tag:blogger.com,1999:blog-59961525752749438672024-03-12T23:03:24.835+01:00IN DIFESA DELL'ISLAMQuesto Blog si propone di dare risposta agli interrogativi e alle polemiche che più frequentemente hanno per oggetto la religione islamica e il Corano.
Tale attività è particolarmente necessaria in Italia, data la totale disinformazione che gli italiani hanno sulla religione di un miliardo seicento milioni di musulmani in tutto il mondo.Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.comBlogger514125tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-51307630853376859652013-02-11T16:56:00.004+01:002013-02-11T16:56:33.372+01:00EGITTO<b><span style="font-size: large;">Egitto e Iran lontani dal ’79. Sfida agli Usa e all’Arabia Saudita</span></b><br />
<br />
UN’ACCOGLIENZA così calorosa all’estero Mahmud Ahmadinejad non l’aveva avuta da<br />
tempo. Il presidente egiziano Morsi ha atteso il collega iraniano ai piedi dell’aereo e lo ha<br />
accolto con un robusto abbraccio e baci sulle guance. Un momento storico. Dal 1979 nessun<br />
presidente iraniano era andato in visita ufficiale al Cairo. A Teheran erano andati al potere i<br />
religiosi sciiti, nemici degli Stati Uniti. L’Egitto era il più grande paese sunnita e stretto alleato<br />
degli Stati Uniti. Offrì asilo al deposto scià Pahlevi e concluse la pace con Israele. Due mondi.<br />
Teheran e il Cairo ruppero i rapporti diplomatici.<br />
Oggi tutto dovrebbe cambiare, la visita di Ahmadinejad è vista come l’inizio di una nuova<br />
amicizia. Dopo la caduta di Mubarak, l’Iran ha lanciato ripetute avance. Ha salutato la<br />
primavera araba come erede dalla rivoluzione iraniana. In settembre Morsi aveva proposto, in<br />
cambio di una diversa politica iraniana verso la Siria, la ripresa dei rapporti diplomatici. La<br />
politica estera è il solo campo dove è riuscito a mantenere un certo profilo e un’intesa con<br />
l’Iran può fargli segnare dei punti. Il presidente egiziano vuole distanziarsi dalla politica estera<br />
di Mubarak e dimostrare di non farsi dettare la politica da Washington. La visita viene seguita<br />
con attenzione dai Paesi del Golfo, primi fra tutti l’Arabia Saudita, fermamente opposta al<br />
tentativo dello Stato sciita di conquistare un primato nella regione. Il ministro degli Esteri<br />
egiziano Amr Kamel ha detto che «dei rapporti dell’Egitto con l’Iran non faranno mai le spese<br />
le nazioni del Golfo, la cui sicurezza è direttamente legata a quella egiziana». Dagli aiuti<br />
finanziari dei paesi del Golfo l’Egitto dipende in modo sostanziale per affrontare una crisi<br />
economica sempre più grave. Anche all’interno le reazioni non sono state tutte positive. I<br />
salafiti di Al Nour, il partito alleato di Morsi, hanno invitato il presidente a non dimenticare che il<br />
ruolo dell’Egitto è proteggere i sunniti. E il grande sceicco Ahmed El Tayyeb dell’Università<br />
Al-Azhar, la massima autorità teologica dell’Islam sunnita, ha avuto parole ferme contro «le<br />
ingerenze iraniane nel mondo sunnita», in particolare nel Bahrain, la piccola monarchia <br />
sunnita dove la minoranza sciita ha dato il via a numerose proteste, o contro i «tentativi di<br />
diffondere la fede sciita in Egitto ».<br />
Ahmadinejad era arrivato allo storico appuntamento con El Tayyeb facendo il segno “v” di<br />
vittoria. Anche lui deve fare i conti a Teheran con una lotta di potere sempre più dura.<br />
Sebbene non possa ricandidarsi alle elezioni in giugno, Ahmadinejad vorrebbe continuare a<br />
contare nel Paese, mandando alla presidenza uomini a lui vicini. Il suo più forte antagonista è<br />
Ali Larijiani, presidente del Parlamento, con cui ha avuto un aspro scambio verbale prima di<br />
partire per il Cairo.<br />
Nonostante l’abbraccio, ciò che divide i due presidenti è più di quello che li unisce. Sulla Siria,<br />
che sarà oggi al centro della conferenza della Cooperazione islamica, Morsi e Ahmadinejad<br />
hanno posizioni distanti. Nella bozza del documento finale della Conferenza si addossa al<br />
regime tutta la responsabilità delle violenze e si chiede a Assad di avviare un dialogo serio<br />
con l’opposizione.<br />
<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-82133901985082011352013-02-11T16:55:00.001+01:002013-02-11T16:55:22.703+01:00TURCHIA<span style="font-size: large;"><b>Ankara, kamikaze all’ambasciata Usa</b></span><br />
<br />
In una Turchia sempre più divisa fra Oriente e Occidente mancava solo il ritorno del terrorismo comunista di marca anti-Nato e anti-americana. Ieri mattina un kamikaze si è fatto esplodere presso un ingresso laterale dell’ambasciata Usa ad Ankara, precipitando la capitale nel ricordo degli Anni Settanta, quando la minaccia eversiva di estrema sinistra veniva arginata a suon di interventi dei militari nella vita civile dello Stato e il Paese viveva in una condizione di coprifuoco permanente. Un atto di violenza consumato in uno dei luoghi da sempre ritenuti più sicuri.<br />
<br />
L’attentatore, Ecevit Sanli, 30 anni di cui tre passati in galera per altre azioni terroristiche, è un membro del Dhkp/c, il Fronte per la liberazione del popolo rivoluzionario che fa dell’odio verso l’Occidente, gli Stati Uniti e la Nato il suo cardine ma rimane lontano da posizioni islamiche. Fa parte dei quella «terza Turchia» di marca comunista e socialista, con legami più o meno forti, a tratti inesistenti, con gli ambienti eversivi, che i militari riuscirono a cancellare quasi completamente durante i golpe del 1960, 1971 e 1980 e che non si è mai riconosciuta né negli ambienti conservatori, né nei movimenti nazionalisti.<br />
<br />
Ecevit è arrivato davanti alla porta della sezione visti convinto che avrebbe fatto una strage. La porta numero due dell’Ambasciata americana infatti è compresa fra la signorile Paris Caddesi e Simsek Sokak. L’accesso in macchina è controllato 24 ore su 24 e chi non è munito dell’apposito contrassegno non può circolare, il posteggio è consentito solo in alcune aree. La zona è disseminata di telecamere. Ma questo non contrasta con la vivacità del luogo, alle spalle dell’Ataturk Bulvari, una delle strade più trafficate della capitale dove si trovano altre rappresentanze diplomatiche, fra cui quella italiana, e di fronte a palazzi dove vive l’Ankara bene, che, fino a ieri, sembravano quasi trarre giovamento dalla sicurezza e tranquillità dall’avere vicini di casa come diplomatici tedeschi o americani.<br />
<br />
Paris Caddesi è sempre affollata da studenti e persone che si recano allo sportello visti dell’Ambasciata. Ieri invece, intorno alle 13, le 12 ora italiana, per puro miracolo, non c’era nessuno ed Ecevit si è trovato faccia a faccia con la guardia di sicurezza, che sarebbe poi diventata la sua vittima, nel giro di pochi minuti.<br />
<br />
Il giovane ha azionato l’esplosivo che trasportava poco prima di passare dal metal detector. Per Mustafa Akarsu, 36 anni, non c’è stato niente da fare. Il gabbiotto in muratura con vetri anti-proiettili è stato gravemente danneggiato dall’esplosione. I segni della deflagrazione erano ampiamente visibili a cinquanta metri dal luogo dello scoppio, con danni agli edifici circostanti e decine di persone ferite. Fra i più gravi c’è Didem Tuncay, giornalista dell’emittente «Ntv» che adesso lotta fra la vita e la morte.<br />
<br />
Nel pomeriggio il nuovo ministro dell’Interno, Muammar Guler, ha dato la notizia che in pochi si aspettavano, ossia che gli autori del gesto non erano né i separatisti curdi del Pkk, né Al Qaeda, ma minacce provenienti dal passato con un’accresciuta capacità di colpire. Washington parla di «atto terroristico», pur riconoscendo di non sapere «il motivo di questo gesto». Il premier islamicomoderato Erdogan ha chiamato all’unità nazionale per combattere il terrorismo, ma l’attacco arriva a pochi giorni dalla visita del nuovo Segretario di Stato americano, John Kerry, per parlare della crisi siriana e il premier adesso si trova ad avere qualcosa in comune con i militari, con cui non è mai stato in sintonia. C’è una parte di Turchia che l’alleanza con gli Usa non la vuole. Che il Paese sia guidato da laici o islamici sembra quasi un particolare.<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-61972960802207468282013-02-11T16:48:00.001+01:002013-02-11T16:48:36.404+01:00ISRAELE<b><span style="font-size: large;">La scelta d'Israele</span></b><div>
<div>
TEL AVIV Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento. E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un'impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell'aspirare al Grande Israele. Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un'estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l'occasione con quello dell'ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.</div>
<div>
(segue dalla copertina) TEL AVIV Èsenz'altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell'attuale tendenza della società. Quindi merita un'attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze. È ovviamente ben lontano dall'immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale.</div>
<div>
Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l'imminente rituale riposo. Al contrario appaiono in preda a un'indifferenza laica.</div>
<div>
«Naftali?», dice l'amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. «Naftali è l'estrema destra high tech». Scherza naturalmente. Ma c'è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all'aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzoa edifici più di vetro che di cemento. Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell'abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv.</div>
<div>
Naftali Bennett rappresenta l'estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell'industria sofisticata, orgoglio di Israele. Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l'ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari.</div>
<div>
Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio. Naftali Bennett sa rivolgersia una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità.</div>
<div>
Nonostante il loro estremismo.</div>
<div>
Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c'è stata la svolta. Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni.</div>
<div>
Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l'associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l'aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell'esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell'Israele laburista.</div>
<div>
A dargli ulteriore credito è l'esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l'attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett. Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme. Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l'irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole "palestinese" e "pace" non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combattevae si morivaa Gaza.E la Palestina dell'Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani,è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell'Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti,e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all'estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c'è scritto: «Un uomo forte per un paese forte». Non c'è bisogno d'altro. Sono parole che rassicurano. La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. Si prodiga per far curare i giovani palestinesi ammalati,è favorevolea uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c'è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell'isolamento e al tempo stesso della tendenza all'isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell'alleato americano. È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l'estrema destra vincono le elezioni. È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall'Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l'Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un'"etnocrazia". E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi. Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di "Crisi del sionismo", hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico. Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l'hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c'è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l'obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi.</div>
<div>
Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l'argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull'economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all'Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.</div>
</div>
<div>
<br /></div>
<div>
Bernardo Valli</div>
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<b><span style="font-size: large;">L’ombra della destra hi-tech sul voto in Israele</span></b></div>
<div>
<div>
TEL AVIV - Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento.</div>
<div>
E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un'impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell'aspirare al Grande Israele. </div>
<div>
Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un'estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l'occasione con quello dell'ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.</div>
<div>
È senz'altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell'attuale tendenza della società. Quindi merita un'attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze.</div>
<div>
È ovviamente ben lontano dall'immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale. Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l'imminente rituale riposo. </div>
<div>
Al contrario appaiono in preda a un'indifferenza laica. "Naftali?", dice l'amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. "Naftali è l'estrema destra high tech". Scherza naturalmente. Ma c'è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all'aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzo a edifici più di vetro che di cemento. </div>
<div>
Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell'abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. </div>
<div>
Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv. Israele va alle urne domani. Il protagonista della campagna elettorale è Naftali Bennett leader dell'ala radicale dei conservatori laici Ex ufficiale, ha fatto fortuna con Internet e ora vola nei sondaggi con proposte asciutte ed estreme: niente processo di pace, estensione delle colonie, solo qualche città autonoma ai palestinesi ma sotto rigidi controlli di sicurezza Una ricetta che sta conquistando un Paese che vuole nascondere le sue paure Naftali Bennett rappresenta l'estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell'industria sofisticata, orgoglio di Israele. </div>
<div>
Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l'ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari. Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio. Naftali Bennett sa rivolgersi a una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità. Nonostante il loro estremismo. Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. </div>
<div>
La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c'è stata la svolta. Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni. Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. </div>
<div>
Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l'associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l'aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell'esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell'Israele laburista. </div>
<div>
A dargli ulteriore credito è l'esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l'attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett.</div>
<div>
Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme. Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l'irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole "palestinese" e "pace" non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combatteva e si moriva a Gaza. E la Palestina dell'Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani, è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. </div>
<div>
È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell'Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti, e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all'estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c'è scritto: "Un uomo forte per un paese forte". Non c'è bisogno d'altro. Sono parole che rassicurano. La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. </div>
<div>
Si prodiga per far curare i giovani palestinesi ammalati, è favorevole a uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c'è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell'isolamento e al tempo stesso della tendenza all'isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell'alleato americano. </div>
<div>
È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l'estrema destra vincono le elezioni. È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall'Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l'Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un'"etnocrazia". E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi. </div>
<div>
Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di "Crisi del sionismo", hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico.</div>
<div>
Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l'hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c'è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l'obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. </div>
<div>
È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi. Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l'argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull'economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all'Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. </div>
<div>
Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.</div>
</div>
<div>
<br /></div>
<div>
Bernardo Valli</div>
<div>
<br /></div>
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-70947127941083999042013-02-11T16:43:00.000+01:002013-02-11T16:43:06.201+01:00FRATELLI MUSULMANI<br />
<b><span style="font-size: large;">I Fratelli musulmani </span></b><br />
<b><span style="font-size: large;">crescono tra moschee e aziende</span></b><br />
<br />
I fondamentalisti, usciti vincitori dalle primavere arabe, puntano a conquistare i quasi due milioni di islamici d'Italia. E il proselitismo si fa anche con aiuti economici agli emigrati. Così ora c'è un boom di venditori egiziani, mentre cresce il peso della Confraternita nei luoghi di culto ROMA - Rashid vende frutta e verdura. Il suo negozio ha due ampie vetrine che si affacciano su una piazzetta pedonale in un quartiere popolare di Roma Sud. È aperto fino a tarda sera, anche la domenica. A denunciarne la nazionalità è un foglio di papiro appeso sopra la cassa, raffigurante un'antica divinità egizia. A svelarne la fede, versetti del Corano in argento su stoffa nera all'ingresso. Per il resto è lui a mettere le cose in chiaro: "Sì, sto coi Fratelli musulmani, qui quasi tutti lo siamo, almeno chi fa questo lavoro". Nelle sue parole la conferma di un movimento sotterraneo: l'espansione della Fratellanza nel nostro Paese. L'obiettivo? La conquista del milione e 650mila musulmani d'Italia. Una "campagna acquisti" rilanciata dalla Primavera araba, che i Fratelli conducono con più mezzi: aiuti economici alle imprese degli immigrati in Italia, finanziamento dei centri islamici, dottrina e fede. Ma chi sono i nuovi "padroni" dell'Islam italiano? Quali sono le loro parole d'ordine? E come si muovono nel nostro Paese?<br />
<br />
La porta per l'Europa. La Fratellanza è una influente organizzazione internazionale, fondata nel marzo del 1928 da un insegnante egiziano di nome Hassan al-Banna. Dopo la repressione subita negli anni della presidenza Nasser, i Fratelli musulmani rialzano la testa e abbandonano le posizioni più estremistiche della lotta armata in vista di una legittimazione politica. "La Fratellanza ha un fine preciso - spiega Massimo Campanini, docente di Storia dei paesi islamici a Trento - che è quello di islamizzare la società e pervenire nel lungo periodo alla realizzazione di uno Stato islamico". Un movimento fondamentalista che, cavalcando la Primavera araba, ha preso il potere in Tunisia, Marocco e soprattutto in Egitto col presidente Mohamed Morsi. Il motto dell'organizzazione è: "Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è la nostra via. Morire nella via di Allah è la nostra suprema speranza".<br />
<br />
E l'Italia che c'entra? Lo spiega il 29 giugno 2012 Ezz Eldin Naser, esponente della Fratellanza musulmana egiziana, che si trova a Roma per incontrare alcuni imprenditori italiani: "Consideriamo l'Italia la nostra porta per l'Europa e la Russia". Traduzione: i Fratelli sono partiti alla conquista della complessa galassia dell'Islam italiano ed europeo. Lo confermano alcune informative dei servizi segreti occidentali. Quest'estate un rapporto dell'intelligence Usa fotografa i movimenti della Fratellanza in Europa, Italia compresa, seguiti al successo politico ottenuto in Egitto. In Francia l'ottobre scorso, l'ex capo del Dst (il controspionaggio francese), Yves Bonnet, indica Arabia Saudita e Qatar quali fonti del finanziamento delle reti islamiste radicali (compresi i Fratelli) nel Vecchio continente. Quanto all'Italia, l'ultima relazione dei servizi segreti al Parlamento si limita a mettere in guardia da un possibile e generico "nuovo attivismo di militanti islamisti galvanizzati dalla caduta dei regimi". Non tutto il mondo arabo guarda però con favore l'espandersi della Fratellanza. Stando al quotidiano al-Khaleej, che cita una fonte anonima vicina alle indagini, il primo gennaio scorso le autorità degli Emirati arabi uniti hanno arrestato una "cellula egiziana dei Fratelli musulmani", impegnata ad addestrare degli islamici locali per rovesciare alcuni governi arabi. La cellula, composta da oltre dieci persone, reclutava egiziani negli Emirati e finanziava alcune attività commerciali per recuperare fondi volti a sostenere l'organizzazione madre. Ma torniamo all'Italia: per quali vie i Fratelli musulmani si ramificano nel nostro Paese? E dove si è fatta più visibile la loro presenza?<br />
<br />
Il business dei negozi. Rashid è solo la punta dell'iceberg: quella dei fruttivendoli egiziani pare un'avanzata inarrestabile. Lo confermano i numeri della Camera di commercio di Milano. In Italia quest'anno sono attive oltre 30mila imprese che commerciano in frutta e verdura. Il loro numero è in calo rispetto al 2011. A tenere sono solo i titolari stranieri, impermeabili alla crisi, con un boom degli egiziani che nell'ultimo anno hanno aumentato di ben il 20% i loro negozi: record di presenze a Milano e Roma (qui i fruttivendoli provenienti dal Cairo sono ben 233). Il segreto del loro successo è raccontato da Mohamed, che ha due negozi nella capitale: "Facciamo rete e quando andiamo ai mercati generali, compriamo grandi quantità di merce per rifornire fino cinque negozi, più qualche ristorante e albergo del centro, così abbattiamo i costi". Ma chi copre l'investimento iniziale? "È tipico della Fratellanza aiutare economicamente i propri affiliati: in tal caso investono all'estero e in cambio ricevono consenso - sostiene Naman Tarcha, giornalista di origine siriana in Italia - In base alla mia esperienza posso dire che appartengono quasi tutti alla Fratellanza e la stessa scelta di questo lavoro è halal, non toccano infatti materia impura, cosa che invece può capitare se lavori in un bar con la birra, o in una pizzeria con il prosciutto". Rashid, fruttivendolo, lo spiega chiaramente: "Tra Fratelli ci si aiuta anche col denaro, che male c'è? Non siamo estremisti, Mubarak era un dittatore, ora vediamo cosa farà Morsi, mettiamolo alla prova". Insomma, nulla da nascondere: dopo le vittorie politiche nel Nord Africa, i Fratelli escono allo scoperto e rivendicano la propria identità.<br />
<br />
Il giallo del carpentiere. Una conferma della forza della Fratellanza tra gli immigrati sta nella notizia che l'Italia è il solo Paese occidentale in cui la maggioranza degli egiziani residenti abbia votato a favore della costituzione voluta da Morsi (1.165 hanno votato a favore e 1.039 contro). Sulla Fratellanza è dura la posizione di Souad Sbai, presidente dell'Associazione donne marocchine in Italia ed ex deputata Pdl: "Prima i Fratelli musulmani finanziavano le moschee fai-da-te, ora si sono dirottati sulle attività commerciali. I soldi arrivano dall'estero, anche dai sauditi. In cambio hanno valuta pregiata di ritorno e la crescita della loro sfera di influenza tra gli immigrati musulmani in Italia. Arrivano con valigie piene di contanti, come nel caso di quell'egiziano fermato poche settimane fa a Malpensa". La Sbai ha pochi dubbi. La deputata di origine marocchina si riferisce alla vicenda di un carpentiere proveniente dal Cairo (ma del quale non è provato il legame con la Fratellanza), al quale i finanzieri di Milano-Malpensa l'11 dicembre scorso hanno sequestrato parte dei 110mila euro in contati contenuti dentro un borsone e non dichiarati alla frontiera. L'uomo ha cercato di eludere le verifiche dei finanzieri nascondendo la somma all'interno di grosse sacche, piene di vestiti e altri effetti personali, sperando che il volume dei suoi bagagli avrebbe scoraggiato i controlli. Così non è andata.<br />
<br />
La "presa" delle moschee. Stando a un dossier segreto del Viminale (datato aprile 2007), solo le moschee di via Pallavicini a Bologna e di via dei Frassini a Roma sono in mano ai Fratelli musulmani. Ma negli ultimi anni le cose sarebbero molto cambiate: "Oggi nei centri islamici la maggioranza delle iniziative legate al culto è collegata a qualcuno della Fratellanza - conferma Yahya Pallavicini, imam a Milano e vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica) - la loro espansione si è fatta via via più forte negli ultimi tempi tra tutti gli immigrati, con la sola eccezione di senegalesi, turchi e di qualche pakistano. Oggi si sentono più potenti perché legittimati dall'Occidente quali mediatori col mondo islamico, dopo i successi elettorali incassati in giro per il mondo. Ma attenzione: va ricordato che il loro fondamentalismo ha come priorità strategica la presa del potere e un islam politico". Non manca una nota positiva: "Prima dell'11 settembre - ragiona Pallavicini - si consideravano i soli puri, ora hanno abbandonato l'arroganza dell'esclusivismo e dialogano con le altre realtà dell'islam, anche se alla fine rivendicheranno per loro la leadership". Non lontana dalla Fratellanza viene considerata l'Unione delle comunità islamiche (Ucoii). Oggi il suo presidente, Izzeddin Elzir, conferma solo che "una minoranza dei nostri membri aderisce alla Fratellanza" e quanto al finanziamento delle attività commerciali non crede che "dietro ai fruttivendoli egiziani ci siano i Fratelli musulmani e comunque non ci sarebbe nulla di male, né di illegale, nell'aiuto economico tra connazionali". Ma qual è il rischio connesso all'espansione della Fratellanza in Italia? Qual è il loro progetto non solo religioso, ma politico?<br />
<br />
La radicalizzazione degli immigrati. "Il loro progetto di realizzazione di una società islamica non implica un elemento intrinseco di estremismo - ci tiene a chiarire il professore Campanini - e la loro espansione non ha nulla a che vedere con rischi terroristici. Ciò detto, la loro lettura fondamentalista dell'Islam può portare a una limitazione dei diritti umani, soprattutto delle donne e rendere le comunità islamiche in Italia meno integrabili. Ma è pur vero che la Fratellanza ha sempre dimostrato un notevole pragmatismo, che potrebbe portare a smussarne la radicalità e poi ricordiamoci che rispetto ai salafiti passano per dei moderati". Stando ad alcuni documenti rinvenuti dopo l'11 settembre in Svizzera, la Fratellanza disporrebbe di una rete finanziaria imponente. "La loro ricchezza - spiega Campanini - viene dalle donazioni dei fedeli, dal lavoro volontario dei loro affiliati e dai finanziamenti provenienti da alcuni ricchi Stati arabi". Dove sono presenti, i Fratelli musulmani forniscono alla popolazione anche assistenza sanitaria e scolastica. E questa è la spiegazione principale della loro forza e del crescente consenso. Per questo il boom dei fruttivendoli egiziani non sorprende Campanini: "Finanziare gli immigrati all'estero? È tipico del loro welfare".<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-17204219021201290472013-02-11T16:40:00.004+01:002013-02-11T16:44:14.084+01:00ISRAELE<b><span style="font-size: large;">Israele al voto, la carica dei religiosi record di rabbini nella nuova Knesset</span></b><br />
<br />
Corre con la certezza che dal voto di oggi in Israele, otterrà il suo quarto mandato da premier Benjamin Netanyahu, ma non sarà quella vittoria trionfale che "King Bibi", soltanto tre mesi fa, si aspettava. La sua formazione Likud-Beitenu, con il nazionalista Avigdor Lieberman, uscirà - ci dicono i sondaggi israeliani che però non azzeccano una previsione dal 1999 - come partito di maggioranza relativa con 33-35 seggi sui 120 della Knesset. Un' erosione rispetto al 2009, quandoi due partiti separati portarono a casa 42 deputati, provocata dalla forte aspettativa per la novità nella destra del panorama politico: "Focolare ebraico", il partito nazionalista religioso animato dal milionario Naftali Bennett, ex capo dello staff di Netanyahu, si appresta a diventare il terzo partito con 14 seggi in Parlamento. Bennett, portavoce per anni dei coloni, fra le altre cose sostiene che sia «inevitabile» l' annessione del 60 per cento della Cisgiordania palestinese. È con questa "nuova destra" e con i famelici partiti religiosi Shas e United Torah Judaism (15 seggi previsti) che Netanyahu dovrà trovare una maggioranza che affronti prima di tutto i seri problemi economici che attraversa Israele, come chiede la maggioranza degli elettori. Sul fronte dell' opposizione risale, sull' onda delle grandi proteste sociali dell' estate 2011, il Labor guidato dall' ex giornalista Shelly Yachimovich (16-18 seggi) e "Hatnua" - il neo-partito guidato da Tzipi Livni (7-9). Ma anche con il sostegno dei tre partiti arabi un fronte anti-Netanyahu che unisca tutta l' opposizione sembra destinato a restare inchiodato ai 55-57 seggi. Fino a ieri sera per tutti, da Netanyahu alla Yachimovich, è stata caccia all' ultimo voto, perché come titolava il quotidiano Haaretz ieri mattina c' è ancora il 15 per cento di indecisi. Una fetta elettorale che vale 18 seggi. Non può passare inosservata in queste elezioni la forte presenza di candidati religiosi. Gli ebrei FOTO: ANSA ortodossi hanno lasciato i partiti di nicchia per unirsi al Likud e agli altri partiti principali, sfidando il dominio laico fra i politici e infondendo alla politica israeliana un fervore religioso e certamente una linea più dura nel negoziato con palestinesi. Tutti i partiti, di destra, di centro e di sinistra, hanno candidato rabbini e personalità religiose ortodosse. Le previsioni indicano che la 19esima Knesset avrà un record di 40 deputati religiosi, in quella uscente erano 25 e solo una ventina di anni fa si contavano sulle dita di una mano. Mentre alcuni settori della società israeliana gioiscono, ha molti timori invece la maggioranza laica. Perché la tendenza può alterare l' identità di una nazione che non ha mai segnato i delicati confini fra religione e Stato, e che al suo interno ha anche una sostanziale minoranza araba musulmana. Una inchiesta condotta lo scorso anno indica che solo il 22 per cento degli ebrei israeliani si dichiara osservante- ortodosso o ultra-ortodosso - mentre ben il 78 per cento si dichiara laico. I religiosi si troverebbero a esercitare quindi un ruolo e un' influenza sproporzionata nella società israeliana. Stando a molti sociologi israeliani i movimenti religiosi che cercano di espandere gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata e che negano ai palestinesi uno Stato, stanno soppiantando, come simbolo auto-dichiarato della missione di Israele, i potenti kibbutz di una volta. E quest' ascesa nella società israeliana è stata alimentata dalla diffusa disillusione sul negoziato di pace con i palestinesi, e dall' esito delle rivolte arabe che negli ultimi due anni hanno portato al potere gli islamisti, facendo sembrare fragile anche il trattato di pace di Camp David con l' Egitto del 1979.<br />
FABIO SCUTO<br />
<br />
<br />
<b><span style="font-size: large;">Israele, verso l'accordo Netanyahu-Lapid</span></b><br />
<br />
GERUSALEMME - È una vittoria che ha il sapore amaro della sconfitta e Benjamin Netanyahu è costretto rivedere i suoi piani all'indomani del voto che ha ridimensionato l'alleanza elettorale del premier uscente Likud-Beitenu (31 seggi) e premiato invece nuovi partiti di centro come Yesh Atid (19), e a sinistra il Labour (15) e Meretz (6). E' mancata quell'ondata di voti di voti che si aspettava il milionario hi-tech Naftali Bennett, leader del partito dei coloni "Focolare ebraico", che però incassa 11 seggi. Al momento attuale la Knesset appare divisa in due blocchi eguali, di 60 deputati ciascuno: quello della destra e dei partiti confessionali, e quello della sinistra con le liste laiche e quelle arabe.<br />
La situazione potrebbe cambiare oggi, con la fine dello spoglio dei voti dell'esercito e il possibile passaggio di un seggio dall'area di sinistra a quella di destra.<br />
Ma la sostanza politica non cambia: senza Yesh Atid guidata da Yair Lapid sarà difficile formare una coalizione con un margine di maggioranza accettabile.<br />
Il partito centrista fondato solo un anno fa dall'ex anchorman di Channel Two - sull'onda delle proteste sociali e contro i privilegi concessi ai religiosi ortodossi - è la seconda forza politica del Paese.<br />
