mercoledì 28 marzo 2012

QUALCHE GIORNALE ITALIANO HA PUBBLICATO UNA SPLENDIDA NOTIZIA

A Srebrenica, la cittadina bosniaca nella quale si consumò il peggiore massacro per motivi etnici nell'Europa post guerra mondiale (le truppe serbe guidate dal generale Mladic sterminarono, sotto gli occhi indifferenti dei caschi blu dell'ONU, dagli 8000 ai 13000 uomini bosniaci di religione musulmana), una coppia di sposi, ai quali, se ci fosse dovrebbe essere consegnato il Nobel della Pace e del Coraggio, sono diventati genitori di un bambino a cui è stato dato il nome di Jussuf. Il padre è un musulmano di nome Ahmir, la madre, una ragazza serba, di nome Dunica di religione cristiano-ortodossa. Chi ama la pace, quella vera, che ha per fondamento la dignità, la libertà e la tolleranza non può che salutare questa notizia come una vittoria della vita sulla morte, dell'amore sull'odio. Saranno pochissimi, anche nel nostro paese, che verranno a conoscenza di un simile evento e ne gioiranno. Per un vero musulmano la notizia è invece un segno dell'Onnipotente, uno di quei segni che fa ben sperare sul futuro dell'uomo. Agli occhi dell'Altissimo l'amore coniugale è una delle cose più grate ad Allah. Nel rapporto tra coniugi non vi sono solo la misericordia, la comprensione, l'amore che c'è nel rapporto tra genitori e figli, c'è in più la possibilità di scambiarsi nel talamo "il piacere naturale".
"La donna è un rifugio per l'uomo e l'uomo è un rifugio per la donna...Le donne sono una veste per gli uomini e gli uomini sono una veste per loro" (Cor. II, 187).
Ad Ahmir, Dunica e al piccolo Jussuf, infiniti auguri e buona fortuna: "Che Allah accompagni sempre il vostro cammino. Allahu Akbar".
"La Siria accetta il piano di pace di Annan"
BEIRUT - La "pax siriana" è scesa su Baba Amro, mentre Bashar el Assad, in giacca blu e camicia aperta sul collo, vaga sotto l´occhio della telecamera per le strade del martoriato quartiere di Homs, simbolo della resistenza alla brutale repressione del regime. E come se non bastasse il messaggio tranquillizzante del Rais, ecco il portavoce di Kofi Annan annunciare che Damasco ha accettato il piano di pace in sei punti proposto dall´ex segretario dell´Onu, nella nuova veste di inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba per la Siria. Dopo quella della "normalizzazione" verrà anche la stagione del dialogo?
Un momento. La visita di Assad, benché organizzata e condotta in un contesto di assoluta sicurezza, non deve essere poi stata una vera e propria passeggiata, se voci provenienti dall´opposizione, raccolte e rilanciate soltanto dal giornale israeliano Haaretz, hanno detto che vi sarebbero stati degli spari in direzione del presidente siriano. Un´altra fonte della protesta, stavolta identificabile per nome e cognome, non ha nascosto la sua irritazione per la ostentata presenza di Assad a Baba Amro: «Vuole mostrare al mondo che ha sconfitto la rivoluzione - ha detto per telefono all´Agenzia Reuters, Saif Hurryah - ma la verità è che non hanno neanche potuto mandare in onda il video prima che lasciasse Homs, perché non hanno il controllo di niente».
Di sicuro, nella notte, ci sono state scaramucce nella stessa Homs e scontri, con vittime da una parte e dall´altra, in diverse province. I successi, sul piano militare, messi a segno dagli apparati militari siriani in alcune città-chiave contro i disertori del Libero Esercito Siriano e le milizie armate che lo fiancheggiano, hanno indotto i ribelli a cambiare tattica rinunciando alla difesa impossibile di intere aree urbane per dedicarsi ad operazioni guerriglia, "mordi e fuggi", contro obbiettivi limitati. Ma il livello complessivo della violenza non è sceso, se il rappresentante dell´Onu, Rober Serry, ha detto al Consiglio di Sicurezza che dall´inizio della rivolta sono state uccise oltre novemila persone.
Far cessare questo bagno di sangue è l´obbiettivo immediato su cui Kofi Annan sta lavorando da alcune settimane. Il suo piano in sei punti prevede, un cessate il fuoco immediato da entrambe le parti sotto la supervisione delle Nazioni Unite, il ritiro delle armi pesanti da tutte le città, la libera circolazione di operatori umanitari, l´accesso incondizionato ai media nazionali e stranieri su tutto il territorio, la liberazione dei prigionieri politici e l´avvio di un serio dialogo tra il regime e l´opposizione sulla soluzione politica del conflitto.
Quello che il piano Annan, a differenza della precedente proposta avanzata dalla Lega Araba, ma bloccata dal Consiglio di Sicurezza per il veto della Russia della Cina, non prevede sono le dimissioni di Assad. E questo è il motivo principale per cui la mediazione, prima ancora che il regime ne decretasse l´accettazione, è stata respinta dall´opposizione come un regalo fatto al Rais di Damasco per permettergli di guadagnare tempo e continuare a stritolare la protesta.
La stessa opposizione, però, non è stata finora capace di unificare i ranghi, colmare le differenze e assoggettarsi ad un comando unificato. Ci proverà nel vertice Amici della Siria-2, previsto per il primo di Aprile in Turchia. Ma alla riunione non parteciperà nessun rappresentante della Russia, fermamente convinta, come ha detto il presidente ancora per pochi giorni, Dmitri Medvedev, che la caduta di Assad non aiuti a risolvere la crisi.



