guerra

QUANDO i conservatori israeliani se la prendono con ragionamenti troppo pacifisti, o con chi in patria critica la politica dell'occupazione, subito tirano in ballo l'Europa: "Questo è un tipico ragionamento ashkenazita; non ha alcun rapporto con il Medio Oriente!", dice ad esempio Moshe Yaalon, già capo dell'esercito, oggi vice premier, rispondendo al giornalista Ari Shavit in un libro appena edito da Haaretz (Does this mean war?). L'ebreo ashkenazita ha radici in Germania e in Europa centrale, parla yiddish.

E lo stereotipo non è diverso da quello usato ai tempi di Bush figlio: l'America è Marte e virile, il nostro continente è Venere e fugge la spada. L'ashkenazi tornò come altri ebrei in Terra Promessa, ma ha i riflessi della vecchia Europa. Lo storico Tom Segev racconta come erano trattati gli ebrei tedeschi, agli esordi. Li chiamavano yekke: erano ritenuti troppo remissivi, cervellotici, e poco pratici. L'Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. Lo scettro decisivo sempre fu affidato all'America.

Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese. Lo stereotipo dell'ashkenazita mente, perché ci sono ashkenaziti di destra e sinistra. Era ashkenazita Golda Meir. Sono ashkenaziti David Grossman, Uri Avnery, Amira Hass, pacifisti, e espansionisti come Natan Sharansky. Ma lo stereotipo dice qualcosa su noi europei, che vale la pena meditare. Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati.

Eppure l'Europa avrebbe cose anche pratiche da dire, sulle guerre infinite che i governi d'Israele conducono da decenni, sicuri nell'immediato di difendersi ma alla lunga distruggendosi. Ne ha l'esperienza, e per questo le ha a un certo punto terminate, unendo prima i beni strategici tedeschi e francesi (carbone, acciaio) poi creando un'unione di Stati a sovranità condivisa.

Le risorse mediorientali sono quelle acquifere in Cisgiordania, gestite dall'occupante e assegnate per l'83% a Israele e colonie. Tanto più l'Europa può contare, oggi che l'America di Obama è stanca di mediazioni fallite. È stato quasi un colpo di fucile, l'articolo che Thomas Friedman, sostenitore d'Israele, ha scritto il 10 novembre sul New York Times: provate la pace da soli, ha detto, poiché "non siamo più l'America dei vostri nonni". Non potremo più attivarci per voi: "Il mio Presidente è occupato-My President is busy". Anche gli ebrei Usa stanno allontanandosi da Israele.

È forse il motivo per cui pochi credono che l'offensiva si protrarrà, ripetendo il disastro che fu l'Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Ma guerra resta, cioè surrogato della politica, e solo all'inizio la vulnerabilità di Israele scema. Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l'Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013.

Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente. Un male evidente, anche se ci s'incaponisce a negarlo. Sono ormai 45 anni - dalla guerra dei sei giorni - che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest'incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d'ingresso e d'uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l'Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l'Unione europea). Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni). I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane.

Se poi l'occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose. Un'architettura dell'occupazione che trasforma le colonie in dispositivi di controllo (in panoptikon), spiega l'architetto Eyal Weizman. È urgente guardare in faccia queste verità, scrive Friedman, prima che la democrazia israeliana ne muoia. Forse è anche giunto il tempo di pensare l'impensabile, e chiedersi: può un arabo israeliano (1.5 milioni, più del 20% della popolazione) riconoscersi alla lunga in un inno nazionale (Hatikvah) che canta la Terra Promessa ridata agli ebrei, o nella stella di Davide sulla bandiera? Potrà dire senza tema: sono cittadino dello Stato d'Israele, non di quello ebraico?

Questo significa che anche per Israele è tempo di risveglio. Di una sconfitta del nazionalismo, prima che essa sia letale. Separando patria e religione nazionale, la pace è supremo atto laico. Risvegliarsi vuol dire riconoscere i guasti democratici nati dall'occupazione. Le menti più acute di Israele li indicano da anni. Ari Shavit evoca i patti convenienti con Bush figlio, gli evangelicali Usa, il Tea Party: "Patrocinato dalla destra radicale Usa, Israele può condurre una politica radicale e di destra senza pagare alcun prezzo". Può sprezzare le proprie minoranze, tollerare i vandalismi dei coloni contro palestinesi e attivisti pacifisti. David Grossman ha scritto una lettera aperta a Netanyahu: l'accusa è di perdere ogni occasione per far politica anziché guerre (Repubblica, 6 novembre 2012). L'ultima occasione persa è l'intervista di Mahmoud Abbas alla tv israeliana, l'1 novembre: il capo dell'Autorità palestinese si dice disposto a tornare come turista a Safad (la città dov'è nato a nord di Israele). "Nelle sue parole - così Grossman - era discernibile la più esplicita rinuncia al diritto del ritorno che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dei negoziati". Abbas s'è corretto, il 4 novembre: la volontà di chiedere all'Onu il riconoscimento dell'indipendenza aveva irritato Netanyahu, e Obama di conseguenza ha sconsigliato Abbas. Quattro giorni dopo, iniziava a Gaza l'operazione "Pilastro della Difesa".

L'abitudine alla guerra indurisce chi la contrae, sciupa la democrazia. In Israele, allarga il fossato tra arabi e ebrei, religiosi e laici. Vincono gli integralisti, secondo lo scrittore Sefi Rachlevsky che delinea così il volto della prossima legislatura: una coalizione fra Netanyahu, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, e ben quattro partiti che vogliono - come l'Islam politico - il primato della legge ebraica (halakha) sulle leggi dello Stato. In tal caso non si tornerebbe solo alle guerre nazionaliste europee, ma alle più antiche guerre di religione. Stupefacente imitazione, per un paese dove l'Europa è sì cattivo esempio.

Barbara Spinelli

Gaza, la lunga attesa della tregua fuga tra le case dalle ultime bombe Un soldato israeliano ucciso dai razzi

GAZA - Gli occhi di tutti ieri a Gaza erano puntati sull'orologio, nella speranza che la mezzanotte fosse "l'ora X" per il cessate-il-fuoco, dopo sette giorni di bombardamenti e raid sulla Striscia, e più di 1200 missili sparati dai miliziani della galassia islamica contro le città israeliane del Sud, ma anche Gerusalemmee Tel Aviv. Ma la lunga vigilia delle "24 ore di calma" che tutti si augurano - grazie ai buoni uffici del presidente egiziano Morsi e alle pressioni internazionali - a Gaza City e nell'intera Striscia è stata un succedersi di esplosioni, con i droni israeliani in cerca "prede", gli F-16 che volavano bassi, i "tuoni" dei grandi cannoni navali che sparano dal mare, e le fiamme che illuminavano la notte. Entrambe le parti hanno cercato di sferrare un ultimo "colpo decisivo" al nemico. In quindici minuti le batterie di Hamas, della Jihad islamicae degli altri gruppi hanno sparato 150 missilia ventaglio contro il Sud d'Israele. Il bilancio di questa "guerra dei sette giorni"è di 150 palestinesi uccisi - oltre la metà sono civili - e più di mille feriti, dal lato israeliano sono 5 le vittime dei missili di Hamas, e fra loro ieri il primo soldato in un kibbutz nel Negev. È ancora presto per dichiarare una "hudna", una vera tregua.
Nessun accordo è stato firmato, si tratterebbe di un cessate-il-fuoco preliminare. Se ci sarà lo stop al lancio di razzi chiesto da Israele per almeno 24 ore si potrà procedere alla sottoscrizione di un'intesa: servirà a mettere alla prova l'affidabilità di Hamas, della Jihad islamica e di tutte le fazioni armate attive a Gaza. Sono trionfalistici i portavoce del premier Ismail Hanyeh: «Abbiamo impartito al nemico una lezione che non dimenticherà mai».
«Lasciamo Hamas rivendicare ciò che vuole. Tutti sanno che ha subito un grossissimo colpo in questi 7 giorni di azione militare», è la replica da Gerusalemme, facendo capire che l'altra "ora X", quella dell'attacco di terra, è stata solo aggiornata di 24 ore. L'imponente dispositivo militare schierato da Israele ai confini della Striscia - 40 mila uomini pronti all'invasione - aspetta solo un ordine del premier Netanyahu che ieri ha parlato «di mano tesa», ammonendo però che nell'altra c'è «la spada di David». Parlava dopo un incontro a Gerusalemme con il segretario generale dell'Onu Ban kiMoon, giunto in Israele per cercare di fermare il focolaio di guerra prima che contamini la regione.
Nella notte è arrivata anche Hillary Clinton, per mettere finalmente il peso americano in questa difficile maratona diplomatica, gestita soprattutto dall'Egitto.
Le ansie degli abitanti di Gaza non si sono placate, e l'attesa della tregua si mescolava con la paura di un'imminente attacco di terra.
Perché oltre ai missili aria-terra d'Israele che hanno colpito la banca di Hamas in pieno centro, l'edificio che ospita la sede dell'agenzia di stampa francese Afp e altri identificati come bersagli dall'intelligence dello Stato ebraico, e dopo l'omicidio mirato di due cameraman della tv Al-Aqsa vicina a Hamas, gli aerei israeliani hanno seminato a pioggia sulla città volantini in lingua araba in cui si intimava a tutti di allontanarsi «immediatamente» da alcuni quartieri della zona Sud. «Per la vostra sicurezza, sgombrate subito le case e spostatevi verso il centro di Gaza», era il messaggio. Molte famiglie terrorizzate sono scese in strada in cerca di un riparo, a centinaia hanno bussato con le coperte in mano alle porte delle scuole dell'Onu per chiedere rifugio, donne e bambini soprattutto.
«Ignoratei volantini israeliani», ordinava in serata una radio di Hamas, ma la gente già cercava di raggiungere il centro.
In una città devastata dalla guerra tutto è possibile, anche la giustizia sommaria. Ieri pomeriggio le brigate Al-Qassam hanno giustiziato nella centralissima Via Nasser sei persone accusate di essere dei "traditori". Una scena agghiacciante, ma non nel racconto dei testimoni: «Alcuni uomini armati sono arrivati a bordo di un minibus, sono entrati nel quartiere, arrivati a quell'angolo lì hanno spinto fuori sei uomini e gli hanno sparato in mezzo alla strada, poi sui corpi dei giustiziati è stato attaccato un messaggio che li chiamava "traditori" per aver "dato informazioni al nemico"». I cadaveri sono stati circondati da una folla di passanti: c'era chi scattava foto col telefonino, chi li prendeva a calci. Alla fine il corpo di uno dei sei è stato trascinato per le strade vicine da un gruppo di miliziani a bordo di motociclette, un messaggio feroce, "stile afghano" come quando a Kabul comandavano i Taliban.