Il primo ministro Netanyahu, a cui il presidente Peres dovrebbe affidare l'incarico di formare un governo essendo il leader del partito di maggioranza relativa, già ieri pomeriggio ha promesso di impegnarsi in riforme socio-economiche e di formare una coalizione la più ampia possibile. «Ci siamo svegliati con un chiaro messaggio degli elettori», ha detto dopo essersi consultato con l'alleato ed ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. La sicurezza rimarrà una priorità ma il prossimo governo, ha spiegato, si occuperà anche di riequilibrare la situazione fra laici e ortodossi, riduzione del costo degli alloggi e riforma elettorale. Tutti cavalli di battaglia su cui l'ex volto della tv ha costruito la sua fortuna elettorale. Una telefonata di complimenti di Netanyahu l'altra notte a Lapid ha aperto di fatto le consultazioni e ieri dal premier uscente è venuto un invito ancora più chiaro a partecipare al prossimo esecutivo.<br />
Sulla stampa e alla tv israeliana impazzano gli scenari. Quello dato per possibile prevede l'esclusione dei religiosi e degli ultraortodossi per un governo formato dal Likud-Beitenu, "Focolare Ebraico", Yesh Atid e Hatnuah, il nuovo partito della signora Livni (6 seggi). Il totale dei seggi sarebbe 67 su 120, un compromesso che ricorda il precedente di Ariel Sharon, che tenne fuori appuntoi religiosi. Come le dichiarazioni di Lapid di ieri sera lasciano intravedere. Il risiko politico, però, è appena iniziato.<br />
<br />Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-63236398543983317712013-02-11T16:37:00.003+01:002013-02-11T16:37:42.180+01:00ALGERIA<b><span style="font-size: large;">Algeria, assalto ai rapitori ma è strage di ostaggi C'è la mano di Al Qaeda</span></b><br />
<br />
PARIGI - Un blitz che si è trasformato in un disastro. Decine di morti, una pioggia di polemiche e il laconico commento del presidente francese Hollande: «La faccenda ha preso una piega drammatica». L'intervento armato voluto da Algeri nel sito petrolifero della Bp di In Amenas, dove i ribelli avevano preso in ostaggio una quarantina di occidentali, è stato un bagno di sangue. L'obiettivo era quello di annientare i terroristi che avevano attaccato l'impianto.<br />
L'esercito ha dato l'assalto a fine mattinata, un portavoce dei terroristi ha annunciato la morte di 34 ostaggi (sette gli stranieri) e 15 integralisti tra cui il leader Abou Al Bara. Ma le notizie sono confuse e contraddittorie: secondo un'agenzia di stampa algerina, l'attacco è finito ieri sera, alcune fonti parlano della liberazione di «metà» degli ostaggi stranieri, senza che se ne conosca il numero esatto. I paesi occidentali non nascondono l'inquietudine e le critiche: la Casa Bianca ha chiesto chiarimenti: «C'è dietro Al Qaeda», dice il Pentagono. Cameron ha fatto sapere al primo ministro algerino che avrebbe voluto essere avvertito; il premier giapponese ha chiesto l'immediato arresto delle azioni militari. L'assalto dell'esercito è cominciato verso mezzogiorno. Secondo le diverse testimonianze, impossibili da verificare, si sa che i terroristi avevano fatto irruzione nella base abitativa del sito petrolifero, che si trova a quattro chilometri dalla raffineria e dai giacimenti di gas. I fondamentalisti avevano in ostaggio almeno 41 stranieri, ai quali sarebbero state messe cinture cariche di esplosivo. Al tempo stesso, 600 lavoratori algerini sono rimasti intrappolati nella base, ma liberi di muoversi al suo interno.<br />
La tragedia degli ostaggi, come tante altre volte in passato, arriva sugli schermi occidentali attraverso Al Jazeera: tre di loro, un britannico un giapponese e un irlandese, chiedono il ritiro dell'esercito che accerchia la base. Difficile parlare di negoziato: i fondamentalisti vogliono la fine della guerra in Mali, la liberazione di cento terroristi detenuti in Algeria e soprattutto di potersene andare in Libia con gli ostaggi. Richieste inaccettabili per Algeri. Alcuni stranieri e una manciata di lavoratori algerini riescono a fuggire, poi, verso mezzogiorno, arriva l'assalto, violento.<br />
Secondo un portavoce integralista, i primi scontri a fuoco provocano, come detto, la morte di 34 ostaggi e di 15 integralisti. I seicento lavoratori algerini riescono a uscire indenni. Il conflitto a fuoco continua, senza che se ne sappia granché: l'agenzia di stampa mauritana che aveva i contatti con i terroristi resta senza notizie. Il cellulare del portavoce non risponde più. Ma queste notizie frammentarie lasciano aperti molti interrogativi sulla dinamica dei fatti.<br />
Il ministro della Comunicazione algerino, ieri sera, non ha dato dettagli. Ha detto che il dialogo coi terroristi si è rivelato impossibile a causa del loro oltranzismo. Il blitz avrebbe consentito la «neutralizzazione» di molti terroristi e «purtroppo alcuni morti e feriti.<br />
Daremo il numero esatto appena lo avremo». Il premier britannico Cameron resta pessimista: «Dobbiamo prepararcia brutte notizie», dice ai giornalisti. Il bilancio del governo algerino tarda ad arrivare, mentre nel Mali le truppe francesi continuano ad avanzare verso il nord del paese con molta cautela.<br />
- DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GIAMPIERO MARTINOTTI<br />
<br />
<br />
<br />
<b><span style="font-size: large;">Costretti a mettere cinture esplosive e siamo diventati degli scudi umani</span></b><br />
<br />
ALGERI - L' intervento militare algerino è ancora in corso attorno alla base di Tigantourine presa dai jihadisti di Mokthar Belmokhtar vicini ad Al Qaeda; le comunicazioni dall' interno della base sono interrotte, i familiari degli ostaggi seguono le notizie con il fiato sospeso. Le prime notizie filtrate dopo la fuga di alcuni sequestrati, restituiscono un quadro del terrore: stando a uno degli scampati, gli islamisti hanno fatto sapere che «uccideranno gli ostaggi cristiani e infedeli», dotati di maggior valore ai loro occhi, risparmiando i musulmani. Per separare i due gruppi, hanno imposto a ognuno di recitare in arabo un versetto del Corano. Alcuni sono stati costretti a infilare cinture esplosive, trasformati in scudi umani per frenare l' intervento delle forze algerine. Il campoè stato minato. Fra gli ostaggi ci sarebbero parecchi feriti in gravi condizioni. «Li ho visti uccidere uno a sangue freddo». Lyès, ingegnere nella divisione tecnica dello stabilimento per l' estrazione del gas di Tiguentourine a In Aménas (alla frontiera con la Libia), è ancora incredulo: «Non riesco a capire come i terroristi siano riusciti a entrare con tanta facilità nella base, nonostante la presenza della sicurezza: devono avere avuto dei complici all' interno». Di ritorno a casa dopo essere stato liberato dai sequestratori con una quarantina di lavoratori algerini, Lyès non smette di pensare a quello che ha vissuto. «Quando sono penetrati nella base, stavo per uscire dalla mia stanza per andare al ristorante a fare colazione. Ci sono state raffiche di mitra. Ho capito subito che si trattava di un attacco, ma pensavo che a sparare fossero i militari da una postazione proprio accanto a noi». Gli è impossibile immaginare che i terroristi «possano entrare senza ostacoli fino allo stabilimento e forzare la porta d' ingresso con un' autoariete. Come hanno fatto», si chiede, «a superare il primo posto di controllo della polizia, a 10 chilometri dall' ingresso dello stabilimento, sulla strada di Illizi, e la barriera fissa che si trova sulla strada secondaria che porta all' impianto?». Ieri quattro ostaggi stranieri (un francese, un keniano, due britannici)e 600 algerini sono stati liberati dopo l' assalto militare disposto dal governo. Il raid è avvenuto in seguito a un tentativo di fuga dei sequestratori a bordo di due fuoristrada. In mancanza di un bilancio ufficiale, il ministro algerino delle Comunicazioni, Mohamed Said, parla di «un notevole numero di ostaggi liberatie purtroppo di alcuni morti e feriti». Una valutazione rosea rispetto alle dichiarazioni degli islamisti che parlano di più di 30 ostaggi e una quindicina di sequestratori uccisi. All' alba, una trentina di impiegati algerini era già riuscita a sfuggire. «Ma sono tutti sotto shock», dice Samir, che li ha incontrati all' aeroporto di Tébessa, dove 11 dei "miracolati" sono atterrati nel pomeriggio. «Oltre a non aver dormito, hanno dovuto fare l' autostop per più di 40 chilometri prima di arrivare all' aeroporto». A Djanet, un agente di sicurezza della base, in ferie, ha saputo per telefono della morte di un collega. «Aveva solo 30 anni», si dispera. «Stava lasciando il campo in autobus: i terroristi li hanno intercettati e riportati all' impianto». Tutto lascia pensare che l' Algeria abbia deciso da sola il momento di lanciare l' attacco. Il primo ministro britannico, David Cameron, si è lamentato di «non essere stato avvertito». La Casa Bianca, che conta diversi americani tra gli ostaggi, aspetta «chiarimenti» dalle autorità locali. Il Giappone, a sua volta, ha chiesto all' Algeria di far cessare immediatamente il suo intervento militare sull' impianto di gas.<br />
MÉLANIE MATARESE<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-38451348426949584932012-12-28T12:38:00.000+01:002012-12-28T12:38:39.753+01:00EGITTO<span style="font-size: large;"><b>Egitto, la festa dei Fratelli Musulmani Nuova Costituzione, abbiamo vinto noi</b></span><br />
<br />
IL CAIRO - Per il Fratelli Musulmani le cose sono già decise, anche se sabato prossimo dovranno votare ancora 25 milioni di egiziani.<br />
«Le ruote della democrazia hanno cominciato a girare e nessuno potrà più fermarle» dice Walid Schalabi, portavoce della Guida spirituale Badia. A spoglio non ancora terminato i Fratelli musulmani hanno diffuso domenica sera dei risultati secondo cui il 56 per cento dei votanti aveva risposto "sì" al referendum sulla nuova Costituzione che darà alla religione un ruolo predominante alla negli affari dello Stato. Questa percentuale è destinata ad essere confermata, anzi ad aumentare, nel prossimo turno elettorale nel quale voterà soprattutto la provincia, dove l'influenza dei Fratelli Musulmani è molto più forte che al Cairo o Alessandria dove si è votato domenica.<br />
L'opposizione denuncia frodi e violazioni diffuse. Non solo perché in molti seggi elettorali, nei quartieri più poveri, la povera gente, per lo più analfabeta, è stata minacciata del castigo di Dio se non avesse votato "sì", oppure comprata con qualche elargizione di zucchero tè o latte. La miseria che è sempre stata un flagello in Egitto, è enormemente aumentata dopo la rivoluzione. Il turismo, che era una fonte cospicua di lavoro, è fermo, la disoccupazione dilaga e i prezzi aumentano. Il governo si è dimostrato incapace di prendere qualsiasi provvedimento, oggi decide un aumento delle tasse e due ore dopo fa marcia indietro. La lira egiziana sta perdendo colpi ogni giorno. Ci sono accuse di intere scatole di schede distrutte, gli elettori stessi hanno denunciato più di quattromila violazioni di cui erano stati testimoni. Ma le loro denunce non hanno trovato ascolto tra gli osservatori dei seggi. Ci sono risultati incredibili come voti in massa per il sì in quartieri dove alle presidenziali nessuno aveva votato per Morsi. Solo al Cairo, perfino la propaganda dei Fratelli musulmani ha dovuto arrendersi e ammettere che ha vinto il "no". Nella capitale ieri si erano viste fin dalla mattina presto lunghe file di giovani di tutte le classi sociali che aspettavano pazientemente di dare il loro voto e dire no a quella che sono convinti significhi l'islamizzazione del loro paese. Particolarmente lunghe erano le file delle donne che sanno bene che una costituzione dove la donna è nominata solo in quanto "moglie e madre" restringerà i loro diritti. Secondo i Fratelli al Cairo avrebbero bocciato la Costituzione il 56% degli elettori ma per l'opposizione sarebbero almeno i tre quarti. Anche le organizzazioni per i Diritti umani lamentano gravi violazioni. Ad esempio, dicono, non è vero che in tutti i seggi elettorali fossero presenti dei giudici.<br />
In molti casi c'erano persone che si sono fatte passare per magistrati senza esserlo, messe lì proprio per manipolare il voto. «Come al tempo di Mubarak» dice un portavoce dell'Istituto per i Diritti umani del Cairo, che chiede che il voto venga annullato e ripetuto.<br />
- VANNA VANNUCCINI<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>MA IL PAESE RESTA SPACCATO</b></span><br />
<br />
VINCE il "sì" nel primo round del referendum costituzionale in riva al Nilo, anche se non in maniera trionfale. A conferma che la società egiziana è fortemente polarizzata e le fratture politiche e religiose si allargano, minacciando la stabilità del paese. Il risultato, annunciato con enfasi dai Fratelli Musulmani, è comunque contestato dalle opposizioni, che a loro volta rivendicano un marcato successo del "no". Il Fronte Nazionale di Salvezza aveva fatto sapere alla vigilia che avrebbe accettato l'esito del voto, un impegno destinato a cadere in presenza di brogli o palesi illegalità.<br />
E' prevedibile che ora l'opposizione invochi nuovamente la sospensione, se non il ripetizione del primo turno, della consultazione. La regolarità del voto è denunciata anche dagli attivisti dei diritti umani, che hanno evocato un clima da era Mubarak ai seggi.<br />
Una valutazione così diversa sulla correttezza della competizione spinge maggioranza e opposizione sul terreno della delegittimazione reciproca, con ovvie conseguenze sulla radicalizzazione del conflitto. Morsi e i Fratelli Musulmani confidavano sulla favorevole risposta popolare, contrapponendo legittimità della Costituzione a quella della rivoluzione: almeno quella della prima piazza Tahrir. La Fratellanza conosce bene il paese, il suo radicamento nell'Egitto profondo, dove i seguaci della Guida Badie e i salafiti esercitano grande influenza, è un dato di fatto. Non è causale che il "no" abbia prevalso al Cairo e a Alessandria, e il "sì" nel governatorato di Sonhag o nel Nord del Sinai, dove Fratelli e salafiti sono storicamente molto forti. Tenendo conto della geografia politica egiziana, il voto nella prossima tornata nelle restanti province, rurali e tradizionaliste, dovrebbe premiare ulteriormente gli islamisti.<br />
Morsi cercava il conforto delle urne, dopo la prova di forza della dichiarazione costituzionale e la parziale marcia indietro seguita alle reazioni di piazza. Un conto era ritirare la dichiarazione, altro accettare il rinvio sine die del referendum: alla leadership della Fratellanza è parso chiaro sin dall'inizio che avrebbe voluto dire farsi imporre l'agenda politica dagli avversari.<br />
E questoi Fratelli Musulmani, pressati dall'inquieta concorrenza degli alleati-rivali salafiti sul versante islamista, non avrebbero potuto accettarlo.<br />
Il "sì" alla Costituzione è un passaporto per indebolire le ultime resistenze dalla magistratura, in attesa che lo spoil system in campo giudiziario consenta una più marcata egemonia islamista. La Fratellanza, un tempo teorica della sovranità divina, è oggi la principale fautrice della sovranità popolare.<br />
Se la situazione non precipitasse, all'opposizione, unita dopo le divisioni del passato, non resta che preparare le elezioni legislative che dovrebbero seguire la fine del travagliato processo costituzionale. Potrebbe essere l'ultima prova d'appello per evitare che il cerchio islamista si chiuda.<br />
- RENZO GUOLO<br />
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<span style="font-size: large;"><b>Una notte di scontri e arresti le due anime dell' Egitto invadono le vie del Cairo</b></span></div>
<div>
<div>
IL CAIRO - Si chiama Ahmad,è un giovane alto e magro e senza barba, potrebbe essere uno dei manifestanti che presidiano il palazzo presidenziale per chiedere il ritiro della bozza costituzionale che minaccia di trasformare l' Egitto in una società islamizzata. Invece è qui, davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya, con migliaia di salafiti con le barbe lunghe e i pantaloni alla zuava come si crede li portasse Maometto, con i jihadisti e i Fratelli musulmani del presidente Morsi. Si sentono i rappresentanti di tutto l' Egitto, se non addirittura il popolo di Dio. «Sono qui per difendere Morsi» dice. «Morsi è stato eletto. Anche Obama è stato eletto con il 51 per cento ma nessuno ha protestato. Questa è la democrazia». «Sì alla legittimità democratica» era la parola d' ordine della manifestazione dei sostenitori di Morsi. A poche miglia di distanza da qui altri giovani, liberali, di sinistra e delle minoranze cristiane, aprivano con gesto di sfida brecce tra i blocchi di cemento messi dall' esercito e si avvicinavano al palazzo presidenziale, protetto dai carri armati. I militari, che ieri avevano ricevuto da Morsi poteri da stato di emergenza che li autorizza ad arrestare i civili, li hanno lasciati fare. Due mondi, due campi divisi, sono sfilati ieri per le strade del Cairo. Due narrazioni contrapposte delle vicende di questi giorni: quella di Ahmad, che era presente con i suoi amici agli scontri di mercoledì scorso quando morirono otto persone, e che afferma che le vittime apparteneva alla Fratellanza; e quella dei giovani che mostrano i video in cui si vedono chiaramente gruppi di islamisti disciplinati e ben organizzati che aggrediscono i manifestanti. Come è successo ancora la notte scorsa a piazza Tahrir, dove una decina di persone sono state ferite quando degli incappucciati muniti di coltelli e bastoni hanno fatto irruzione nelle tende in cui gli oppositori di Morsi mantengono i loro presìdi. Le Forze armate, che nei giorni scorsi aveva affermato «che non lasceranno precipitare il paese nella catastrofe» cercano una mediazione. Il ministro della Difesa Al Sissi, che è anche il capo di Stato maggiore, ha chiesto ieri a tutti i partiti politici, ai rappresentanti dell' Università Al Azhar, la massima autorità teologica del mondo sunnita, e a quelli della società civile di riunirsi per avviare immediatamente un dialogo nazionale. L' incontroè fissato per il pomeriggio di oggi al Villaggio Olimpico. La Fratellanza musulmana ha già risposto che parteciperà al colloquio. «L' invito viene dalle Forze armate con il permesso del presidente. È chiaro che parteciperemo» ha detto il portavoce Mahmud Ghozlan. L' opposizione, riunita nel Fronte di Salvezza nazionale presieduto da El Baradei e dall' ex capo della Lega araba Amr Moussa, darà la sua risposta stamani. Anche la magistratura, che deve supervisionare le operazioni di voto per il referendum, è divisa. La partecipazione dei magistrati era stata garantita nei giorni scorsi dal Consiglio superiore della Giustizia, l' organo di governo dei giudici legato alla Fratellanza musulmana, ma ieri il presidente dell' Associazione magistrati, El Zend, ha annunciato che i magistrati diserteranno al 90 per cento la supervisione del referendum perché la bozza costituzionale «contiene attacchi contro l' amministrazione della giustizia». Il numero due del Consiglio di Stato, Magdi al-Gahri, ha precisato che il numero dei giudici non sarebbe perciò sufficiente a supervisionare le operazioni di voto. Dalla decisione dei magistrati l' opposizione aveva fatto dipendere la decisione se chiedere agli egiziani di boicottare il referendum o di votare per il no. Gli Usa, principali alleati dell' Egitto, sono tornati a far sentire la loro voce avvertendo che non si può tornare ai "giorni bui" dell' era di Mubarak e chiedendo alle forze armate di esercitare moderazione nel «mantenere l' ordine, rispettando i diritti di quanti manifestano pacificamente».</div>
<div>
VANNA VANNUCCINI</div>
</div>
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<span style="font-size: large;"><b>Noi cristiani abbiamo paura temiamo una svolta autoritaria</b></span></div>
<div>
CAIRO - Della commissione che ha approvato la bozza di Costituzione facevano parte originariamente due membri delle chiese cristiane, che insieme a laici e liberali hanno abbandonato la commissione fidando che la magistratura ne avrebbe riconosciuto l' illegittimità. Morsi invece ha decapitato la magistratura, dato un colpo d' acceleratore ai lavori della commissione e indetto per il 15 dicembre un referendum che confida di vincere. Padre Rafic Greiche è il Direttore dell' Ufficio stampa della Chiesa cattolica egiziana che, con le altre sei chiese che fanno parte della Conferenza patriarcale, aveva partecipato inizialmente alla stesura del testo costituzionale. Ora Morsi dà a voi la colpa di impedire lo svolgimento della vita democratica. Perché vi siete ritirati? «Perché, detto senza peli sulla lingua, è un testo che se verrà approvato consacrerà un regime fascista. Non solo è pericoloso per i cristiani che sono il 10-12 per cento della popolazione, e di cui i cattolici sono una piccola minoranza. Contraddice lo spirito degli egiziani e tutte le speranze che erano nate dalla rivoluzione. Per mesi i fondamentalisti hanno promesso di inserire le nostre modifiche ma riproponevano ogni volta lo stesso testo camuffato. Alla fine abbiamo perso la pazienza». L' islam è, come dicono i riformatori, una questione d' interpretazione? «Troppo facile. I testi islamici danno sempre un comandamentoe il suo contrario, anzi teorizzano che proprio questa è "la grazia di Dio". Il metodo dei fondamentalisti è passare dalla politica alla religione, per cui chi fa una critica diventa un amorale. Il loro islam è pura politica, i loro occhi sono sul potere. Ma la situazione in Egitto è molto grave».</div>
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<span style="font-size: large;"><b>Egitto, la scommessa di Morsi Nuova Costituzione e stabilità</b></span></div>
<div>
<div>
IL CAIRO - Domani si vota. Il presidente Morsi è andato avanti per la sua strada. A furia di decreti e di bluff è arrivato a due passi dall'obbiettivo: la nuova Costituzione. In ultima battuta ha decretato perfino che il referendum si terrà in due rate, per ovviare alla mancanza di giudici che devono supervisionare i seggi ma rifiutano di farlo ritenendo il voto incostituzionale. Sabato voteranno le grandi città e il sabato successivo il resto del paese, ha deciso il presidente. Né le manifestazioni, né le contestazioni dei giudici, né le dichiarazioni del capo della più prestigiosa autorità teologica sunnita, il gran imam El Tayeb, nemmeno i jet dell'aviazione che hanno sorvolato il Cairo l'hanno fermato.</div>
<div>
Dopo esser riuscito con finti o parziali cedimenti a spiazzare l'opposizione ha avuto la meglio anche sulle Forze Armate, che mercoledì hanno ritirato il loro invito al "dialogo nazionale". Proprio mentre l'opposizione si era finalmente decisa a dire che vi avrebbe partecipato, i militari hanno rimandato il dialogo sine die. La settimana scorsa avevano parlato di "catastrofe" dentro cui l'Egitto minaccia di scivolare. Ieri il capo di Stato Maggiore el Sissi ha concordato con il presidente il dispiegamento di 120.000 soldati e 6.000 blindati per garantire la sicurezza intorno ai seggi.</div>
<div>
Gli obbiettivi di Morsi sono quelli della Fratellanza musulmana. Questo è chiaro a tutti.</div>
<div>
Quando incontra Badia, il presidente dei Fratelli musulmani, è Morsi che gli bacia la mano, non viceversa, dice la gente. Ma Morsi sembra sicuro di poterla convincere a votare sì. La parola d'ordineè stabilità. Solo la Costituzione garantisce la stabilità che può rimettere in moto l'economia e solo i Fratelli Musulmani possono assicurarla, viene martellato nelle moschee. La gente sa che i Fratelli musulmani non sono quello che sembrano, sa che hanno milizie armate, ma teme anche che l'opposizione- sempre un po' sparpagliata e con un leader, El Baradei, incapace di avere un orecchio per la gente - non sappia riportare l'ordine e la sicurezza.</div>
<div>
Nei 23 mesi dalla rivoluzione la disoccupazione è salita alle stelle, i prezzi anche, il turismo è paralizzato. Davanti alle piramidi di Giza, una lunga fila di carrozzelle cammelli aspettano invano qualche turista. Dobbiamo dimostrare che è proprio la Fratellanza che ha portato instabilità, mi dice lo scrittore Salmawy. Forsei giovani manifestanti saranno capaci di farlo.</div>
</div>
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
Come volevasi dimostrare, ancora una volta, quanti a casa nostra puntavano sulla sconfitta di Morsi e dei Fratelli Musulmani hanno preso una botta sui denti.<br />Allahu Akbar</div>
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-64294045962539621312012-12-18T11:30:00.003+01:002012-12-18T11:30:21.825+01:00EGITTO<b><span style="font-size: large;">Morsi come Mubarak piazze in fiamme in Egitto contro il golpe istituzionale</span></b><br />
GERUSALEMME - «Morsi come Mubarak», «Morsi, il nuovo faraone», «Morsi vai via!». In un crescendo di slogan e d' invettive che rimandavano al tempo della rivolta contro il vecchio regime, gli oppositori di Mohammed Morsi, il presidente eletto dopo la caduta di Hosni Mubarak, si sono ritrovati a piazza Tahrir, per denunciare il colpo di mano istituzionale con cui il nuovo raìs si è in sostanza dotato di poteri straordinari, sottraendoli ad ogni controllo della magistratura. Lui, Morsi, parlando ad una folla di fedelissimi su un palco allestito fuori dal palazzo presidenziale, lontano molti chilometri da piazza Tahrir, ha difeso il suo operato affermando di aver agito per salvare il Paese dai nemici della rivoluzione e per garantire che il processo costituente, impantanato da dispute interminabili, si concluda rapidamente. Ma le sue prevedibili rassicurazioni non hanno convinto le decine di migliaia di egiziani che, raccogliendo l' appello alla protesta lanciato dai principali partiti laicie liberali, sono scesi ieri in piazza non soltanto al Cairo, ma anche ad Alessandria, Porto Said, Asyut. La mobilitazione è degenerata in scontri particolarmente violenti ad Alessandria, dove sostenitori e oppositori di Morsi si sono affrontati per le strade del centro e sul lungomare (25 feriti, 100 in tutto il Paese) e dove alcune sedi del partito "Libertà e Giustizia", l' organizzazione politica paravento dei Fratelli Musulmani, trionfatori alle elezioni generali, al cui vertice Morsi appartiene, sono state saccheggiate e date alle fiamme. A piazza Tahrir, o per meglio dire, in un viale laterale che conduce alla piazza, gli incidenti con la polizia schierata in forze per evitare che il luogo simbolo della rivoluzione egiziana diventasse teatro dell' ennesima battaglia, sono cominciati quando il neo presidente ha iniziato a parlare dal palco di Heliopolis. E mentre la folla dei seguaci, 80 mila persone, applaudiva e scandiva slogan alla maniera degli islamisti, alzando il dito indice ammonitore verso il cielo, dai ranghi dei contestatori (anche lì diverse decine di migliaia) partivano bottiglie molotov verso le truppe in assetto antisommossa che rispondevano coi lacrimogeni. Una ventina le persone contuse, decine i fermati. Gli argomenti del presidente sembrano non avere convinto neanche il suo assistente Samir Morcos, copto, responsabile per la transizione democratica, che ieri in serata ha dato le dimissioni. E subito si è dimessa anche Sekina Fouad, consigliera per la Cultura, argomentando: «Tutti vogliono il giudizio degli assassini dei manifestanti, ma rifiutano che la Costituente e il consiglio consultivo del Parlamento siano al riparo di ogni giudizio sul loro scioglimento». A giudicare dalle risposte date a quanti lo hanno attaccato dopo i decreti emessi in questi giorni, Morsi non si è lasciato intimidire dalla mobilitazione. «L' opposizione non mi preoccupa - ha detto - ma deve essere una vera e forte opposizione». Se ha deciso di dotarsi del potere straordinario di prendere qualsiasi decisione e istituire qualsiasi procedura, per giunta sottraendosi al sindacato della magistratura, è «per difendere la rivoluzione» dai suoi nemici, «una minoranza», certo, ma pericolosa,e per garantire la stabilità del paese, non per istituire una dittatura personale. Al contrario, Morsi ha aggiunto di credere nella divisione dei poteri. Ma il processo che dovrebbe portare ad adottare la nuova Costituzione, rischiava di impantanarsi in interminabili diatribe. L' Assemblea Costituente stava per esaurire il mandato, in scadenza a dicembre, senza aver adempiuto il suo compito. «Ho deciso di dare all' Assemblea altri due mesi di tempo perché approvi la nuova Costituzione che sarà sottoposta a referendum popolare, e nuove elezioni politiche seguiranno». Ma ha preferito ignorare le critiche dei liberali che hanno, nella sostanza, deciso di scendere in piazza per protestare anche contro gli orientamenti di parte emersi in seno ad un' Assemblea Costituente dominata dagli islamisti, orientamenti che non garantiscono la tutela dei diritti delle donnee delle minoranze. Morsi s' è limitato ad affermare di essere il presidente di «tutti gli egiziani», un presidente che non si schiererà mai contro i diritti di nessun cittadino, uomo o donna, ricco o povero, musulmano o cristiano che sia.<br />
<br />
Alberto Stabile<br />
<br />
<b><span style="font-size: large;">La battaglia di Al Azhar l'Università che decide sulla Sharia in Egitto</span></b><br />
<br />
IL CAIRO - A chi appartiene Al Azhar? Tra i tanti paradossi a cui ci sta abituando la "primavera araba" c'è anche quello che la massima autorità teologica del mondo sunnita possa cessare di essere un polo moderato dell'islam, com'è stata fino ad oggi, e diventare un fortino dell'islam più radicale. «Liberare istituzioni come al Azhar, che determina ciò che è islamico e ciò che non lo è, è per noi più importante che vincere le elezioni o riscrivere la costituzione» afferma Mohammed Nour, portavoce del partito salafita. I salafiti e i Fratelli musulmani usano la parola "liberare" perché mirano a spingere alle dimissioni l'attuale gran Imam Ahmed el Tayeb per impadronirsi della prestigiosa Università, accampando come pretesto che el Tayeb era stato nominato da Mubarak (nel 2010, alla morte del precedente gran Imam) come tutti i grandi sceicchi di Al Azhar prima di lui, tradizionalmente nominati (a vita) dal presidente egiziano.<br />
Solo quest'anno, prima di lasciare il potere, i militari avevano decretato che in futuro la nomina del gran Imam sarà riservata a una commissione di 40 teologi interni all'Università.<br />
Nel grande campus di al Azhar, dove studiano migliaia di studenti, la settimana è cominciata come al solito. La crisi, percepibile dovunque nella capitale, qui sembra ancora lontana. Gli uffici del gran Imam e dei suoi consiglieri sono al secondo piano di un palazzo non distante dall'ingresso principale del campus. Al pianoterra, due persone pregano inginocchiate verso la Mecca, altre aspettano la liberatoria per contrarre matrimonio (vengono qui soprattutto chi sposa stranieri o persone di altre religioni). El Tayeb ha partecipato al colloquio con il presidente dal quale sono rimasti lontani i partiti dell'opposizione. Ma se Morsi ha fatto un passo indietro sui poteri eccezionali, non ha però ceduto di un millimetro sulla data del referendum sulla nuova costituzione.<br />
Sul referendum la Fratellanza musulmana punta tutte le sue carte per islamizzare il paese e farne una quasi teocrazia di tipo iraniano.<br />
Il testo costituzionale stabilisce che le leggi approvate dal parlamento dovranno aderire ai princìpi stabiliti dalle quattro scuole dell'islam (inclusa quella wahabita).<br />
Potrebbe significare l'obbligo delle donne di coprirsi il capo, la separazione dei sessi, il matrimonio per le bambine di nove anni e la creazione di una polizia religiosa per proteggere i valori della "vera famiglia egiziana", "promuovendo la virtù e mettendo al bando il vizio". Chi avrà l'ultima parola insindacabile su che cosa è vizio e che cosa è virtù sarà appunto Al Azhar.<br />
«L'opinione dei massimi teologi dell'onorevole Istituto sarà decisiva in tutte le questioni che riguardano il diritto islamico», afferma l'articolo 4, e il linguaggio del testo costituzionale è stato lasciato volutamente ambiguo per permettere in futuro anche interpretazioni molto restrittive.<br />
La battaglia per Al Azharè già cominciata e el Tayeb siede ormai su una poltrona pericolante. Il partito salafita Al Nour chiede che il prossimo gran Imam venga eletto direttamente dagli studenti e dal corpo insegnante, che ormai proviene sempre più spesso dall'Arabia Saudita (l'Imam el Tayeb ha una laurea in filosofia islamica presa alla Sorbona). «El Tayeb potrebbe essere presto costretto a dimettersi» ci dice un suo stretto consigliere. L'ambasciatore Mahmud Abdel Gawad ci riceve con molta cordialità e un buon caffè arabo nel suo studio al secondo piano. È il consigliere diplomatico e uno dei più stretti collaboratori del gran Imam. Parla un italiano perfetto che è stato lodato perfino da Monti durante la sua visita in Egitto.<br />
Spiega che il riferimento alla Sharia c'è sempre stato nella costituzione egiziana, ma come sempre nell'islam il problema è l'interpretazione. Nessuna religione come l'islam, che a differenza del cristianesimo non ha avuto una Riforma, viene interpretata in modi che non hanno nulla a vedere con il Corano e la tradizione del Profeta. Mi racconta una storia della vita del Profeta che gli ha appena raccontato il gran Imam. Maometto rimproverò aspramente i suoi fedeli che uccisero un uomo perché si era allontanato dalla fede, dopo che lui aveva detto di lasciarlo in pace. «La vita umana è sacra. I fanatici invece continuano ad uccidere».<br />
Al Azhar è stata sempre orgogliosa della sua moderazione, equidistante dagli estremisti radicali ma anche dai modernisti. «Se questo ruolo cambiasse, cambierebbero molte cose nel mondo islamico». Gawad s'indigna che i salafiti vadano dicendo che al Azhar è d'accordo sul matrimonio delle bambini a nove anni. «Semplicemente non è vero». E aggiunge: «Con una costituzione così il giorno dopo il referendum l'Egitto sarà ancora più ingovernabile di oggi». Di politica l'ambasciatore Gawad non vuole parlare, non è questo il suo ruolo, dice. Ma crede che, in tutto l'Egitto, molta gente che aveva votato per Morsi oggi non lo rifarebbe.<br />
L'ignoranza, dicono qui, è la causa principale della crescita dell'estremismo. Gli egiziani sono più ottanta milioni e quasi il quaranta per cento della popolazione è analfabeta. È facile abbindolarli.<br />