Alberto Stabile

TUNISIA

La Tunisia resterà «uno stato libero, indipendente e sovrano, che ha l' Islam come religione di stato, l' arabo come lingua ufficiale ed è una repubblica». La prima decisione della Commissione incaricata di rivedere la costituzione tunisina, che ha rispettato l' articolo 1 nella forma voluta da Habib Bourghiba nel 1959, suscita un profondo sospiro di sollievo, in Occidente come in Tunisia. È una scelta che non rinnega le radici religiose musulmane, ma allo stesso tempo respinge i richiami delle frange radicali, che chiedevano il passaggio alla sharia come fonte di legge. A prendere l' impegno di rispettare la formulazione dell' articolo 1 era stato Rachid Ghannouchi, leader dei musulmani moderati di Ennahda. Ancora prima di vincere le elezioni con il 40 per cento dei consensi, il partito islamico aveva preso l' impegno di non imporre svolte fondamentaliste. Niente velo obbligatorio per le donne, fra le più "occidentalizzate" del mondo arabo e orgogliose protagoniste della "Primavera". Niente divieti per il consumo di alcolici, o per il pagamento degli interessi sui prestiti. Insomma, niente repubblica islamica sul Mediterraneo, almeno per ora. La conferma dell' impostazione laica è ovviamente una garanzia anche dal punto di vista economico: la Tunisia conta sul turismo come risorsa fondamentale e una svolta in senso integralista avrebbe messo in pericolo i bilanci dell' intero Paese. Ma resta da capire se la scelta di Ennahda sia consolidata o rischi di essere rimessa in discussione dai conservatori all' interno stesso del partito, oltre a suscitare le critiche degli integralisti salafiti. La frangia più radicale, che pure aveva subito la rivoluzione senza trovare il modo di governarla, nei mesi successivi alla fuga del dittatore Zine al-Abidine Ben Ali ha cercato di approfittare dell' incertezza politica e della crisi economica per conquistare maggiori consensi. Ma in generale la società tunisina sembra aver fatto propria la cultura laica a suo tempo imposta da Bourghiba. Questo vale in modo particolare per le città e i centri del norde della costa, maggiormente esposti alle influenze europee. A Tunisi le manifestazioni integraliste hanno trovato risposta nei cortei di chi gridava: giù le mani dalla legislazione a tutela delle donne. Nei giorni scorsi, però, mentre si discuteva della Costituzione futura, l' area radicale ha mostrato nuovi segni di turbolenza. Domenica migliaia di militanti salafiti sono scesi nella centralissima avenue Bourghiba, cuore della capitale, manifestando per l' adozione della sharia e avviando scontri con un gruppo di attori e artisti. Questi erano colpevoli di non aver voluto cedere agli integralisti la scalinata del Teatro nazionale in cui già avevano avviato una loro cerimonia per festeggiarne la giornata celebrativa. La polizia è intervenuta per separare gli schieramenti, ma non è riuscita a evitare la sassaiola e il lancio di uova sugli artisti. E non ha nemmeno fermato uno sceicco che incitava i militanti a «prepararsi per uccidere gli ebrei», invito che la folla accoglieva con boati di approvazione. Qualche militante si è arrampicato sul monumento di piazza 14 gennaio per appendere la bandiera di Hizb Hettahrir, il "partito della libertà" ultra-salafita. È un movimento fuori legge ma regolarmente tollerato, che chiede il ritorno al califfato e ha acquistato un certo peso nelle periferie e nelle campagne, grazie soprattutto alla predicazione delle moschee. Momenti di tensione anche all' aer o p o r t o T u n i s i - C a r t a g e , quando i militanti salafiti hanno imposto alla polizia di lasciar passare il predicatore radicale Héni Sbai, appena arrivato da Londra: contro di lui vigeva - almeno formalmente un divieto di ingresso in Tunisia emesso dal regime di Ben Ali. In qualche modo, dunque, i salafiti vogliono mettere alla prova la scelta moderata del partito islamico. E la risposta della polizia, che nel centro della capitale ha tollerato persino l' appello ai pogrom e all' aeroporto ha obbedito alla prepotenza dei "barbuti", non sembra un segnale positivo.