Fabio Scuto

Obama gioca la carta Hillary in Medio Oriente per fermare le armi

PHNOM PENH - Altro che pensionamento. Nel momento della suprema emergenza Barack Obama non può fare a meno di lei. Hillary Clinton non esita un attimo, riveste la divisa di lavoro, scatta verso l'impresa più difficile. Le dimissioni possono aspettare: e questa si chiama grinta.
Ancora due notti in bianco, una qui in Cambogia per lavorare col presidentea tessere le fila del possibile cessate il fuoco tra Hamas e Israele; l'altra sull'aereo di Stato in volo verso il Medio Oriente, per preparare i dossier delle tre tappe cruciali della sua missione di oggi: Israele, Cisgiordania, Egitto.
Ieri sera l'incontro a Gerusalemme con il premier israeliano Netanyahu per cercare di ottenere «un'intesa duratura» che ponga fine alle violenze e riaffermare che l'impegno degli Stati Uniti per difendere la sicurezza d'Israele è «forte come una roccia».
E pensare che proprio ieri, incrociando alcuni giornalisti nel suo albergo qui a Phnom Penh, Hillary si era abbandonata a un momento di emozione, al pensiero che questo vertice Asean dovrebbe essere il suo ultimo viaggio da segretario di Stato con Obama. «È stato bello ma agrodolce, pieno di nostalgie». Aveva parlato troppo presto. Adesso anche la data delle sue dimissioni sembra in dubbio. Voleva andarsene in coincidenza con l'insediamento ufficiale di Obama Due, il 20 gennaio. Ora l'emergenza in Medio Oriente proibisce di fare previsioni. La Clinton, combattente disciplinata come sempre, ha già detto che resterà «fino a quando il presidente non designerà il successore,e il nuovo segretario di Stato supererà la procedura della conferma». Intanto la vera priorità che detta i tempi è spegnere l'incendio israelo-palestinese. La decisione l'hanno presa insieme, in una notte di convulse consultazioni internazionali. Alle due e mezza del mattino fra lunedì e martedì Obama e la Clinton erano ancora svegli, al diavolo il jet-lag, impegnati a sentire tutti gli attori del dramma: almeno tre telefonate al presidente egiziano Mohamed Morsi e al premier israeliano Benjamin Netanyahu. La mattina Obama sbadigliava vistosamente durante il vertice Asean, nonostante il bicchierone di caffè Starbucks sul tavolo. E appena possibile, ad ogni pausa dei lavori del summit asiatico il presidente tornava ad appartarsi. Sempre con lei, Hillary.
Insieme hanno deciso che lei sarebbe partita, subito. La sua presenza nel centro del conflitto è la massima prova di impegno americano, anche se la Casa Bianca è consapevole dei rischi che questo comporta. L'ultima prova dell'indispensabile Hillary, rilancia tutte le scommesse sul suo futuro politico. Nessuno, a cominciare da Obama, sembra disposto a credere alla versione ufficiale che lei diede già un anno fa, quando disse che era davvero stanca di questo mestiere, che voleva dedicare tempo a se stessa, «viaggiare finalmente per puro piacere». Magari fare la nonna. Lei che ha polverizzato il record di tutti i segretari di Stato, visitando 100 nazioni in quattro anni (alcune delle quali più volte), può davvero essere stanca? A 65 anni si considera pensionabile, una donna con questa energia e in una forma così vigorosa? Se il primo a dubitarne è Obama, è perché in quattro anni ha imparato a conoscere Hillary come pochi altri. Non sono diventati amici, perché sono troppo diversi, ma la loro alleanza politica e l'affiatamento sul lavoro, hanno raggiunto vette formidabili. Il merito è soprattutto di lei. Era Hillary ad avere l'orgoglio ferito, per la sconfitta nelle primarie democratiche del 2008.
Era stata lei a farsi pregare con insistenza, prima di accettare un incarico che non voleva. Poi il miracolo: frutto della sua disciplina, dell'autocontrollo, e anche di una lealtà ammirevole.
Questo summit asiatico è ricco di aneddoti. Hillary sempre attenta a non rubare il proscenio, sempre indietro di un passo rispetto al suo presidente. Perfino quando vannoa casa della sua carissima amica Aung San Suu Kyi lei resta in disparte, è la Lady birmana ad accorgersene e a correrle incontro per abbracciarla. E alla conferenza stampa nella villa sul lago di Yangoon, il presidente gioca con questa modestia. Fa finta di non trovare più il suo segretario di Stato, interrompe la dichiarazionee si guarda attorno: «Hillary, dove sei sparita?» Poi c'è la storia del monaco, nel convento buddista Wat Pho di Bangkok, su cui circolano versioni contrastanti. Il monaco avrebbe detto a Obama che il Buddha coricato gli porterà un terzo mandato (vietato per legge in America, ma fu fatta un'eccezione per Franklin Roosevelt). Secondo la stampa thailandese è Obama ad essersi girato verso Hillary, per indicare al monaco il futuro presidente nel 2016.
La base del partito non ha dubbi. L'ultimo sondaggio tra gli elettori democratici la vede favoritissima per la nomination del 2016 con oltre il 60% dei consensi, mentre Joe Biden che arriva secondo non raggiunge il 20%. Un buon piedistallo, per cominciare la raccolta fondi.