Bisognerebbe diffondere il vero islam, ma come? I mezzi finanziari per farlo li hanno solo gli estremisti. Fuori dall'università sono riprese le manifestazioni e i presidi di piazza Tahrir e davanti al palazzo presidenziale restano pieni di gente. Il testo costituzionale «reprime le nostre libertà e i nostri diritti» ha detto El Baradei, invitando tutti a proseguire la protesta.<br />
<br />
Vanna Vannuccini<br />
<br />
<b><span style="font-size: large;">La Rivoluzione contesa tra laici e Fratelli musulmani</span></b><br />
<br />
NELLE rivoluzioni il compromesso, soluzione principe della politica, tarda ad arrivare. È quel che accade in queste ore in Egitto dove due forze si contendono in aperta tenzone, a muso duro, la «primavera » cominciata nel gennaio dell’anno scorso in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Entrambe rivendicano di fatto, separatamente, il diritto di esercitare il potere, poiché ciascuna si considera appunto l’unica autentica rappresentante della rivoluzione da cui quel potere deriva.<br />
DA UN lato i laici, i liberali, i cristiani, raccolti in un Fronte nazionale di salvezza dai confini incerti, accusano il presidente Mohammed Morsi, espressione di un vago, ampio fronte islamico, di essere un usurpatore; dall’altro i Fratelli musulmani difendono la legittimità di Morsi e delle prerogative che si attribuisce, in quanto capo dello Stato eletto al suffragio universale.<br />
L’esercito avrebbe gli strumenti per decidere la sorte della rivoluzione contesa. Ma a parte l’inevitabile impegno di alcune unità d’élite, incaricate della protezione del capo dello Stato, rafforzate per l’occasione da qualche carro armato parcheggiato davanti alla presidenza, nel quartiere di Heliopolis, al fine di tenere a distanza i manifestanti, a parte queste essenziali precauzioni, i militari sono rimasti fuori dalla mischia. Si sono ben guardati dall’intervenire in appoggio di una delle parti a confronto.<br />
In agosto i generali più giovani hanno esautorato i loro colleghi anziani, compromessi col vecchio regime, hanno concluso un’alleanza con i Fratelli musulmani, e quindi hanno appoggiato Mohammed Morsi appena eletto alla presidenza della Repubblica. In cambio hanno conservato, e conserveranno, i privilegi riservati da più di sessant’anni alla società militare. Ma non hanno venduto del tutto la loro anima. Un’anima tutt’altro che omogenea, poiché nel corpo ufficiali prevale un tradizionale spirito laico, risalente ai primi anni Cinquanta, quando fu proclamata la repubblica; mentre la truppa, in cui sono in maggioranza i coscritti provenienti dalle diseredate periferie urbane, e dalle province ancora rurali, è sotto una forte, altrettanto tradizionale influenza religiosa. Quindi i soldati<br />
sono tendenzialmente per i Fratelli Musulmani, o per i salafiti, più estremisti. Insomma l’esercito, per ora, resta un enigma.<br />
E’ invece evidente che la «primavera araba» data per morta, sommersa dall’ondata islamica, è ancora rovente, e non solo nella sua versione egiziana. La Tunisia, che ha conosciuto la prima rivolta contro i raìs, e che poi è rimasta prigioniera di un prepotente, inquietante risveglio islamico, sarà influenzata, come altre società arabe, dagli avvenimenti del Cairo, principale capitale mediorientale. Dove i laici, i liberali, i progressisti, all’origine della insurrezione di piazza Tahrir, dopo essere stati emarginati dalla tardiva ma incontenibile irruzione sulle sponde del Nilo dei Fratelli musulmani, sono adesso riemersi in forza per far valere le loro esigenze democratiche. E contrastare la svolta autoritaria di Mohammed Morsi. Il quale, in attesa di una Costituzione, si è aggiudicato poteri definiti dai laici «uguali o superiori a quelli che aveva Mubarak», il raìs destituito.<br />
Adesso i promotori della «primavera araba» vorrebbero ridarle i colori iniziali. Il loro programma è vasto e di difficile applicazione. E’ tuttavia la prova che la rivoluzione continua. La posta in gioco è la futura Costituzione. Vale a dire la natura politica dell’Egitto di domani. I due fronti, il laico e l’islamico, non usano le stesse armi. I primi, i laici, all’inizio chiedevano libere elezioni, ma si sono accorti molto presto che essendo frantumati in numerosi movimenti sarebbero stati facilmente sopraffatti<br />
nelle urne dai Fratelli musulmani, dotati di un partito ben organizzato (Libertà e giustizia), e di una rete sociale che abbraccia l’intero Egitto.<br />
Sono stati dunque gli islamici, non per vocazione democratica ma per motivi tattici, ad adottare le elezioni come armi politiche. Ed infatti hanno vinto tutte le consultazioni, quelle parlamentari annullate, come quelle presidenziali che hanno portato Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato.<br />
Morsi è tuttavia un presidente senza Costituzione, poiché quella del vecchio regime è stata annullata, e quella nuova dovrebbe essere sottoposta il 15 dicembre a un referendum. Al quale il fronte laico si oppone; e sul quale i giudici, indignati dai poteri giudiziari che il presidente si è attribuito, non vogliono soprintendere come la legge esigerebbe. Non è dunque sicuro che lo si possa tenere.<br />
Il testo costituzionale preparato dai Fratelli musulmani, nel caso si dovesse votare tra una settimana, non correrebbe comunque troppi rischi, perché sul terreno elettorale i Fratelli musulmani sono imbattibili. I numeri sono per loro. Per questo i laici, i progressisti, i cristiani si oppongono a un voto che renderebbe legittima la svolta islamica del paese attraverso la nuova Costituzione.<br />
Secondo Human Rights Watch il progetto di magna charta presentato da Morsi è difettoso e contraddittorio, ma non catastrofico. È ambiguo. Si presta a varie letture. La nuova Costituzione non disegna uno Stato teocratico, ma lascia aperte molte porte a un’evoluzione conservatrice rigorosa. Le libertà individuali sono garantite, ma al tempo stesso si affida a un’autorità religiosa, l’università islamica di Al Azhar, le decisione di interpretare, senza appello, i principi della sharia (le leggi coraniche) da applicare. Viene così esclusa curiosamente da questo compito qualsiasi altra autorità, giuridica o legislativa. E abbandonata alle variabili tendenze teologiche, agli umori religiosi, la facoltà di regolare le libertà dei cittadini. Per il capitolo essenziale delle donne è stata abbandonata una prima versione salafita, che puntava sulla lettura più intransigente del Corano. Ed è stata adottata la generica formula che riconosce «l’uguaglianza tra tutti gli egiziani». Anche se poi si esplicita che la donna «deve trovare un equilibrio tra i suoi doveri familiari e professionali». La libertà di culto è assicurata alle tre religioni monoteistiche, ma non è estesa a tutte le religioni.<br />
Mohammed Morsi non può agire come i vecchi raìs. Lui è condizionato dai salafiti, ala radicale dell’islamismo e concorrenti dei Fratelli musulmani. Non può disporre liberamente, almeno per ora, dell’esercito che vuole tenersi fuori dalla mischia. Non può usare con spregiudicatezza la polizia e annessi per reprimere le manifestazioni perché è sotto sorveglianza del Fondo Monetario internazionale dal quale aspetta quattro miliardi e mezzo di dollari, che dovrebbero impedire il fallimento economico del paese. E deve tener conto dello sguardo, sia pur non troppo severo degli americani, che danno un miliardo e mezzo all’anno alle forze armate.<br />
Il 22 novembre Mohammed Morsi ha tuttavia compiuto quel che può essere considerato un colpo di Stato. Ha proibito qualsiasi tipo di ricorso contro le sue decisioni e contro la Costituente, assumendosi così tutti i poteri. Compreso quello di scrivere una Costituzione su misura. Si è messo al di sopra delle leggi e ha eliminato via via tutti gli ostacoli alla conquista del potere da parte dei Fratelli musulmani. L’operazione ha colpito anche numerosi uomini del vecchio regime, in particolare nell’amministrazione della giustizia, spingendo verso l’opposizione funzionari epurati perché un tempo al servizio del deposto raìs. Questo non favorisce l’immagine del movimento laico e liberale.<br />
<br />
Bernardo Valli<br />
<br />
<br />
<b><span style="font-size: large;">Al Aswani: Ci hanno mentito non è il governo del popolo</span></b><br />
«SARÀ un lungo braccio di ferro. Ma sarà decisivo. I Fratelli musulmani hanno chiesto il supporto della gente, promettendo riformee giustizia, però hanno fallito. Gli egiziani vedono bene che sono stati imbrogliati: e non ci stanno. Se votassimo ora i Fratelli perderebbero. Invece li stiamo affrontando in strada, non nelle urne: ma è lo stesso, vogliamo toglierceli di torno una volta per tutte». In queste ore Ala al Aswani, il più importante scrittore egiziano, è in Germania: nella sua stanza di hotel, in sottofondo, si sente la televisione che trasmette gli eventi del Cairo. Signor al Aswani, cosa è quello a cui stiamo assistendo? «La seconda onda della rivoluzione. Nessun dubbio a proposito. Abbiamo eletto un presidente che non risponde alla gente, ma alla struttura piramidale dell' organizzazione politica a cui appartiene. È stato Shater (il leader dei Fratelli musulmani, ndr) ad ordinare di sparare sulla folla e Morsi ha avallato. Il presidente pensa di poter governare il paese così: la gente gli sta dicendo di no. È uno sviluppo utile: anche se sanguinoso. Gli egiziani hanno capito che i Fratelli musulmani hanno cattive intenzioni». Lei parla come se Morsi non si fosse dimesso dalla Fratellanza subito dopo essere stato eletto: invece lo ha fatto. «La mia risposta è solo una: ah ah ah». Vuole spiegare meglio? «Ho incontrato Morsi qualche tempo fae gli ho detto chiaramente che così non poteva andare, che un presidente non poteva rispondere a un gruppo di cui non si sa nulla a livello di finanziamenti o di decisioni interne. Mi ha risposto "ha ragione, concordo con lei". Poi mi ha sorriso edè andato via. Come se nulla fosse». Però anche l' opposizione ha molte responsabilità: una fra tutte, quella di non essere riuscita a presentarsi unita alle elezioni presidenziali. «È stato un enorme errore. Se lo avessimo fatto, avremmo vinto noi. Ma dagli errori si impara. Oggi in piazza a dire "no" a Morsi c' è tutto l' Egitto che non è schierato con i Fratelli musulmani. Siamo uniti di fronte al pericolo: e lo resteremo. Morsi sarà obbligato a fare un passo indietro. Ed è meglio che lo faccia presto. Dovrebbe aver imparato la lezione della rivoluzione: se Mubarak si fosse fermato in tempo, se avesse ascoltato la folla dall' inizio, forse sarebbe ancora al potere. Ha aspettato troppo e la gente ha alzato le sue richieste: è finita come avete visto». Lei oggi è in Germania: nello scenario che delinea, che ruolo hanno i paesi occidentali? «I governi occidentali si stanno comportando in modo riprovevole: hanno dato mano libera a Morsi. Cercano un nuovo Mubarak, qualcuno che esegua i loro ordini: lo hanno trovato in Morsi. In cambio gli hanno dato mano libera sul piano interno».<br />
<br />
Francesca Caferri<br />
<br />
<b><span style="font-size: large;">Perché i film sull’Islam sacrificano la verità</span></b><br />
<br />
UN TEMPO andavamo al cinema per sognare, per invitare Ava Gardner o Sofia Loren a entrare a far parte delle nostre fantasie. Ci piacevano quelle storie d’amore che finivano male, eravamo felici di aver potuto vivere per un’ora o due tra le braccia immaginarie delle donne più belle del mondo. Questo accadeva prima che la politica s’impadronisse della settima arte per fare propaganda a colpi di effetti speciali, con inseguimenti di macchine sui tetti di Istanbul o esplosioni nei mercati popolari di Kabul o Islamabad.<br />
Abbandonati i sogni meravigliosi e il «glamour», si punta sul tema del «pianeta in pericolo». E questo pericolo oggi è l’Islam. Evidentemente, quello sfigurato da Al Qaeda, o esibito da terroristi e trafficanti di droga per giustificare la loro barbarie, come sta avvenendo anche in questo momento nel Nord del Mali. Nella celebre serie «Homeland » si assiste alla visita di un agente della Cia a Beirut. Una caricatura. Fin dall’aeroporto, nient’altro che donne velate di nero, come in un feudo dei Taliban. Si dà il caso che io sia nato a Beirut alla fine di ottobre, poco dopo l’assassinio di Wissam al Hassan. E ho avuto modo di constatare la modernità, il dinamismo di questa città che non ha perduto nulla della sua energia e delle sue speranze, dove le donne sono vestite come le europee; e se alcune portano il velo, non hanno nulla a che vedere con l’immagine diffusa dal serial americano.<br />
Bene ha fatto il ministro del Turismo a denunciare il modo in cui «Homeland» descrive la capitale libanese. Ha certamente ragione, anche perché questo serial, celebrato e premiato con vari Oscar, è distribuito in tutto il mondo e sta appassionando centinaia di milioni di telespettatori. Ma una denuncia contro una produzione di così grande portata e potenza non basta certo a ricostituire un’immagine veritiera del mondo arabo.<br />
Nell’immaginario americano, oggi l’Islam e il mondo arabo hanno preso il posto del comunismo. In passato si combatteva con ogni mezzo contro il pericolo comunista (tanto che tuttora il popolo cubano soffre nella propria carne per l’embargo economico imposto dall’America, che neppure un presidente come Obama ha osato ammorbidire, e men che meno abolire). Ai bambini si diceva che il diavolo veniva dai Paesi comunisti. Ma poiché ormai l’Unione Sovietica si è dissolta, il muro di Berlino è caduto e il comunismo è relegato in Cina e nella Corea del Nord, ci si è rivolti a un nuovo diavolo:<br />
l’arabo, il musulmano.<br />
Evidentemente, non mancano gli arabi e i musulmani che si impegnano notte e giorno per accreditare nel mondo intero quest’immagine odiosa e devastante, propagando un terrorismo atroce, le cui principali vittime sono gli stessi musulmani. Certo, dall’11 settembre 2001 è stato fatto di tutto per dirigere la lotta contro il mondo islamico e arabo. Al Qaeda è il migliore alleato di quell’America che ha reso tutti gli arabi sospetti, e vede in ogni musulmano un potenziale terrorista.<br />
Chi, come me, viaggia parecchio nel mondo ha avuto occasione di constatare fino a che punto un nome arabo su un passaporto (il mio è francese) susciti diffidenza e sospetti. Nel 2003 mi è capitato di essere trattenuto per varie ore in un box dell’aeroporto di Newark, senza aver fatto nulla di strano o di illegale, e senza che nessuno mi abbia dato spiegazioni. Il mio crimine era quello di essere arabo. Casi del genere si verificano tutti i giorni, ai danni di centinaia di migliaia di viaggiatori.<br />
Abbiamo una cattiva reputazione. Siamo percepiti come lo erano i comunisti ai tempi della guerra fredda.<br />
In un recente film americano di grande successo, «Argo», con Ben Affleck che ne è anche il regista, si racconta come nel 1979 la Cia riuscì a far uscire dall’Iran sei funzionari dell’ambasciata americana che si erano rifugiati presso quella canadese: una vicenda realmente accaduta.<br />
L’Iran vi è rappresentato nel modo più orrendo possibile. Può darsi che all’epoca i guardiani della rivoluzione fossero veramente individui fanatici e brutali. Ma ciò che questo film suggerisce allo spettatore in maniera molto efficace è l’immagine di un Islam selvaggio, sanguinario e violento. Mi ha ricordato un altro film: «Midnight Express», che tanto male aveva fatto a suo tempo alla Turchia.<br />
Non provo alcuna simpatia per il regime iraniano e la sua rivoluzione. Ma il mio pensiero va a quella popolazione, già costretta a subire il regime degli ayatollah. Perché penalizzarla ancora rappresentandola in un modo che non corrisponde affatto alla realtà? Viviamo in un sistema privo di sfumature, che rifiuta la complessità: bianco o nero, vero o falso, buono o cattivo, il bene o il male.<br />
Ogni cosa è vista attraverso un prisma che sacrifica la verità. Ma non lamentiamoci, non accusiamo gli americani se non ci rispettano. Sta a noi, agli arabi coscienti di questa situazione lottare all’interno delle nostre società, contro gli impostori, i falsificatori, i bugiardi, gli inquinatori che corrompono la nostra immagine e la nostra storia, sacrificando il futuro dei nostri figli. Fintanto che i nostri Paesi non saranno divenuti Stati di diritto, con istituzioni realmente democratiche e con una cultura della libertà, saremo sempre soggetti ai perturbatori che ci confinano nell’arretratezza, nel pauperismo, nel sottosviluppo intellettuale. C’è tanto da fare nei nostri Paesi per ristabilire un’immagine veritiera e rispettata della nostra identità, della nostra religione e del nostro essere. Ma finché continuerà l’ingerenza della religione nella politica, finché regnerà la confusione tra la ragione e la fede, offriremo agli americani, e agli occidentali in genere, le migliori occasioni possibili per rappresentarci come caricature, o come marionette.<br />
<br />
Ben Jelloun<br />
<br />
<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-23366975801057905832012-12-10T15:57:00.000+01:002012-12-10T15:57:31.594+01:00EGITTO, LE SOMMOSSE CONTRO IL PRESIDENTE DEMOCRATICAMENTE ELETTOA partire dal 24 Novembre, i giornali italiani hanno dato ampia pubblicità a non si sa quanto inventate rivoluzioni democratiche contro il presidente Morsi e contro la maggioranza eletta dei Fratelli Musulmani. Tali rivolte sarebbero state determinate dai tentativi dittatoriali del presidente che avrebbe modificato al di fuori delle procedure costituzionali l'assetto del neo regime egiziano.<br />Particolarmente virulenta è stata la campagna organizzata da alcuni giornali italiani all'indomani del ruolo decisivo che Morsi, per riconoscimento degli stessi Stati Uniti d'America, ha svolto per spegnere l'incendio di una nuova exalation sionista contro la popolazione di Gaza.<br />
Forniamo qui un'informativa esaustiva sui testi di tali articoli:<br /><br />I - <b><span style="font-size: large;">Assalto al palazzo presidenziale Egitto, Morsi costretto alla fuga</span></b><br />
<br />
DIVERSI dimostranti erano riusciti a sfondare un doppio cordone di poliziotti e stavano scalando i muri di protezione del palazzo presidenziale di Heliopolis, quando sono stati fermati dai loro compagni di fede politica. Il capo dello stato Mohamed Morsi è stato costretto a dileguarsi e a rifugiarsi nella sua elegante casa di New Cairo, nella periferia orientale della megalopoli. «Il presidente se n'è andato», ha comunicato un suo portavoce. Gli agenti delle Forze centrali di sicurezza, che avevano a lungo tentato di non essere sopraffatti con la consueta pioggia di lacrimogeni, sono stati rischierati allo Sporting club del quartiere. Diversi poliziotti si erano uniti ai manifestanti e avevano gridato i loro slogan. Diciotto dimostranti sono stati ricoverati in ospedale con sintomi di intossicazione. Nel Palazzo sono rimasti solo i membri della Guardia Repubblicana.<br />
<br />
LA CAPITALE egiziana è stata sconvolta da una nuova giornata di protesta di massa contro il decreto che ha attribuito enormi poteri a Morsi e contro la nuova bozza di costituzione approvata in 19 ore il 30 novembre. La manifestazione di ieri era stata ribattezzata «Ultimo avvertimento». Due grandi cortei partiti dai rioni Korba e Abbasseya e da due moschee, decine di migliaia di persone, si sono radunati in piazza Tahrir e poi davanti al palazzo della Presidenza in viale el-Mirghani. Uno striscione accusava la Guida dei Fratelli Musulmani Mohamed el-Badie di aver «svenduto la rivoluzione». Dodici giornali e cinque canali televisivi hanno proclamato per ieri uno sciopero contro «il nuovo faraone» e la bozza di Costituzione che sarà sottoposta a un referendum il 15 dicembre.<br />
<br />
NELLE STRADE sono scesi, in maglia nera e armati di fischietti, il Movimento giovanile 6 aprile, i socialdemocratici, il partito della Costituzione di Mohammed el-Baradei, ex direttore del'agenzia dell'Onu contro la proliferazione atomica, e il Movimento della Corrente Popolare dell'ex candidato nasseriano alla presidenza Hamdeen Sabbahi. Il nuovo procuratore generale Talaat Abdullah, appena nominato da Morsi, ha accusato i due capi dell'opposizione e l'ex segretario della Lega Araba Amr Moussa di essere «Spie al soldo di Israele» e di «voler rovesciare le istituzioni dello stato, in particolare l'Assemblea Costituente». L'imputazione è alla base di una formale denuncia alla Suprema corte per la sicurezza nella quale Abdullah, a sostegno della sua ipotesi, cita un recente faccia a faccia fra Moussa e l'ex ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni. Ieri il capo della diplomazia egiziana ha convocato l'ambasciatore israeliano al Cairo e gli ha contestato la decisione di costruire 4700 nuovi alloggi a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupata.<br />
<br />
DUE GIORNALISTE del secondo canale della tv di stato, Bossaina Kamel e Hala Fahmy, sono state sospese dal servizio e messe sotto inchiesta per aver «ridicolizzato» il presidente Morsi e i Fratelli Musulmani nelle trasmissioni «Notizie di 24 ore» e «La coscienza». Heba Morayef, ricercatrice di Human Rights Watch, annota che il governo, sulla base della bozza di Costituzione approvata il 30 novembre, avrebbe il diritto di autorizzare o meno i canali tv e i siti internet, di proteggere «la vera natura della famiglia egiziana», e di limitare il diritto di cronaca sulla base di concetti vaghi come la «moralità» e «l'insulto».<br />
<br />
Lorenzo Bianchi<br /><br /><br />II - <b><span style="font-size: large;">Assedio al palazzo di Morsi “L’Egitto non è tuo, vattene”</span></b><br />
<br />
IL CAIRO — Per l’opposizione era il giorno della sfida, dopo che il Presidente Morsi nel suo «il discorso alla grande nazione egiziana », come l’avevano annunciato i suoi collaboratori, non aveva fatto nulla per venire incontro agli oppositori politici e riportare la calma nel paese. La sola offerta di colloquio («alle 12.30 di sabato» aveva precisato, ed era sembrata una presa in giro), senza la minima concessione nei fatti, era apparsa subito ai manifestanti che avevano ascoltato il discorso per strada dalle autoradio unicamente una manovra propagandistica. Così come aveva fatto pessimo effetto la sua abilità a simulare, a rovesciare le carte in<br />
tavola. Morsi nel discorso aveva addossato tutta la responsabilità delle violenze dell’altra notte all’opposizione — anche se testimonianze e video raccontano il contrario. Il presidente aveva anche accusato gli oppositori di far parte di un complotto al soldo di misteriose ma potenti «forze straniere » e degli amici del vecchio regime.<br />
«La faccia era quella di Morsi ma le parole erano identiche a quelle pronunciate da Mubarak», commenta Shahira Mehrez, una<br />
storica dell’arte egiziana che fin dai primi giorni delle manifestazioni contro Mubarak era a piazza Tahrir e oggi è in prima fila davanti al palazzo presidenziale. I partiti dell’opposizione hanno respinto l’offerta di dialogo: «Morsi ha chiuso la porta», ha detto Mohammed el Baradei, il premio Nobel che è il coordinatore del Fronte di Salvezza Nazionale in cui si sono riuniti i fino a poco fa molto diversi partiti dell’opposizione. «Non ci sono le basi per un dialogo se manca qualsiasi disponibilità al compromesso ».<br />
Baradei aveva lanciato l’altro ieri sera agli egiziani l’appello a scendere di nuovo in piazza. E per tutto il pomeriggio, subito dopo la fine della preghiera delle una, migliaia di persone, soprattutto giovani sono sfilate da diversi quartieri verso il palazzo presidenziale a Heliopolis. «Vattene», «Il nostro paese non è di tua proprietà », scandivano i manifestanti. Ormai gli slogan ritmati che animano le manifestazioni sono diretti personalmente contro Morsi più che contro il progetto di Costituzione (criticato anche dall’Organizzazione per i Diritti umani per la sua ambiguità). Morsi lo vorrebbe far approvare a tambur battente con un referendum popolare il 15 dicembre, prima ancora che il 16 la Corte costituzionale si pronunci sulla legalità dell’Assemblea costituente (dubbia, anche perché vi erano solo i partiti islamisti).<br />
Il discorso del presidente ha invece infiammato i suoi seguaci (che ormai la gente ormai chiama “Fratelli” senza aggettivo, perché, sostiene, «musulmani siamo tutti e il loro è un trucco per far credere che musulmani sono solo loro). Morsi li aveva confermati nel ruolo di vittime di forze laiche che vorrebbero delegittimare il risultato elettorale di cinque mesi fa e trasformare l’Egitto in un paese senza religione. In migliaia sono andati ieri mattina alla moschea di al Aqsa ad assistere alla sepoltura di due vittime degli scontri. «L’Egitto sarà islamico, né laico né liberale», gridavano.<br />
Una folla immensa è rimasta per tutta la sera davanti al palazzo presidenziale, protetto dai carri armati dell’esercito e della Guardia Repubblicana e da blocchi di cemento e rotoli di filo spinato. I soldati schierati immobili dietro il filo spinato non hanno battuto ciglio nemmeno quando qualcuno cominciava prima a spingere le bandiere di là dal filo spinato, e poi a srotolarlo per passare dall’altra parte, trattenuto però dalla gente che non voleva provocazioni. Dopo il calare della notte però molti manifestanti hanno deciso di scavalcare il filo spinato e si sono avvicinati al palazzo presidenziale. I soldati della Guardia Repubblica li hanno lasciati passare senza opporre resistenza. Dagli altoparlanti dei manifestanti intanto arrivava il messaggio del Fronte di Salvezza Nazionale che invitava la gente a non ritirarsi e organizzare un sit-in intorno al palazzo presidenziale fino alle dimissioni del presidente.<br />
Alle nove di sera la prima vittoria. La commissione elettorale ha annunciato che per i cittadini che vivono all’estero il voto sul referendum costituzionale, che avrebbe dovuto iniziare domani, è stato posticipato a mercoledì 12 dicembre. Potrebbe essere il segno di una prima apertura. L’opposizione vede il referendum come il momento cruciale su come sarà il futuro del paese. «Il presidente potrebbe considerare il rinvio del referendum — ha detto il vicepresidente Mahmud Mekki — se l’opposizione assicurerà di non usare questo atto per annullare la consultazione». Alla tv Baradei ha rivolto un appello a Morsi: «Chiedo al presidente di cancellare questa sera il referendum in modo da avere una intesa nazionale e scrivere una nuova Costituzione».<br />
Dimostranti e militari intorno al palazzo presidenziale fanno di tutto per mantenere la situazione calma. Ma in una moschea vicina dopo le voci di rinvio del referendum si sono riuniti gli islamisti. E i dimostranti si sono subito organizzati per proteggersi.<br />
<br />
Vanna Vannuccini<br />
<br />
<br />
III - <span style="font-size: large;"><b>Egitto, i tank a difesa di Morsi assalto ai Fratelli musulmani il presidente in tv: Dialogo</b></span><br />
IL CAIRO - I segni dell' orgia di violenza che per undici ore ha opposto migliaia di Fratelli musulmani e di salafiti, sostenitori del presidente Morsi, contro un numero meno imponente ma non meno determinato di oppositori, sono ancora visibili nel quartiere di Heliopolis, dov' è il palazzo presidenziale circondato dai tank dell' esercito. Vetrate a pezzi, stazioni di benzina saccheggiate, macchine bruciate, cassonetti di spazzatura usati come barricate. Nell' aria resta l' odore della plastica bruciata e sui portoni grandi macchie di sangue. Sette morti e più di settecento feriti è il bilancio degli scontri, i più sanguinosi da quando il popolo egiziano scese in piazza contro Mubarak nel gennaio del 2011. In giornata i seguaci dei Fratelli musulmani si sono poi ritirati, obbedendo a un ordine dall' altro e l' esercito insieme alla Guardia repubblicana hanno blindato il quartiere. Per tutta la giornata era atteso un discorso del presidente, più volte annunciato dai media e poi smentito. E finalmente alle dieci di sera Morsi si è presentato davanti alle telecamere per dirsi pronto a un dialogo con l' opposizione convocato per sabato. Dopo questo confronto con l' opposizione, ha detto, le parti più controverse della sua recente "dichiarazione costituzionale" (con la quale si è attribuito praticamente pieni poteri) potrebbero venir modificate. La dichiarazione sarà comunque nulla dopo il referendum sul progetto di costituzione fissato per il 15 dicembre, ha detto. «Il diritto alla protesta pacifica va riconosciuto ma in molti casi la violenza era stata programmata da gente pagata per fomentarla». Morsi ha espresso cordoglio per le vittime e ha annunciato che 80 persone «implicate in atti di violenza» sono state arrestate. Gli oppositori che anche ieri sera, sia pure in numero inferiore alla notte precedente, si erano riuniti nella piazza Tahrir, simbolo della rivoluzione, e nelle vicinanze del palazzo presidenziale hanno ascoltato il discorso del presidente ma non ne sono rimasti impressionati. Hanno continuato a scandirei loro slogan: «Morsi se ne deve andare», «Libertà libertà» «Abbasso i Fratelli musulmani". Dopo le violenze della notte scorsa le posizioni si sono irrigidite, il tetto delle rivendicazioni si è alzato. I manifestanti chiedono che Morsi revochi tutti i decreti e convochi una nuova Assemblea costituente che rifletta la pluralità della società egiziana. «Eravamo pronti a intavolare un dialogo, ma dopo la violenza che abbiamo sperimentato ieri notte non ci fidiamo più» dice una giovane donnaa Piazza Tahrir. Nel ricordo della rivoluzione che ha portato alla caduta di Mubarak tutto sembra possibile. Entrambi i campi si accusano a vicenda di aver provocato la brutale escalation di violenza di ieri notte. La manifestazione degli oppositori riuniti nel Fronte di salvezza nazionale era infatti cominciata pacificamente, sugli striscioni era scritto: «Non più dittatura». Chiedevano al presidente di revocare la dichiarazione costituzionale con cui si attribuisce praticamente un potere assoluto e il progetto di Costituzione redatto in fretta e furia unicamente dagli islamisti e per gli islamisti, di rinviare il referendum fissato per il 15 dicembre e di avviare un dialogo con l' opposizione. Richieste sostenute anche dal gran imam Ahmed el Tayyeb, capo del prestigioso centro teologico sunnita del Cairo Al Azhar che oggi ha chiesto più esplicitamente al Presidente di «sospendere il decreto e cessare di usarlo». Ma la violenza di ieri notte ha spaventato. Un giornalista è stato colpito da una pallottola esplosa a un metro di distanza, ha riferito un suo collega, perché i Fratelli musulmani volevano impedirgli di riprendere alcuni episodi di violenza. Per tutta la notte i Fratelli musulmani hanno tenuto in ostaggio 60 manifestanti - «i nostri prigionieri» - e impedito ai giornalisti di avvicinarsi. Dopo l' orgia di violenza hanno celebrato "la vittoria" e minacciato la jihad. «Difendere Morsi è difendere l' Islam», scandivano. Un noto predicatore televisivo, Abdullah Badr, ha accusato i cristiani di guidare la protesta: «Se tolgono un capello a Morsi caveremo loro gli occhi». E per tutta risposta circa 200 dimostranti hanno dato alle fiamme il quartier generale dei Fratelli musulmani. Il paese è elettrizzato. I laici si organizzano, gli islamisti si mobilitano, tutti sono su posizioni intransigenti. Di fronte allo spettro di una guerra civile che vanificherebbe i risultati della rivoluzione, ieri sera si sono moltiplicati gli appelli alla calma. L' ex capo della Lega araba Amr Moussa, uno dei leader del Fronte di Salvezza nazionale, ha detto di aver preso contatto con i Fratelli musulmani e con il partito dei salafiti Al Nour per «porre fine allo spargimento di sangue». «La legittimità del presidente dipenderà molto dal suo grado di saggezza» ha aggiunto, con riferimento all' annunciato discorso di Morsi. Esam el-Eryane, un notabile della Fratellanza musulmana, è partito ieri alla volta degli Emirati e di Washington. Anche Teodoro II, il nuovo papa dei cristiani copti, ha dichiarato su Twitter: «Abbiamo bisogno di saggezza nel cammino delle nostre vite». Il capo dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie, ha lanciato un appello all' unità del popolo egiziano. E ieri sera è poi arrivato il discorso del presidente. Ma una soluzione della crisi sembra ancora lontana.<br />
<br />
Vanna Vannuccini<br />
<br />
<br />
IV - <b><span style="font-size: large;">Il Cairo, la retromarcia di Morsi</span></b><br />
<br />
IL CAIRO - Il presidente egiziano Mohamed Morsi, secondo Al Arabiya ha annullato il decreto con il quale si era aumentato i poteri. Intanto, dopo esser rimasti fuori della mischia nella crisi di questi giorni, i militari rientrano nella politica egiziana con l´autorità di cui hanno goduto per sessant´anni. «Solo il dialogo può impedire la catastrofe. Altrimenti l´Egitto entrerà in un tunnel buio. Non lo permetteremo». Le tv hanno interrotto i programmi per mandare in onda la dichiarazione con cui l´esercito afferma che «la legittimità e le regole della democrazia non devono essere contraddette» e che «non sarà tollerato l´uso della violenza». Secondo il giornale al Ahram Morsi si prepara a varare una specie di legge marziale che autorizzerà i militari ad arrestare e processare i civili - potere nelle società democratiche riservato alla polizia.<br />
Una doccia fredda per i giovani che venerdì hanno manifestato in massa sotto il palazzo presidenziale per chiedere al presidente di andarsene - una richiesta che andava oltre quella ufficiale dell´opposizione che vuole il ritiro dei decreti con cui Morsi si è attribuito poteri straordinari e la revisione del testo costituzionale varato in fretta e furia dagli islamisti prima del referendum fissato per il 15 dicembre. Sabato la massa che aveva partecipato alle manifestazioni davanti al palazzo presidenziale non c´era più, ma alcune centinaia di oppositori proseguono il sit-in davanti a due blindati parcheggiati davanti al palazzo su cui qualcuno ha issato uno striscione con la scritta: «Morsi via».<br />