Giampaolo Cadalanu

lunedì 26 marzo 2012

FRANCIA

L' allievo dei Taliban nato nella banlieue È un duro, addestrato per uccidere

TOLOSA - L' aveva giurato che avrebbe venduto cara la testa. Era l' ultima sfida, la tappa finale della guerra. L' ha lanciata quando ha capito che quelli là fuori, i "nemici", anche loro incappucciati e vestiti di nero, lo volevano vivo. Braccato come un cane, sotto gli occhi del mondo, forse l' ex carrozziere Mohamed Merah detto «l' afgano» doveva rifarsi dalla banalità degli errori commessi, che smacco per un sedicente qaedista. Uno che si costruisce la fama di cecchino metropolitano (quasi) perfetto; uno che abbatte sette persone in nove giorni e spara a una bambina dopo averle afferrato la testa; uno che intanto "sporca" il computer e come un centauro della domenica va dal concessionario per chiedere come si smonta il satellitare dello scooter. Uno che infine dice «mi dispiace di non avere potuto uccidere di più». «Lo conosco da quando era bambino, è un duro, non si arrenderà facilmente, vedrete...». Quanto ha ragione Karim - dice di chiamarsi così. Ha 27 anni, quattro in più di Merah, è cresciuto anche lui a Les Izards, la banlieue a nord-est di Tolosa dove un giovane algerino «calmo» e «rispettato», terzo di cinque fratelli, amico dei pusher nordafricani senza diventare spacciatore, qualche furtarello, decide che la sua vita ha più senso se è quella di un terrorista spietato. Svelto ma non invulnerabile, nemmeno furbissimo, esperto nell' uso delle armi e tecnologico come i jihadisti di ultima generazione: uno che si fa filmare dagli amici mentre si diverte in Bmw su un campo sterrato e due anni dopo fa precipitare nel terrore la sua città e tutta la Francia. Uno che si è inventato, che si è appiccicato addosso il fanatismo. «Terrorista di Al Qaeda? Di lui proprio non l' avrei mai detto - si stupisce Karim, che nelle ultime ore é stato sentito dai poliziotti dell' antiterrorismo - piuttosto del fratello, lui sì...». E invece Mohamed Merah studiava. No, non più il corso di formazione professionale che a 16 anni lo aveva portato a lavorare per 48 mesi in una carrozzeria. Troppo banale, non è roba per chi - nel segreto delle aspirazioni che lievitano con la follia - era attratto dai video degli attentati degli integralisti islamici. «Sono un mujaheddin», ha raccontato al telefono l' altra notte al giornalista di France 24, mentre in Rue de Sergent Vigné gli agenti delle forze speciali preparavano il blitz. «O mi ascoltano, oppure vado incontro alla morte con il sorriso». Nel minestrone del suo fanatismo autarchico il Bin Laden di Tolosa ha ficcato dentro un po' di tutto: i bambini palestinesi da vendicare, la politica estera francese, l' esercito, la