Federico Rampini

La scommessa di Obama far ripartire il negoziato di pace In prima fila l´Egitto di Morsi

GERUSALEMME - «Ci sono cittadini israeliani che si aspettano un´azione militare più dura e forse avremo bisogno di farla», dice accigliato Benyamin Netanyahu ai giornalisti convocati poche ore dopo aver accettato la proposta egiziana di fermare la guerra contro Hamas. E non sembra trattarsi soltanto di una minaccia in calce alla tregua, nell´ipotesi di una malaugurata violazione da parte del Movimento islamico. Più realisticamente, il premier israeliano sta semplicemente riferendo ad alta voce un pensiero diffuso nella maggioranza che sostiene il suo governo: Gaza non finirà mai di rappresentare una minaccia per Israele e prima o poi bisognerà rimettere i piedi in quella sabbia.
La tregua che mette fine all´operazione "Colonna di nuvole", nasce dunque con molti "se" e molti "ma". Bisognerà vedere nel dettaglio i termini dell´intesa raggiunta al Cairo per capire se può veramente rappresentare un punto di partenza per un vero negoziato in grado di stabilire una pace duratura, o se lo scetticismo di Netanyahu è destinato ad essere confermato dai fatti. Di sicuro, l´operazione "Colonna di nuvole" ha funzionato come un banco di prova per molti protagonisti sulla scena regionale, mettendo in luce una serie di cambiamenti che già si percepivano.
S´è capito subito che per il presidente Obama spegnere le fiamme della guerra era una condizione irrinunciabile per il futuro del suo nuovo quadriennio. E ieri se n´è avuta conferma. Dopo mesi, anni, di incomprensioni con il premier israeliano, è stato lo stesso Netanyahu a telefonare ad Obama (mai i due leader si sono parlati tanto come in questi ultimi giorni) per comunicargli la decisone di accettare la proposta egiziana. Obama l´ha ringraziato. E questo è un dettaglio rivelatore, di un cambiamento in corso nei rapporti tra i due alleati. Obama avrebbe potuto cogliere l´occasione della guerra di Gaza per saldare i conti con Netanyahu che non ha mai nascosto la sua simpatia per Romney. Invece, il presidente americano non l´ha fatto, preferendo far valere la sua ritrovata leadership quando deciderà di rilanciare il processo di pace, considerato in Israele morto e sepolto, contro un recalcitrante premier israeliano.
Si vedrà. Di certo, in questo momento l´America fa molto affidamento sull´Egitto del presidente Mohammed Morsi, il quale esce da questa vicenda con la corona del vincitore. Dopo aver ricevuto la telefonata di ringraziamento da Obama, Morsi è stato gratificato da Hillary Clinton con una serie di elogi sperticati, quando la signora della diplomazia americana ha affermato, alla conferenza stampa in cui è stata annunciata la tregua, che il governo egiziano aveva acquisito «responsabilità e leadership nella regione».
Sicuramente, nel successo di Morsi, ha pesato il comune legame ideologico e religioso tra i Fratelli Musulmani, cui il presidente egiziano appartiene, e i dirigenti di Hamas, il movimento che può essere considerato una "costola" dell´organizzazione islamista egiziana. Ma anche Morsi, stretto tra l´opinione pubblica egiziana solidale con i palestinesi di Gaza e il bisogno di accreditarsi come un interlocutore affidabile presso l´Amministrazione americana, da cui dipende un sostanzioso contributo alle spese militari, pari a un miliardo e 300 milioni di dollari l´anno, aveva fretta di trovare una soluzione alla crisi.
Lo ha saputo fare in prima persona, senza lasciare spazio al premier turco Erdogan che, precipitatosi al Cairo, ha adoperato nei confronti d´Israele parole molto più dure di quelle adoperate da Morsi, né al dinamismo dei paesi del Golfo, e segnatamente dal Qatar che per convincere Hamas a più miti consigli ha fatto leva sui 400 milioni di dollari promessi un paio di settimane fa ai dirigenti di Gaza per finanziare il loro «progetto nazionale».
Ma il Cairo, ha dimostrato di saper giocare un ruolo decisivo, citando ancora Clinton, come si conviene al paese non solo più popolato ma politicamente più prestigioso del Medio Oriente. E non solo, Morsi sembra proporsi oggi come perno di un´alleanza sunnita, composta da Egitto, Giordania, Tunisia, Paesi del Golfo che, in occasione della crisi di Gaza, ha costretto ai margini il fronte sciita guidato dall´Iran (cui non è rimasto che fare appello ai musulmani di mandare armi a Gaza) e composto da Hezbollah, Siria e in parte Iraq. E chissà che questo non sia già un test per domani.

Alberto Stabile



mercoledì 21 novembre 2012

ISRAELE

E' noto che molti cialtroni sgradevoli anche d'aspetto (GIULIANO FERRARA, GAD LERNER, SALLUSTI) sono dalla parte di Netanyahu, criminale internazionale, assassino di vocazione e ladro di indole. Per fortuna non sono ancora comparse manifestazioni di solidarietà con dei briganti che per rispondere ai quasi innocui razzi di Hamas usano bombe al fosforo vietate da ogni convenzione internazionale e le cui vittime sono quasi sempre bambini. In questo modo il brigante Netanyahu dovrebbe finire a braccetto nella stessa tomba in cui è finito dopo la forca Saddam Hussein. Dio è Clemente e Misericordioso e anche Paziente, ma prima o poi la pazienza finirà e allora il gangstar Netanyau farà la stessa fine. Tutti quelli che usano l'argomento secondo cui i massacri e le distruzioni operate dall'esercito israeliano sarebbero dovute al fatto che nessuno può tollerare quotidiani bombardamenti sul proprio territorio. Chi fa questo tipo di ragionamento dimentica che la Palestina non è territorio del cosiddetto stato ebraico ma preda di brutali guerre di aggressione e di sterminio; dimentica altresì che dal 1948 il popolo palestinese deve subire una occupazione militare, brutale e assassina, il saccheggio dei propri campi, il furto delle fonti d'acqua e la quasi distruzione di un fiume come il Giordano.
I delitti che lo stato israeliano ha commesso in tutti questi anni, fino al rifiuto di dare valenza giuridica al voto dell'assemblea dell'ONU che a stragrande maggioranza ha riconosciuto lo stato di Palestina, sono talmente tanti e tali da non poter neppure essere elencati. Ora chiunque abbia un minimo di rispetto per le leggi internazionali e per l'umanità deve richiamare all'ordine gli energumeni, oppure rapidamente chiuderli in una robusta e perpetua camicia di forza.

Allahu Akbar, Dio è il più Grande... e il popolo palestinese e le sue ragioni storiche e politiche avranno prima o poi ragione dei briganti che, con il consenso dei cosiddetti paesi occidentali hanno occupato la terra di Abramo.

martedì 20 novembre 2012

E' ARRIVATO IL MOMENTO CHE CHI NEL MONDO POSSIEDE UN MINIMO SENSO DELLA GIUSTIZIA E DELLA VERITA' SI MOBILITI CONTRO LA BANDA DI CRIMINALI CHE SI AUTO ATTRIBUISCE IL NOME DI "STATO DI ISRAELE"