La dichiarazione dei militari ha subito fatto temere agli egiziani che l´esercito stia per riprendersi il potere come aveva fatto l´anno scorso dopo la caduta di Mubarak, ma fonti militari hanno minimizzato, le forze armate non pensano a un intervento diretto, hanno fatto sapere. La dichiarazione tuttavia lascia capire che l´esercito è pronto a intervenire perché il referendum si tenga il 15 dicembre come vogliono i Fratelli musulmani. Secondo il giornale al Ahram la legge marziale "light" durerà fino al referendum e all´elezione di un nuovo parlamento due mesi dopo, ma a discrezione del presidente potrebbe venir estesa anche oltre. La storia si vendica. Per decenni i presidenti egiziani - tutti provenienti dalle forze armate - avevano usato la legge marziale come pretesto contro l´insorgere dell´islamismo, ora sono i Fratelli musulmani a farvi ricorso. In agosto Morsi aveva concluso un´alleanza con i generali meno compromessi con il regime di Mubarak assicurando che nella nuova costituzione sarebbero stati garantiti i privilegi di cui la società militare ha goduto per più di sessant´anni.<br />
Venerdì il vicepresidente Mekki aveva detto che il presidente era pronto, a certe condizioni, a rinviare il referendum per avviare il dialogo con l´opposizione. E il premier Kandil aveva aggiunto che Morsi era «disponibile a modificare il decreto con cui si è attribuito poteri illimitati». Ma ieri i Fratelli musulmani e diversi gruppi salafisti hanno pronunciato il loro categorico no. «Non ci devono essere né rinvii né cambiamenti» hanno affermato in un comunicato. La parola d´ordine è che il referendum va fatto subito «per difendere la legittimità di un presidente eletto dal popolo». «L´opposizione non rispetta la democrazia» mi spiega uno degli islamisti che presidiano la moschea Rabaa el Adaweya, da dove venerdì sera erano pronti ad attaccare i manifestanti (ma erano stati fermati all´ultimo momento da un ordine dall´alto). «Fanno parte di un complotto internazionale che vuole impedire l´arrivo al potere degli islamici e riportare le cose come prima della rivoluzione. Al testo costituzionale non si deve cambiare una virgola. Non vogliamo che le donne prendano a modello l´occidente, la donna deve essere rispettata come madre e moglie come appunto afferma il testo costituzionale che gli egiziani voteranno tra una settimana».<br />
<br />
<br />
Chi legga con un minimo di attenzione e di obbiettività gli articoli che abbiamo pubblicato (sono solo una parte di quanti hanno riversato il loro livore contro chi ha vinto le prime libere elezioni egiziane) può facilmente rendersi conto che gli autori degli attacchi eversivi contro le istituzioni liberamente elette in Egitto sono in realtà quei "signori" di appartenenza politico-ideologica eterogenea, accomunati soltanto dall'odio contro chi ha liberato l'Egitto da partiti più o meno vicini al regime corrotto dell'ex faraone Mubarak. A dimostrazione di tale ipotesi c'è il fatto che ad essere assalite con violenza dai presunti rivoltosi "democratici" sono state le sedi dei Fratelli Musulmani, che hanno contato nelle loro file decine di morti e feriti, mentre gli amanti della libertà e della democrazia hanno avuto solo qualche lieve ferito dovuto a poche bombe lacrimogene. Significativa la foto pubblicata da La Repubblica che ritrae un "eroe democratico lievemente ferito e portato in giro da altri "democratici" come lui come se fosse un Cristo in Croce. In realtà l'eroe ha solo qualche lieve scalfitura e se non si dovesse inscenare un macabro spettacolo egli potrebbe camminare tranquillamente con le proprie gambe. Ma come si giustificherebbe allora il truculento titolo "Ancora sangue in Egitto". Che dire allora delle centinaia di feriti che hanno insanguinato le città della Grecia, dell'Italia e della Spagna, vittime di una feroce repressione poliziesca, purtroppo destinata ad intensificarsi.<br />
I giornalisti e giornali servi dei tiranni e dei loro amici hanno questo in comune: non sanno neanche costruire seri fotomontaggi.<br />
Gli amici delle ex dittature che hanno oppresso il mondo arabo per decenni, sostenute dai vari governi americani ed europei "se la debbono incartare". La bandiera della libertà sventola oggi in Egitto, Tunisia, Turchia e presto anche sulle mura di Damasco. E contro i delitti del macellaio Assad le grida delle oche starnazzanti contro il regime di Morsi non impiegano molte parole traboccanti di sdegno.<br />
<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-22693673366470636212012-12-02T10:22:00.000+01:002012-12-02T10:22:11.305+01:00PALESTINA LIBERA <span style="font-size: large;"><b>Il voto simbolico per la Palestina che divide l'Europa</b></span><br />
<br />
C'è molto di surreale e di tragico nel rito che l'Assemblea generale dell'Onu si appresta a compiere nelle prossime ore. È scontato che una cospicua maggioranza del vasto campionario mondiale raccolto nel Palazzo di Vetro si pronunci in favore della promozione della Palestina da semplice organismo osservatore a Stato osservatore; ed è altrettanto scontato che la Palestina continui poi a essere l'entità territoriale militarmente occupata, qual è dal 1967; e che lo Stato tanto auspicato, promesso e temuto resti un miraggio.<br />
<br />
In concreto, con i due tempi che scandiranno il rito dell'Onu, la Palestina passerà dallo strapuntino di semplice osservatore a un sedile riservato agli Stati che non lo sono sul serio. Il Vaticano, animato da altre ambizioni, se ne accontenta. Per la Palestina è una promozione piuttosto simbolica, anche se il voto dell'Assemblea generale ha in realtà un peso tutt'altro che insignificante, sul piano politico e morale. A dargli valore sono anche le promesse mancate. Quante volte è stato auspicato, annunciato uno Stato palestinese?<br />
<br />
In questo senso il voto è una prima, timida riparazione. Denuncia l'incapacità di ieri e di oggi di chi conta nel mondo. Basta osservare come ci si è dati da fare nelle ultime ore per impedirlo. Ed è evidente l'angoscia dei paesi europei, il cui voto farà la differenza nella qualità del risultato. La loro scelta riguarda la giustizia, non solo la politica.<br />
<br />
Surreale è senz'altro la procedura e tragico il risultato se li si mette a confronto con le aspirazioni degli abitanti di quella Terra troppo santa e troppo contesa. Nell'autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, aveva chiesto che il suo paese, fino allora presente all'Onu con l'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nella veste di semplice osservatore, diventasse uno Stato membro a pieno titolo. Ma quel tentativo è fallito perché, dopo il voto dell'Assemblea generale spettava al Consiglio di Sicurezza decretare l'ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gli Stati Uniti avrebbero posto il veto.<br />
<br />
Washington riteneva e ritiene infatti che si debba arrivare al riconoscimento di uno Stato palestinese attraverso negoziati con Israele e non con "un colpo di mano" alle Nazioni Unite. L'esigenza della Casa Bianca coincide con quella israeliana, e blocca la situazione, perché la società politica di Gerusalemme vive una stagione di grande intransigenza. La quale assomiglia a un rifiuto a vere trattative. Alla vigilia delle elezioni politiche, previste per gennaio, nel Likud, principale partito al governo, ha prevalso alle primarie la corrente meno incline a un autentico dialogo con i palestinesi.<br />
<br />
Un anno dopo, Abu Mazen comunque ci riprova, ma con una richiesta meno impegnativa. All'Assemblea generale, dove il veto americano non conta, chiede appunto, oggi, che la Palestina sia promossa da entità osservatrice a Stato osservatore (e non a Stato membro, come richiesto nel 2011). Votare l'ammissione di un paese a quel titolo non significa riconoscere diplomaticamente lo Stato, e quindi dichiarare ambasciata la rappresentanza che i palestinesi hanno già in tante capitali.<br />
<br />
All'interno delle Nazioni unite il nuovo status aprirebbe tuttavia a loro alcune porte. Ad esempio quella dell'Organizzazione mondiale della sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penale internazionale comporta più problemi, perché in quella sede i palestinesi potrebbero denunciare gli israeliani e quindi promuovere processi scomodi per lo Stato ebraico. C'è stato un fitto andirivieni tra Washington, Gerusalemme e Ramallah, dove risiede Abu Mazen, per convincere quest'ultimo a impegnarsi su alcuni punti: in particolare a non ricorrere alla Corte Penale internazionale, quando ne avrà acquisito il diritto.<br />
<br />
In proposito americani e israeliani avrebbero ottenuto una vaga promessa: i palestinesi hanno detto che non usufruiranno di quella possibilità durante i primi sei mesi. Poi si vedrà. Saeb Erekat, principale negoziatore palestinese, ha respinto un invito a Washington per evitare le pressioni americane. Quando nell'ottobre 2011 la Palestina fu ammessa all'Unesco come Stato membro, gli Stati Uniti sospesero i finanziamenti all'agenzia incaricata della cultura e dell'educazione. Finanziamenti pari a più del venti per cento del suo bilancio. Quali rappresaglie saranno adottate in questa occasione?<br />
<br />
Gli israeliani ne hanno agitate parecchie: abrogazione degli accordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra Israele e l'Autorità palestinese; aumento degli insediamenti in Cisgiordania che contano già più di seicentomila coloni; confisca dei diritti di dogana; proibizione ai dirigenti palestinesi di uscire dalla Cisgiordania: ma di fronte alla tenacia di Abu Mazen il governo di Gerusalemme ha abbassato i toni. E non si parla più di sanzioni. Dice Yigal Palmor, portavoce del ministero degli esteri, che nulla accadrà se i palestinesi si accontenteranno di fare festa a Ramallah per celebrare la loro vittoria simbolica, e poi ritorneranno sul serio al tavolo dei negoziati. Ma Abu Mazen sa che non può andare a trattative alle condizioni poste dagli israeliani.<br />
<br />
Il suo non è soltanto un confronto con Gerusalemme. La battaglia di Gaza, dove gli avversari palestinesi di Hamas celebrano la vittoria che si sono aggiudicati, ha ridotto il suo già scarso prestigio. Gli esaltati combattenti di Hamas considerano la moderazione Abu Mazen come una forma di collaborazionismo. L'iniziativa all'Onu è la sua battaglia incruenta. È l'offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l'uso delle armi. Questo è un motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tende la mano a chi lo rifiuta.<br />
<br />
Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore. Il voto di New York interessa Gaza, dove si è imparato che le armi servono a sfogare la collera, a combattere i soprusi, ma non a risolvere i problemi. Alla vigilia dell'appuntamento di New York, Khaled Meshaal, uno dei leader (Mohammed Morsi, il presidente egiziano, l'ha voluto al suo fianco durante la crisi di Gaza) ha dato un pubblico appoggio a Abu Mazen. Lo ha fatto in aperta polemica con Ismail Haniye, il primo ministro. Entrata in società dopo un lungo isolamento, grazie agli alleati e ispiratori egiziani, i Fratelli musulmani al potere al Cairo, e lusingata dai gesti d'amicizia della Turchia di Erdogan, la gente di Gaza seguirà il voto all'Assemblea generale come se fosse una battaglia. L'esito potrebbe contribuire col tempo a demolire le mura del loro ghetto.<br />
<br />
Sugli europei incombe nelle prossime ore una grossa responsabilità. Come al solito non sono riusciti a prendere una decisione comune. E quindi vanno dispersi al voto. Ma devono sapere che il loro parere contrario o anche una astensione, con l'inevitabile sapore di viltà, significherebbe una sconfitta per Abu Mazen, e in generale per i palestinesi che come lui rifiutano la violenza e ricorrono alla politica. Decine di ministri arabi visitano Gaza, dove si festeggia un'azione militare che ha appena fatto decine di morti, e migliaia nel passato. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armato della sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma anche obiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia.<br />
<br />
Bernardo Valli<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>L'amarezza di Israele: L'Italia ci ha deluso</b></span><br />
<br />
ROMA - «Non ce l'aspettavamo. L'Italia, uno dei migliori amici di Israele, ci ha molto deluso: da voi proprio non ce l'aspettavamo». Naor Gilon, l'iperattivo ambasciatore di Israele a Roma, parla chiaro. Perché lui stesso, i suoi colleghi a Gerusalemme, il governo di Bibi Netanyahu fino all'ultimo hanno creduto che l'Italia non si sarebbe schierata per il "sì" alla Palestina all'Onu. «È uno sbaglio, ci avete detto che lo fate per dare un sostegno politico, per aiutare Abu Mazen: ma questo indebolisce le relazioni tra israeliani e palestinesi fondate sugli Accordi di Oslo».<br />
Ieri è stata una giornata difficile per la piccola ambasciata di via Mercati: rassicurati dai contatti del ministro degli Esteri Giulio Terzi, che da molti però è considerato troppo filo-israeliano per essere un referente credibile per Monti, gli inviati di Israele in Italia si preparavano a fronteggiare al massimo l'astensione dell'Italia.<br />
Nelle decisioni di Monti sicuramente hanno pesato anche le pressioni dei partiti che sostengono il suo governo. Innanzitutto il Pd: Pierluigi Bersani l'aveva chiesta apertamente durante il dibattito in tv con Matteo Renzi. Il segretario dei Democratici aveva chiesto a Lapo Pistelli, responsabile esteri del partito, di seguire il lavoro di Palazzo Chigi. E adesso applaude, anzi rivendica un ruolo: «Credo di avere avuto qualche voce in capitolo in questa scelta:è ora di dire basta alla violenza, ora si incoraggino le forze moderate da entrambe le parti».<br />
Dalla comunità ebraica e da molti settori di quello che era il Pdl arrivano e proteste, anche dure. Andrea Ronchi, dice che «fino a ieri l'Italia aveva deciso di astenersi sul voto all'Onu.<br />
Che cosa è cambiato? È la prima conseguenza del confronto Bersani-Renzi? La posizione italiana è inaccettabile». Come lui, che aveva partecipato ad organizzare la visita di Gianfranco Fini a Gerusalemme, molti del centrodestra. Fabrizio Cicchitto e Margherita Boniver dicono che «la scelta del governo italiano all'Onu è un errore, dall'Autorità palestinese non è venuta mai una reale volontà di pace».<br />
Franco Frattini, ex ministro degli Esteri e grande amico di Israele, già ragiona su come gestire la scelta del governo Monti: «Non bisogna dare ai palestinesi la sensazione sbagliata che questa risoluzione faccia nascere il loro Stato. E non dobbiamo gestire questa risoluzione come un colpo contro Israele». Chi crede che sia un colpo contro Israele e gli ebrei è invece Riccardo Pacifici, presidente della Comunità di Roma: «Una svolta improvvisa, visto che fino a ieri sera, prima del dibattito in tv tra Bersani e Renzi, l'Italia era nella prudente linea dell'astensione. Siamo dispiaciuti e amareggiati».<br />
<br />
Bernardo Valli<br />
<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Palestina all’Onu, la risposta di Israele:</b></span><br />
<span style="font-size: large;"><b>tremila nuove case per i coloni</b></span><br />
<br />
Gli Usa a Tel Aviv: così si ostacolano<br />
i negoziati. L’alt delle Nazioni Unite<br />
Dopo il si dell’Assemblea generale dell’Onu alla Palestina «Stato non-membro» del Palazzo di vetro, è il giorno della rappresaglia israeliana, preparata da tempo e mirata al cuore di uno Stato esistente solo sulla carta e negli organismi delle Nazioni Unite: il territorio. In particolare, quello tra Gerusalemme est e la Cisgiordania, dove saranno costruite 3.000 nuove abitazioni di coloni. La decisione è stata rivelata da un tweet di Barak Ravid, corrispondente diplomatico di Haaretz: «Le nuove case», scrive, «sorgeranno in aree già oggetto di un forte contenzioso con i palestinesi, come El, tra Maaleh Adumim e Gerusalemme, con una edificazione che separera’ la Cisgiordania del sud da quella del nord. Tutto ciò, nonostante Netanyahu abbia assicurato in passato a Barack Obama che il progetto di El sarebbe stato congelato» in base a quanto stabilito dalla roadmap siglata nel 2003.<br />
<br />
Il progetto, che creerà un corridoio che di fatto pregiudicherebbe la continuità territoriale in vista della creazione di uno Stato indipendente, ha visto nel corso degli anni una dura opposizione da parte dell’Autorità nazionale palestinese. «È un atto di aggressione israeliana contro uno Stato e il mondo deve assumersi le sue responsabilità». <br />
<br />
La preoccupazione per la nuova decisione israeliana è arrivata alla Casa Bianca, che pur condannandola come dannosa per i «negoziati diretti», è a questi ultimi che si affida per far ripartire il processo di pace: «Restano il nostro obiettivo e incoraggiamo tutte le parti a redere più facile un percorso che porti alla soluzione due popoli-due Stati», ha detto Tommy Vietor, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale. Così è anche per l’Onu: «Il segretario generale, Ban Ki-moon, ha più volte ripetuto che le nuove colonie non aiutano il processo di pace», ha dichiarato, Farhan Haq, uno dei portavoce del Palazzo di Vetro.<br />
<br />
Nei Territori, per il momento, la gioia per il risultato raggiunto fa dimenticare le conseguenze in arrivo. Perfino Hamas, reduce da una breve guerra con Israele, si è unita all’esultanza della rivale Anp e di Abu Mazen per quella che he definito «una nuova vittoria sulla via della liberazione della Palestina e del ritorno dei profughi».<br />
Il governo Netanyahu, che si era affidato ai successi dell’offensiva militare per riprendere fiato nei sondaggi in vista delle elezioni, si trova isolato anche in patria. La stampa di Israele è unanime nel definire una dura sconfitta il voto all’Onu, che ha visto contrari alla risoluzione solo 9 paesi: Haaretz ha parlato di «campanello d’allarme» perché anche Paesi amici europei hanno mandato un messaggio che «la pazienza per l’occupazione si sta esaurendo». Anche il più conservatore Yediot Ahronot ha definito il voto del Palazzo di Vetro «una debacle politica».<br />
<br />
La diplomazia riparte, ma il voto ha riposizionato diversi Paesi, tra i quali l’Italia, che con i precedenti governi aveva espresso posizioni molto vicine a Israele. «È stata una decisione sicuramente ponderata», ha spiegato il ministro degli Esteri, Giulio Terzi. «L’Italia è fortemente convinta del suo rapporto di amicizia con Israele e con i palestinesi», ha assicurato Terzi che ha ribadito la richiesta all’Anp di accettare di sedersi «al tavolo dei negoziati senza precondizioni».<br />
<br />
L’Unione europea, che al voto si era presentata divisa, sembra non riuscire a trovare un minimo di filo comune strategico e si affida all’inviato per il Medio Oriente, Andreas Reinicke, che ha chiesto laconicamente di «guardare al futuro» e di concentrarsi per far ripartire «il prima possibile» i negoziati tra israeliani e palestinesi.<br />
<br />
<br />
<div>
<br /></div>
<br />
<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-4203735064256037222012-11-27T11:49:00.001+01:002012-11-27T11:49:27.239+01:00<span style="font-size: large;"><b>Gaza festeggia la vittoria ora Hamas oscura Abu Mazen</b></span><br />
GAZA - Il giorno della "vittoria" ha l' aroma del caffè al cardamomo e l' odore delle shawarma che dai ristorantini invadono la Shuada Street, nel cuore di Gaza City, ai pochi bancomat ancora funzionanti si vedono file lunghissime. «Sembra che i soldi li regalino oggi», commenta secco Yusef Adal sulla porta del vicino negozio di casalinghi, che ha riapertoi battenti dopo otto giorni di bombardamenti, ma si sbaglia. Il "giorno della vittoria", proclamato festa nazionale nella Striscia, ha per caso coinciso con il pagamento degli stipendi arretrati dei dipendenti pubblici. Due porte più avanti Alì, commerciante di televisori, ne ha messo fuori uno - alimentato col generatore perché in città non c' è luce pubblica se non poche ore al giorno - acceso a tutto volume mentre il premier di Hamas Ismail Haniyeh indirizza un discorso alla «sua nazione». Si forma subito un capannello. «I combattenti della resistenza hanno cambiato le regole del gioco, hanno sconvoltoi piani di Israele. L' opzione di invadere Gaza dopo questa vittoria è svanita e non tornerà mai più», dice Haniyeh nel suo discorso, e promette che «difenderà questo accordo fino a quando Israele lo rispetterà». Nelle strade intanto il rumore dei caccia F-16 che sfrecciavano in cielo ha lasciato il posto all' abituale caos di auto e clacson. In piazza è un tripudio di bandiere sventolate dalle auto, dalle moto, appese alle finestre: quelle verdi di Hamas, quelle rosse dei Comitati popolari. Ci sono i miliziani della Jihad islamica, delle Brigate Al Quds, solo per citare i principali gruppi della galassia delle fazioni armate a Gaza. Persino simpatizzanti di Fatah, la fazione rivale fedele al presidente dell' Anp, sono scesi in strada a festeggiare. Ma è stato anche il giorno delle sepolture degli ultimi morti. Nel quartiere di Redwan - fra i più colpiti dai bombardamenti - centinaia di combattenti mascherati delle Brigate Ezzedin al Qassam hanno sfilato al funerale di cinque compagni morti. La "colonna d' onore" di Hamas era impressionante, a bordo di oltre cento pickup nuovi di zecca, i miliziani erano armati di lanciagranate, fucili d' assalto, mitragliatrici. Il movimento integralista non sembra fiaccato da questi otto giorni di bombardamenti e quasi 2500 raid contro obiettivi giudicati strategici dagli israeliani, che hanno provocato 161 morti - oltre metà dei quali civili - e più di 1500 feriti. Perché dopo l' uccisione di Ahmad Jabari - il capo militare di Hamas - l' intera leadershipè entrata in clandestinità, al sicuro nel sistema di gallerie collegate fra loro, rifugi sicuri che possono essere usati per settimane e non ha subito altre perdite significative. I suoi missili, ne ha sparati più di mille, sono arrivati a Tel Aviv e Gerusalemme, dimostrando una potenza di fuoco impressionante che ha sorpreso la Difesa israeliana. Dopo la caduta di Mubarak e di Gheddafi il contrabbando di armi verso la Striscia non solo è aumentato, ma è diventato più sofisticato. Oltre missili Grad (40 km di raggio) Hamas dispone adesso dei razzi anticarro Kornet che possono perforare la corazza dei tank israeliani. I missili Fajr-5 di fabbricazione iraniana, che arrivano invece via nave dal Sudan, con la loro gittata di 75 chilometri hanno cambiato lo scenario della guerra, dando al movimento integralista un minaccioso potere strategico nella regione. Anche il premier Benjamin Netanyahu ha dovuto prenderne atto e scegliere la tregua. Ma Israele non potrà accettare a lungo questa situazione, è difficile sentirsi al sicuro con ventimila missili puntati contro. Intanto, i servizi di sicurezza israeliani hanno arrestato a Ramallah il presunto autore dell' attentato di mercoledì contro un autobus a Tel Aviv. Gaza in questi otto giorni ha accolto visite a ripetizione di ministri arabi, del capo della Lega Araba, del premier egiziano, i ripetuti segni di stima e solidarietà del presidente Mohammed Morsi, l' artefice dello sdoganamento di Hamas. Israele e gli Usa, poi, sono stati costretti a ingaggiare con il gruppo, considerato un' organizzazione terroristica, negoziati seppure indiretti. «La primavera araba ci ha consegnato la vittoria e gli Stati Uniti stanno ascoltando (dagli arabi) parole nuove», dice Haniyeh in tv, conscio che in questi giorni Hamas ha oscurato la scena per l' Anp di Abu Mazen - costretto ieri addirittura a una formale telefonata di congratulazioni per la "vittoria"; la leadership laica moderata che incarna il presidente palestinese ne è uscita ridimensionata. La Striscia di Gaza, soprattutto adesso, si dimostra un' entità distinta dalla Cisgiordania. Un mini-Stato islamico nelle mani della Fratellanza musulmana palestinese dove si applica la Sharia, che non riconosce l' Olp come unico rappresentante dei palestinesi, che non crede nel processo di pace avviato a Oslo. Il sogno di una Palestina unica guidata da una leadership moderata sembra svanito. Nel futuro ci sarà "Hamastan" a Gaza e "Fatahland" in Cisgiordania, con seri pericoli però che nel futuro anche Ramallah possa essere risucchiata dall' onda islamica che sta cambiando gli equilibri mediorientali.<br />
<br />
Fabio Scuto<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Netanyahu ha emarginato l' Olp non vuole uno Stato palestinese</b></span><br />
«DUE elementi emergono con nitidezza all' indomani della tregua fra Israele e Hamas. Punto primo, Hamas risulta rafforzato con un ruolo da protagonista e una forma di riconoscimento. Punto secondo, il premier israeliano Netanyahu ha forse raggiunto uno dei suoi obiettivi: emarginare il presidente palestinese Abu Mazen e la sua richiesta di riconoscimento della Palestina all' Onu. Lo suggerisce il tempismo dell' operazione militare». Yossi Alpher, 12 anni al Mossad, ex consulente di Barak per i negoziati di pace israelo-palestinesie direttore del Centro Jaffee di studi strategici, legge in controluce il quadro che va delineandosi. Alpher, secondo lei Netanyahu è disposto a concedere, nientemeno, una parte di rilievo a Hamas? «Perché tanta sorpresa? Uno degli effetti più evidenti dell' offensivaè la statura conquistata da Hamas, sia a Gaza che sulla scena internazionale. In questi giorni tutti erano a colloquio coi suoi leader: dal presidente egiziano Morsi al premier turco Erdogan agli inviati del Qatar. E nella stanza accanto c' era il Mossad. Questa è una forma di riconoscimento indiretto. A Gaza Hamas può presentarsi con gli allori di chi è sopravvissuto. Ha acquistato peso in tutto il Medio Oriente». Questo a scapito dell' Olp e del presidente palestinese Abu Mazen? E cioè del primo interlocutore di pace d' Israele? «Basta riflettere sulle azioni del governo israeliano nell' ultimo quadriennio per capire che Netanyahu non ha alcuna intenzione di trattare con Abu Mazen. Non lo interessa la soluzione dei due Stati, la restituzione del 95 per cento della Cisgiordania e di parte di Gerusalemme. Il suo desiderio è tutt' altro: appropriarsi della Cisgiordania e di Gerusalemme. Perciò preferisce Hamas come interlocutore al posto di Abu Mazen, tanto più che la sua richiesta di riconoscimento all' Onu era prevista entro pochi giorni». Lei vede una coincidenza fra l' offensiva israeliana e la richiesta dell' Olp? «Come non riconoscerla? Il 29 novembre Abu Mazen avrebbe depositato all' Onu la domanda di adesione della Palestina in qualità di Stato non membro. Questo preoccupa Israele: darebbe la possibilità all' Olp di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia, esponendo una serie di accuse e reclami contro Israele. È probabile che uno degli obiettivi di Netanyahu fosse di minimizzare l' evento, di distrarre l' attenzione internazionale».<br />
<br />
Alix Van Buren<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Morsi come Mubarak piazze in fiamme in Egitto contro il golpe istituzionale</b></span><br />
GERUSALEMME - «Morsi come Mubarak», «Morsi, il nuovo faraone», «Morsi vai via!». In un crescendo di slogan e d' invettive che rimandavano al tempo della rivolta contro il vecchio regime, gli oppositori di Mohammed Morsi, il presidente eletto dopo la caduta di Hosni Mubarak, si sono ritrovati a piazza Tahrir, per denunciare il colpo di mano istituzionale con cui il nuovo raìs si è in sostanza dotato di poteri straordinari, sottraendoli ad ogni controllo della magistratura. Lui, Morsi, parlando ad una folla di fedelissimi su un palco allestito fuori dal palazzo presidenziale, lontano molti chilometri da piazza Tahrir, ha difeso il suo operato affermando di aver agito per salvare il Paese dai nemici della rivoluzione e per garantire che il processo costituente, impantanato da dispute interminabili, si concluda rapidamente. Ma le sue prevedibili rassicurazioni non hanno convinto le decine di migliaia di egiziani che, raccogliendo l' appello alla protesta lanciato dai principali partiti laicie liberali, sono scesi ieri in piazza non soltanto al Cairo, ma anche ad Alessandria, Porto Said, Asyut. La mobilitazione è degenerata in scontri particolarmente violenti ad Alessandria, dove sostenitori e oppositori di Morsi si sono affrontati per le strade del centro e sul lungomare (25 feriti, 100 in tutto il Paese) e dove alcune sedi del partito "Libertà e Giustizia", l' organizzazione politica paravento dei Fratelli Musulmani, trionfatori alle elezioni generali, al cui vertice Morsi appartiene, sono state saccheggiate e date alle fiamme. A piazza Tahrir, o per meglio dire, in un viale laterale che conduce alla piazza, gli incidenti con la polizia schierata in forze per evitare che il luogo simbolo della rivoluzione egiziana diventasse teatro dell' ennesima battaglia, sono cominciati quando il neo presidente ha iniziato a parlare dal palco di Heliopolis. E mentre la folla dei seguaci, 80 mila persone, applaudiva e scandiva slogan alla maniera degli islamisti, alzando il dito indice ammonitore verso il cielo, dai ranghi dei contestatori (anche lì diverse decine di migliaia) partivano bottiglie molotov verso le truppe in assetto antisommossa che rispondevano coi lacrimogeni. Una ventina le persone contuse, decine i fermati. Gli argomenti del presidente sembrano non avere convinto neanche il suo assistente Samir Morcos, copto, responsabile per la transizione democratica, che ieri in serata ha dato le dimissioni. E subito si è dimessa anche Sekina Fouad, consigliera per la Cultura, argomentando: «Tutti vogliono il giudizio degli assassini dei manifestanti, ma rifiutano che la Costituente e il consiglio consultivo del Parlamento siano al riparo di ogni giudizio sul loro scioglimento». A giudicare dalle risposte date a quanti lo hanno attaccato dopo i decreti emessi in questi giorni, Morsi non si è lasciato intimidire dalla mobilitazione. «L' opposizione non mi preoccupa - ha detto - ma deve essere una vera e forte opposizione». Se ha deciso di dotarsi del potere straordinario di prendere qualsiasi decisione e istituire qualsiasi procedura, per giunta sottraendosi al sindacato della magistratura, è «per difendere la rivoluzione» dai suoi nemici, «una minoranza», certo, ma pericolosa,e per garantire la stabilità del paese, non per istituire una dittatura personale. Al contrario, Morsi ha aggiunto di credere nella divisione dei poteri. Ma il processo che dovrebbe portare ad adottare la nuova Costituzione, rischiava di impantanarsi in interminabili diatribe. L' Assemblea Costituente stava per esaurire il mandato, in scadenza a dicembre, senza aver adempiuto il suo compito. «Ho deciso di dare all' Assemblea altri due mesi di tempo perché approvi la nuova Costituzione che sarà sottoposta a referendum popolare, e nuove elezioni politiche seguiranno». Ma ha preferito ignorare le critiche dei liberali che hanno, nella sostanza, deciso di scendere in piazza per protestare anche contro gli orientamenti di parte emersi in seno ad un' Assemblea Costituente dominata dagli islamisti, orientamenti che non garantiscono la tutela dei diritti delle donnee delle minoranze. Morsi s' è limitato ad affermare di essere il presidente di «tutti gli egiziani», un presidente che non si schiererà mai contro i diritti di nessun cittadino, uomo o donna, ricco o povero, musulmano o cristiano che sia. PER SAPERNE DI PIU' www.aljazeera.com www.haaretz.com<br />
<br />
Alberto Stabile<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Nella Striscia le prove per una guerra all' Iran così Israele ha testato i suoi sistemi di difesa</b></span><br />
WASHINGTON - Il conflitto fra Hamas e Israele, conclusosi con una tregua, è a prima vista l' ennesimo episodio di una resa dei conti ripetuta a cicli regolari. Eppure, secondo Usa e Israele, c' è un' altra chiave di lettura: l' offensiva è servita come prova generale per un eventuale scontro armato con l' Iran. È Teheran la questione più urgente per il premier israeliano Netanyahu e il presidente americano Obama. Divisi dalle tattiche, entrambi concordano che il tempo stringa per risolvere lo stallo sul programma nucleare iraniano: resta solo qualche mese. Un elemento chiave delle simulazioni belliche di Usa e Israele è impedire che l' Iran introduca missili di nuova generazione nella Striscia di Gaza o in Libano, dove Hamas, Hezbollah e la Jihad islamica li lancerebbero su Israele per conto di Teheran nel caso di un attacco israeliano contro l' Iran. Per certi versi Israele ha usato la battaglia di Gaza per capire quali siano le capacità militari di Hamas e della Jihad islamica (il gruppo più vicino all' Iran). Il primo colpo del conflitto fra Hamas e Israele probabilmente è stato sparato quasi un mese prima a Khartoum, in Sudan, in un altro misterioso episodio della guerra ombra con l' Iran. Il 22 ottobre un' esplosione ha distrutto una fabbrica destinata ufficialmente alla produzione di armi leggere; due giorni dopo le autorità sudanesi hanno denunciato un raid militare israeliano. Il governo di Tel Aviv non ha commentato, ma fonti israeliane e americane affermano che il Sudan è uno dei principali punti di transito per il contrabbando di razzi iraniani Fajr, del tipo lanciato da Hamas su Tel Aviv e Gerusalemme. Ovviamente un conflitto con l' Iran sarebbe ben diverso. Poco prima dell' offensiva a Gaza, gli Usa insieme agli alleati Ue e alcuni Paesi arabi del Golfo, hanno condotto esercitazioni di sminamento in mare nell' eventualità che l' Iran dissemini di esplosivi lo Stretto di Hormuz per colpire il traffico commerciale. Ma nei piani israeliani e americani per un conflitto con l' Iran, Israele dovrebbe fronteggiare minacce a più livelli: i missili a corto raggio di Gaza, a medio raggio di Hezbollah dal Libano, e a lungo raggio dall' Iran. Questi ultimi, stando all' Intelligence israelianae americana, potrebbe comprendere gli Shabab-3, in grado di essere armati di testate atomiche qualora l' Iran riuscisse a costruirne. Secondo un ufficiale Usa, le forze armate americane e israeliane hanno ricavato «moltissimi insegnamenti» dalla campagna di Gaza. La sfida è armonizzare i sistemi radar antimissile - e gli intercettori per missili a corto, medio e lungo raggio- per fronteggiare le varie minacce nel prossimo conflitto. L' ufficiale è convinto, al pari di altri esperti, che anche gli iraniani stiano compiendo le loro valutazioni di fronte all' imprecisione dei missili forniti a Hamas, e potrebbero cercare di migliorarne la progettazione. Cupola di ferro, il sistema antibalistico israeliano, ora schiera 5 batterie antimissile, ognuna del costo di circa 50 milioni di dollari; l' obbiettivoè raddoppiarle. In due anni, gli Usa hanno contribuito oltre 275 milioni di dollari di finanziamenti. Solo tre settimane fa, nel corso delle più grandi esercitazioni militari congiunte mai realizzate fra i due Paesi, gli americani hanno manovrato batterie di difesa antimissile terra-aria Patriot, e navi equipaggiate con il sistema antimissile Aegis. Tuttavia, Cupola di ferro ha i suoi limiti. È programmata per contrastare solo i missili a corto raggio, con una gittata di 80 chilometri. «Nessuno ha mai dovuto affrontare prima d' ora questo tipo di battaglia», dice Jeffrey White, analista militare, «con missili che piovono sulla metà del Paese. In più, sono missili tutti diversi».<br />