polizia. Sta di fatto che tra il 2009 e il 2010 la distanza tra Merah e i gruppi jihadisti e salafiti si accorcia: il killer dei paracadutisti, il macellaio dei bambini della scuola ebraica finisce nel laboratorio dell' odio, la regione tra Pakistan e Afghanistan dove vengono addestrate le leve del terrorismo islamico. «Mi hanno chiesto di fare un attentato suicida all' estero ma non ho accettato, poi mi hanno affidato questa spedizione in Francia» - butta lì ai poliziotti che trattano la resa. Ricorda Karim: «A Les Izards pregavano insieme, coi suoi fratellie altri amici. Poi Mohamed si è trasferito qui, nel Coté Pavé, e io anche». Il quartiere, tranquilloe residenziale,è il cavallo di Troia di Merah. Il collegio privato frequentato dai figli della borghesia ebraica è a 3 chilometri da casa. Perfetto per fare una strage e rintanarsi nel bilocale a piano terra al civico 17 di Sergent Vigné. Ideale per muovere in direzione degli altri obiettivi, i paracadutisti «assassini». Fa niente se la caserma Perignon, è a cinque minuti a piedi dal palazzo grigio e beige dove il killer si è arroccato. Forse, nella sua ottica, è persino meglio. Ma torniamo alla formazione del terrorista. «Mi avevano detto che era andato in Algeria, il suo Paese, e invece, scopro adesso, era in Afghanistan a addestrarsi» - racconta l' amico di infanzia. Il nuovo tempo di Merah è un percorso a ostacoli: piccole tacche che il futuro cacciatore di bambini si appunta sulla sua divisa da terrorista in erba. Tenta di entrare nella Legione straniera, ma viene respinto. Gira la notizia che nel 2008 il tribunale di Kandahar lo accusa di avere piazzato delle bombe in città. Che evade dalla prigione con dei Taliban. È un caso di omonimia. Merah è più "avanti". Sa sparare. Imbraccia fucili automatici e mitragliette, usa la pistola come una piuma. Si procura armi e esplosivo, ed è talmente sicuro da tenere in casa un mezzo arsenale. Però non ha fretta. Rientra a Tolosa e si fidanza con una ragazza che gli chiede di mettere su famiglia. Mohamed preferisce stare da solo nel covo del Coté Pavé, ogni tanto va a aiutare la madre che vive a Le Miraille, altra banlieue. Forse sta già prendendo la mira, le vittime vanno studiate, l' ha imparato. Vive sul filo: niente di grosso, qualche furto come nel 2005, l' ultimo a una signora che aspetta fuori da una banca. A febbraio lo fermano mentre guida la macchina senza patente: un mese di carcere, condanna da trasformare in pena pecuniaria.I paracadutisti stanno per cadere.I bambini aspettano la morte fuori da scuola. «Era un ragazzo pulito, gentile e educato», dice con ammirevole coraggio Marie Christine Ételin, il suo avvocato. Lui: «Peccato, volevo uccidere di più».