Quella famiglia divenuta una bandiera

Gaza sotto le bombe piange i suoi 100 morti Israele colpisce il media center e lo stadio. Dalla Striscia pioggia di razzi
GAZA. JAMAL, il patriarca della famiglia Al Dalou, con il volto gonfio di pianto abbraccia i parenti e i vicini di casa che sono venuti a porgergli le condoglianze per il lutto che lo ha colpito. È rimasto solo.
LA SUA famiglia — la moglie, il figlio, la nuora, la sorella e cinque nipoti — sono morti nel crollo della palazzina centrata da un missile domenica scorsa nel quartiere Nasser. In silenzio, stanno seduti sulle delle sedie di plastica bianca prestate da un vicino; a pochi metri di distanza un bulldozer sta scavando fra le rovine. Al tragico appello manca ancora Yara, l’altra figlia. Poi in un clima di grande commozione, una piccola folla sfida i droni armati di missili e i caccia F-16, che come calabroni volano incessantemente, e per la strade deserte di Gaza City lo accompagna nel cimitero di Sheikh Radwan. Vengono sepolti anche i due vicini di casa uccisi dall’esplosione. Secondo l’esercito israeliano nella palazzina, centrata da un missile ad alto potenziale, abitava un certo Yiahia Abayah, identificato come un leader del movimento armato della Jihad islamica. Ma ora nessuno degli abitanti sulla strada della famiglia Al Dalou dice d’avere mai sentito questo nome. Un portavoce della Difesa accenna a «un incidente» ma avvisa che tutto è ancora da chiarire.
Le immagini della strage e dei soccorritori che scavano tra le macerie sono state trasmesse decine di volte da Al Jazeera e dai grandi network. Le hanno viste in tutto il mondo arabo, e rischiano — temono gli israeliani — di diventare la versione palestinese del villaggio libanese di Kafr Qana. Il video che mostrava i risultati del bombardamento israeliano di Kafr Qana, nel luglio del 2006, cambiarono il volto della “seconda guerra in Libano”, spingendo l’opinione pubblica mondiale contro la reazione israeliana all’attacco degli Hezbollah e fermarono quel conflitto. Forse la tragedia della famiglia Al Dalou potrebbe spingere i Paesi arabi, quelli europei, ma soprattutto gli Stati Uniti, a premere su Israele per fermare gli attacchi aerei.
La campagna aerea, le eliminazioni mirate, la distruzione di “arsenali” e commissariati di polizia è proseguita anche ieri — 23 le vittime della giornata, che portano i morti palestinesi a oltre 100 — ma una indicazione che le cose a Gaza per Israele non stanno andando come previsto è l’aumento costante del numero di vittime tra i civili palestinesi. Anche prima della strage della famiglia Al Dalou, i resoconti delle vittime tra i bambini, le donne e gli anziani si sono moltiplicati, mentre il danno causato ai militanti di Hamas o di altre organizzazioni è stato relativamente limitato. Ci sono diverse ragioni per questo: Hamas opera all’interno di una popolazione civile, e nasconde i suoi arsenali in aree edificate. Lo stesso vale per lanciamissili, missili e altre armi ancora. Inoltre, gran parte dei militanti è molto attenta a non rimanere al di sopra del suolo gran parte della giornata. Resta nella rete di gallerie costruite sotto la Striscia negli ultimi anni e certamente è a rischio più basso rispetto alla maggioranza della popolazione di Gaza. Il lancio di un missile poi è estremamente rapido e avviene talvolta tramite telecomando.
Alla sesta giornata il conflitto fra Israele e Hamas, visto da Gaza, offre pochi spiragli visibili di speranza nella direzione di quella tregua che si prova a negoziare al Cairo. L’offerta di Hamas è giudicata inaccettabile dagli israeliani e viceversa, mentre nella Striscia la morte è in agguato ovunque: negli edifici governativi come nelle basi delle milizie; nello stadio di calcio come nel Media Center Al Shuruq; nei campi agricoli vicini al confine. Sulle strade chi cavalca una motocicletta rischia di diventare obiettivo dei droni o dei caccia israeliani; chi esce per strada rischia la vita come chi sta in casa. In giro si avventura soltanto chi non può farne a meno: giornalisti, medici, tecnici della luce o del telefono.
L’attività commerciale è paralizzata. Nel centro di Gaza restano aperte le panetterie e qualche ristorante, per i rari passanti. Il ministero dell’Economia del governo di Hamas assicura che ai negozi sono stati distribuiti generi di prima necessità. Ma le corsie dei supermercati, che aprono 1-2 ore, sono deserte e gli scaffali semivuoti. «Non avvicinatevi ai santuari di Hamas», ha intimato Israele agli abitanti della Striscia, dopo essersi inserito nelle frequenze della radio e della tv di Hamas. Non è così semplice visto che al tempo stesso Israele sostiene che i miliziani di Hamas, le loro installazioni e i loro arsenali, sono nascosti anche nelle scuole, nelle moschee, fra gli impianti sportivi, nei Media center. Ieri quel che restava del grattacielo Al-Shuruq nel quartiere di Rimal — che ospitava fra gli altri gli uffici di Sky news, Al Arabiya, Russia Today, la Press tv iraniana, ma anche due tv vicine a Hamas — è stato distrutto da un secondo attacco nel quale è morto un leader della Jihad islamica con tre miliziani, ma anche due civili.
Chi vive nelle zone più vicine al territorio israeliano cerca rifugi provvisori: ieri l’Unrwa — che assiste 800 mila palestinesi privi di mezzi di sostentamento — ha aperto alcune delle scuole che gestisce, chiuse per motivi di sicurezza, per ospitare i nuovi sfollati. La sera a Gaza non c’è una luce accesa per la strada; la paura cresce, nell’angoscia che la “campagna di terra” promessa da Netanyahu sia imminente.

Fabio Scuto

ALLA GUERRA PRIMA DEL VOTO LA SCOMMESSA DI NETANYAHU APRE IL FRONTE DELLE ELEZIONI

Il Consiglio dei Nove, il gabinetto ristretto che aveva deciso in gran segreto la guerra contro Hamas, s'è ritrovato durante la notte per valutare la tregua. Perfino Avigdor Lieberman, l'ultradestro ministro degli Esteri, dice di preferire a questo punto una "soluzione politica".

MISSILI SU GAZA
L'opinione pubblica comincia a farsi sentire. Gli editorialisti temono che l'operazione di terra non serva che a versare altro sangue e stavolta, inevitabilmente, anche quello dei soldati israeliani. I gruppi pacifisti si mobilitano contro "la guerra elettorale" di Netanyahu. Il premier che s'è vantato di non aver mai mobilitato l'esercito durante il suo mandato comincia a sentire la pressione.

NETANYAHU
Eppure, con l'84% degli israeliani al proprio fianco, secondo un freschissimo sondaggio di
Haaretz, e la totalità della classe politica al seguito, Benyamin Netanyahu potrebbe trasformare il tempo che resta fino alle elezioni del 22 gennaio in una marcia trionfale. Ma c'è un ostacolo assai rischioso sul suo cammino: anche se nelle ultime ore si sono moltiplicate le voci di una tregua imminente, la seconda guerra di Gaza contro Hamas non è finita.

MISSILI SU GAZA
Il Consiglio dei Nove (lui, Barak, Lieberman, il ministro dell'Interno Ishay, quello degli Affari strategici Moshè Yaalon, più il capo di Stato Maggiore Katz e i responsabili dei 3 principali servizi di sicurezza) devono trovare il mondo di uscirne senza dare l'impressione di una precipitosa marcia indietro.

Si contavano i minuti mancanti all'invasione, i carri armati avevano già acceso i motori, ma piuttosto che il campo di battaglia di Gaza, s'è aperto quello che un grande giornalista israeliano, Nahum Barnea, ha definito il "terzo fronte" della guerra: non quello in cui i due nemici si affrontano armi alla mano, né quello interno delle vittime civili, ma il fronte politico, dove le operazioni militari producono i loro effetti e incidono anche sulle fortune personali di chi le ha decise.

MISSILI SU GAZA
«In termini politici - sostiene Barnea - una manovra militare è sempre un rischio. Quello che appare come un'azione gloriosa può trasformarsi in un disastro elettorale». In parole povere, la sua "guerra elettorale" Netanyahu l'ha decisa, ordinando l'uccisione del capo militare di Hamas, Ahmed Jaabari, adesso è costretto a cercare una tregua altrettanto elettorale, possibilmente alzando le dita a V in segno di vittoria. Guerra ed elezioni, dunque, una coincidenza che in un paese come Israele s'è presentata molte volte.

HAMAS
Per restare nell'arco dell'ultima generazione, si potrebbe cominciare citando il caso delle elezioni del giugno 1981 che videro il leader laburista Shimon Peres, l'attuale presidente, sfidare il premier conservatore Menachem Begin. Il voto era stato fissato per la fine di giugno. Peres conduceva nei sondaggi. Tre settimane prima, il 7 giugno Begin ordinò l'Operazione "Babilonia", con cui venne chiamato in codice il bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osyrak. Begin stravinse il duello elettorale.

ARIEL SHARON 00512AP
Nel 1996 Shimon Peres, succeduto provvisoriamente a Yitzhak Rabin, ucciso il 5 Novembre dell'anno prima, deve affrontare l'astro nascente del Likud, un Netanyahu che non ha ancora 45 anni. Il paese è sconvolto da un'ondata di attentati suicidi, la strategia di Hamas contro lo Stato ebraico, ma anche contro gli accordi di Oslo firmati da Yasser Arafat. Per tacitare l'opinione pubblica allarmata, l'11 aprile Peres ordina l'operazione "Grapes of Wrath", i frutti dell'ira, contro gli Hezbollah libanesi.

Ecco un esempio di quel fattore di rischio, d'imprevedibilità della guerra di cui parla Barnea. Il 18 Aprile l'artiglieria israeliana bombarda il campo profughi di Cana, gestito dalle Nazioni Unite, muoiono 111 rifugiati, e l'operazione si conclude in un disastro politico-diplomatico. Netanyahu vince per soli 15mila voti.

Neanche il consenso popolare che accompagna, all'inizio, certe operazioni militari può essere considerato una garanzia. All'inizio della Seconda guerra del Libano (luglio-agosto 2006), la decisione presa dal primi ministro del tempo, Ehud Olmert, godeva dell'80% dei consensi. Un mese dopo di quel consenso non c'era più traccia. Pesava, invece, la morte di oltre 100 soldati.