<br />
DAVID E. SANGER THOM SHANKER<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Spari al confine, un morto ma a Gaza la tregua regge</b></span><br />
GAZA - Forse Awar Qdeih, un giovane contadino di Khan Younis voleva davvero controllare quanti crateri di bombe c' erano nel suo campo coltivato a ridosso della "buffer zone" dopo 8 giorni di bombardamenti, o forse - nella versione israeliana del fatto - voleva appendere una bandiera di Hamas al filo spinato alto sei metri che corre in quel tratto sul confine della Striscia ed era l' avanguardia di un gruppo che si avvicinava minaccioso. I soldati israeliani dopo i colpi in aria di avvertimento hanno aperto il fuoco, uccidendo Anwar e ferendo altri 25 palestinesi. Non sono passate 48 ore dall' entrata in vigore del cessateil-fuoco tra Israele e i gruppi radicali della Striscia di Gaza, che Hamas ne ha già denunciato una prima violazione; certamente non grave e frutto di una manifestazione spontanea. Diverso sarebbe certamente stato se uno dei gruppetti armati che in questi giorni per le strade di Gaza cantano vittoria avesse aperto il fuoco contro una pattuglia israeliana o avesse lanciato un missile. Una violazione flagrante che non sarebbe rimasta senza risposta da parte israeliana. L' intesa mediata dall' Egitto stabilisce solo il cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas e la riapertura dei valichi di frontiera - quello di Rafah con l' Egitto a sud, quello di Erez con Israele nel nord - che ieri infatti erano aperti e non regolamenta l' accesso alle zone vicino alla frontiera durante la sospensione delle ostilità: le relative clausole devono ancora essere messea punto dalle parti nei prossimi giorni per una vera tregua. Hamas pur denunciando la violazione - presentando la protesta formale all' Egitto che ne è il garante - ha la piena consapevolezza che si tratta di un incidente circoscritto e reagire adesso non è nell' interesse del movimento integralista. Perché anche se la versione che Hamas fa passare parla di arsenali e capacità militari intatte, resta il fatto che gli israeliani sostengono di aver distrutto, oltre ai commissariati di polizia di Hamas ridotti in macerie ovunque, anche importanti depositi di armi e missili. Il continuo bombardamento poi dei caccia israeliania sud, durante questi otto giorni di guerra, ha sventrato molti dei tunnel che passano sotto il confine della Striscia con l' Egitto, che sono la "vena giugulare" per i rifornimenti di Gaza ma anche per il traffico dei missili. I tunnel del contrabbando che il presidente egiziano Mohammed Morsi garante dell' accordo si è impegnato a bloccare. Hamas si compiace della "vittoria" e la tv del movimento integralista oggi annunciava con enfasi la prossima visita del premier turco Erdogan, che proprio per il blocco israeliano sulla Striscia, ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele. È l' ennesimo segnale per Hamas della solidarietà del Nuovo Medio Oriente. Nelle moschee affollate di predicatori nella preghiera del venerdì hanno celebrato la "vittoria" nel conflitto, facendo appello all' unità nazionale. Toni duri e accesi ma anche inspirati alla solidarietà: la Striscia piange i suoi 166 morti, fra loro un centinaio di civili, donne, bambini e anziani.<br />
<br />
Fabio Scuto<br />
<br />
<br />
Gran parte dell'opinione pubblica mondiale e dei governi ha avuto parole di elogio per la prova di moderazione e di mediazione svolta dal presidente egiziano Morsi e dai Fratelli Musulmani nella recente vicenda della brutale aggressione che il governo criminale di Tel Aviv ha scatenato contro la martoriata Striscia di Gaza, provocandovi centinaia di vittime. Grazie al paziente lavoro del presidente egiziano si è bloccato il possibile allargamento del conflitto e un pericoloso focolaio di guerra è stato spento. Nonostante ciò i sedicenti mini movimenti "liberali e democratici" di Egitto, ripetutamente sconfitti nelle prime elezioni democratiche a suffragio universale che hanno portato alla elezione di Morsi e alla reintegrazione del parlamento eletto ed esautorato da un mini golpe dell'ex giunta militare di Mubarak, non hanno mancato di mostrare il loro vero volto di nemici della pace e della democrazia assaltando una sede dei Fratelli Musulmani uccidendone a sprangate un militante e accusando il presidente Morsi di golpismo e di vocazioni dittatoriali.<br />
Non è difficile intravedere dietro gli attacchi e la mini mobilitazione dei mini gruppi sedicenti democratici che hanno mandato un centinaio di scalmanati ad agitarsi in piazza Tahrir al Cairo, la longa manus dei servizi segreti israeliani e, magari degli ex seguaci di Mubarak: e ciò non può suscitare grande meraviglia. Quel che sconcerta è che a queste stonate e isolate voci che hanno emanato i loro ragli in Egitto si siano associati i ragli ancora più stonati di qualche giornalaccio italiano per il quale è assolutamente intollerabile che i Fratelli Musulmani e le forze politiche ad essi vicini abbiano definitivamente consolidato il loro potere democratico nei paesi della Primavera araba e seguitino ad esaltare come un campione di democrazia un ambiguo personaggio come Al-Baradei, che non ha avuto il coraggio di presentarsi candidato alle elezioni presidenziali d'Egitto e il cui partito, nelle elezioni parlamentari, non è arrivato neppure al 10%. La concezione della democrazia di chi considera democratici gli "amici" e gli amici degli amici, non è una novità in una parte della stampa italiana e ricorda tanto lo stile della mafia e delle congreghe consimili. Ma piaccia o no ormai il mondo arabo sta marciando con le sue gambe e non ha bisogno dei consigli "interessati" di chi preferisce come amici i signori insediati a Tel Aviv. Non ci stancheremo mai di ripetere: Allahu Akbar, "Dio è il più Grande!", e sia pure a prezzo di dolori e di lutti la causa della giustizia e della libertà, e vincerà anche dove ciò sembrava impossibile.Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-21284656584275335852012-11-23T11:58:00.004+01:002012-11-23T11:58:36.053+01:00LA GUERRA DI GAZA<span style="font-size: large;"><b>Le conseguenze della guerra</b></span><br />
<br />
QUANDO i conservatori israeliani se la prendono con ragionamenti troppo pacifisti, o con chi in patria critica la politica dell'occupazione, subito tirano in ballo l'Europa: "Questo è un tipico ragionamento ashkenazita; non ha alcun rapporto con il Medio Oriente!", dice ad esempio Moshe Yaalon, già capo dell'esercito, oggi vice premier, rispondendo al giornalista Ari Shavit in un libro appena edito da Haaretz (Does this mean war?). L'ebreo ashkenazita ha radici in Germania e in Europa centrale, parla yiddish.<br />
<br />
E lo stereotipo non è diverso da quello usato ai tempi di Bush figlio: l'America è Marte e virile, il nostro continente è Venere e fugge la spada. L'ashkenazi tornò come altri ebrei in Terra Promessa, ma ha i riflessi della vecchia Europa. Lo storico Tom Segev racconta come erano trattati gli ebrei tedeschi, agli esordi. Li chiamavano yekke: erano ritenuti troppo remissivi, cervellotici, e poco pratici. L'Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. Lo scettro decisivo sempre fu affidato all'America.<br />
<br />
Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese. Lo stereotipo dell'ashkenazita mente, perché ci sono ashkenaziti di destra e sinistra. Era ashkenazita Golda Meir. Sono ashkenaziti David Grossman, Uri Avnery, Amira Hass, pacifisti, e espansionisti come Natan Sharansky. Ma lo stereotipo dice qualcosa su noi europei, che vale la pena meditare. Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati.<br />
<br />
Eppure l'Europa avrebbe cose anche pratiche da dire, sulle guerre infinite che i governi d'Israele conducono da decenni, sicuri nell'immediato di difendersi ma alla lunga distruggendosi. Ne ha l'esperienza, e per questo le ha a un certo punto terminate, unendo prima i beni strategici tedeschi e francesi (carbone, acciaio) poi creando un'unione di Stati a sovranità condivisa.<br />
<br />
Le risorse mediorientali sono quelle acquifere in Cisgiordania, gestite dall'occupante e assegnate per l'83% a Israele e colonie. Tanto più l'Europa può contare, oggi che l'America di Obama è stanca di mediazioni fallite. È stato quasi un colpo di fucile, l'articolo che Thomas Friedman, sostenitore d'Israele, ha scritto il 10 novembre sul New York Times: provate la pace da soli, ha detto, poiché "non siamo più l'America dei vostri nonni". Non potremo più attivarci per voi: "Il mio Presidente è occupato-My President is busy". Anche gli ebrei Usa stanno allontanandosi da Israele.<br />
<br />
È forse il motivo per cui pochi credono che l'offensiva si protrarrà, ripetendo il disastro che fu l'Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Ma guerra resta, cioè surrogato della politica, e solo all'inizio la vulnerabilità di Israele scema. Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l'Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013.<br />
<br />
Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente. Un male evidente, anche se ci s'incaponisce a negarlo. Sono ormai 45 anni - dalla guerra dei sei giorni - che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest'incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d'ingresso e d'uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l'Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l'Unione europea). Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni). I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane.<br />
<br />
Se poi l'occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose. Un'architettura dell'occupazione che trasforma le colonie in dispositivi di controllo (in panoptikon), spiega l'architetto Eyal Weizman. È urgente guardare in faccia queste verità, scrive Friedman, prima che la democrazia israeliana ne muoia. Forse è anche giunto il tempo di pensare l'impensabile, e chiedersi: può un arabo israeliano (1.5 milioni, più del 20% della popolazione) riconoscersi alla lunga in un inno nazionale (Hatikvah) che canta la Terra Promessa ridata agli ebrei, o nella stella di Davide sulla bandiera? Potrà dire senza tema: sono cittadino dello Stato d'Israele, non di quello ebraico?<br />
<br />
Questo significa che anche per Israele è tempo di risveglio. Di una sconfitta del nazionalismo, prima che essa sia letale. Separando patria e religione nazionale, la pace è supremo atto laico. Risvegliarsi vuol dire riconoscere i guasti democratici nati dall'occupazione. Le menti più acute di Israele li indicano da anni. Ari Shavit evoca i patti convenienti con Bush figlio, gli evangelicali Usa, il Tea Party: "Patrocinato dalla destra radicale Usa, Israele può condurre una politica radicale e di destra senza pagare alcun prezzo". Può sprezzare le proprie minoranze, tollerare i vandalismi dei coloni contro palestinesi e attivisti pacifisti. David Grossman ha scritto una lettera aperta a Netanyahu: l'accusa è di perdere ogni occasione per far politica anziché guerre (Repubblica, 6 novembre 2012). L'ultima occasione persa è l'intervista di Mahmoud Abbas alla tv israeliana, l'1 novembre: il capo dell'Autorità palestinese si dice disposto a tornare come turista a Safad (la città dov'è nato a nord di Israele). "Nelle sue parole - così Grossman - era discernibile la più esplicita rinuncia al diritto del ritorno che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dei negoziati". Abbas s'è corretto, il 4 novembre: la volontà di chiedere all'Onu il riconoscimento dell'indipendenza aveva irritato Netanyahu, e Obama di conseguenza ha sconsigliato Abbas. Quattro giorni dopo, iniziava a Gaza l'operazione "Pilastro della Difesa".<br />
<br />
L'abitudine alla guerra indurisce chi la contrae, sciupa la democrazia. In Israele, allarga il fossato tra arabi e ebrei, religiosi e laici. Vincono gli integralisti, secondo lo scrittore Sefi Rachlevsky che delinea così il volto della prossima legislatura: una coalizione fra Netanyahu, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, e ben quattro partiti che vogliono - come l'Islam politico - il primato della legge ebraica (halakha) sulle leggi dello Stato. In tal caso non si tornerebbe solo alle guerre nazionaliste europee, ma alle più antiche guerre di religione. Stupefacente imitazione, per un paese dove l'Europa è sì cattivo esempio.<br /><br />Barbara Spinelli<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Gaza, la lunga attesa della tregua fuga tra le case dalle ultime bombe Un soldato israeliano ucciso dai razzi</b></span><br />
<br />
GAZA - Gli occhi di tutti ieri a Gaza erano puntati sull'orologio, nella speranza che la mezzanotte fosse "l'ora X" per il cessate-il-fuoco, dopo sette giorni di bombardamenti e raid sulla Striscia, e più di 1200 missili sparati dai miliziani della galassia islamica contro le città israeliane del Sud, ma anche Gerusalemmee Tel Aviv. Ma la lunga vigilia delle "24 ore di calma" che tutti si augurano - grazie ai buoni uffici del presidente egiziano Morsi e alle pressioni internazionali - a Gaza City e nell'intera Striscia è stata un succedersi di esplosioni, con i droni israeliani in cerca "prede", gli F-16 che volavano bassi, i "tuoni" dei grandi cannoni navali che sparano dal mare, e le fiamme che illuminavano la notte. Entrambe le parti hanno cercato di sferrare un ultimo "colpo decisivo" al nemico. In quindici minuti le batterie di Hamas, della Jihad islamicae degli altri gruppi hanno sparato 150 missilia ventaglio contro il Sud d'Israele. Il bilancio di questa "guerra dei sette giorni"è di 150 palestinesi uccisi - oltre la metà sono civili - e più di mille feriti, dal lato israeliano sono 5 le vittime dei missili di Hamas, e fra loro ieri il primo soldato in un kibbutz nel Negev. È ancora presto per dichiarare una "hudna", una vera tregua.<br />
Nessun accordo è stato firmato, si tratterebbe di un cessate-il-fuoco preliminare. Se ci sarà lo stop al lancio di razzi chiesto da Israele per almeno 24 ore si potrà procedere alla sottoscrizione di un'intesa: servirà a mettere alla prova l'affidabilità di Hamas, della Jihad islamica e di tutte le fazioni armate attive a Gaza. Sono trionfalistici i portavoce del premier Ismail Hanyeh: «Abbiamo impartito al nemico una lezione che non dimenticherà mai».<br />
«Lasciamo Hamas rivendicare ciò che vuole. Tutti sanno che ha subito un grossissimo colpo in questi 7 giorni di azione militare», è la replica da Gerusalemme, facendo capire che l'altra "ora X", quella dell'attacco di terra, è stata solo aggiornata di 24 ore. L'imponente dispositivo militare schierato da Israele ai confini della Striscia - 40 mila uomini pronti all'invasione - aspetta solo un ordine del premier Netanyahu che ieri ha parlato «di mano tesa», ammonendo però che nell'altra c'è «la spada di David». Parlava dopo un incontro a Gerusalemme con il segretario generale dell'Onu Ban kiMoon, giunto in Israele per cercare di fermare il focolaio di guerra prima che contamini la regione.<br />
Nella notte è arrivata anche Hillary Clinton, per mettere finalmente il peso americano in questa difficile maratona diplomatica, gestita soprattutto dall'Egitto.<br />
Le ansie degli abitanti di Gaza non si sono placate, e l'attesa della tregua si mescolava con la paura di un'imminente attacco di terra.<br />
Perché oltre ai missili aria-terra d'Israele che hanno colpito la banca di Hamas in pieno centro, l'edificio che ospita la sede dell'agenzia di stampa francese Afp e altri identificati come bersagli dall'intelligence dello Stato ebraico, e dopo l'omicidio mirato di due cameraman della tv Al-Aqsa vicina a Hamas, gli aerei israeliani hanno seminato a pioggia sulla città volantini in lingua araba in cui si intimava a tutti di allontanarsi «immediatamente» da alcuni quartieri della zona Sud. «Per la vostra sicurezza, sgombrate subito le case e spostatevi verso il centro di Gaza», era il messaggio. Molte famiglie terrorizzate sono scese in strada in cerca di un riparo, a centinaia hanno bussato con le coperte in mano alle porte delle scuole dell'Onu per chiedere rifugio, donne e bambini soprattutto.<br />
«Ignoratei volantini israeliani», ordinava in serata una radio di Hamas, ma la gente già cercava di raggiungere il centro.<br />
In una città devastata dalla guerra tutto è possibile, anche la giustizia sommaria. Ieri pomeriggio le brigate Al-Qassam hanno giustiziato nella centralissima Via Nasser sei persone accusate di essere dei "traditori". Una scena agghiacciante, ma non nel racconto dei testimoni: «Alcuni uomini armati sono arrivati a bordo di un minibus, sono entrati nel quartiere, arrivati a quell'angolo lì hanno spinto fuori sei uomini e gli hanno sparato in mezzo alla strada, poi sui corpi dei giustiziati è stato attaccato un messaggio che li chiamava "traditori" per aver "dato informazioni al nemico"». I cadaveri sono stati circondati da una folla di passanti: c'era chi scattava foto col telefonino, chi li prendeva a calci. Alla fine il corpo di uno dei sei è stato trascinato per le strade vicine da un gruppo di miliziani a bordo di motociclette, un messaggio feroce, "stile afghano" come quando a Kabul comandavano i Taliban.<br />
<br />
Fabio Scuto<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Obama gioca la carta Hillary in Medio Oriente per fermare le armi</b></span><br />
<br />
PHNOM PENH - Altro che pensionamento. Nel momento della suprema emergenza Barack Obama non può fare a meno di lei. Hillary Clinton non esita un attimo, riveste la divisa di lavoro, scatta verso l'impresa più difficile. Le dimissioni possono aspettare: e questa si chiama grinta.<br />
Ancora due notti in bianco, una qui in Cambogia per lavorare col presidentea tessere le fila del possibile cessate il fuoco tra Hamas e Israele; l'altra sull'aereo di Stato in volo verso il Medio Oriente, per preparare i dossier delle tre tappe cruciali della sua missione di oggi: Israele, Cisgiordania, Egitto.<br />
Ieri sera l'incontro a Gerusalemme con il premier israeliano Netanyahu per cercare di ottenere «un'intesa duratura» che ponga fine alle violenze e riaffermare che l'impegno degli Stati Uniti per difendere la sicurezza d'Israele è «forte come una roccia».<br />
E pensare che proprio ieri, incrociando alcuni giornalisti nel suo albergo qui a Phnom Penh, Hillary si era abbandonata a un momento di emozione, al pensiero che questo vertice Asean dovrebbe essere il suo ultimo viaggio da segretario di Stato con Obama. «È stato bello ma agrodolce, pieno di nostalgie». Aveva parlato troppo presto. Adesso anche la data delle sue dimissioni sembra in dubbio. Voleva andarsene in coincidenza con l'insediamento ufficiale di Obama Due, il 20 gennaio. Ora l'emergenza in Medio Oriente proibisce di fare previsioni. La Clinton, combattente disciplinata come sempre, ha già detto che resterà «fino a quando il presidente non designerà il successore,e il nuovo segretario di Stato supererà la procedura della conferma». Intanto la vera priorità che detta i tempi è spegnere l'incendio israelo-palestinese. La decisione l'hanno presa insieme, in una notte di convulse consultazioni internazionali. Alle due e mezza del mattino fra lunedì e martedì Obama e la Clinton erano ancora svegli, al diavolo il jet-lag, impegnati a sentire tutti gli attori del dramma: almeno tre telefonate al presidente egiziano Mohamed Morsi e al premier israeliano Benjamin Netanyahu. La mattina Obama sbadigliava vistosamente durante il vertice Asean, nonostante il bicchierone di caffè Starbucks sul tavolo. E appena possibile, ad ogni pausa dei lavori del summit asiatico il presidente tornava ad appartarsi. Sempre con lei, Hillary.<br />
Insieme hanno deciso che lei sarebbe partita, subito. La sua presenza nel centro del conflitto è la massima prova di impegno americano, anche se la Casa Bianca è consapevole dei rischi che questo comporta. L'ultima prova dell'indispensabile Hillary, rilancia tutte le scommesse sul suo futuro politico. Nessuno, a cominciare da Obama, sembra disposto a credere alla versione ufficiale che lei diede già un anno fa, quando disse che era davvero stanca di questo mestiere, che voleva dedicare tempo a se stessa, «viaggiare finalmente per puro piacere». Magari fare la nonna. Lei che ha polverizzato il record di tutti i segretari di Stato, visitando 100 nazioni in quattro anni (alcune delle quali più volte), può davvero essere stanca? A 65 anni si considera pensionabile, una donna con questa energia e in una forma così vigorosa? Se il primo a dubitarne è Obama, è perché in quattro anni ha imparato a conoscere Hillary come pochi altri. Non sono diventati amici, perché sono troppo diversi, ma la loro alleanza politica e l'affiatamento sul lavoro, hanno raggiunto vette formidabili. Il merito è soprattutto di lei. Era Hillary ad avere l'orgoglio ferito, per la sconfitta nelle primarie democratiche del 2008.<br />
Era stata lei a farsi pregare con insistenza, prima di accettare un incarico che non voleva. Poi il miracolo: frutto della sua disciplina, dell'autocontrollo, e anche di una lealtà ammirevole.<br />
Questo summit asiatico è ricco di aneddoti. Hillary sempre attenta a non rubare il proscenio, sempre indietro di un passo rispetto al suo presidente. Perfino quando vannoa casa della sua carissima amica Aung San Suu Kyi lei resta in disparte, è la Lady birmana ad accorgersene e a correrle incontro per abbracciarla. E alla conferenza stampa nella villa sul lago di Yangoon, il presidente gioca con questa modestia. Fa finta di non trovare più il suo segretario di Stato, interrompe la dichiarazionee si guarda attorno: «Hillary, dove sei sparita?» Poi c'è la storia del monaco, nel convento buddista Wat Pho di Bangkok, su cui circolano versioni contrastanti. Il monaco avrebbe detto a Obama che il Buddha coricato gli porterà un terzo mandato (vietato per legge in America, ma fu fatta un'eccezione per Franklin Roosevelt). Secondo la stampa thailandese è Obama ad essersi girato verso Hillary, per indicare al monaco il futuro presidente nel 2016.<br />
La base del partito non ha dubbi. L'ultimo sondaggio tra gli elettori democratici la vede favoritissima per la nomination del 2016 con oltre il 60% dei consensi, mentre Joe Biden che arriva secondo non raggiunge il 20%. Un buon piedistallo, per cominciare la raccolta fondi.<br />
<br />
Federico Rampini<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>La scommessa di Obama far ripartire il negoziato di pace In prima fila l´Egitto di Morsi</b></span><br />
<br />
GERUSALEMME - «Ci sono cittadini israeliani che si aspettano un´azione militare più dura e forse avremo bisogno di farla», dice accigliato Benyamin Netanyahu ai giornalisti convocati poche ore dopo aver accettato la proposta egiziana di fermare la guerra contro Hamas. E non sembra trattarsi soltanto di una minaccia in calce alla tregua, nell´ipotesi di una malaugurata violazione da parte del Movimento islamico. Più realisticamente, il premier israeliano sta semplicemente riferendo ad alta voce un pensiero diffuso nella maggioranza che sostiene il suo governo: Gaza non finirà mai di rappresentare una minaccia per Israele e prima o poi bisognerà rimettere i piedi in quella sabbia.<br />
La tregua che mette fine all´operazione "Colonna di nuvole", nasce dunque con molti "se" e molti "ma". Bisognerà vedere nel dettaglio i termini dell´intesa raggiunta al Cairo per capire se può veramente rappresentare un punto di partenza per un vero negoziato in grado di stabilire una pace duratura, o se lo scetticismo di Netanyahu è destinato ad essere confermato dai fatti. Di sicuro, l´operazione "Colonna di nuvole" ha funzionato come un banco di prova per molti protagonisti sulla scena regionale, mettendo in luce una serie di cambiamenti che già si percepivano.<br />
S´è capito subito che per il presidente Obama spegnere le fiamme della guerra era una condizione irrinunciabile per il futuro del suo nuovo quadriennio. E ieri se n´è avuta conferma. Dopo mesi, anni, di incomprensioni con il premier israeliano, è stato lo stesso Netanyahu a telefonare ad Obama (mai i due leader si sono parlati tanto come in questi ultimi giorni) per comunicargli la decisone di accettare la proposta egiziana. Obama l´ha ringraziato. E questo è un dettaglio rivelatore, di un cambiamento in corso nei rapporti tra i due alleati. Obama avrebbe potuto cogliere l´occasione della guerra di Gaza per saldare i conti con Netanyahu che non ha mai nascosto la sua simpatia per Romney. Invece, il presidente americano non l´ha fatto, preferendo far valere la sua ritrovata leadership quando deciderà di rilanciare il processo di pace, considerato in Israele morto e sepolto, contro un recalcitrante premier israeliano.<br />
Si vedrà. Di certo, in questo momento l´America fa molto affidamento sull´Egitto del presidente Mohammed Morsi, il quale esce da questa vicenda con la corona del vincitore. Dopo aver ricevuto la telefonata di ringraziamento da Obama, Morsi è stato gratificato da Hillary Clinton con una serie di elogi sperticati, quando la signora della diplomazia americana ha affermato, alla conferenza stampa in cui è stata annunciata la tregua, che il governo egiziano aveva acquisito «responsabilità e leadership nella regione».<br />
Sicuramente, nel successo di Morsi, ha pesato il comune legame ideologico e religioso tra i Fratelli Musulmani, cui il presidente egiziano appartiene, e i dirigenti di Hamas, il movimento che può essere considerato una "costola" dell´organizzazione islamista egiziana. Ma anche Morsi, stretto tra l´opinione pubblica egiziana solidale con i palestinesi di Gaza e il bisogno di accreditarsi come un interlocutore affidabile presso l´Amministrazione americana, da cui dipende un sostanzioso contributo alle spese militari, pari a un miliardo e 300 milioni di dollari l´anno, aveva fretta di trovare una soluzione alla crisi.<br />
Lo ha saputo fare in prima persona, senza lasciare spazio al premier turco Erdogan che, precipitatosi al Cairo, ha adoperato nei confronti d´Israele parole molto più dure di quelle adoperate da Morsi, né al dinamismo dei paesi del Golfo, e segnatamente dal Qatar che per convincere Hamas a più miti consigli ha fatto leva sui 400 milioni di dollari promessi un paio di settimane fa ai dirigenti di Gaza per finanziare il loro «progetto nazionale».<br />
Ma il Cairo, ha dimostrato di saper giocare un ruolo decisivo, citando ancora Clinton, come si conviene al paese non solo più popolato ma politicamente più prestigioso del Medio Oriente. E non solo, Morsi sembra proporsi oggi come perno di un´alleanza sunnita, composta da Egitto, Giordania, Tunisia, Paesi del Golfo che, in occasione della crisi di Gaza, ha costretto ai margini il fronte sciita guidato dall´Iran (cui non è rimasto che fare appello ai musulmani di mandare armi a Gaza) e composto da Hezbollah, Siria e in parte Iraq. E chissà che questo non sia già un test per domani.<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span><br />
<br />
Alberto Stabile<br />
<br />
<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-46339331181256470912012-11-21T13:58:00.000+01:002012-11-21T13:58:09.433+01:00ISRAELE E' noto che molti cialtroni sgradevoli anche d'aspetto (GIULIANO FERRARA, GAD LERNER, SALLUSTI) sono dalla parte di Netanyahu, criminale internazionale, assassino di vocazione e ladro di indole. Per fortuna non sono ancora comparse manifestazioni di solidarietà con dei briganti che per rispondere ai quasi innocui razzi di Hamas usano bombe al fosforo vietate da ogni convenzione internazionale e le cui vittime sono quasi sempre bambini. In questo modo il brigante Netanyahu dovrebbe finire a braccetto nella stessa tomba in cui è finito dopo la forca Saddam Hussein. Dio è Clemente e Misericordioso e anche Paziente, ma prima o poi la pazienza finirà e allora il gangstar Netanyau farà la stessa fine. Tutti quelli che usano l'argomento secondo cui i massacri e le distruzioni operate dall'esercito israeliano sarebbero dovute al fatto che nessuno può tollerare quotidiani bombardamenti sul proprio territorio. Chi fa questo tipo di ragionamento dimentica che la Palestina non è territorio del cosiddetto stato ebraico ma preda di brutali guerre di aggressione e di sterminio; dimentica altresì che dal 1948 il popolo palestinese deve subire una occupazione militare, brutale e assassina, il saccheggio dei propri campi, il furto delle fonti d'acqua e la quasi distruzione di un fiume come il Giordano.<br />
I delitti che lo stato israeliano ha commesso in tutti questi anni, fino al rifiuto di dare valenza giuridica al voto dell'assemblea dell'ONU che a stragrande maggioranza ha riconosciuto lo stato di Palestina, sono talmente tanti e tali da non poter neppure essere elencati. Ora chiunque abbia un minimo di rispetto per le leggi internazionali e per l'umanità deve richiamare all'ordine gli energumeni, oppure rapidamente chiuderli in una robusta e perpetua camicia di forza.<br />
<br />Allahu Akbar, Dio è il più Grande... e il popolo palestinese e le sue ragioni storiche e politiche avranno prima o poi ragione dei briganti che, con il consenso dei cosiddetti paesi occidentali hanno occupato la terra di Abramo.<br />
<br />Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-40369372474954215482012-11-20T16:26:00.003+01:002012-11-20T16:29:47.857+01:00E' ARRIVATO IL MOMENTO CHE CHI NEL MONDO POSSIEDE UN MINIMO SENSO DELLA GIUSTIZIA E DELLA VERITA' SI MOBILITI CONTRO LA BANDA DI CRIMINALI CHE SI AUTO ATTRIBUISCE IL NOME DI "STATO DI ISRAELE"<span style="font-size: large;"><b>Quella famiglia divenuta una bandiera</b></span><br />
<br />
Gaza sotto le bombe piange i suoi 100 morti Israele colpisce il media center e lo stadio. Dalla Striscia pioggia di razzi<br />
GAZA. JAMAL, il patriarca della famiglia Al Dalou, con il volto gonfio di pianto abbraccia i parenti e i vicini di casa che sono venuti a porgergli le condoglianze per il lutto che lo ha colpito. È rimasto solo.<br />
LA SUA famiglia — la moglie, il figlio, la nuora, la sorella e cinque nipoti — sono morti nel crollo della palazzina centrata da un missile domenica scorsa nel quartiere Nasser. In silenzio, stanno seduti sulle delle sedie di plastica bianca prestate da un vicino; a pochi metri di distanza un bulldozer sta scavando fra le rovine. Al tragico appello manca ancora Yara, l’altra figlia. Poi in un clima di grande commozione, una piccola folla sfida i droni armati di missili e i caccia F-16, che come calabroni volano incessantemente, e per la strade deserte di Gaza City lo accompagna nel cimitero di Sheikh Radwan. Vengono sepolti anche i due vicini di casa uccisi dall’esplosione. Secondo l’esercito israeliano nella palazzina, centrata da un missile ad alto potenziale, abitava un certo Yiahia Abayah, identificato come un leader del movimento armato della Jihad islamica. Ma ora nessuno degli abitanti sulla strada della famiglia Al Dalou dice d’avere mai sentito questo nome. Un portavoce della Difesa accenna a «un incidente» ma avvisa che tutto è ancora da chiarire.<br />
Le immagini della strage e dei soccorritori che scavano tra le macerie sono state trasmesse decine di volte da Al Jazeera e dai grandi network. Le hanno viste in tutto il mondo arabo, e rischiano — temono gli israeliani — di diventare la versione palestinese del villaggio libanese di Kafr Qana. Il video che mostrava i risultati del bombardamento israeliano di Kafr Qana, nel luglio del 2006, cambiarono il volto della “seconda guerra in Libano”, spingendo l’opinione pubblica mondiale contro la reazione israeliana all’attacco degli Hezbollah e fermarono quel conflitto. Forse la tragedia della famiglia Al Dalou potrebbe spingere i Paesi arabi, quelli europei, ma soprattutto gli Stati Uniti, a premere su Israele per fermare gli attacchi aerei.<br />
La campagna aerea, le eliminazioni mirate, la distruzione di “arsenali” e commissariati di polizia è proseguita anche ieri — 23 le vittime della giornata, che portano i morti palestinesi a oltre 100 — ma una indicazione che le cose a Gaza per Israele non stanno andando come previsto è l’aumento costante del numero di vittime tra i civili palestinesi. Anche prima della strage della famiglia Al Dalou, i resoconti delle vittime tra i bambini, le donne e gli anziani si sono moltiplicati, mentre il danno causato ai militanti di Hamas o di altre organizzazioni è stato relativamente limitato. Ci sono diverse ragioni per questo: Hamas opera all’interno di una popolazione civile, e nasconde i suoi arsenali in aree edificate. Lo stesso vale per lanciamissili, missili e altre armi ancora. Inoltre, gran parte dei militanti è molto attenta a non rimanere al di sopra del suolo gran parte della giornata. Resta nella rete di gallerie costruite sotto la Striscia negli ultimi anni e certamente è a rischio più basso rispetto alla maggioranza della popolazione di Gaza. Il lancio di un missile poi è estremamente rapido e avviene talvolta tramite telecomando.<br />