GILAD SHARON FIGLIO DI ARIEL SHARON
Talvolta, la "tenuta" politica non è garantita neanche in caso di vittoria. La prima guerra contro Hamas e contro Gaza, voluta da Ehud Olmert, non segnò certo una sconfitta militare per Israele. Ma i risultati sul piano dell'immagine furono disastrosi. Allora, come ora, i drammi delle vittime civili documentati dalle tv commossero e indignarono l'opinione pubblica. Il governo israeliano dovette acconsentire al una tregua che non ha certo risolto il conflitto, né diminuito la capacità offensiva di Hamas. E da allora la stella di Olmert cominciò a tramontare.

2 - SHARON JR: "RADERE AL SUOLO GAZA COME GLI AMERICANI CON HIROSHIMA"
Da "la Repubblica"
«Radere al suolo Gaza»: è l'unica opzione per sconfiggere Hamas secondo Gilad Sharon, figlio dell'ex premier israeliano Ariel Sharon. «Gli americani non si sono fermati a Hiroshima: dato che i giapponesi non si stavano arrendendo abbastanza in fretta, hanno colpito anche Nagasaki», ha scritto in un editoriale sul Jerusalem Postche ha scatenato un vespaio di commenti sui social network.

Alberto Stabile


PRINCIPALE PERICOLO PER LA PACE MONDIALE

lunedì 19 novembre 2012

ISRAELE

Raid su Gaza fanno strage di bambini. Antimissili in azione a Tel Aviv

Gaza (Striscia di Gaza), 18 nov. (LaPresse/AP) - Per il quinto giorno consecutivo, prosegue l'offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza e il bilancio dei morti continua a salire: 71 le vittime palestinesi, tra cui molti bambini. Nel più grave degli episodi, una casa di due piani dove viveva la famiglia Daloo è stata rasa al suolo e undici civili, soprattutto donne e bimbi, hanno perso la vita. Non si fermano intanto nemmeno i razzi lanciati versi Israele (due quelli intercettati oggi dal sistema Iron Dome diretti a Tel Aviv), mentre la diplomazia è al lavoro per provare a raggiungere un cessate il fuoco. Ma le ultime dichiarazioni del premier Benjamin Netanyahu, secondo cui "l'esercito di Israele è pronto a estendere in modo significativo l'operazione" a Gaza, non fanno ben sperare. Migliaia di soldati israeliani sono dispiegati al confine con la Striscia per l'eventualità di un attacco di terra.
71 IN TUTTO LE VITTIME PALESTINESI. Secondo quanto riferisce l'emittente al-Jazeera, citando fonti mediche, dall'inizio dell'offensiva scattata mercoledì, le vittime palestinesi sono in tutto 71, di cui venti bambini, otto donne, nove anziani e 34 uomini adulti. Molti anche i feriti, in tutto 660, tra cui 224 bambini, 113 donne e 50. Tra gli israeliani, invece, tre i morti e oltre 50 le persone rimaste ferite.
RAZZI VERSO TEL AVIV. INTERVIENE IRON DOME. Intanto, continuano i lanci di razzi da Gaza verso il territorio israeliano, oggi oltre cento, due dei quali diretti verso Tel Aviv. Secondo quanto riferiscono fonti israeliane, in giornata il sistema anti-missile Iron Dome ha intercettato e distrutto almeno 30 razzi, compresi quelli diretti verso la capitale. Intanto, il comandante Shahar Shohat, intervistato dall'emittente Channel 2, fa sapere che Israele è pronto a schierare la sesta batteria di Iron Dome, "nel caso fosse necessario".
NELLA NOTTE RAID SU MEDIA CENTER A GAZA. Nella notte due media center erano stati colpiti da raid israeliani, provocando il ferimento di almeno sei giornalisti. Un raid ha raggiunto il complesso Al-Shawa, dove hanno sede alcuni media locali e stranieri tra cui l'emittente televisiva con base in Libano al-Quds Tv, la rete tedesca ARD e Kuwait tv. Un secondo attacco aveva colpito poi un altro media center: due missili sono stati lanciati sul 15esimo piano dell'edificio dove hanno sede gli studi di Al-Aqsa tv.
EGITTO PROSEGUE MEDIAZIONE PER CESSATE IL FUOCO. Proseguono intanto gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. Un ruolo centrale è giocato dall'Egitto, il cui presidente Mohammed Morsi ha ventilato ieri la possibilità di una tregua. Oggi Morsi ha parlato al telefono per 20 minuti con il premier di Hamas, Ismail Haniyeh. Quest'ultimo ha detto a Morsi di sostenere gli sforzi di mediazione, a patto che Hamas riceva "garanzie che sarà evitata ogni futura aggressione" da parte di Israele.
NETANYAHU: PRONTI A ESTENDERE OPERAZIONE. Nonostante i tentativi di mediare una pace, Natanyahu ha fatto sapere che l'esercito di Israele è pronto a estendere l'operazione su Gaza. La sua dichiarazione giunge dopo un'intervista rilasciata oggi alla radio militare dal portavoce dell'esercito israeliano, il brigadier generale Yoav Mordechai. Quest'ultimo ha spiegato che nell'offensiva a Gaza - oltre ai lanci di razzi - Israele ricorrerà oggi ad attacchi "più mirati, più chirurgici e mortali" contro Hamas. Mordechai ha detto che all'esercito è stato ordinato di intensificare i raid a seguito della riunione a tarda notte alla quale hanno partecipato Netanyahu e il ministro della Difesa Ehud Barak. "Immagino che nelle prossime ore vedremo continui attacchi mirati a uomini armati e comandanti di Hamas", ha affermato Mordechai ad Army Radio.
ISRAELE PRENDE FREQUENZE RADIO HAMAS. Sempre oggi l'esercito israeliano si è impossessato di alcune frequenze delle stazioni radio di Hamas e della Jihad islamica per diffondere un messaggio registrato in lingua araba in cui preannuncia l'avvio di una seconda fase della sua operazione. "Alla popolazione di Gaza: Hamas sta scherzando con il fuoco e giocando d'azzardo con il vostro destino", recita il messaggio che viene trasmesso ogni cinque minuti. "La Israel Defense Force si sta apprestando alla seconda fase della sua operazione; per la vostra sicurezza dovreste stare lontani da infrastrutture e personale di Hamas", prosegue la voce. Il messaggio non spiega in cosa consista la "seconda fase".
COSA CHIEDONO LE DUE PARTI PER ARRIVARE ALLA TREGUA. Un accordo rapido fra le parti per un cessate il fuoco sembra improbabile visto che il governo di Hamas e lo Stato ebraico sono ben distanti nelle rispettive richieste. Gaza vorrebbe condizionare un accordo per la tregua all'abbandono totale dell'embargo sulla Striscia imposto nel 2007 da Israele e dal predecessore di Morsi, Hosni Mubarak. Hamas vuole inoltre garanzie che Tel Aviv fermi le uccisioni mirate dei suoi leader e comandanti militari. Israele, da parte sua, respinge queste richieste, fa sapere di non essere interessato a un "intervallo" e vuole garanzie che i lanci di razzi dal territorio palestinese si fermino del tutto. Negli ultimi giorni, da Gaza i militanti hanno esteso il raggio d'azione dei loro razzi, lanciandoli anche in direzione di Tel Aviv e Gerusalemme. Il direttore generale del ministero della Difesa israeliano, Udi Shani, ha spiegato ad Army Radio che l'operazione dello Stato ebraico contro i militanti di Gaza non intende far cadere il governo di Hamas, ma minare le sue capacità di attaccare Israele. "Se non riusciamo a raggiungere i nostri obiettivi via aria, dovremo entrare via terra", ha detto Shani. "Spero che nei prossimi giorni si deciderà", ha concluso.
COOPERANTI ITALIANI EVACUATI A GERUSALEMME. Sempre oggi, il gruppo di cooperanti italiani bloccati da giorni a Gaza è stato trasferito a Gerusalemme, grazie a un'operazione portata a termine dal consolato generale italiano con il sostegno dell'ambasciata a Tel Aviv e sotto il coordinamento dell'unità di crisi della Farnesina. I nove (otto cooperanti e una missionaria laica) sono stati fatti salire su un convoglio richiesto dall'unità di crisi e dal consolato, e organizzato dal dispositivo Unrwa dell'Onu, grazie a cui hanno raggiunto il valico di Eretz e sono stati accompagnati a Gerusalemme. "Siamo riusciti a lasciare la Striscia in Gaza in uno dei rari momenti in cui la situazione si era tranquillizzata", ha confermato a LaPresse una dei cooperanti, Meri Calvelli, dell'Associazione cooperazione e solidarietà, che si occupa di progetti legati all'agricoltura a sud di Gaza. "Ora staremo qui qualche giorno ma - aggiunge - la nostra intenzione è tornare presto nella Striscia per dare sostegno alle famiglie più disagiate", "sperando che la nostra presenza aiuti anche a fare pressioni internazionali affinché si giunga alla fine delle violenze".


Raid su Gaza, strage di bambini (Fabio Scuto)

“Stavo giocando poi è esploso tutto”.

Nell’ospedale di Gaza tra i bambini straziati dalle bombe.
“Fate la guerra lontano da noi”
Raid d’Israele contro i razzi di Hamas, colpite le case

GAZA. HASSAN, l’addetto della morgue all’ospedale Al Shifa di Gaza City, ha il volto di pietra mentre depone nella cella frigorifera il corpicino di Eyad Abu Khosa, 18 mesi, morto senza nemmeno accorgersene ieri mattina sotto un bombardamento nel campo profughi di Al Bureij. Eyad è già avvolto nel sudario bianco che lo accompagnerà sottoterra, ma il telo è macchiato di sangue perché la ferita che l’ha ucciso versa ancora.

I MORTI non vengono più ricomposti – come la pietà umana vorrebbe – perché in ospedale il filo da sutura sta finendo e viene usato solo per i feriti. Con Eyad ieri, sotto il diluvio di “bombe intelligenti” che arrivavano da cielo e mare, sono morti altri 9 bambini, tutti sotto i 10 anni. Un missile ha centrato una palazzina di tre piani nel rione Nasser, e si portato via un’intera famiglia, gli Ad-Dalo: 5 donne, la nonna e 6 ragazzini; il più piccolo aveva una settimana, il più grande 5 anni. Nel suo quinto giorno la “seconda guerra di Gaza” ha conosciuto il suo bilancio più sanguinoso: 24 i morti ieri, 22 i civili palestinesi – 10 bambini – e due noti dirigenti di Hamas. In un atmosfera da incubo – la città deserta, i raid aerei che si susseguono, l’attesa carica di ansia e paura per l’attacco terrestre – la gente di Gaza piange questa “strage degli innocenti”.
«Se gli israeliani fermeranno i bombardamenti forse domani riusciremo a fare il funerale », dice Fadhi, lo zio di Eyad, unico parente che assiste al tragico rito nella camera mortuaria e firma le carte nello sgangherato ufficio a fianco, affollato dai parenti delle altre vittime che in silenzio aspettano il loro turno. Sono tutti uomini, almeno alle donne è risparmiata questa tragica incombenza, quest’ultimo dolore. La madre di Eyad, Safiah, è dall’altra parte dell’ospedale. Nel reparto rianimazione al piano terra i medici della terapia d’urgenza si stanno affannando a tenere in vita gli altri due fratellini di Eyad, di 4 e 5 anni, gravemente feriti nella stessa maledetta esplosione che ha ridotto la loro casa nel campo profughi a un pugno di sabbia.
Ambulanze e macchine civili arrivano di continuo nel cortile dell’Ospedale Al-Shifa il nosocomio più importante della città, più importante della Striscia – ma le sirene sono spente e i clacson muti perché non ce n’è bisogno: le strade di Gaza City sono deserte. La benzina scarseggia, al mercato nero ha toccato i 100 dollari per venti litri, ma soprattutto l’auto potrebbe diventare un bersaglio per i droni e per i missili degli F-16 a caccia delle rampe dei missili che comunque – dopo cinque giorni di bombardamenti senza interruzioni – continuano a piovere sul sud d’Israele.
Per evitare di essere colpiti i miliziani palestinesi hanno creato a Gaza postazioni di razzi ben mimetizzate, gli ordigni sono interrati, protetti da piastre mobili che aderiscono perfettamente al terreno e che vengono alzate con un radiocomando. Oppure quelle mobili vengono nascoste e spostate nelle aree più densamente abitate, impianti sportivi o vicino alle scuole per farsi scudo dei civili e cercare di sfuggire alla rappresaglia che invece puntualmente arriva dopo ogni lancio. Con il conseguente alto numero di vittime non combattenti. Gaza, con i suoi quasi due milioni di abitanti, è una delle aree più densamente abitate del mondo e quasi metà della palestinesi che ci vive ha meno di 15 anni, bambini e adolescenti hanno sempre pagato un prezzo alto ad ogni operazione militare.
L’atrio del pronto soccorso dell’Al-Shifa è una bolgia di gente che arriva, che piange, che si dispera, che maledice il mondo, che fuma in silenzio con lo sguardo basso guardandosi le scarpe. Il “triage” è invaso di feriti e i medici del pronto soccorso lavorano senza sosta, dibattendosi in mille difficoltà, che sono soprattutto legate alla penuria della farmacia dell’ospedale e alla mancanza di energia. I tavoli operatori di primo intervento nella sala a lato sono separati da una semplice tenda, Il dottor Medhat Abbas, che dirige l’ospedale, durante una pausa tra un’operazione e l’altra ci dice: «In 5 giorni abbiamo consumato quel che consumiamo in 3 mesi, abbiamo curato finora oltre 500 feriti, i 700 posti letto dell’ospedale sono tutti occupati e anche i 20 che abbiamo nella terapia intensiva; lavoriamo senza elettricità per 12 ore al giorno, non si può operare al buio, non funzionano le macchine per l’intervento. E poi stiamo finendo gli anticoagulanti, gli analgesici, gli anestetici, i materiali per le lastre, le sacche per le trasfusioni… ma anche le cose più semplici come i guanti o il filo per le suture». Salendo le scale sbrecciate fino al terzo piano si arriva al reparto Pediatria, nel disimpegno che porta alle stanze un gran poster di “Winnie the Pooh” e i disegni lasciati dai piccoli pazienti sono fissati al muro con le puntine. Anche Pediatria non ha un solo posto libero, perché il più alto numero di feriti si registra tra i bambini. Le case sono piccole a Gaza e il pezzo di strada davanti all’uscio diventa una propaggine dell’abitazione, tutti i ragazzini giocano per la strada. Difficile tenerli fermi, dentro casa, sotto controllo, lontano anche dalle finestre. Non avvertono il pericolo, non hanno la malizia dell’adulto nel riconoscere il rumore fisso che fanno i droni che incessantemente sorvolano la Striscia, il sibilo del missile che annuncia la morte in arrivo quando ormai è troppo tardi. Le scuole nella Striscia sono chiuse da quasi una settimana, i negozi pure, le strade – vuote del caos di traffico abituale – diventano immaginari campi di calcio per partite senza fine. Mahmoud Karton, 6 anni appena fatti, stava proprio giocando una di quelle partite sulla strada di casa nel popolare quartiere di Rimal, quando un missile ha colpito un palazzo di fronte e una scheggia nella schiena gli ha strappato via un rene. La madre Nila, in hijab nero e foulard, è seduta ai piedi del letto. Mahmoud ha il cannello nel naso e l’ago della flebo nella mano destra, ma lo sguardo è rimasto vivace. Che ti ricordi? «Giocavamo e vincevamo pure… poi un fischio, una luce, un gran male lì», dice indicando i grandi occhi neri il lato destro delle coperte consunte ma pulite che lo coprono. «Noi di Gaza siamo ormai abituati a tutto», dice Nila ringraziando per la visita com’è costume fra gli arabi, «l’importante è che sia vivo, abbiamo già perso Majid durante la guerra del 2008… aveva la stessa età. Non voglio dire contro nessuno, ma gli uomini facciano la loro guerra e lascino stare i nostri bambini».








giovedì 15 novembre 2012


Israele attacca nella Striscia di Gaza 
Hamas risponde con razzi verso il Negev

Un'escalation come non se ne vedevano da almeno quattro anni, dai tempi dell'operazione Piombo Fuso: Israele, dopo aver ucciso nel pomeriggio, con un'operazione chirurgica, il comandante militare di Hamas, Ahmed Al-Jaabari, ha effettuato numerose incursioni aeree nella Striscia di Gaza, pare anche da navi al largo nel Mediterraneo. Il totale delle vittime, tra tutti i raid, ammonta a nove secondo l'inviato palestinese all'Onu. Un crescendo di tensione insomma che ha spinto l'Egitto a richiamare l'ambasciatore in Israele.
ANCORA SCONTRI - Il giorno dopo l'uccisione del capo militare di Hamas, proseguono le ostilità fra gli islamici di Gaza ed Israele. Stamane i miliziani palestinesi hanno ripreso a colpire con razzi le principali città israeliane nel Sud di Israele: Beer Sheva, Ashdod, Ashqelon. Da mercoledì sono stati lanciati oltre 100 razzi Grad e Qassam, che non hanno provocato vittime. Da parte sua la aviazione israeliana continua con insistenza i raid nella striscia di Gaza contro infrastrutture di Hamas e contro cellule impegnate nel lancio di razzi. Una di queste è stata colpita a Khan Yunes (nel sud della Striscia): tre miliziani sono rimasti uccisi. A Gaza si avverte intanto un clima di mobilitazione in vista dei funerali del capo militare di Hamas Ahmed Jaabari, che avranno luogo in mattinata. I dirigenti politici di Hamas saranno probabilmente assenti, nel timore di essere colpiti a loro volta.