Alla sesta giornata il conflitto fra Israele e Hamas, visto da Gaza, offre pochi spiragli visibili di speranza nella direzione di quella tregua che si prova a negoziare al Cairo. L’offerta di Hamas è giudicata inaccettabile dagli israeliani e viceversa, mentre nella Striscia la morte è in agguato ovunque: negli edifici governativi come nelle basi delle milizie; nello stadio di calcio come nel Media Center Al Shuruq; nei campi agricoli vicini al confine. Sulle strade chi cavalca una motocicletta rischia di diventare obiettivo dei droni o dei caccia israeliani; chi esce per strada rischia la vita come chi sta in casa. In giro si avventura soltanto chi non può farne a meno: giornalisti, medici, tecnici della luce o del telefono.<br />
L’attività commerciale è paralizzata. Nel centro di Gaza restano aperte le panetterie e qualche ristorante, per i rari passanti. Il ministero dell’Economia del governo di Hamas assicura che ai negozi sono stati distribuiti generi di prima necessità. Ma le corsie dei supermercati, che aprono 1-2 ore, sono deserte e gli scaffali semivuoti. «Non avvicinatevi ai santuari di Hamas», ha intimato Israele agli abitanti della Striscia, dopo essersi inserito nelle frequenze della radio e della tv di Hamas. Non è così semplice visto che al tempo stesso Israele sostiene che i miliziani di Hamas, le loro installazioni e i loro arsenali, sono nascosti anche nelle scuole, nelle moschee, fra gli impianti sportivi, nei Media center. Ieri quel che restava del grattacielo Al-Shuruq nel quartiere di Rimal — che ospitava fra gli altri gli uffici di Sky news, Al Arabiya, Russia Today, la Press tv iraniana, ma anche due tv vicine a Hamas — è stato distrutto da un secondo attacco nel quale è morto un leader della Jihad islamica con tre miliziani, ma anche due civili.<br />
Chi vive nelle zone più vicine al territorio israeliano cerca rifugi provvisori: ieri l’Unrwa — che assiste 800 mila palestinesi privi di mezzi di sostentamento — ha aperto alcune delle scuole che gestisce, chiuse per motivi di sicurezza, per ospitare i nuovi sfollati. La sera a Gaza non c’è una luce accesa per la strada; la paura cresce, nell’angoscia che la “campagna di terra” promessa da Netanyahu sia imminente.<br />
<br />
Fabio Scuto<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>ALLA GUERRA PRIMA DEL VOTO LA SCOMMESSA DI NETANYAHU APRE IL FRONTE DELLE ELEZIONI</b></span><br />
<br />
Il Consiglio dei Nove, il gabinetto ristretto che aveva deciso in gran segreto la guerra contro Hamas, s'è ritrovato durante la notte per valutare la tregua. Perfino Avigdor Lieberman, l'ultradestro ministro degli Esteri, dice di preferire a questo punto una "soluzione politica".<br />
<br />
MISSILI SU GAZA<br />
L'opinione pubblica comincia a farsi sentire. Gli editorialisti temono che l'operazione di terra non serva che a versare altro sangue e stavolta, inevitabilmente, anche quello dei soldati israeliani. I gruppi pacifisti si mobilitano contro "la guerra elettorale" di Netanyahu. Il premier che s'è vantato di non aver mai mobilitato l'esercito durante il suo mandato comincia a sentire la pressione.<br />
<br />
NETANYAHU<br />
Eppure, con l'84% degli israeliani al proprio fianco, secondo un freschissimo sondaggio di<br />
Haaretz, e la totalità della classe politica al seguito, Benyamin Netanyahu potrebbe trasformare il tempo che resta fino alle elezioni del 22 gennaio in una marcia trionfale. Ma c'è un ostacolo assai rischioso sul suo cammino: anche se nelle ultime ore si sono moltiplicate le voci di una tregua imminente, la seconda guerra di Gaza contro Hamas non è finita.<br />
<br />
MISSILI SU GAZA<br />
Il Consiglio dei Nove (lui, Barak, Lieberman, il ministro dell'Interno Ishay, quello degli Affari strategici Moshè Yaalon, più il capo di Stato Maggiore Katz e i responsabili dei 3 principali servizi di sicurezza) devono trovare il mondo di uscirne senza dare l'impressione di una precipitosa marcia indietro.<br />
<br />
Si contavano i minuti mancanti all'invasione, i carri armati avevano già acceso i motori, ma piuttosto che il campo di battaglia di Gaza, s'è aperto quello che un grande giornalista israeliano, Nahum Barnea, ha definito il "terzo fronte" della guerra: non quello in cui i due nemici si affrontano armi alla mano, né quello interno delle vittime civili, ma il fronte politico, dove le operazioni militari producono i loro effetti e incidono anche sulle fortune personali di chi le ha decise.<br />
<br />
MISSILI SU GAZA<br />
«In termini politici - sostiene Barnea - una manovra militare è sempre un rischio. Quello che appare come un'azione gloriosa può trasformarsi in un disastro elettorale». In parole povere, la sua "guerra elettorale" Netanyahu l'ha decisa, ordinando l'uccisione del capo militare di Hamas, Ahmed Jaabari, adesso è costretto a cercare una tregua altrettanto elettorale, possibilmente alzando le dita a V in segno di vittoria. Guerra ed elezioni, dunque, una coincidenza che in un paese come Israele s'è presentata molte volte.<br />
<br />
HAMAS<br />
Per restare nell'arco dell'ultima generazione, si potrebbe cominciare citando il caso delle elezioni del giugno 1981 che videro il leader laburista Shimon Peres, l'attuale presidente, sfidare il premier conservatore Menachem Begin. Il voto era stato fissato per la fine di giugno. Peres conduceva nei sondaggi. Tre settimane prima, il 7 giugno Begin ordinò l'Operazione "Babilonia", con cui venne chiamato in codice il bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osyrak. Begin stravinse il duello elettorale.<br />
<br />
ARIEL SHARON 00512AP<br />
Nel 1996 Shimon Peres, succeduto provvisoriamente a Yitzhak Rabin, ucciso il 5 Novembre dell'anno prima, deve affrontare l'astro nascente del Likud, un Netanyahu che non ha ancora 45 anni. Il paese è sconvolto da un'ondata di attentati suicidi, la strategia di Hamas contro lo Stato ebraico, ma anche contro gli accordi di Oslo firmati da Yasser Arafat. Per tacitare l'opinione pubblica allarmata, l'11 aprile Peres ordina l'operazione "Grapes of Wrath", i frutti dell'ira, contro gli Hezbollah libanesi.<br />
<br />
Ecco un esempio di quel fattore di rischio, d'imprevedibilità della guerra di cui parla Barnea. Il 18 Aprile l'artiglieria israeliana bombarda il campo profughi di Cana, gestito dalle Nazioni Unite, muoiono 111 rifugiati, e l'operazione si conclude in un disastro politico-diplomatico. Netanyahu vince per soli 15mila voti.<br />
<br />
Neanche il consenso popolare che accompagna, all'inizio, certe operazioni militari può essere considerato una garanzia. All'inizio della Seconda guerra del Libano (luglio-agosto 2006), la decisione presa dal primi ministro del tempo, Ehud Olmert, godeva dell'80% dei consensi. Un mese dopo di quel consenso non c'era più traccia. Pesava, invece, la morte di oltre 100 soldati.<br />
<br />
GILAD SHARON FIGLIO DI ARIEL SHARON<br />
Talvolta, la "tenuta" politica non è garantita neanche in caso di vittoria. La prima guerra contro Hamas e contro Gaza, voluta da Ehud Olmert, non segnò certo una sconfitta militare per Israele. Ma i risultati sul piano dell'immagine furono disastrosi. Allora, come ora, i drammi delle vittime civili documentati dalle tv commossero e indignarono l'opinione pubblica. Il governo israeliano dovette acconsentire al una tregua che non ha certo risolto il conflitto, né diminuito la capacità offensiva di Hamas. E da allora la stella di Olmert cominciò a tramontare.<br />
<br />
2 - SHARON JR: "RADERE AL SUOLO GAZA COME GLI AMERICANI CON HIROSHIMA"<br />
Da "la Repubblica"<br />
«Radere al suolo Gaza»: è l'unica opzione per sconfiggere Hamas secondo Gilad Sharon, figlio dell'ex premier israeliano Ariel Sharon. «Gli americani non si sono fermati a Hiroshima: dato che i giapponesi non si stavano arrendendo abbastanza in fretta, hanno colpito anche Nagasaki», ha scritto in un editoriale sul Jerusalem Postche ha scatenato un vespaio di commenti sui social network.<br />
<br />
Alberto Stabile<br />
<br /><br />PRINCIPALE PERICOLO PER LA PACE MONDIALEDomenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-31745565294375765972012-11-19T14:07:00.000+01:002012-11-19T14:07:05.573+01:00ISRAELE <span style="font-size: large;"><b>Raid su Gaza fanno strage di bambini. Antimissili in azione a Tel Aviv</b></span><br />
<br />
Gaza (Striscia di Gaza), 18 nov. (LaPresse/AP) - Per il quinto giorno consecutivo, prosegue l'offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza e il bilancio dei morti continua a salire: 71 le vittime palestinesi, tra cui molti bambini. Nel più grave degli episodi, una casa di due piani dove viveva la famiglia Daloo è stata rasa al suolo e undici civili, soprattutto donne e bimbi, hanno perso la vita. Non si fermano intanto nemmeno i razzi lanciati versi Israele (due quelli intercettati oggi dal sistema Iron Dome diretti a Tel Aviv), mentre la diplomazia è al lavoro per provare a raggiungere un cessate il fuoco. Ma le ultime dichiarazioni del premier Benjamin Netanyahu, secondo cui "l'esercito di Israele è pronto a estendere in modo significativo l'operazione" a Gaza, non fanno ben sperare. Migliaia di soldati israeliani sono dispiegati al confine con la Striscia per l'eventualità di un attacco di terra.<br />
71 IN TUTTO LE VITTIME PALESTINESI. Secondo quanto riferisce l'emittente al-Jazeera, citando fonti mediche, dall'inizio dell'offensiva scattata mercoledì, le vittime palestinesi sono in tutto 71, di cui venti bambini, otto donne, nove anziani e 34 uomini adulti. Molti anche i feriti, in tutto 660, tra cui 224 bambini, 113 donne e 50. Tra gli israeliani, invece, tre i morti e oltre 50 le persone rimaste ferite.<br />
RAZZI VERSO TEL AVIV. INTERVIENE IRON DOME. Intanto, continuano i lanci di razzi da Gaza verso il territorio israeliano, oggi oltre cento, due dei quali diretti verso Tel Aviv. Secondo quanto riferiscono fonti israeliane, in giornata il sistema anti-missile Iron Dome ha intercettato e distrutto almeno 30 razzi, compresi quelli diretti verso la capitale. Intanto, il comandante Shahar Shohat, intervistato dall'emittente Channel 2, fa sapere che Israele è pronto a schierare la sesta batteria di Iron Dome, "nel caso fosse necessario".<br />
NELLA NOTTE RAID SU MEDIA CENTER A GAZA. Nella notte due media center erano stati colpiti da raid israeliani, provocando il ferimento di almeno sei giornalisti. Un raid ha raggiunto il complesso Al-Shawa, dove hanno sede alcuni media locali e stranieri tra cui l'emittente televisiva con base in Libano al-Quds Tv, la rete tedesca ARD e Kuwait tv. Un secondo attacco aveva colpito poi un altro media center: due missili sono stati lanciati sul 15esimo piano dell'edificio dove hanno sede gli studi di Al-Aqsa tv.<br />
EGITTO PROSEGUE MEDIAZIONE PER CESSATE IL FUOCO. Proseguono intanto gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. Un ruolo centrale è giocato dall'Egitto, il cui presidente Mohammed Morsi ha ventilato ieri la possibilità di una tregua. Oggi Morsi ha parlato al telefono per 20 minuti con il premier di Hamas, Ismail Haniyeh. Quest'ultimo ha detto a Morsi di sostenere gli sforzi di mediazione, a patto che Hamas riceva "garanzie che sarà evitata ogni futura aggressione" da parte di Israele.<br />
NETANYAHU: PRONTI A ESTENDERE OPERAZIONE. Nonostante i tentativi di mediare una pace, Natanyahu ha fatto sapere che l'esercito di Israele è pronto a estendere l'operazione su Gaza. La sua dichiarazione giunge dopo un'intervista rilasciata oggi alla radio militare dal portavoce dell'esercito israeliano, il brigadier generale Yoav Mordechai. Quest'ultimo ha spiegato che nell'offensiva a Gaza - oltre ai lanci di razzi - Israele ricorrerà oggi ad attacchi "più mirati, più chirurgici e mortali" contro Hamas. Mordechai ha detto che all'esercito è stato ordinato di intensificare i raid a seguito della riunione a tarda notte alla quale hanno partecipato Netanyahu e il ministro della Difesa Ehud Barak. "Immagino che nelle prossime ore vedremo continui attacchi mirati a uomini armati e comandanti di Hamas", ha affermato Mordechai ad Army Radio.<br />
ISRAELE PRENDE FREQUENZE RADIO HAMAS. Sempre oggi l'esercito israeliano si è impossessato di alcune frequenze delle stazioni radio di Hamas e della Jihad islamica per diffondere un messaggio registrato in lingua araba in cui preannuncia l'avvio di una seconda fase della sua operazione. "Alla popolazione di Gaza: Hamas sta scherzando con il fuoco e giocando d'azzardo con il vostro destino", recita il messaggio che viene trasmesso ogni cinque minuti. "La Israel Defense Force si sta apprestando alla seconda fase della sua operazione; per la vostra sicurezza dovreste stare lontani da infrastrutture e personale di Hamas", prosegue la voce. Il messaggio non spiega in cosa consista la "seconda fase".<br />
COSA CHIEDONO LE DUE PARTI PER ARRIVARE ALLA TREGUA. Un accordo rapido fra le parti per un cessate il fuoco sembra improbabile visto che il governo di Hamas e lo Stato ebraico sono ben distanti nelle rispettive richieste. Gaza vorrebbe condizionare un accordo per la tregua all'abbandono totale dell'embargo sulla Striscia imposto nel 2007 da Israele e dal predecessore di Morsi, Hosni Mubarak. Hamas vuole inoltre garanzie che Tel Aviv fermi le uccisioni mirate dei suoi leader e comandanti militari. Israele, da parte sua, respinge queste richieste, fa sapere di non essere interessato a un "intervallo" e vuole garanzie che i lanci di razzi dal territorio palestinese si fermino del tutto. Negli ultimi giorni, da Gaza i militanti hanno esteso il raggio d'azione dei loro razzi, lanciandoli anche in direzione di Tel Aviv e Gerusalemme. Il direttore generale del ministero della Difesa israeliano, Udi Shani, ha spiegato ad Army Radio che l'operazione dello Stato ebraico contro i militanti di Gaza non intende far cadere il governo di Hamas, ma minare le sue capacità di attaccare Israele. "Se non riusciamo a raggiungere i nostri obiettivi via aria, dovremo entrare via terra", ha detto Shani. "Spero che nei prossimi giorni si deciderà", ha concluso.<br />
COOPERANTI ITALIANI EVACUATI A GERUSALEMME. Sempre oggi, il gruppo di cooperanti italiani bloccati da giorni a Gaza è stato trasferito a Gerusalemme, grazie a un'operazione portata a termine dal consolato generale italiano con il sostegno dell'ambasciata a Tel Aviv e sotto il coordinamento dell'unità di crisi della Farnesina. I nove (otto cooperanti e una missionaria laica) sono stati fatti salire su un convoglio richiesto dall'unità di crisi e dal consolato, e organizzato dal dispositivo Unrwa dell'Onu, grazie a cui hanno raggiunto il valico di Eretz e sono stati accompagnati a Gerusalemme. "Siamo riusciti a lasciare la Striscia in Gaza in uno dei rari momenti in cui la situazione si era tranquillizzata", ha confermato a LaPresse una dei cooperanti, Meri Calvelli, dell'Associazione cooperazione e solidarietà, che si occupa di progetti legati all'agricoltura a sud di Gaza. "Ora staremo qui qualche giorno ma - aggiunge - la nostra intenzione è tornare presto nella Striscia per dare sostegno alle famiglie più disagiate", "sperando che la nostra presenza aiuti anche a fare pressioni internazionali affinché si giunga alla fine delle violenze".<br /><br /><br />
<span style="font-size: large;"><b>Raid su Gaza, strage di bambini (Fabio Scuto)</b></span><br />
<br />
“Stavo giocando poi è esploso tutto”.<br />
<br />
Nell’ospedale di Gaza tra i bambini straziati dalle bombe.<br />
“Fate la guerra lontano da noi”<br />
Raid d’Israele contro i razzi di Hamas, colpite le case<br />
<br />
GAZA. HASSAN, l’addetto della morgue all’ospedale Al Shifa di Gaza City, ha il volto di pietra mentre depone nella cella frigorifera il corpicino di Eyad Abu Khosa, 18 mesi, morto senza nemmeno accorgersene ieri mattina sotto un bombardamento nel campo profughi di Al Bureij. Eyad è già avvolto nel sudario bianco che lo accompagnerà sottoterra, ma il telo è macchiato di sangue perché la ferita che l’ha ucciso versa ancora.<br />
<br />
I MORTI non vengono più ricomposti – come la pietà umana vorrebbe – perché in ospedale il filo da sutura sta finendo e viene usato solo per i feriti. Con Eyad ieri, sotto il diluvio di “bombe intelligenti” che arrivavano da cielo e mare, sono morti altri 9 bambini, tutti sotto i 10 anni. Un missile ha centrato una palazzina di tre piani nel rione Nasser, e si portato via un’intera famiglia, gli Ad-Dalo: 5 donne, la nonna e 6 ragazzini; il più piccolo aveva una settimana, il più grande 5 anni. Nel suo quinto giorno la “seconda guerra di Gaza” ha conosciuto il suo bilancio più sanguinoso: 24 i morti ieri, 22 i civili palestinesi – 10 bambini – e due noti dirigenti di Hamas. In un atmosfera da incubo – la città deserta, i raid aerei che si susseguono, l’attesa carica di ansia e paura per l’attacco terrestre – la gente di Gaza piange questa “strage degli innocenti”.<br />
«Se gli israeliani fermeranno i bombardamenti forse domani riusciremo a fare il funerale », dice Fadhi, lo zio di Eyad, unico parente che assiste al tragico rito nella camera mortuaria e firma le carte nello sgangherato ufficio a fianco, affollato dai parenti delle altre vittime che in silenzio aspettano il loro turno. Sono tutti uomini, almeno alle donne è risparmiata questa tragica incombenza, quest’ultimo dolore. La madre di Eyad, Safiah, è dall’altra parte dell’ospedale. Nel reparto rianimazione al piano terra i medici della terapia d’urgenza si stanno affannando a tenere in vita gli altri due fratellini di Eyad, di 4 e 5 anni, gravemente feriti nella stessa maledetta esplosione che ha ridotto la loro casa nel campo profughi a un pugno di sabbia.<br />
Ambulanze e macchine civili arrivano di continuo nel cortile dell’Ospedale Al-Shifa il nosocomio più importante della città, più importante della Striscia – ma le sirene sono spente e i clacson muti perché non ce n’è bisogno: le strade di Gaza City sono deserte. La benzina scarseggia, al mercato nero ha toccato i 100 dollari per venti litri, ma soprattutto l’auto potrebbe diventare un bersaglio per i droni e per i missili degli F-16 a caccia delle rampe dei missili che comunque – dopo cinque giorni di bombardamenti senza interruzioni – continuano a piovere sul sud d’Israele.<br />
Per evitare di essere colpiti i miliziani palestinesi hanno creato a Gaza postazioni di razzi ben mimetizzate, gli ordigni sono interrati, protetti da piastre mobili che aderiscono perfettamente al terreno e che vengono alzate con un radiocomando. Oppure quelle mobili vengono nascoste e spostate nelle aree più densamente abitate, impianti sportivi o vicino alle scuole per farsi scudo dei civili e cercare di sfuggire alla rappresaglia che invece puntualmente arriva dopo ogni lancio. Con il conseguente alto numero di vittime non combattenti. Gaza, con i suoi quasi due milioni di abitanti, è una delle aree più densamente abitate del mondo e quasi metà della palestinesi che ci vive ha meno di 15 anni, bambini e adolescenti hanno sempre pagato un prezzo alto ad ogni operazione militare.<br />
L’atrio del pronto soccorso dell’Al-Shifa è una bolgia di gente che arriva, che piange, che si dispera, che maledice il mondo, che fuma in silenzio con lo sguardo basso guardandosi le scarpe. Il “triage” è invaso di feriti e i medici del pronto soccorso lavorano senza sosta, dibattendosi in mille difficoltà, che sono soprattutto legate alla penuria della farmacia dell’ospedale e alla mancanza di energia. I tavoli operatori di primo intervento nella sala a lato sono separati da una semplice tenda, Il dottor Medhat Abbas, che dirige l’ospedale, durante una pausa tra un’operazione e l’altra ci dice: «In 5 giorni abbiamo consumato quel che consumiamo in 3 mesi, abbiamo curato finora oltre 500 feriti, i 700 posti letto dell’ospedale sono tutti occupati e anche i 20 che abbiamo nella terapia intensiva; lavoriamo senza elettricità per 12 ore al giorno, non si può operare al buio, non funzionano le macchine per l’intervento. E poi stiamo finendo gli anticoagulanti, gli analgesici, gli anestetici, i materiali per le lastre, le sacche per le trasfusioni… ma anche le cose più semplici come i guanti o il filo per le suture». Salendo le scale sbrecciate fino al terzo piano si arriva al reparto Pediatria, nel disimpegno che porta alle stanze un gran poster di “Winnie the Pooh” e i disegni lasciati dai piccoli pazienti sono fissati al muro con le puntine. Anche Pediatria non ha un solo posto libero, perché il più alto numero di feriti si registra tra i bambini. Le case sono piccole a Gaza e il pezzo di strada davanti all’uscio diventa una propaggine dell’abitazione, tutti i ragazzini giocano per la strada. Difficile tenerli fermi, dentro casa, sotto controllo, lontano anche dalle finestre. Non avvertono il pericolo, non hanno la malizia dell’adulto nel riconoscere il rumore fisso che fanno i droni che incessantemente sorvolano la Striscia, il sibilo del missile che annuncia la morte in arrivo quando ormai è troppo tardi. Le scuole nella Striscia sono chiuse da quasi una settimana, i negozi pure, le strade – vuote del caos di traffico abituale – diventano immaginari campi di calcio per partite senza fine. Mahmoud Karton, 6 anni appena fatti, stava proprio giocando una di quelle partite sulla strada di casa nel popolare quartiere di Rimal, quando un missile ha colpito un palazzo di fronte e una scheggia nella schiena gli ha strappato via un rene. La madre Nila, in hijab nero e foulard, è seduta ai piedi del letto. Mahmoud ha il cannello nel naso e l’ago della flebo nella mano destra, ma lo sguardo è rimasto vivace. Che ti ricordi? «Giocavamo e vincevamo pure… poi un fischio, una luce, un gran male lì», dice indicando i grandi occhi neri il lato destro delle coperte consunte ma pulite che lo coprono. «Noi di Gaza siamo ormai abituati a tutto», dice Nila ringraziando per la visita com’è costume fra gli arabi, «l’importante è che sia vivo, abbiamo già perso Majid durante la guerra del 2008… aveva la stessa età. Non voglio dire contro nessuno, ma gli uomini facciano la loro guerra e lascino stare i nostri bambini».<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFqvVUkjfP7WlOhLYA9tXzl24PBk9siE9qwWCbD-BwwgE68g6Yw6e-IkAIREFkzs2YlwK3HL5JuzX1a2GNHQlqL8P-FZM4I1PW9PEVHTiILWHZVqq7JrElhkjquAbRIS6Xmg2iUEult7HB/s1600/330.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="566" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFqvVUkjfP7WlOhLYA9tXzl24PBk9siE9qwWCbD-BwwgE68g6Yw6e-IkAIREFkzs2YlwK3HL5JuzX1a2GNHQlqL8P-FZM4I1PW9PEVHTiILWHZVqq7JrElhkjquAbRIS6Xmg2iUEult7HB/s640/330.jpg" width="640" /></a></div>
<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-2222518514491768762012-11-15T17:27:00.005+01:002012-11-15T17:27:47.608+01:00<br />
<span style="font-size: large;"><b>Israele attacca nella Striscia di Gaza </b></span><br />
<span style="font-size: large;"><b>Hamas risponde con razzi verso il Negev</b></span><br />
<br />
Un'escalation come non se ne vedevano da almeno quattro anni, dai tempi dell'operazione Piombo Fuso: Israele, dopo aver ucciso nel pomeriggio, con un'operazione chirurgica, il comandante militare di Hamas, Ahmed Al-Jaabari, ha effettuato numerose incursioni aeree nella Striscia di Gaza, pare anche da navi al largo nel Mediterraneo. Il totale delle vittime, tra tutti i raid, ammonta a nove secondo l'inviato palestinese all'Onu. Un crescendo di tensione insomma che ha spinto l'Egitto a richiamare l'ambasciatore in Israele.<br />
ANCORA SCONTRI - Il giorno dopo l'uccisione del capo militare di Hamas, proseguono le ostilità fra gli islamici di Gaza ed Israele. Stamane i miliziani palestinesi hanno ripreso a colpire con razzi le principali città israeliane nel Sud di Israele: Beer Sheva, Ashdod, Ashqelon. Da mercoledì sono stati lanciati oltre 100 razzi Grad e Qassam, che non hanno provocato vittime. Da parte sua la aviazione israeliana continua con insistenza i raid nella striscia di Gaza contro infrastrutture di Hamas e contro cellule impegnate nel lancio di razzi. Una di queste è stata colpita a Khan Yunes (nel sud della Striscia): tre miliziani sono rimasti uccisi. A Gaza si avverte intanto un clima di mobilitazione in vista dei funerali del capo militare di Hamas Ahmed Jaabari, che avranno luogo in mattinata. I dirigenti politici di Hamas saranno probabilmente assenti, nel timore di essere colpiti a loro volta.<br />
<br />
ISRAELE:«APERTE TUTTE LE OPZIONI» - Mercoledì il premier di Tel Aviv Benyamin Netanyahu ha parlato alla tv di Stato, annunciando che «l'esercito è pronto a estendere l'operazione, se necessario. Oggi abbiamo rivolto un messaggio chiaro a Hamas e alle altre organizzazioni terroristiche, e se sarà necessario siamo pronti a estendere l'operazione». Mentre il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha autorizzato un richiamo alle armi dei riservisti, dopo l'annuncio di una vasta operazione contro «obiettivi terroristici» nella Striscia di Gaza.<br />
<br />
HAMAS: «EGITTO AIUTACI » - Dal canto suo Ismail Haniyeh, numero uno di Hamas, capo del governo palestinese a Gaza ha invitato gli stati arabi, in particolare l'Egitto a fermare l'attacco israeliano sull'enclave palestinese: «Invochiamo tutti i fratelli arabi e specialmente l'Egitto e il suo nuovo presidente, a fermare questa barbara campagna in difesa di Gaza e del suo popolo. Invochiamo inoltre un urgente incontro tra gli arabi per controbattere la brutale aggressione». E il Cairo ha fatto dunque le prime mosse: ha richiamato il suo ambasciatore in Israele e a chiesto all'Onu di convocare urgentemente il Consiglio di Sicurezza. La Lega Araba, intanto, ha indetto una riunione straordinaria per sabato.<br />
<br />
L'AMBASCIATORE ISRAELIANO TORNA IN PATRIA - Il presidente egiziano Mohamed Morsi ha inoltre convocato l'ambasciatore di Tel Aviv, Yaakov Amitai. Ma Amitai, accompagnato dal suo staff, avrebbe lasciato il Cairo in tutta fretta. Una decisione non voluta però dal governo israeliano, a quanto pare: «Nessuna azione simmetrica è stata presa nei confronti dell'Egitto» dicono fonti diplomatiche di Tel Aviv. «La nostra ambasciata è aperta e funzionante».<br />
<br />
ALTISSIMO DIRIGENTE - Come detto, in uno dei raid aerei, era rimasto ucciso, colpito all'interno della sua auto da un missile, Al-Jaabari, altissimo dirigente di Hamas, capo dell'ala militare del movimento, uno dei ricercati numero uno da parte dell'intelligence israeliana, responsabile del sequestro del soldato Gilad Shalit. Con lui, è morto un altro esponente del braccio armato, Saed Attar. Immediata e durissima è stata la reazione del movimento integralista palestinese: «Il raid aereo di Israele a Gaza ha aperto le porte dell'inferno».OPERAZIONE COLONNA DI NUVOLA - L'esercito israeliano aveva detto che l'esecuzione di Al-Jaabari rientrava in un'operazione denominata «Colonna di nuvola» (Cloud Pillar) contro Hamas e altri fazioni palestinesi nella Striscia di Gaza. L'attacco contro «Jaabari segna l'inizio - aveva detto il portavoce militare Yoav Mordechai, citato dal Jerusalem Post - di una campagna per colpire Hamas e le organizzazioni terroristiche» a Gaza. «Il primo scopo - aveva aggiunto - è di riportare la quiete nel sud di Israele» bersaglio di lanci di razzi dalla Striscia negli ultimi cinque giorno «e il secondo di colpire le organizzazioni terroristiche».<br />
<br />
GLI USA SORVEGLIANO - Dopo l'uccisione di Al_Jaabari sono fioccate le reazioni da tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di «sorvegliare da vicino» l'evoluzione della situazione a Gaza ribadendo il pieno sostegno al diritto di Israele di «difendersi contro il terrorismo». Il Dipartimento di Stato di Washington ribadiva la posizione americana: «gli Stati Uniti sostengono il diritto di Israele e difendersi e condannano in modo forte il lancio di razzi da Gaza».<br />
<br />
OBAMA - Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha avuto un colloquio telefonico con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente egiziano Mohamed Morsi. Lo riferisce la Casa Bianca in un comunicato. Obama ha lanciato un appello a Netanyahu a fare «ogni sforzo per evitare vittime civili» ma ha sostenuto il diritto di Israele di difendersi contro gli attacchi di Hamas, aggiunge la nota della presidenza americana dopo l'eliminazione da parte di Israele del capo militare del movimento islamico. Durante il suo colloquio con il primo ministro di Israele, Obama ha ribadito «il sostegno degli Stati Uniti al diritto di Israele di difendersi contro il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro i civili israeliani», secondo la stessa fonte. Obama e Netanyahu «sono d'accordo sul fatto che Hamas deve fermare i suoi attacchi contro Israele per cercare di allentare la tensione», sottolinea la Casa Bianca. Con Morsi, Obama ha «condannato il lancio di razzi da Gaza contro Israele e ha ancora una volta ribadito il diritto di Israele a difendersi», continua la stessa fonte. «I due leader si sono trovati d'accordo sulla necessità di lavorare insime per cercare di allentare le violenze prima possibile».<br />
<br />
ONU - Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu si è riunito d'urgenza. Nel corso di questa riunione a porte chiuse i 15 membri del Consiglio hanno ascoltato le ragioni esposte dai rappresentanti delle delegazioni israeliane e palestinesi.<br />
<br />
EGITTO: «INACCETTABILE» - L'Egitto, oltre a richiamare l'ambasciatore, ha dichiarato di ritenere «assolutamente inaccettabile» l'azione di Tel Aviv «Condanniamo nei termini più forti possibili l'uccisione di Ahmed Jaabari da parte di Israele» ha dichiarato il ministro degli Esteri del Cairo, Kamel Amr. E ha aggiunto: «L'uccisione di civili e di persone innocenti è assolutamente inaccettabile». I Fratelli musulmani, movimento cui fa capo il partito Libertà e Giustizia del presidente Mohamed Morsi, in una nota hanno avvisato Israele che «deve tenere conto dei cambiamenti avvenuti nel mondo arabo e, in particolare, in Egitto. Il nostro Paese non permetterà che i palestinesi siano oggetto dell'aggressione di Israele come in passato».<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-26624114304285474702012-11-12T16:48:00.003+01:002012-11-12T16:48:26.248+01:00<span style="font-size: large;"><b>Perché i film sull’Islam sacrificano la verità</b></span><br />
<br />
UN TEMPO andavamo al cinema per sognare, per invitare Ava Gardner o Sofia Loren a entrare a far parte delle nostre fantasie. Ci piacevano quelle storie d’amore che finivano male, eravamo felici di aver potuto vivere per un’ora o due tra le braccia immaginarie delle donne più belle del mondo. Questo accadeva prima che la politica s’impadronisse della settima arte per fare propaganda a colpi di effetti speciali, con inseguimenti di macchine sui tetti di Istanbul o esplosioni nei mercati popolari di Kabul o Islamabad.<br />
Abbandonati i sogni meravigliosi e il «glamour», si punta sul tema del «pianeta in pericolo». E questo pericolo oggi è l’Islam. Evidentemente, quello sfigurato da Al Qaeda, o esibito da terroristi e trafficanti di droga per giustificare la loro barbarie, come sta avvenendo anche in questo momento nel Nord del Mali. Nella celebre serie «Homeland » si assiste alla visita di un agente della Cia a Beirut. Una caricatura. Fin dall’aeroporto, nient’altro che donne velate di nero, come in un feudo dei Taliban. Si dà il caso che io sia nato a Beirut alla fine di ottobre, poco dopo l’assassinio di Wissam al Hassan. E ho avuto modo di constatare la modernità, il dinamismo di questa città che non ha perduto nulla della sua energia e delle sue speranze, dove le donne sono vestite come le europee; e se alcune portano il velo, non hanno nulla a che vedere con l’immagine diffusa dal serial americano.<br />
Bene ha fatto il ministro del Turismo a denunciare il modo in cui «Homeland» descrive la capitale libanese. Ha certamente ragione, anche perché questo serial, celebrato e premiato con vari Oscar, è distribuito in tutto il mondo e sta appassionando centinaia di milioni di telespettatori. Ma una denuncia contro una produzione di così grande portata e potenza non basta certo a ricostituire un’immagine veritiera del mondo arabo.<br />
Nell’immaginario americano, oggi l’Islam e il mondo arabo hanno preso il posto del comunismo. In passato si combatteva con ogni mezzo contro il pericolo comunista (tanto che tuttora il popolo cubano soffre nella propria carne per l’embargo economico imposto dall’America, che neppure un presidente come Obama ha osato ammorbidire, e men che meno abolire). Ai bambini si diceva che il diavolo veniva dai Paesi comunisti. Ma poiché ormai l’Unione Sovietica si è dissolta, il muro di Berlino è caduto e il comunismo è relegato in Cina e nella Corea del Nord, ci si è rivolti a un nuovo diavolo:<br />
l’arabo, il musulmano.<br />
Evidentemente, non mancano gli arabi e i musulmani che si impegnano notte e giorno per accreditare nel mondo intero quest’immagine odiosa e devastante, propagando un terrorismo atroce, le cui principali vittime sono gli stessi musulmani. Certo, dall’11 settembre 2001 è stato fatto di tutto per dirigere la lotta contro il mondo islamico e arabo. Al Qaeda è il migliore alleato di quell’America che ha reso tutti gli arabi sospetti, e vede in ogni musulmano un potenziale terrorista.<br />
Chi, come me, viaggia parecchio nel mondo ha avuto occasione di constatare fino a che punto un nome arabo su un passaporto (il mio è francese) susciti diffidenza e sospetti. Nel 2003 mi è capitato di essere trattenuto per varie ore in un box dell’aeroporto di Newark, senza aver fatto nulla di strano o di illegale, e senza che nessuno mi abbia dato spiegazioni. Il mio crimine era quello di essere arabo. Casi del genere si verificano tutti i giorni, ai danni di centinaia di migliaia di viaggiatori.<br />
Abbiamo una cattiva reputazione. Siamo percepiti come lo erano i comunisti ai tempi della guerra fredda.<br />
In un recente film americano di grande successo, «Argo», con Ben Affleck che ne è anche il regista, si racconta come nel 1979 la Cia riuscì a far uscire dall’Iran sei funzionari dell’ambasciata americana che si erano rifugiati presso quella canadese: una vicenda realmente accaduta.<br />
L’Iran vi è rappresentato nel modo più orrendo possibile. Può darsi che all’epoca i guardiani della rivoluzione fossero veramente individui fanatici e brutali. Ma ciò che questo film suggerisce allo spettatore in maniera molto efficace è l’immagine di un Islam selvaggio, sanguinario e violento. Mi ha ricordato un altro film: «Midnight Express», che tanto male aveva fatto a suo tempo alla Turchia.<br />