ISRAELE:«APERTE TUTTE LE OPZIONI» - Mercoledì il premier di Tel Aviv Benyamin Netanyahu ha parlato alla tv di Stato, annunciando che «l'esercito è pronto a estendere l'operazione, se necessario. Oggi abbiamo rivolto un messaggio chiaro a Hamas e alle altre organizzazioni terroristiche, e se sarà necessario siamo pronti a estendere l'operazione». Mentre il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha autorizzato un richiamo alle armi dei riservisti, dopo l'annuncio di una vasta operazione contro «obiettivi terroristici» nella Striscia di Gaza.

HAMAS: «EGITTO AIUTACI » - Dal canto suo Ismail Haniyeh, numero uno di Hamas, capo del governo palestinese a Gaza ha invitato gli stati arabi, in particolare l'Egitto a fermare l'attacco israeliano sull'enclave palestinese: «Invochiamo tutti i fratelli arabi e specialmente l'Egitto e il suo nuovo presidente, a fermare questa barbara campagna in difesa di Gaza e del suo popolo. Invochiamo inoltre un urgente incontro tra gli arabi per controbattere la brutale aggressione». E il Cairo ha fatto dunque le prime mosse: ha richiamato il suo ambasciatore in Israele e a chiesto all'Onu di convocare urgentemente il Consiglio di Sicurezza. La Lega Araba, intanto, ha indetto una riunione straordinaria per sabato.

L'AMBASCIATORE ISRAELIANO TORNA IN PATRIA - Il presidente egiziano Mohamed Morsi ha inoltre convocato l'ambasciatore di Tel Aviv, Yaakov Amitai. Ma Amitai, accompagnato dal suo staff, avrebbe lasciato il Cairo in tutta fretta. Una decisione non voluta però dal governo israeliano, a quanto pare: «Nessuna azione simmetrica è stata presa nei confronti dell'Egitto» dicono fonti diplomatiche di Tel Aviv. «La nostra ambasciata è aperta e funzionante».

ALTISSIMO DIRIGENTE - Come detto, in uno dei raid aerei, era rimasto ucciso, colpito all'interno della sua auto da un missile, Al-Jaabari, altissimo dirigente di Hamas, capo dell'ala militare del movimento, uno dei ricercati numero uno da parte dell'intelligence israeliana, responsabile del sequestro del soldato Gilad Shalit. Con lui, è morto un altro esponente del braccio armato, Saed Attar. Immediata e durissima è stata la reazione del movimento integralista palestinese: «Il raid aereo di Israele a Gaza ha aperto le porte dell'inferno».OPERAZIONE COLONNA DI NUVOLA - L'esercito israeliano aveva detto che l'esecuzione di Al-Jaabari rientrava in un'operazione denominata «Colonna di nuvola» (Cloud Pillar) contro Hamas e altri fazioni palestinesi nella Striscia di Gaza. L'attacco contro «Jaabari segna l'inizio - aveva detto il portavoce militare Yoav Mordechai, citato dal Jerusalem Post - di una campagna per colpire Hamas e le organizzazioni terroristiche» a Gaza. «Il primo scopo - aveva aggiunto - è di riportare la quiete nel sud di Israele» bersaglio di lanci di razzi dalla Striscia negli ultimi cinque giorno «e il secondo di colpire le organizzazioni terroristiche».

GLI USA SORVEGLIANO - Dopo l'uccisione di Al_Jaabari sono fioccate le reazioni da tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di «sorvegliare da vicino» l'evoluzione della situazione a Gaza ribadendo il pieno sostegno al diritto di Israele di «difendersi contro il terrorismo». Il Dipartimento di Stato di Washington ribadiva la posizione americana: «gli Stati Uniti sostengono il diritto di Israele e difendersi e condannano in modo forte il lancio di razzi da Gaza».

OBAMA - Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha avuto un colloquio telefonico con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente egiziano Mohamed Morsi. Lo riferisce la Casa Bianca in un comunicato. Obama ha lanciato un appello a Netanyahu a fare «ogni sforzo per evitare vittime civili» ma ha sostenuto il diritto di Israele di difendersi contro gli attacchi di Hamas, aggiunge la nota della presidenza americana dopo l'eliminazione da parte di Israele del capo militare del movimento islamico. Durante il suo colloquio con il primo ministro di Israele, Obama ha ribadito «il sostegno degli Stati Uniti al diritto di Israele di difendersi contro il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro i civili israeliani», secondo la stessa fonte. Obama e Netanyahu «sono d'accordo sul fatto che Hamas deve fermare i suoi attacchi contro Israele per cercare di allentare la tensione», sottolinea la Casa Bianca. Con Morsi, Obama ha «condannato il lancio di razzi da Gaza contro Israele e ha ancora una volta ribadito il diritto di Israele a difendersi», continua la stessa fonte. «I due leader si sono trovati d'accordo sulla necessità di lavorare insime per cercare di allentare le violenze prima possibile».

ONU - Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu si è riunito d'urgenza. Nel corso di questa riunione a porte chiuse i 15 membri del Consiglio hanno ascoltato le ragioni esposte dai rappresentanti delle delegazioni israeliane e palestinesi.

EGITTO: «INACCETTABILE» - L'Egitto, oltre a richiamare l'ambasciatore, ha dichiarato di ritenere «assolutamente inaccettabile» l'azione di Tel Aviv «Condanniamo nei termini più forti possibili l'uccisione di Ahmed Jaabari da parte di Israele» ha dichiarato il ministro degli Esteri del Cairo, Kamel Amr. E ha aggiunto: «L'uccisione di civili e di persone innocenti è assolutamente inaccettabile». I Fratelli musulmani, movimento cui fa capo il partito Libertà e Giustizia del presidente Mohamed Morsi, in una nota hanno avvisato Israele che «deve tenere conto dei cambiamenti avvenuti nel mondo arabo e, in particolare, in Egitto. Il nostro Paese non permetterà che i palestinesi siano oggetto dell'aggressione di Israele come in passato».