Non provo alcuna simpatia per il regime iraniano e la sua rivoluzione. Ma il mio pensiero va a quella popolazione, già costretta a subire il regime degli ayatollah. Perché penalizzarla ancora rappresentandola in un modo che non corrisponde affatto alla realtà? Viviamo in un sistema privo di sfumature, che rifiuta la complessità: bianco o nero, vero o falso, buono o cattivo, il bene o il male.<br />
Ogni cosa è vista attraverso un prisma che sacrifica la verità. Ma non lamentiamoci, non accusiamo gli americani se non ci rispettano. Sta a noi, agli arabi coscienti di questa situazione lottare all’interno delle nostre società, contro gli impostori, i falsificatori, i bugiardi, gli inquinatori che corrompono la nostra immagine e la nostra storia, sacrificando il futuro dei nostri figli. Fintanto che i nostri Paesi non saranno divenuti Stati di diritto, con istituzioni realmente democratiche e con una cultura della libertà, saremo sempre soggetti ai perturbatori che ci confinano nell’arretratezza, nel pauperismo, nel sottosviluppo intellettuale. C’è tanto da fare nei nostri Paesi per ristabilire un’immagine veritiera e rispettata della nostra identità, della nostra religione e del nostro essere. Ma finché continuerà l’ingerenza della religione nella politica, finché regnerà la confusione tra la ragione e la fede, offriremo agli americani, e agli occidentali in genere, le migliori occasioni possibili per rappresentarci come caricature, o come marionette.<br />
<br />
TAHAR BEN JELLOUN<br /><br /><br /><b><span style="font-size: large;">Israele, dal Golan cannonate sulla Siria</span></b><br />
<br />
Risposta ai lanci di missili. Alta tensione al confine con Gaza:<br />
pioggia di razzi verso lo Stato ebraico <br />
GERUSALEMME — Per la prima volta dopo quasi quarant’anni le batterie israeliane sulle<br />
colline del Golan hanno sparato contro le postazioni siriane, in risposta ai missili vaganti che da<br />
giorni arrivano sul lato delle alture nelle mani dell’esercito israeliano. Ieri mattina un colpo di<br />
mortaio sparato dal lato siriano aveva colpito — facendo solo danni — un’area sotto il controllo<br />
israeliano lungo la linea del “cessate-il-fuoco” che attraversa queste alture dopo la guerra del<br />
Kippur nel 1973. Quasi<br />
immediata stavolta la risposta: gli israeliani hanno sparato un colpo solo di avvertimento, un<br />
missile anticarro Tamuz di grande precisione, che è andato a cadere a poca distanza dalle<br />
posizioni tenute dall’esercito di Damasco. «Li abbiamo appositamente mancati», commentava<br />
ieri sera il portavoce dell’Idf, annunciando che Israele risponderà «a ogni altra attività ostile».<br />
Della violazione del “cessate-il-fuoco” è stato informato anche il comando Onu dei caschi blu<br />
che presidia la regione; nella denuncia Israele avverte che «i colpi che arrivano dalla Siria<br />
non saranno tollerati e la risposta sarà dura, questi incidenti rappresentano una pericolosa<br />
escalation che potrebbe avere implicazioni importanti per la stabilità della regione». E in<br />
mattinata il governo ha affrontato gli sviluppi della crisi siriana. Il premier Benjamin Netanyahu<br />
ha fatto sapere che le autorità stanno «monitorando attentamente quanto avviene al nostro<br />
confine con la Siria e siamo pronti a qualsiasi dispiegamento».<br />
Da giorni si moltiplicano gli “incidenti” sulle colline del Golan, tre colpi di mortaio —<br />
apparentemente sparati durante una battaglia nelle zone vicine alla frontiera fra forze ribelli e<br />
esercito regolare — sono già caduti giovedì scorso in un area disabitata, lunedì scorso invece<br />
una jeep militare era stata invece centrata da diversi proiettili vaganti, sempre sparati dal lato<br />
siriano delle alture. Fra Siria e Israele c’è solo un accordo di “cessate-il-fuoco”, i due Paesi<br />
sono ufficialmente ancora in “stato di guerra”. Ma malgrado l’occupazione e l’annessione <br />
israeliana di una parte del Golan siriano — ci vivono 80 mila coloni — fra i due eserciti non si<br />
sono mai verificati incidenti lungo la linea di demarcazione, larga in media 4 chilometri, che è<br />
sorvegliata da un contingente dell’Onu forte di 1200 caschi blu.<br />
Ma l’attenzione del Capo di Stato maggiore Benny Gantz e del ministro della Difesa Ehud Barak<br />
è anche concentrata sulla fiammata di guerra che ha investito la Striscia di Gaza nelle ultime<br />
48 ore. Dalle postazioni dei miliziani integralisti sono partiti più di cento missili in 24 ore, in<br />
risposta a due attacchi “preventivi” israeliani. Sanguinoso il bilancio, con sei palestinesi uccisi<br />
e oltre trenta feriti, mentre sul versante israeliano sono stati feriti quattro militari e 4 civili. Le<br />
batterie antimissile Iron Dome hanno intercettato una decina di razzi, quelli diretti contro i<br />
centri abitati circostanti la Striscia — Sderot, Ashkelon — i cui abitanti hanno passato l’intera<br />
giornata negli “shelters” i rifugi anti-bomba obbligatori in ogni casa israeliana. Pugno fermo del<br />
premier Netanyahu anche contro le milizie armate della Striscia che avverte: «Se cercano<br />
l’escalation, noi siamo pronti».<br />
<br />
Fabio Scuto<br />
<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-26165735411008033082012-10-27T22:55:00.004+02:002012-10-27T22:55:43.813+02:00TURCHIA<span style="font-size: large;"><b>Il muro del Bosforo</b></span><br />
<br />
COME È TRISTE L’EUROPA VISTA DA ISTANBUL<br />
Abbiamo sempre guardato al Vecchio Continente come a un modello, dalla laicità ai Lumi Ma<br />
oggi è vittima delle sue paure Ho passato la vita intera ai margini dell’Europa continentale:<br />
dalla finestra della mia casa o del mio ufficio guardavo oltre il Bosforo e vedevo l’Asia sull’altra<br />
riva; perciò, quando pensavo all’Europa e alla modernità, mi sentivo sempre, come il resto del<br />
mondo, un pochettino provinciale. Come i milioni e milioni di persone che vivono al di fuori del<br />
mondo occidentale, dovevo comprendere la mia identità guardando l’Europa da lontano, e nel<br />
processo di elaborazione della mia identità mi sono spesso domandato che cosa poteva<br />
rappresentare l’Europa per me e per noi tutti. È un’esperienza che condivido con la<br />
maggioranza della popolazione mondiale, ma dal momento che Istanbul, la mia città, è situata<br />
proprio dove comincia l’Europa – o forse dove finisce l’Europa – i miei pensieri e i miei<br />
risentimenti sono stati un po’ più pressanti e costanti.<br />
Provengo da una delle tante famiglie dell’alta borghesia di Istanbul che hanno abbracciato con<br />
convinzione le riforme in senso laico e secolare introdotte negli anni ’20 e ’30 da Kemal Atatürk,<br />
il fondatore della Repubblica turca. Per noi, che a metà Novecento conducevamo una vita<br />
altoborghese a Istanbul, l’Europa non era semplicemente un posto dove poter trovare un lavoro,<br />
un luogo con cui commerciare o da cui attrarre investitori: era in primo luogo un faro di civiltà.<br />
A questo punto è il caso di sottolineare un fatto importante. Storicamente, la Turchia non è mai<br />
stata colonizzata da una potenza occidentale, non ha mai subito l’oppressione dell’imperialismo<br />
europeo. Questi ci ha consentito di coltivare più liberamente i nostri sogni di occidentalizzazione<br />
all’europea, senza risvegliare troppi ricordi brutti e sensi di colpa.<br />
Otto anni fa cercavo di convincere chi mi ascoltava di quanto sarebbe stato bello per tutti se la<br />
Turchia fosse entrata nell’Unione Europea. Nell’ottobre del 2004, le relazioni fra la Turchia e<br />
l’Unione Europea erano all’apogeo: l’opinione pubblica turca e gran parte della stampa<br />
apparivano soddisfatte dell’avvio ufficiale dei colloqui per l’adesione. Alcuni giornali turchi<br />
ipotizzavano con ottimismo che la faccenda non sarebbe andata per le lunghe, che Ankara<br />
sarebbe entrata a pieno titolo nell’Unione Europea entro dieci anni, nel 2014. Altri scrivevano<br />
resoconti fiabeschi dei privilegi che i cittadini turchi avrebbero finalmente ottenuto una volta<br />
entrati nella Ue. Cosa più importante di tutte, ci sarebbero stati investimenti e i tesori infiniti dei<br />
vari fondi comunitari avrebbero preso la via della Turchia, consentendo anche a noi, come i<br />
greci, di salire un gradino più su nella scala sociale e vivere nel comfort come gli altri europei.<br />
Nel frattempo diventava sempre più forte, specialmente in Germania e in Francia, il coro delle<br />
proteste di gruppi nazionalisti e conservatori contro il possibile ingresso della Turchia<br />
nell’Unione. Io mi ritrovai invischiato in questo dibattito e cominciai a interrogarmi (e a<br />
interrogare gli altri) sul reale significato dell’Europa.<br />
Se è la religione a definire i confini dell’Europa, pensavo, allora l’Europa è una civiltà cristiana: e<br />
in questo caso la Turchia, la cui popolazione al 99 per cento è di fede islamica,<br />
geograficamente fa parte dell’Europa, ma non ha posto nell’Unione Europea.<br />
Ma una definizione tanto ristretta del loro continente sarebbe soddisfacente per gli europei?<br />
Dopo tutto non è il cristianesimo che ha trasformato l’Europa<br />
in un modello per le persone che vivono al di fuori del mondo occidentale, ma una serie di<br />
trasformazioni sociali ed economiche, e le idee che tali trasformazioni hanno generato nel corso<br />
degli anni. Questa forza intangibile che negli ultimi due secoli ha fatto dell’Europa una calamita fortissima per il resto del mondo è, per dirla in parole semplici, la modernità. Come i nostri fidati<br />
libri di storia ci hanno insegnato, la modernità è il prodotto di fenomeni squisitamente europei<br />
come il Rinascimento, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale. E<br />
l’elemento chiave è che le forze trainanti di questi cambiamenti di paradigma non sono state<br />
religiose, ma “laiche”.<br />
Qualche anno fa, ogni volta che veniva fuori l’argomento dell’Unione Europea, dicevo che la<br />
Turchia doveva entrare nell’Unione se dimostrava di essere in grado di rispettare i principi di<br />
libertà, uguaglianza e fratellanza. «Ma la Turchia rispetta questi principi?», mi chiedeva<br />
giustamente la gente, e ripartiva il dibattito. Ripensando a quei giorni non posso fare a meno di<br />
provare un senso di nostalgia per la passione con cui si discuteva, sia in Turchia che in Europa,<br />
dei valori che l’Europa doveva difendere.<br />
Oggi, con l’Europa che si dibatte nella crisi della moneta unica e il processo di espansione che<br />
ha subito un rallentamento, pochissimi si preoccupano ancora di ragionare e discutere su questi<br />
argomenti. E purtroppo è anche scemato l’interesse positivo che circondava il possibile<br />
ingresso della Turchia. In parte perché la libertà di pensiero rimane, tristemente, un ambito in<br />
cui il mio Paese è ancora in ritardo. Ma la ragione principale sta indubbiamente nel consistente<br />
afflusso di immigrati musulmani dal Nordafrica e dall’Asia in Europa, che agli occhi di molti<br />
europei getta un’ombra cupa di dubbio e paura sull’idea che un Paese a maggioranza<br />
musulmana entri nell’Unione.<br />
È evidente che questa paura sta spingendo l’Europa a erigere muri ai suoi confini, e ad<br />
allontanarsi gradualmente dal mondo. Mentre il motto Liberté, égalité, fraternité cade pian piano<br />
nel dimenticatoio, l’Europa si trasforma tristemente in un luogo sempre più conservatore,<br />
dominato da identità etniche e religiose.<br />
<br />
ORHAN PAMUK<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-70828606417429844592012-10-14T16:52:00.001+02:002012-10-15T16:51:53.565+02:00BREVI OSSERVAZIONI AUTOBIOGRAFICHEConsiderata la mia non più giovane età, sono stato colpito da una di quelle infermità che colpiscono sempre più persone perché la cultura pseudo scientifica dell'occidente, invece di impegnarsi a fondo contro le vere piaghe dell'umanità (la morte per fame soprattutto dei bambini, le malattie infettive dei paesi poveri), ha voluto ambiziosamente cercare di prolungare oltre il limite naturale la durata della vita terrena dell'essere umano.<br />
<div>
Ecco perché quelle malattie che un tempo venivano chiamate invecchiamento, fanno gridare al progresso perché portano la vita dell'uomo oltre il limite che le leggi di natura volute da Allah ha fissato: tutti gli animali hanno un'età media biologica che di norma coincide con la capacità di procreare. Solo nell'uomo e in particolare il genere maschile va oltre l'età procreativa, mentre sappiamo tutti che questa cessa nella donna intorno ai 50 anni. Maschio e femmina della specie umana arrivano ormai nei paesi occidentali a livelli di gran lunga superiori, quasi che si nutrisse l'ambizione, da non pochi scienziati ventilata, di volerla prolungare fino oltre il secolo. Le malattie dell'invecchiamento tra cui assume una particolare rilevanza quella che mi ha colpito (il cosiddetto morbo di Parkinson) possono invece considerarsi un messaggio dell'onnipotenza di Allah: "Puoi prolungare la vita terrena fin quando vuoi o credi potere, ma l'Onnipotente ci ricorda che a Lui dobbiamo prima o poi tornare".</div>
<div>
Si può fare tuttavia un uso positivo di quel tipo di infermità e ringraziare l'Onnipotente di avercela mandata lasciandoci la mente lucida e il corpo, sia pure con difficoltà, capace di muoversi. Possiamo così usufruire del nostro tempo per approfondire i ragionamenti sul destino dell'uomo, sui suoi bisogni reali e sui suoi doveri verso il Creatore e verso il prossimo. Per questo, in risposta a quei cialtroni che non sanno quello che dicono e che attribuiscono la mia infermità a una sorte di punizione per aver abbracciato l'Islam, mi viene spontaneo rispondere che io ringrazio Iddio per avermi dato quest'ultima opportunità di maturazione e di arricchimento del mio impegno per l'Islam.</div>
<div>
Naturalmente tutto questo fa acquisire una maggiore capacità critica nei confronti delle miserie che l'umanità, e in particolare quella che crede di essere più civile e più evoluta, provoca ai propri simili e all'ambiente che ci circonda: sempre maggiori sono le devastazioni che la cosiddetta civiltà tecnologica provoca alla Terra che Allah aveva consegnato ai nostri progenitori perché ne facessimo un giardino, perché ne conservassimo la bellezza e ne proteggessimo le specie viventi. Dovremmo allora ricordarci che Allah, non è solo Clemente e Misericordioso ma è anche giusto e come più volte ricorda il Corano da a ciascuno ciò che si merita.</div>
<div>
Alla luce di queste considerazioni mi viene di guardare con profonda preoccupazione e pietà a quel che accade nel mio paese, che è pur sempre la patria che l'Onnipotente mi ha assegnato e non posso trattenere l'indignazione davanti allo spettacolo della corruzione, del saccheggio delle risorse che ci rendono sempre più poveri delle ingiustizie che i più ricchi e potenti infliggono ai più poveri e diseredati. Dio punirà i trasgressori.</div>
<div>
Sotto questo profilo non possiamo non lanciare un forte grido di allarme che si traduca anche in segnali di avvertimento verso i principali responsabili delle ingiustizie e dei delitti contro ciò che l'Onnipotente ha creato verso tutto ciò che vive. </div>
<div>
Nel mio piccolo ho così deciso di restituire al sindaco della città in cui risiedo la tessera elettorale che mi consentirebbe di esercitare il diritto di voto. Mi sono persuaso che nella situazione in cui ci troviamo a vivere la nostra esistenza quotidiana non può essere rimediato con il voto elettorale che, fatalmente, finirebbe con eleggere i peggiori; e basta dare un'occhiata anche superficiale a coloro che si vantano di essere i più capaci di governo per concludere che la cosa più giusta da fare è di non rendersi complici di questo teatrino della politica dove il gioco più praticato è la truffa, il furto del pubblico denaro, la malversazione nell'amministrare e nel gestire la cosa pubblica. Ai ladri che imperversano nel mio paese non posso che dire una cosa: "Fate pure i vostri comodi pretendendo di agire seconda giustizia, ma fatelo senza chiedere la mia complicità. Ai vostri giochi non voglio più partecipare".</div>
<div>
<br /></div>
<div>
P.S: La tessera elettorale la restituisco all'attuale sindaco di Vicenza, dott.Achille Variati che ha ampiamente meritato questo "privilegio" dopo aver negato alle migliaia di cittadini il diritto di avere un luogo di sepoltura conforme alle fedi religiose di ognuno, e ha permesso a qualche cialtrone a lui vicino di usare il come gazzetta dell'infamia il giornale cittadino sul quale è comparso l'invito ad allestire un cimitero per gli animali.<br />
<br />
* * * * *<br />
<br />
Naturalmente la questione della mancanza o del rifiuto di cimiteri riservati ai cittadini di religione islamica è solo un aspetto del comportamento anti islamico delle istituzioni italiane e del silenzio praticamente totale della discriminazione anti islamica che coinvolge tutti gli aspetti della vita pubblica e di cui i comportamenti barbarici dei singoli è una inevitabile conseguenza. Enfatizzare oltre ogni limite i fatti di sangue che vedono coinvolti individui di religione musulmana, in particolare quelli che hanno per vittime le donne di ogni età (aggressioni, omicidi, uccisioni di famigliari), ipotizzando che la violenza è intrinseca alla religione islamica, è un corollario della generalizzata islamofobia che caratterizza il nostro paese e gli da tristi primati a livello europeo.<br />
In nessun altro paese l'Islam è oggetto di una continua criminalizzazione: al riguardo si trascura la enorme varietà di cultura e di condizioni sociali che è tipica dell'immenso mondo islamico che comprende paesi civilissimi come l'Egitto, il Marocco, la Malaysia, le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, ricche di memorie storiche e di centri culturali di livello mondiale. Quando si scrive di "Islam" le montagne afghane sono la stessa cosa degli splendidi musei delle grandi capitali musulmane, e il modo di vita dei nomadi beduini e delle tribù pastorali del Waziristan, non si distingue in nulla dallo splendore riconquistato della Turchia e dei paesi nord africani dove, nonostante le sciagure della storia, il forestiero in visita si trova immerso in uno spettacolo di cultura compatta e vitale. Trovarsi ad Istanbul all'ora della preghiera della sera, con le moschee che si specchiano nel Bosforo e i minareti che riecheggiano gli inviti dei Muezzin, da la fisica impressione di trovarsi in un luogo dove vibra nella bellezza che ti circonda la presenza di Allah.<br />
E' anche inutile cercare di spiegare che le mutilazioni genitali delle donne sono un portato di culture<br />
pre-islamiche che l'Islam, seguendo i comandamenti del Corano, ha cercato in tutti i paesi di sradicare con leggi severe; che l'usanza ancora diffusa dei matrimoni coartati in danno a ragazze poco più che bambine viola il comandamento coranico: "Il matrimonio è nullo se entrambi gli sposi non sono completamente liberi"; che uno dei principali precetti del Libro Sacro è: "Nessuna costrizione è ammessa nella religione...Chi vuole creda, chi non vuole non creda". Ecco perché in un paese musulmano con una popolazione islamica a 95% come il Marocco dispone di 138 chiese cattoliche, di cui 1/3 grandi cattedrali, e di centinaia di sacerdoti, vescovi e cardinali; e così nella quasi totalità dei paesi musulmani. Solo poco tempo fa nella civilissima Svizzera che ha brillato per decenni per le decine di referendum contro la presenza di lavoratori stranieri si è tenuto un referendum popolare che ha sancito il divieto di costruire minareti e nuove moschee.<br />In Italia esistono solo tre moschee riconosciute come tali (Roma, Torino, Milano), mentre i luoghi di culto e di preghiera per un milione e mezzo di residenti islamici sono ricavati spesso in vecchi garage, in fatiscenti magazzini, e a volte sulla strada aperta al traffico. L'Italia è l'unico paese europeo dove non esiste una specifica normativa che regoli i rapporti tra confessione islamica e stato italiano: non occorre essere maliziosi per immaginare che tale vergognosa singolarità abbia a che fare con l'intolleranza di fondo della Chiesa Cattolica, che solo a parole si profonde in manifestazioni formali di rispetto per la religione musulmana. Le forze politiche italiane, tutte senza eccezioni, sono allineate nei fatti sullo stesso livello di intolleranza. Fino a quando questa vergognosa situazione non cambierà un musulmano che abbia la cittadinanza italiana non può certo considerare un diritto dovere l'esercizio del voto, ma solo una copertina per coprire una corposa realtà islamofobia: che per chi non lo ricordasse è stata in una conferenza volgarizzata a livello mondiale dall'ONU parificata all'antisemitismo. A quella conferenza il governo italiano, unico tra quelli europei, non ha partecipato.</div>
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-62064636226746811592012-10-05T17:53:00.006+02:002012-10-06T15:50:03.821+02:00VENTI DI GUERRA TRA SIRIA E TURCHIA<span style="font-size: large;"><b>Turchia-Siria chi cammina sull’orlo del cratere</b></span><br />
<br />
BEIRUT. SONO in tanti a camminare sull’orlo del cratere, ma tutti cercano di non perdere<br />
l’equilibrio. Pur alimentandola con armi, denaro e parole, nessuno vuole lasciarsi inghiottire<br />
dalla guerra civile siriana, che si calcola abbia fatto trentamila morti e un paio di milioni di<br />
profughi in un anno e mezzo. Pare che la prudenza non sia una virtù dei turchi, ma pur<br />
rispondendo con energia all’uccisione di una famiglia rimasta vittima dei tiri d’artiglieria<br />
dell’esercito siriano in una zona di confine, il governo di Ankara si è ben guardato dall’andar<br />
oltre una rappresaglia destinata soltanto a salvare la faccia. Non ha minacciato un vero<br />
intervento. E la Nato, di cui la Turchia è un’importante componente, ha espresso la sua<br />
solidarietà. Nulla di più. Il governo di Damasco, è vero, si è scusato.<br />
Sono in molti ad auspicare la fine del regime di Bashar el Assad, giudicandolo una dittatura<br />
sanguinaria e senza avvenire, ma sono anche in molti a temere le conseguenze di quella fine.<br />
È FORSE per questo che i sostenitori dei ribelli centellinano gli aiuti. Mentre l’esercito lealista,<br />
quello di Damasco, usufruisce della generosità dei suoi alleati russi e iraniani. Quanto siano<br />
spilorci i primi e di manica larga i secondi lo vedi sul terreno. I Mig 21 e gli elicotteri governativi<br />
possono scorrazzare sui territori “liberati” senza imbattersi in un’antiaerea efficace, quindi<br />
bombardano e mitragliano senza correre grandi rischi. Gli insorti essendo per lo più dotati<br />
soltanto di armi leggere, quando vogliono colpire le zone controllate dal regime devono<br />
ricorrere alle autobomba, spesso guidate da prigionieri costretti a sacrificarsi come kamikaze.<br />
Non si intravede nel futuro scrutabile una soluzione del conflitto. Per ora non ci sono in vista<br />
né vinti né vincitori. Né si scorge la possibilità di una tregua, di un compromesso tra le parti.<br />
Anche perché l’Esercito siriano libero è in realtà un mosaico di movimenti e milizie di varie<br />
tendenze, senza un comando unico sul piano nazionale. Ed è quindi difficile identificare un<br />
interlocutore valido. Pur essendo male armata e pur disponendo di meno uomini (un decimo<br />
dei più di trecentomila soldati lealisti) l’insurrezione appare in vantaggio sul campo di battaglia<br />
perché il regime di Damasco non osa impiegare tutto il suo pletorico esercito. Per impedire le<br />
diserzioni non vuole che esso venga a contatto con i ribelli o con la popolazione dei territori<br />
contesi. Si limita quindi a usare aerei, elicotteri e unità blindate (i T72 russi) che servono da<br />
artiglieria.<br />
Insomma adotta sempre di più la guerra a distanza, che infligge pesanti danni alla ribellione,<br />
ma che non favorisce il controllo del territorio. Le diserzioni<br />
sono state per più di un anno la grande risorsa in uomini e in armi dell’Esercito siriano libero.<br />
Ahmed Qunatri, un ex ufficiale adesso comandante di un’unità ribelle nelle regioni del Nord,<br />
confessa che da alcuni mesi deve ricorrere a svariati espedienti per convincere i soldati lealisti<br />
a cambiar campo. Ha cominciato a praticare un’azione psicologica; a offrire vantaggi in<br />
denaro; a ricorrere a mezzi coercitivi. «Degni del diavolo», ammette. E non è comunque facile.<br />
Anche perché la polizia di Damasco colpisce le famiglie dei disertori. Inoltre le azioni<br />
terroristiche spengono la simpatia per l’insurrezione della gente, e quindi dei soldati richiamati<br />
alle armi. Consapevoli di questo, pochi giorni fa i gruppi ribelli operanti nella zona hanno<br />
cercato di attribuire ai governativi l’attacco suicida, che aveva appena ucciso quaranta<br />
persone in un quartiere di Aleppo, ma poi una milizia affiliata o ispirata da Al Qaeda (Jabhet<br />
al-Nusra) l’ha rivendicato.<br />
Le milizie estremiste, indicate come jihadiste o salafite, non prevalgono tuttavia nel vasto<br />
mosaico dell’insurrezione. La propaganda governativa ne esagera l’importanza per<br />
spaventare la popolazione, in particolare i cristiani. Un sondaggio tra gli insorti condotto da<br />
siriani per conto di vari organismi americani (International Republican Institute, Pechter Polls<br />
of Princeton, N. J., Carleton University ed altri), ha rilevato una forte maggioranza di moderati per quanto riguarda l’eventuale applicazione di principi islamici. Il riferimento alle democrazie<br />
occidentali è risultato frequente, e quindi il rispetto per le minoranze religiose. L’esempio del<br />
governo turco, dominato da un partito musulmano moderato, è stato il più citato.<br />
A parte la Turchia del primo ministro Erdogan, spesso evocato anche nel resto del Medio<br />
Oriente, i paesi che appoggiano la ribellione siriana si distinguono per la loro ricchezza. Non<br />
certo per il clima di libertà che regna entro i loro confini. Il Qatar e l’Arabia Saudita sono infatti i<br />
principali finanziatori dell’insurrezione armata. Lo sono soprattutto in quanto sunniti. Pur<br />
essendo in concorrenza tra di loro. Il Qatar, piccolo Stato con un grande portafogli gonfio di<br />
petrodollari, era presente anche in Libia. Con il suo dinamismo politico-finanziario vuole<br />
evidentemente rimediare all’esiguità del territorio nazionale, e gareggiare con la grande Arabia<br />
Saudita.<br />
Entrambi i paesi favoriscono in Siria i movimenti dei Fratelli Musulmani o di quelli simili, la cui<br />
intensità islamica è variabile. Il loro fervore politico-religioso si è intiepidito negli ultimi anni.<br />
Ma, nella grande famiglia sunnita, la corrente wahabita (vale a dire saudita) resta più intensa<br />
di quella prevalente nel Qatar. E sarebbe questa la causa del dissidio che spesso esplode tra i<br />
due paesi. Ed è allora che interviene la mediazione turca.<br />
Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono gli acrobatici sostenitori della ribellione siriana, che non<br />
vogliono correre il rischio di essere direttamente implicati, che si muovono appunto in bilico<br />
sull’orlo del cratere senza caderci dentro, ma che sono fermi nell’intenzione di plasmare la<br />
Siria del dopo-Assad. Essi sono appoggiati in questa loro azione dalle potenze occidentali,<br />
Stati Uniti in testa, vigilanti ma anch’esse superprudenti. Forniscono aiuti umanitari ai profughi<br />
e mezzi di comunicazione ai ribelli. Per ora niente di più.<br />
La guerra civile siriana ricorda quella di vent’anni fa nei Balcani. I conflitti etnici si confondono<br />
con quelli religiosi. Nell’Oriente complicato (da affrontare con idee semplici) lo scontro è tra<br />
sunniti e sciiti, divisi dalla diversa interpretazione dell’Islam ma anche dalla Storia e nel<br />
presente dalla lotta per l’influenza nella regione. La Siria, benché a maggioranza sunnita, è<br />
governata dalla minoranza alawita, che ha radici sciite. Ed è l’alleata dell’Iran, la grande<br />
nazione sciita. La quale è direttamente implicata a fianco di Bashar al Assad. Non solo perché<br />
gli fornisce armi e munizioni attraverso l’Iraq, dove c’è un governo dominato dagli sciiti, ma<br />
perché dei pasdaran sono presenti in Siria, pare nella veste di ottimi cecchini. La prova? Di<br />
recente sarebbe stato sepolto con tutti gli onori a Teheran un pasdaran ucciso a Damasco. E<br />
gli Stati Uniti, ancora presenti a Bagdad, hanno invitato il governo iracheno a non lasciar<br />
passare nel suo spazio aereo gli apparecchi diretti in Siria, con a bordo armi e soldati. Se gli<br />
Stati Uniti, e i paesi occidentali, sono tra le quinte dell’insurrezione siriana, la Russia rifornisce<br />
di armi e munizioni il regime di Assad. E’ un frammento dimenticato della guerra fredda.<br />
La Siria è anzitutto una trincea dell’Iran. La più importante dopo la guerra che ha opposto negli<br />
anni Ottanta l’Iran di Khomeini all’Iraq di Saddam Hussein. Oggi per Teheran la Siria è “la linea<br />
di resistenza” all’imperialismo. La resistenza agli Stati Uniti, che impone le sanzioni, e a<br />
Israele, che vorrebbe distruggere le centrali atomiche iraniane. La guerra civile siriana<br />
riassume cosi altri conflitti. Sottoposto a sanzioni sempre più pesanti, per la sua indisciplina<br />
nucleare, l’Iran vive una stagione difficile. La sua moneta si è svalutata del quaranta per cento<br />
nell’ultima settimana rispetto al dollaro, e si sono accese manifestazioni di protesta, le prime<br />
dopo quelle soffocate nel 2009, l’anno delle elezioni truccate. Se l’insurrezione siriana<br />
dovesse trionfare, gli ayatollah perderebbero il loro grande alleato in un momento critico.<br />
Rimarrebbero isolati. Gli hezbollah, i loro amici sciiti libanesi puntati come una spada contro<br />
Israele, sarebbero ancora più lontani. Per Teheran si annuncia una possibile grande sconfitta. Anche qui, in Libano, con gli hezbollah in casa e la Siria ai confini, si guarda con apprensione<br />
a un futuro che potrebbe essere molto vicino.<br />
<br />
Bernardo Valli<br />
<br />
<br />
<span style="font-size: large;"><b>Nel villaggio ferito dalle bombe di Assad</b></span><br />
<span style="font-size: large;"><b>la Turchia si scopre frontiera di guerra</b></span><br />
<br />
AKCAKALE (CONFINE TURCO-SIRIANO) - I bambini sono tornati a giocare sul marciapiedi dove le tre sorelline Zainab, Mariam e Shaigul, assieme alla loro mamma, Zeliah e alla sua amica, Gulshan, sono state dilaniate da un colpo di mortaio sparato dall'esercito siriano. Nella loro incontenibile vitalità, i bambini sono riusciti ad assorbire la tragedia nei loro giochi. Mohammed spalanca la mano davanti agli obbiettivi dei fotografi per mostrare, orgoglioso, 4 o 5 schegge raccattate attorno al cratere dell'esplosione e Mustafà si arrampica sulla grata contorta del cancello per mostrare a tutti dove, quel mercoledì pomeriggio, è stato sbattuto dall'onda d'urto.<br />
È come se Akcakale, una cittadina di 40 mila abitanti distesa tra biancheggianti campi di cotone, a ridosso del confine con la Siria, si sia spaccata in due. Metà è viva, illuminata, fragrante di odori e rutilante di colori; l'altra metà, quella che sfiora la frontiera e, con la sua periferia, incorpora il valico di Tel al Abjad, è una retrovia deserta, percorsa soltanto da mezzi militari, sorvegliata dagli elicotteri che le ronzano sopra, mentre oltre i recinti delle installazioni militari i carri armati, interrati, hanno i canoni rivolti verso la Siria. Centinaia di famiglie, ci dicono, hanno deciso di abbandonare le loro case per fare ritorno, almeno per ora, nei villaggi d'origine.<br />
Questa è lo sfondo, visibile, del confronto esploso tra Ankara e Damasco, dopo il "triste incidente", parola del governo siriano,<br />
di mercoledì. Ma l'incidente si è nuovamente ripetuto, ieri, a sud, nella regione di Antiochia (Atai) dove l'artiglieria turca ha risposto al fuoco dopo che un altro colpo di mortaio siriano è esploso vicino ad un'azienda agricola. Appena poche ore prima, il premier Erdogan aveva detto chiaramente di preparasi al peggio, ammonendo Damasco a non sottovalutare "la capacità di deterrenza" della Turchia.<br />
È vero che qui a Akcakale dall'alba di giovedì non si spara più, ma per capire come questa specie di tregua armata sia appesa ad un filo, basta avvicinarsi al valico di Tel al Abjad. Su quella che appena poche settimane fa era la dogana siriana sventola il tricolore degli insorti, azzurro, bianco e nero, che fu anche la bandiera della Repubblica prima che nel 1970 salisse al potere Hafez el Assad, il padre di Bashar, l'attuale presidente.<br />
Metà dell'edificio è sventrato dalle cannonate dell'esercito regolare. Non si vede anima viva. Solo quel lento sventolio. Ma i ribelli sono asserragliati all'interno e per il regime di Damasco, questa palese riduzione della propria sovranità territoriale, che si ripete in altri due valichi dei sei in cui si articola la lunga (900 chilometri) frontiera con la Turchia, è insopportabile. Anche perché la scelta di campo del governo Erdogan di schierarsi a favore della rivolta garantisce ai ribelli di poter contare, nel caso che i soldati siriani muovano per riconquistare il valico, su una facile via di fuga.<br />
Il colpo di mortaio di mercoledì ha azzerato qualsiasi considerazione, se mai da queste parti ne ha avuta, nei confronti del raìs di Damasco. Le tende del lutto della famiglia Timucin, quella decimata dalla bomba, sono state innalzate a Bolatlar, 1400 abitanti, a una decina di chilometri da Akcakale. Le donne, che nascondono le capigliature sotto foulard dello stesso colore viola, sono inavvicinabili. Gli uomini si riuniscono a un centinaio di metri. Sulla soglia del capannone bianco il marito di Zeliah e padre delle tre bambine uccise, Omar, di 43 anni, riceve le condoglianze con accanto il figlio Ibrahim, 16 anni, sopravvissuto assieme ad altre tre sorelle rimaste ferite. Sotto il tendone, dove si entra a piedi scalzi come in una moschea. gli ospiti si raccolgono in piccoli gruppi. In un angolo, un vassoio colmo di sigarette, le teiere, le caffettiere, le ciotole con lo zucchero.<br />