lunedì 12 novembre 2012

Perché i film sull’Islam sacrificano la verità

UN TEMPO andavamo al cinema per sognare, per invitare Ava Gardner o Sofia Loren a entrare a far parte delle nostre fantasie. Ci piacevano quelle storie d’amore che finivano male, eravamo felici di aver potuto vivere per un’ora o due tra le braccia immaginarie delle donne più belle del mondo. Questo accadeva prima che la politica s’impadronisse della settima arte per fare propaganda a colpi di effetti speciali, con inseguimenti di macchine sui tetti di Istanbul o esplosioni nei mercati popolari di Kabul o Islamabad.
Abbandonati i sogni meravigliosi e il «glamour», si punta sul tema del «pianeta in pericolo». E questo pericolo oggi è l’Islam. Evidentemente, quello sfigurato da Al Qaeda, o esibito da terroristi e trafficanti di droga per giustificare la loro barbarie, come sta avvenendo anche in questo momento nel Nord del Mali. Nella celebre serie «Homeland » si assiste alla visita di un agente della Cia a Beirut. Una caricatura. Fin dall’aeroporto, nient’altro che donne velate di nero, come in un feudo dei Taliban. Si dà il caso che io sia nato a Beirut alla fine di ottobre, poco dopo l’assassinio di Wissam al Hassan. E ho avuto modo di constatare la modernità, il dinamismo di questa città che non ha perduto nulla della sua energia e delle sue speranze, dove le donne sono vestite come le europee; e se alcune portano il velo, non hanno nulla a che vedere con l’immagine diffusa dal serial americano.
Bene ha fatto il ministro del Turismo a denunciare il modo in cui «Homeland» descrive la capitale libanese. Ha certamente ragione, anche perché questo serial, celebrato e premiato con vari Oscar, è distribuito in tutto il mondo e sta appassionando centinaia di milioni di telespettatori. Ma una denuncia contro una produzione di così grande portata e potenza non basta certo a ricostituire un’immagine veritiera del mondo arabo.
Nell’immaginario americano, oggi l’Islam e il mondo arabo hanno preso il posto del comunismo. In passato si combatteva con ogni mezzo contro il pericolo comunista (tanto che tuttora il popolo cubano soffre nella propria carne per l’embargo economico imposto dall’America, che neppure un presidente come Obama ha osato ammorbidire, e men che meno abolire). Ai bambini si diceva che il diavolo veniva dai Paesi comunisti. Ma poiché ormai l’Unione Sovietica si è dissolta, il muro di Berlino è caduto e il comunismo è relegato in Cina e nella Corea del Nord, ci si è rivolti a un nuovo diavolo:
l’arabo, il musulmano.
Evidentemente, non mancano gli arabi e i musulmani che si impegnano notte e giorno per accreditare nel mondo intero quest’immagine odiosa e devastante, propagando un terrorismo atroce, le cui principali vittime sono gli stessi musulmani. Certo, dall’11 settembre 2001 è stato fatto di tutto per dirigere la lotta contro il mondo islamico e arabo. Al Qaeda è il migliore alleato di quell’America che ha reso tutti gli arabi sospetti, e vede in ogni musulmano un potenziale terrorista.
Chi, come me, viaggia parecchio nel mondo ha avuto occasione di constatare fino a che punto un nome arabo su un passaporto (il mio è francese) susciti diffidenza e sospetti. Nel 2003 mi è capitato di essere trattenuto per varie ore in un box dell’aeroporto di Newark, senza aver fatto nulla di strano o di illegale, e senza che nessuno mi abbia dato spiegazioni. Il mio crimine era quello di essere arabo. Casi del genere si verificano tutti i giorni, ai danni di centinaia di migliaia di viaggiatori.
Abbiamo una cattiva reputazione. Siamo percepiti come lo erano i comunisti ai tempi della guerra fredda.
In un recente film americano di grande successo, «Argo», con Ben Affleck che ne è anche il regista, si racconta come nel 1979 la Cia riuscì a far uscire dall’Iran sei funzionari dell’ambasciata americana che si erano rifugiati presso quella canadese: una vicenda realmente accaduta.
L’Iran vi è rappresentato nel modo più orrendo possibile. Può darsi che all’epoca i guardiani della rivoluzione fossero veramente individui fanatici e brutali. Ma ciò che questo film suggerisce allo spettatore in maniera molto efficace è l’immagine di un Islam selvaggio, sanguinario e violento. Mi ha ricordato un altro film: «Midnight Express», che tanto male aveva fatto a suo tempo alla Turchia.
Non provo alcuna simpatia per il regime iraniano e la sua rivoluzione. Ma il mio pensiero va a quella popolazione, già costretta a subire il regime degli ayatollah. Perché penalizzarla ancora rappresentandola in un modo che non corrisponde affatto alla realtà? Viviamo in un sistema privo di sfumature, che rifiuta la complessità: bianco o nero, vero o falso, buono o cattivo, il bene o il male.
Ogni cosa è vista attraverso un prisma che sacrifica la verità. Ma non lamentiamoci, non accusiamo gli americani se non ci rispettano. Sta a noi, agli arabi coscienti di questa situazione lottare all’interno delle nostre società, contro gli impostori, i falsificatori, i bugiardi, gli inquinatori che corrompono la nostra immagine e la nostra storia, sacrificando il futuro dei nostri figli. Fintanto che i nostri Paesi non saranno divenuti Stati di diritto, con istituzioni realmente democratiche e con una cultura della libertà, saremo sempre soggetti ai perturbatori che ci confinano nell’arretratezza, nel pauperismo, nel sottosviluppo intellettuale. C’è tanto da fare nei nostri Paesi per ristabilire un’immagine veritiera e rispettata della nostra identità, della nostra religione e del nostro essere. Ma finché continuerà l’ingerenza della religione nella politica, finché regnerà la confusione tra la ragione e la fede, offriremo agli americani, e agli occidentali in genere, le migliori occasioni possibili per rappresentarci come caricature, o come marionette.

TAHAR BEN JELLOUN


Israele, dal Golan cannonate sulla Siria

Risposta ai lanci di missili. Alta tensione al confine con Gaza:
pioggia di razzi verso lo Stato ebraico        
  GERUSALEMME —  Per la prima volta dopo quasi quarant’anni le batterie israeliane sulle
colline del Golan hanno sparato contro le postazioni siriane, in  risposta ai missili vaganti che da
giorni arrivano  sul lato delle  alture nelle mani dell’esercito israeliano. Ieri mattina un colpo di
mortaio sparato  dal lato siriano aveva colpito — facendo solo danni —  un’area sotto il controllo
israeliano lungo la linea del  “cessate-il-fuoco” che attraversa queste alture dopo la guerra del
Kippur nel 1973. Quasi
immediata stavolta la risposta: gli israeliani  hanno sparato un colpo solo di avvertimento, un
missile anticarro Tamuz  di grande precisione,  che è andato a cadere a poca  distanza dalle
posizioni tenute dall’esercito di Damasco. «Li abbiamo  appositamente  mancati», commentava
ieri sera il portavoce  dell’Idf, annunciando che  Israele risponderà «a ogni altra attività ostile».
Della violazione del  “cessate-il-fuoco” è stato informato anche il comando Onu dei caschi blu
che presidia la regione;  nella denuncia Israele avverte  che «i colpi  che arrivano dalla  Siria
non saranno tollerati e la risposta sarà dura,  questi incidenti  rappresentano una pericolosa
escalation che potrebbe  avere  implicazioni importanti per la stabilità della regione». E in
mattinata  il governo ha affrontato gli sviluppi della crisi siriana. Il  premier  Benjamin Netanyahu
ha fatto sapere che le autorità stanno   «monitorando attentamente quanto avviene al nostro
confine con la Siria e  siamo pronti a qualsiasi  dispiegamento».
Da giorni si moltiplicano  gli “incidenti” sulle colline del Golan,  tre colpi di mortaio —
apparentemente  sparati durante una battaglia nelle zone vicine alla  frontiera fra forze ribelli e
esercito  regolare — sono già caduti  giovedì scorso in un area disabitata, lunedì scorso invece
una jeep  militare  era stata invece centrata da diversi proiettili vaganti,  sempre sparati dal lato
siriano delle alture.  Fra Siria e Israele c’è  solo un accordo di “cessate-il-fuoco”, i due Paesi
sono ufficialmente  ancora  in “stato di guerra”. Ma malgrado  l’occupazione e l’annessione
israeliana di una parte del Golan siriano — ci vivono 80 mila coloni —  fra i due eserciti non si
sono mai verificati incidenti lungo la linea di demarcazione, larga in media 4 chilometri, che è
sorvegliata  da un contingente dell’Onu  forte di 1200 caschi blu.
Ma l’attenzione del Capo di Stato maggiore Benny Gantz e del ministro della Difesa Ehud Barak
è  anche concentrata sulla fiammata  di guerra che ha investito la  Striscia di Gaza nelle ultime
48 ore. Dalle postazioni dei miliziani   integralisti sono partiti più di cento missili in 24 ore, in
risposta a  due attacchi “preventivi” israeliani.  Sanguinoso il bilancio, con sei  palestinesi uccisi
e oltre trenta feriti, mentre sul versante israeliano   sono stati feriti quattro militari  e 4 civili. Le
batterie  antimissile  Iron Dome hanno intercettato  una decina di razzi, quelli  diretti  contro i
centri abitati circostanti  la Striscia — Sderot,  Ashkelon  — i cui abitanti hanno passato l’intera
giornata negli  “shelters” i rifugi anti-bomba obbligatori in ogni casa israeliana.  Pugno fermo  del
premier Netanyahu anche  contro le milizie armate della  Striscia che avverte: «Se cercano
l’escalation, noi siamo pronti».

Fabio Scuto