Omar, un contadino di 43 anni, sembra rifiutare sentimenti d'odio, o desideri di vendetta. "Queste cose vengono da dio e a dio deve rendere conto chi le commette", dice ad occhi asciutti. Il muktar del villaggio, Mustafà Tashtan, consente. "Noi non vogliamo vendette. Abbiamo fiducia nella fermezza del nostro governo", aggiunge col tono ufficiale del sindaco. Ma appena ci allontaniamo di qualche metro dalla gruppo che circonda i parenti stretti, un giovane ci chiede in un buon inglese: "Ma voi, in Italia, accettereste che un paese vicino spari e ammazzi la vostra gente?". "Bashar? - dice lo sceicco Taher Ozgut, arrivato per testimoniare la sua solidarietà - E' un assassino che non merita pietà", e accompagna le sue parole con il gesto inequivocabile di una lama che attraversa la gola. E tuttavia le cose non sono così semplici come vorrebbe far apparire l'anziano capo tribù.<br />
La guerra civile siriana minaccia di ripercuotersi seriamente sul complicato caleidoscopio di minoranze su cui si regge la Turchia. E questo non può non indurre Ankara a qualche cautela. Akcakale, ad esempio, è un città mista arabo-curda. Siamo sulla pianura pedemontana del Kurdistan turco cioè alle pendici del vulcano separatista curdo. Ora, i curdi, oltre che in Iraq, in Iran e in Turchia, sono presenti e numerosi anche in Siria, e lì, in cambio di alcune concessioni sul piano dell'autonomia, hanno scelto di non schierarsi contro il regime. Ecco che i curdi turchi cominciano a sentirsi a disagio, stretti tra l'inevitabile solidarietà con i loro fratelli che vivono nel Kurdistan siriano, l'"invasione" degli arabi in fuga dalla Siria e l'antica diffidenza, se non ostilità, verso il governo di Ankara. <br />
<br />
Alberto Stabile<br />
<br />
<br />
<br />Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-33582151255659221962012-10-01T16:29:00.004+02:002012-10-01T16:32:18.168+02:00<br />
<span style="font-size: large;"><b>Quel mausoleo alla crudeltà </b></span><br />
<span style="font-size: large;"><b>che non fa indignare l’Italia</b></span><br />
<span style="font-family: inherit;"></span><br />
<span style="font-family: inherit;">«Mai dormito tanto tranquillamente », scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc,ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò...) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Il sito web del comune di Affile dedica una pagina a Rodolfo Graziani 'figura tra le più amate e più criticate a torto o a ragione'</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».</span><br />
<span style="font-family: inherit;">«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica ».</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».</span><br />
<span style="font-family: inherit;">I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente ». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».</span><br />
<span style="font-family: inherit;">C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.</span><br />
<span style="font-family: inherit;">Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.</span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">Gian Antonio Stella</span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
Rodolfo Graziani, l'ignobile personaggio che Stella ci ha fatto sommariamente conoscere nell'articolo del Corriere, è stato uno dei peggiori criminali di guerra della Seconda Guerra Mondiale: degno compare dei Goering, Himmler e di tanti altri criminali tedeschi e, purtroppo, italiani. Se il numero delle sue vittime non ha raggiunto i livelli toccati dagli eserciti nazisti è stato solo perché l'Italia era la compagna stracciona del nazismo e degli altri colonialismi europei che hanno insanguinato il mondo. A differenza dei tedeschi, nessun monumento costruito col denaro pubblico ne esalta qualcuno e gli dedica un monumento in Germania. L'iniziativa del comune di Affile è perciò qualcosa di unico nella esaltazione della vergogna. Non sarebbe male viste le cattive abitudini di troppi italiani che fingono di crogiolarsi nella convinzione che gli italiani, in fondo, sono "brava gente" che insieme al Giorno della Memoria, che si celebra in Italia per ricordare le poche migliaia di vittime che gli jugoslavi provocarono come reazione alle atrocità compiute durante la guerra, dedicassero un giorno a ricordare le vergogne di cui la ferocia fascista ci ha coperto di fronte ai popoli vittime della vocazione civilizzatrice italica: oltre al mezzo milione di libici, al milione di etiopi, ai 200 mila sloveni, ai 150 mila greci fatti morire di fame durante l'assedio di Atene, si edificasse un monumento alle vittime della barbarie fascista a livello internazionale. Il compito di inaugurarlo dovrebbe essere affidato a quei personaggi troppo indulgenti con i massacri e le atrocità commesse dagli ufficiali del reggio esercito italiano e delle squadre di milizia fascista. Un posto in questa compagnia potrebbe spettare anche all'attuale presidente della repubblica Giorgio Napolitano il quale, per quanto mi risulta, non ha mai levato una parola di indignazione contro i tripolini massacrati insieme a migliaia di cirenaici, agli abissini, agli sloveni della corniola e agli jugoslavi del Montenegro, vittime tutte insieme della cosiddetta "missione civilizzatrice" delle Aquile Romane inventate da Mussolini; ne andrebbero ulteriormente taciuti i silenzi di Toliatti e di De Gasperi e le visite onorifiche che il ministro della difesa Giulio Andreotti tributò al macellaio di Ciociaria Rudolfo Graziani in occasione della sua troppo prematura liberazione dalla galera cui era stato condannato come criminale di guerra.<br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<br />
P.S: Da notare che è dall'Italia che si levano i più alti strepiti contro i massacri di poche decine di copti provocati in Egitto dalla rivoluzione che ha liberato quel paese dalla tirannia di Mubarak. Anche le migliaia di etiopi impiccati o uccisi con i gas appartenevano al Cristianesimo copto monofisita.<br />
<br />Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-33159795144072221732012-09-29T14:37:00.002+02:002012-09-29T14:37:57.699+02:00VICENDE ISLAMICHE IN ITALIA E IN EUROPA<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjG9jUw0Zv1KGXjne9G9qT_zHWw7rJymto2mNZa378OfoEYgty0FQ1IBMzx4HaGqaSuhibWSAU27u2Y3yE34yvjdV8WvZ8ZYUWIuINiAT1Mm2hxE5QzhVCnhyphenhyphen56r2kgY5_kxwbVseuAlTcy/s1600/325.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="593" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjG9jUw0Zv1KGXjne9G9qT_zHWw7rJymto2mNZa378OfoEYgty0FQ1IBMzx4HaGqaSuhibWSAU27u2Y3yE34yvjdV8WvZ8ZYUWIuINiAT1Mm2hxE5QzhVCnhyphenhyphen56r2kgY5_kxwbVseuAlTcy/s640/325.JPG" width="640" /></a></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEigBxJuDNfF2S_jGrNbwG6SLRsYyTizF4Xi31Oqh6LNRtXWAbqlU3rWdH40KuhbEOjFO5RvFO08Okmc8zfngkVmEUDaeLgSk5bEhotdvNb6jX9R8obuYj1KDM-m86s9H1mzugoPrzESENxV/s1600/326.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEigBxJuDNfF2S_jGrNbwG6SLRsYyTizF4Xi31Oqh6LNRtXWAbqlU3rWdH40KuhbEOjFO5RvFO08Okmc8zfngkVmEUDaeLgSk5bEhotdvNb6jX9R8obuYj1KDM-m86s9H1mzugoPrzESENxV/s640/326.JPG" width="627" /></a></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhizLHpHNHGwXJasEF5VdyuHZ5200qNWwJ83fuDvadQ2w7b7RrQ_QdHpIFznbrYne4LBeVXNcwUSle2ONhD7ZlcCxpjoL-jE0e1cxQu4A6gf68dhXbyIiTvajXuvm3oioaCLLhFXdbZRmEz/s1600/327.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhizLHpHNHGwXJasEF5VdyuHZ5200qNWwJ83fuDvadQ2w7b7RrQ_QdHpIFznbrYne4LBeVXNcwUSle2ONhD7ZlcCxpjoL-jE0e1cxQu4A6gf68dhXbyIiTvajXuvm3oioaCLLhFXdbZRmEz/s640/327.JPG" width="474" /></a></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEje7YV8f91-ECDGJrKC52vbHTsDmc0gD2wGjBcnhRdjx2LxofIEaLRad-mVPnQZlqg4ucCFnFGH5LO1Q5wK0nXf1A0RgKMAHJvGJvjtwKVqloo8Tj-yPb2MZPdcXlUMYGU__bAd_XDw55LE/s1600/328.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEje7YV8f91-ECDGJrKC52vbHTsDmc0gD2wGjBcnhRdjx2LxofIEaLRad-mVPnQZlqg4ucCFnFGH5LO1Q5wK0nXf1A0RgKMAHJvGJvjtwKVqloo8Tj-yPb2MZPdcXlUMYGU__bAd_XDw55LE/s640/328.JPG" width="530" /></a></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
Gli articoli riportati danno un quadro di normale civiltà dei rapporti tra europei e musulmani. Fa eccezione ovviamente quello che ha per protagonista il troglodita ubriaco di Verona che, immaginiamo, deve essersi espresso nel linguaggio degli scimmioni meno evoluti. Ci tocca ricordare che quando il regime nazista, per colmare i vuoti aperti nel suo invincibile esercito negli ultimi anni di guerra, si decise ad arruolare divisioni di SS europee formate da non tedeschi. In Italia ne vennero arruolate 5: due erano formate da giuliani, istriani e triestini; delle altre 3 una era costituita da sardi, una da vicentini e una da veronesi. </div>
<span id="goog_2097653449"></span><span id="goog_2097653450"></span><br />Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-24267360718080714332012-09-28T15:42:00.001+02:002012-09-29T14:23:24.107+02:00ONU <span style="font-size: large;"><b>Onu, show di Netanyahu sulla Bomba “L’Iran è come Al Qaeda, va fermato”</b></span><br />
<br />
Abu Mazen: “La Palestina sia riconosciuta come Stato” <br />
NEW YORK. LA LINEA rossa di Obama è troppo sottile per Netanyahu. Il premier israeliano<br />
ringrazia il comandante in capo d’America per l’inasprimento delle sanzioni contro l’Iran: ma gli<br />
rinfaccia che quello che sta facendo non basta.<br />
«È TARDI», dice, gli ayatollah potrebbero «essere in grado di dotarsi dell’atomica entro la<br />
prossima estate o primavera, entro un anno, forse anche meno, forse anche qualche mese».<br />
E se il Presidente si ostina a non capirlo ecco qui un bel grafichetto. «Ho portato un<br />
diagramma» dice, mostrando proprio un disegno della bomba, come quelli che si vedono nei<br />
fumetti, con il nucleo diviso in tre spicchi. Il primo mostra la prima fase e copre due terzi della<br />
bomba disegnata: «E questa è la parte che hanno già completato». Il secondo spicchio mostra<br />
la seconda fase, quella che porta al 90 per cento di atomica: «Sono entrati già in questa». La<br />
terza fase è lo spicchio finale, quello prima dello scoppio. Ed è qui che in diretta,<br />
nell’assemblea generale dell’Onu, Netanyahu traccia letteralmente con un pennarello la sua<br />
linea rossa: dobbiamo fermarli prima che entrino qui.<br />
Non è un colpo di teatro: è l’ultimo tentativo di convincere il mondo, e soprattutto l’amico<br />
americano, che l’Iran si deve fermare «prima che riesca ad arricchire l’uranio». Netanyahu<br />
ringrazia Obama per aver detto due giorni fa, proprio qui, che gli Usa non tollereranno mai un<br />
Iran atomico. Ma chiede appunto «una chiara linea rossa»: come quella, riconosce, tracciata<br />
dagli Usa inviando la flotta nel Golfo dopo le minacce degli ayatollah di bloccare lo stretto di<br />
Ormuz. Il leader israeliano non può rompere con Obama ora che sembra fra l’altro destinato a<br />
restare altri quattro anni a Washington: e il tono del discorso è sembrato molto più conciliante<br />
rispetto alle asprezze degli ultimi tempi. Perfino le polemiche sul mancato incontro a due —<br />
Barack, per gli impegni elettorali, non si è concesso nessun bilaterale — sono state superate<br />
da una lunga telefonata. Ma non basta: «La questione non è quando l’Iran potrà ottenere la<br />
bomba: è a che stadio saremo in grado di fermarlo».<br />
È già troppo tardi, insiste Bibi. E denuncia apertamente chi continua a dire che permettere un<br />
Iran dotato di atomica sia, alla fine, il miglior deterrente contro il suo uso. Sbaglia, dice, chi<br />
riporta l’esempio della Russia sovietica. Tra ideologia e sopravvivenza, ricorda, i russi<br />
scelsero sempre la seconda. L’Iran già adesso sforna centinaia di kamikaze: permettere agli<br />
ayatollah che si dotino dell’atomica sarebbe come permetterlo ad Al Qaeda, agli islamisti<br />
che vivono ancora nel medioevo ideologico mentre Israele e il resto del mondo rappresentano<br />
la modernità.<br />
E in quale era dell’umanità Netanyahu incasella invece la Palestina? Il presidente dell’Anp,<br />
Mohammed Habbas, ha detto pochi minuti prima che proprio Israele sta spingendo la sua<br />
gente «verso la catastrofe», lo ha accusato di «razzismo», ha denuncia le violenze nei Territori<br />
e in Gerusalemme Est. «Non c’è altra patria per noi che la Palestina» ha detto tra gli applausi<br />
«e non c’è altra terra per noi che la Palestina ». E ha rilanciato il cosiddetto piano B alla<br />
dichiarazione di statalità, la richiesta all’Onu — ipotizzata già lo scorso anno — di riconoscerlo<br />
come «Stato non membro». Netanyahu raccoglie a metà. Ricorda che il futuro è in «uno Stato<br />
palestinese demi-litarizzato che accetti uno e un solo Stato ebraico d’Israele». E mette in<br />
guardia: «Non risolveremo i nostri problemi con discorsi calunniosi e dichiarazioni unilaterali<br />
sulla statalità ». Però lo sa benissimo che i problemi di Israele, oggi, sono altri. E che prima<br />
dei confini con la Palestina c’è ben altra linea rossa da tracciare.<br />
<br />
Angelo Aquaro<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgiSaLW29Tq24kxUC3YAUVh83Djbx665u2Pp7DLSwOtNuVkk7d-2Q6DvHhTiCSrtbh3xFDZoC4HJV743ffAqkQ6i-mS-XSVkG0w9cAsJfUzwcigB9ucTlPGHc3mONH5MJr4-xegdF1ErNIa/s1600/321.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgiSaLW29Tq24kxUC3YAUVh83Djbx665u2Pp7DLSwOtNuVkk7d-2Q6DvHhTiCSrtbh3xFDZoC4HJV743ffAqkQ6i-mS-XSVkG0w9cAsJfUzwcigB9ucTlPGHc3mONH5MJr4-xegdF1ErNIa/s640/321.JPG" width="638" /></a></div>
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjIK304Gmo8rlHroqmjedO5_gJv-uOtfLMvI7D8ICBlOezSPfSgbHe7DGW3aVfuLuwFeNM2V_7h-kJt_egEye2WZv3N8lr7uEm0TEQRgK8bQNjTODCGBXIlfB0TZmuO56Nt4sAfx2UfKryj/s1600/322.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjIK304Gmo8rlHroqmjedO5_gJv-uOtfLMvI7D8ICBlOezSPfSgbHe7DGW3aVfuLuwFeNM2V_7h-kJt_egEye2WZv3N8lr7uEm0TEQRgK8bQNjTODCGBXIlfB0TZmuO56Nt4sAfx2UfKryj/s640/322.JPG" width="454" /></a></div>
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7d-qcpi3Sknl6fNK1E6VuSNh7sHu3yAp3F-oFTqG3afvB15QL6fmhNJl3BD43l4k_Tv_BU5oJIQTJiA1WU0HANmybpZ_1AB8DIC55CPyC8xBQjOiJzFXeNy1IGRChZ7RzWI2VB-A0n1wO/s1600/323.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7d-qcpi3Sknl6fNK1E6VuSNh7sHu3yAp3F-oFTqG3afvB15QL6fmhNJl3BD43l4k_Tv_BU5oJIQTJiA1WU0HANmybpZ_1AB8DIC55CPyC8xBQjOiJzFXeNy1IGRChZ7RzWI2VB-A0n1wO/s640/323.JPG" width="271" /></a></div>
<br />
<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdjVozxgh0HikHuFddrneO0O3GZTb6EK0xPKrxjZ-g8EAX0CNpOyhUDrlwMBrwEGJZuvdcTfo_QrB0CnsdyDzhQjTYM-Kbevjr3EGEoH7KbSI2lG_ZujCuLRvabqDFdDTsI62FIs5rhVR7/s1600/324.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdjVozxgh0HikHuFddrneO0O3GZTb6EK0xPKrxjZ-g8EAX0CNpOyhUDrlwMBrwEGJZuvdcTfo_QrB0CnsdyDzhQjTYM-Kbevjr3EGEoH7KbSI2lG_ZujCuLRvabqDFdDTsI62FIs5rhVR7/s640/324.JPG" width="498" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
Le due vicende che hanno caratterizzato i ruoli dell'Islam nella prima metà di Settembre, nonostante la ferocia della dittatura siriana, possono definirsi due esempi di moderatismo e di senso politico:</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
I - Nonostante gli esagitati allarmismi dell'occidente e la gravità della provocazione subita, non è successo nessuno dei cataclismi che si temevano: a parte l'iniziale episodio libico e gli incidenti sanguinosi che hanno punteggiato per alcuni giorni le reazioni pakistane che, per altro, sono da considerare scintille tipiche della strisciante guerra civile afghana che si proiettano sul vicino più prossimo, non vi sono state reazioni violente alla "presunta satira" contro la figura del Profeta;</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
II - Gli interventi dei rappresentanti arabi che si sono svolti nell'ultima assemblea dell'ONU possono essere indicati come esempi di saggezza politica: a cominciare dallo splendido intervento del presidente egiziano Morsi, che fa ben sperare sul futuro dell'Egitto;</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
III - Il solo intervento minaccioso, per altro sorretto da argomentazioni da caricatura, riguardante i disegnini dell'asserita atomica iraniana sono stati quelli del primo ministro israeliano Netanyahu. Nel vedere gli schizzi della "bomba" ormai pronta, i tecnici che gli hanno visti si sono fatti delle matte risate e hanno detto che quella rappresentata tutto era fuori che un'atomica quasi pronta per l'uso. Qualcosa del genere capitò anche al povero Colin Powell il quale, scarsamente preparato sulla materia, si coprì di ridicolo quando mostrò la fialetta che secondo Bush conteneva pericolosi germi per la guerra batteriologica.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;">
IV - Per non essere da meno rispetto alle sciocchezze di altri suoi colleghi italiani una giornalista del Corriere della Sera, tale Vittoria Mazza, ha stigmatizzato in un articolo il fatto che il governo egiziano ha provveduto con rapidità a cancellare i graffiti della "rivoluzione democratica" che a parte ogni altro giudizio sulla loro scarsa qualità, deturpavano le due piazze più belle del Cairo.</div>
<br />Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-30214452320133956512012-09-23T11:31:00.001+02:002012-09-23T11:40:03.520+02:00IL "CORAGGIO" DEI PROVOCATORIPochi giorni fa il valoroso direttore del Giornale di Vicenza, prendendo spunto da un fatto di sangue che ha coinvolto in Campo Marzio due nord africani per una questione di droga, ha sostenuto l'ardita previsione che, dopo la caduta dei dittatori nei paesi arabi, vi sarà un'inarrestabile fioritura di organizzazioni terroristiche che saranno naturali alleati della malavita organizzata di casanostra: Mafia, 'Ndrangheta, Sacra Corona Unita e la maggior parte dei partiti italiani.<br />
A distanza di poco tempo a conferma della regola che gli imbecilli non procedono mai in solitaria, un consigliere regionale leghista, tale Ciambretti, già assessore della provincia di Vicenza, ha sviluppato il concetto soffermandosi a ricordare i casi in cui già ai giorni nostri episodi di convergenza operativa tra mafie e terroristi islamici si sono verificati. Il Ciambretti è un esperto in materia e parla per conoscenza diretta. Le cronache hanno infatti più volte riportato episodi di alleanza operativa finalizzata alla spartizione dei bottini tra amministrazioni comunali rette da amministratori leghisti e "ndrine calabresi" (la ndrina è l'equivalente della singola associazione mafiosa).<br />
<div>
Naturalmente si tratta di pure idiozie non foss'altro perché le organizzazioni della criminalità vera non dovrebbero prestare molta fiducia per la loro inefficienza a temibili entità come le organizzazioni terroristiche che usano l'islamismo come copertura: ve l'immaginate un gruppo di scalzacani delle campagna cosentine che si guadagna la fiducia di entità che tengono testa ai servizi segreti di mezzo mondo senza poter dire che sono state sconfitte?</div>
<div>
Una circostanza sconcerta. Fino a quando i paesi arabi che con sanguinose rivoluzioni (migliaia di morti) sono riuscite a liberarsi da dittature sanguinarie che hanno comandato per decenni, il fenomeno delle vignette blasfeme contro il Profeta Muhammad è stato praticamente isolato e, per quanto è dato ricordare, si è limitato al caso del giornale para-nazista danese che ha avuto come propagandista visivo il deputato leghista ministro della repubblica italiana Calderoli, oltre alla gentil donna lombarda Daniela Santanchè. L'esplosione di satira anti islamica è arrivata ad usare un filmaccio diffuso in tutta internet e rifiutato persino dagli scandenti attori che l'hanno interpretato (i quali hanno dichiarato di essere stati reclutati per girare un film d'avventure ambientato nel deserto): della "opera" provocatoria diffusa in coincidenza o quasi con l'anniversario dell'11 Settembre, sono noti l'ideatore (il noto reverendo americano evangelico amante dei roghi del Corano), uno pseudo regista di religione cristiano copta di origine egiziana e cittadino americano e attori non professionisti quasi tutti di religione ebraica al pari dei finanziatori israeliani che per la bisogna hanno stanziato, sembra, mezzo milione di dollari. Da notare che l'azione di questi eroi dell'anti islamismo è vile sotto due profili:<br />
I - Nessun paese musulmano si sognerebbe di rispondere alle infamie del filmaccio, perché fare un film di satira contro Gesù e contro la Vergine Maria, verrebbe considerato blasfemia come se si girasse un filmato contro uno dei Profeti. Nel Corano infatti Gesù è Profeta di Allah che incarna lo spirito di bontà e di carità nato da donna vergine per volontà diretta del Creatore;</div>
<div>
II - In questo periodo storico milioni di musulmani, soprattutto giovani affrontano a viso aperto e praticamente disarmati le milizie dei dittatori e dei tiranni tenuti al potere dall'occidente per fare i guardiani dei pozzi di petrolio e i supporter di Israele. Questi giovani hanno vinto le loro battaglie con manifestazioni organizzate all'uscita dalle preghiere del venerdì e al grido di "Allahu Akbar". Alla serie manca soltanto il regime criminale di Assad, che per restare in sella sta consumando un vergognoso genocidio nei confronti del suo popolo. Ma poiché Allah è Clemente e Misericordioso ma anche Giusto, anche Assad finirà come i suoi sanguinari colleghi. Logica vorrebbe che se l'occidente credesse veramente ai valori di democrazia cui dice di tenere tanto, dovrebbe vietare la diffusione di film e vignette blasfeme contro l'Islam e gettarne in galera gli autori, colpevoli di una provocazione che può mettere in pericolo la pace mondiale. Ed invece piovono i distinguo, "Non si può porre limite alla libertà di satira e di stampa, quasi che insultare ciò che di più sacro c'è per un miliardo e mezzo di esseri umani abbia qualcosa a che fare con una cosa nobile come la vera satira". Il fatto è che in occidente i provocatori vengono fuori come i funghi dopo la pioggia: quando si annusa l'odore di una possibile guerra e della conseguente vendita miliardaria di armi di ogni tipo, eccoli in campo sicuri di essere coperti da protettori molto potenti e da imbecilli estremamente numerosi.<br />
<br />
P.S: Naturalmente i cataclismi apocalittici temuti dalla stampa occidentale come rappresaglia del fondamentalismo islamico non si sono visti: la torre Eiffel a Parigi è rimasta in piedi e nessuna ambasciate occidentale è stata incendiata.<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgEwAXpRbxzOPWIwzqeJXPee_kzl1eV8e5x8Z-Jz4GgOWj3YakKjqSnRTey6iP-SGbIw6ITZBz5uSu1UtSQUSz8ZTpIBJeru5sHVwNsyFbiI1hfyFdY_3ibc_gCPn33uNk_8P-GHcwUJ_wN/s1600/319.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="622" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgEwAXpRbxzOPWIwzqeJXPee_kzl1eV8e5x8Z-Jz4GgOWj3YakKjqSnRTey6iP-SGbIw6ITZBz5uSu1UtSQUSz8ZTpIBJeru5sHVwNsyFbiI1hfyFdY_3ibc_gCPn33uNk_8P-GHcwUJ_wN/s640/319.JPG" width="640" /></a></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj07Velg8iXkSf5-QI-JPLeM5S47jEUZPO15mS21zJUiPBwKsUlZFIDu8aHHTOg1ztVj5VeNZywpicggyocY3keeF09JBWXc276RYDK06QVPlQqWzixj9rpfJO1ezcOPP_3M0jYQUTcF8cM/s1600/320.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="552" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj07Velg8iXkSf5-QI-JPLeM5S47jEUZPO15mS21zJUiPBwKsUlZFIDu8aHHTOg1ztVj5VeNZywpicggyocY3keeF09JBWXc276RYDK06QVPlQqWzixj9rpfJO1ezcOPP_3M0jYQUTcF8cM/s640/320.JPG" width="640" /></a></div>
<br /></div>
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5996152575274943867.post-36421383778673805492012-09-19T12:22:00.000+02:002012-09-19T12:22:04.350+02:00SIRIA <span style="font-size: large;"><b>Aleppo, con i leader della rivolta divisi tra Islam, patria e jihad</b></span><br />
<br />
AAZAZ. NON c’è un capo, non c’è un programma. Ce ne sono troppi. Per questo nessuno sa come sarà il dopo Assad. L’ideale, per chi teme che il Paese cada nelle mani di un regime islamista, sarebbe un cambio della guardia a Damasco.<br />
SE L’ESERCITO, come è accaduto al Cairo con Hosni Mubarak, sacrificasse il rais, sostituisse Bashar al Assad con qualcuno di più presentabile, in grado di avviare trattative con gli insorti, si aprirebbe forse uno spiraglio. Ma le forze a confronto si battono con le spalle al muro, non hanno e quindi non concedono scampo.<br />
La minoranza alawita (e quindi sciita), nucleo centrale del regime di Damasco, identifica il proprio destino con quello di Assad. E l’insurrezione, dominata dalla maggioranza sunnita, è un mosaico di formazioni e di tendenze ideologiche saldate soltanto da un comune obiettivo: la caduta di Assad. La guerra civile è destinata per ora a continuare, con ferocia crescente, e con il rischio che si espanda, perché la mischia può traboccare nel resto del Medio Oriente al centro del quale imperversa. Essa coinvolge già, indirettamente, Paesi limitrofi o vicini, ma anche lontani: da un lato, con Assad, l’Iran e la Russia; dall’altro, con gli insorti, in misura variabile, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Giordania, la Turchia, e con cautela (accentuata dal dramma di Bengasi) gli Stati Uniti. È una guerra sempre più per procura. Si direbbe, senza forzare troppo la realtà, che è un conflitto in cui l’Iran, tramite l’alleato regime di Damasco, si misura con gli avversari in territorio siriano.<br />
Nel borgo in cui mi trovo sono ben in mostra le ferite inferte dai missili dei Mig 21.<br />
È a una cinquantina di chilometri da Aleppo e in tempi normali a mezz’ora d’automobile da Deir Samaan, dove pensavo di andare. In quel villaggio dovrebbe esserci una comunità cristiana. E i cristiani sono circa il 10 per cento della popolazione, poco meno degli alawiti. Sono una minoranza schiacciata tra il regime, che li ha favoriti e ha conquistato l’appoggio di larga parte del clero, non tutto, e l’insurrezione agitata come una minaccia per la sempre più forte tendenza islamica. L’incertezza<br />
sul futuro ha provocato numerosi espatri. In particolare nella provincia di Homs. Ci sono milizie cristiane armate da Damasco, senza essere direttamente impegnate nella guerra civile, e ci sono anche cristiani favorevoli all’insurrezione. Nelle vicinanze di Deir Samaan c’è il monastero di San Simeone, un santo famoso perché un millennio e mezzo fa passò gran parte della sua vita in cima a una colonna. Ma Deir Samaan è irraggiungibile. L’esercito lealista e le milizie che lo fiancheggiano sono nella zona, e la strada è dunque più che insicura. Non la si può percorrere.<br />
Nell’informarmi sulla situazione interrogo i rappresentanti delle unità ribelli presenti nella provincia. E subito mi appaiono evidenti le divisioni all’interno di quella che Nur, la mia guida di un giorno, chiama la “rivoluzione”, e della quale lei, Nur, è una sintesi. Una sintesi delle varie formazioni militari e delle correnti islamiche e nazionaliste che animano la sua rivoluzione. Quando le chiedo se è molto religiosa scuote la testa; dal suo comportamento traspare un piglio femminista; è laureata in letteratura inglese e tratta gli interlocutori maschi alla pari, a volte con distacco, se avverte la propria superiorità culturale, e questo accade spesso; ma indossa l’hijab, che lascia scoperto soltanto l’ovale del volto, e un abito lungo color cenere.<br />
L’abbigliamento, in evidente contraddizione con il suo comportamento e le sue idee, è imposto dalla situazione. Abdel Aziz Salama, comandante della Divisione Tawhid, ha richiamato all’ordine una donna perché dal suo hijab uscivano ciocche di capelli, coprendole la fronte. Quella frangia, lasciata libera per civetteria o trascuratezza, ha provocato la collera di uno dei più importanti capi della regione “liberata” di Aleppo. Salama, un ex commerciante di spezie, ha raccolto nella Divisione Tawhid uomini provenienti dalle zone rurali, o inurbati di recente, gente semplice, sensibili ai richiami religiosi, e con loro ha formato la più numerosa unità combattente.<br />
La quale partecipa alla battaglia di Aleppo e presidia i territori del Nord, verso il confine turco.<br />
Abdel Aziz Salama è un islamista, vale a dire che l’Islam è il punto centrale della sua azione e auspica la creazione di uno Stato islamico. Ma l’espressione è generica; tante sono infatti le correnti islamiste. Salama non è un estremista. Non è un jihadista. Mi è stato descritto come un uomo semplice e con una capacità di comando eccezionale. Gli riconoscono questa dote anche i nazionalisti, benché perplessi di fronte alla sua forte impronta religiosa e ai suoi modi spicci nel condurre la guerra.<br />
Nella Divisione Tawhid la disciplina lascia desiderare. E la giustizia è piuttosto sbrigativa. L’esecuzione di prigionieri ha sollevato polemiche e proteste nelle formazioni che si distinguono da quelle islamiste. Ma l’abilità e la rapidità con cui Salama ha saputo creare la sua Divisione e la decisione con la quale l’impegna fin dall’inizio nella battaglia di Aleppo, e nella regione, gli danno un grande prestigio, anche tra i concorrenti —alleati.<br />
Il suo comando si sposta da un villaggio all’altro, nelle cantine in cui è più o meno al riparo dai missili dei Mig 21 e degli elicotteri che gli danno la caccia. Penso che le unità di prima linea, in cui mi sono imbattuto ad Aleppo, appartenessero alla Divisione Tawhid. Le ho indicate come reparti del Libero esercito siriano, che è in realtà una nebulosa senza un comando unico a livello nazionale. Le discussioni per crearne uno non sono ancora arrivate a una decisione. Alla frontiera turco-siriana di Kilis c’è un “media center”, qualcosa di simile a un ufficio stampa, che ritengo dipenda dal Consiglio militare della zona di Aleppo. Il quale è stato nominato dopo estenuanti negoziati e non deve essere considerato un comando unico. Abdel Aziz Salama non si assoggetterebbe.<br />
Benché comandi la più importante ed efficiente unità combattente della zona, lui non è comunque stato designato come il responsabile di quel Consiglio. Gli uomini d’affari della regione, quelli che si sono schierati con l’insurrezione e la finanziano, e i rappresentanti dei Paesi che forniscono armi o mezzi di comunicazione, riuniti in territorio turco, hanno preferito Abdel Jabbar al Hughaidy, un ex colonnello dell’esercito di Assad, nato ad Aleppo e diventato il comandante della più disciplinata unità combattente della zona. Il colonnello Hughaidy dà più affidamento. Non è un islamista. È un nazionalista. Non ha la barba come Salama. I suoi uomini sono stati in gran parte reclutati nelle città. Nelle sue unità ci sono studenti e professionisti. E i borghesi di Aleppo, quelli favorevoli alla “Siria libera”, non gli hanno risparmiato gli aiuti.<br />
Chi ne fa il ritratto sostiene che Hughaidy sa essere sprezzante. Gli capita di rimproverare coloro che parlano l’arabo scorretto o lo scrivono con troppi errori. Come militare di carriera è puntiglioso anche sulle regole di guerra. È contrario alla giustizia sommaria applicata ai prigionieri, come la pratica Salama. Capita che i soldati lealisti catturati siano usati come autisti delle autobomba fatte saltare nelle zone governative. Hughaidy non è d’accordo con questo sistema contrario ad ogni etica militare. Un’etica che non è quella di Salama. La differenza di stile tra l’ex colonnello e l’ex commerciante alimenta racconti che sembrano già leggende.<br />
I due capi, ai cui ordini ci sono migliaia di uomini, sono rivali ma impegnati nella stessa lotta. Quindi difficili alleati. Salama dispone di unità numericamente più robuste, Hughaidy dispone di più mezzi. Come responsabile del Consiglio militare deve tuttavia fornire armi anche a Salama. Insieme Hughaidy e Salama prefigurano forse il dopo Assad. E non è facile prevedere quali saranno i loro rapporti. Né del resto sappiamo come vanno esattamente adesso le cose. La realtà non è del tutto accessibile al cronista che si aggira in alcune limitate zone della Siria in preda alla guerra civile, che avrebbe già fatto 23 mila morti, in gran parte civili.<br />
L’uccisione di Abu Muhammad non è tenuta segreta: essa rivela sanguinose dispute interne alla “Siria libera”. Il suo vero nome era Tal al-Kabama ed era un medico. In questa veste e con un atteggiamento a prima vista pacato, adeguato alla sua professione, aveva conquistato la stima della gente. Aveva annunciato l’intenzione di aprire un centro medico nel villaggio di Firas al-Abseh, e questo gli dava prestigio. Ma si è ben presto rivelato un fanatico, un jihadista. Guidava un gruppo di cento uomini chiamato dei “mujahidin siriani”, in cui c’erano molti stranieri. Sono stati loro a rapire in luglio due giornalisti, un olandese e un inglese, poi liberati. A uccidere Abu Muhammad sarebbe stata la Brigata Faruq al-Shamal, presente nella provincia di Homs. Non sono sempre così drammatici i rapporti tra islamisti e nazionalisti. Quest’ultimi li definirei musulmani laici, se l’espressione laici non avesse, per molti arabi, il significato di atei, e quindi non fosse accettabile. Ad Aleppo ho visto unità con le bandiere nere salafite operare a fianco di unità nazionaliste.<br />
La disparità dei mezzi rende difficile valutare l’appoggio della popolazione ai ribelli. Le zone della “Siria libera” sono spopolate perché sottoposte a bombardamenti quotidiani. Ho percorso a lungo la bellissima pianura a Nord di Aleppo. Molte case erano vuote e i campi deserti in una stagione che di solito impegna gli agricoltori. La gente è fuggita in Turchia, o è emigrata nelle zone governative, dove non piovono bombe perché gli insorti non hanno, almeno per ora, un’artiglieria e ancor meno un’aviazione. Lo stesso vale per i commercianti e in generale gli uomini d’affari. Il regime ha inoltre liberalizzato in anni recenti l’economia favorendo la nascita di una classe di imprenditori, sunniti come alawiti. E questa classe teme il dopo Assad, che resta un’incognita.<br />
<br />
Bernardo Valli<br />
Domenico Abdullah Buffarinihttp://www.blogger.com/profile/07636947872800082194noreply@blogger.com0