Paolo Berizzi

LA STRAGE DI MERAH QAEDISTA DELLE BANLIEUE
Ha voluto il "martirio" Mohammed Merah, il killer di Tolosa e Montauban. Una scelta obbligata per il giovane francese di origine algerina dalla tipica biografia del nuovo terrorismo globalizzato. La morte armi in pugno lo trasforma in shahid agli occhi di quanti si riconoscono nella sua causa. Una morte, la sua e quella che egli ha inferto spietatamente alle sue vittime, che, per chi crede nel qaedismo, riscatta una vita altrimenti destinata alla noia e alla devianza spicciola. Merah era cittadino di un Paese la cui promessa di integrazione è spesso messa in discussione dall' assenza di politiche pubbliche che offrano a chi si chiama Mohammed le stesse chance di partenza di chi si chiama Jacques. Frustrazione, diffusa tra le seconde e le terze generazioni, che può generare la rivolta delle banlieue o la radicalizzazione islamista. Se a questo si aggiunge, come nel caso di Merah, la memoria del colonizzato, in particolare quella dell' algerino che imputa all' antico colonizzatore, sia pure sconfitto nella lotta per l' indipendenza, di aver "moralmente corrotto" le società dei Paesi musulmani che non vogliono un ritorno all' islam politico in versione radicale, allora il cerchio si chiude. Merah ha compiuto lo stesso percorso di altri giovani nel primo decennio di questo tormentato secolo. Se la prima generazione dell' internazionalismo militante islamista combatte i sovietici in Afghanistan negli anni Ottanta, la seconda fa il suo pellegrinaggio jihadista due decenni dopo, per battersi contro gli americaniei loro alleati in Iraqe nell' Afghanistan dei Taliban e di Al Qaeda. Troppo giovane per accorrere nella Mesopotamia della funesta epopea di Zarkawi, Merah "l' afghano" è il classico "lupo solitario" che si ideologizza nelle periferie delle città europee: nel vuoto compulsivo della banlieue di Les Izards, tra storie ordinarie di piccoli crimini e disoccupazione, ibride frequentazioni con spacciatori e salafiti di quartiere, il mito di Al Qaeda come vendicatrice dei soprusi subiti dai musulmani. Anche nella Francia bollata da Zawahiri come "nemico dell' Islam" non solo per essersi schierata a fianco dei "golpisti algerini" negli anni Novanta e con gli americani nella "guerra al terrore", ma per "l' arroganza" dimostrata con la legge sul velo e quella sul burqa. Un giovane, Mohammed, che vuole sfuggire alla routine del lavoro in carrozzeria attraverso la riscoperta della religione come bricolage e della jihad online.E che decide di compiere il viaggio fatale, che lo trasformerà in mujaheddin, nelle aree tribali pakistane dove si addestrano i Taliban e le moschee deobandi danno forma alla loro rigida concezione dell' Islam. Da lì varcherà la linea Durand insieme a altri europei dalla doppia nazionalità, tedesco-marocchina o francese-algerina, per combattere in Afghanistan contro la coalizione occidentale. Dunque anche contro la Francia, il suo Paese. Al quale, come spesso accade a ogni mujaheddin europeo, poi ritornerà. Magari durante l' inverno, stagione che, ai piedi dell' Hindu Kush, scandisce il tempo ciclico della guerra. Non è un caso che servizi e antiterrorismo francesi siano arrivati a Merah setacciando non solo i protocolli Internet, malamente usati dalla sua cellula "familiare", ma anche i loro archivi: nei quali vi era una segnalazione di un suo fermo alla periferia di Kandahar. Una traiettoria, quella che va dalle aree tribali pakistane, passando per la città culla del movimento del Mullah Omar, sino a Tolosa, che rivela la mobilità del terrorismo degli "irregolari" globali; di quanti combattono nelle terre del jihad per qualche mese o anno, per poi riprendere, mimeticamente, una vita all' apparenza normalea migliaia di chilometri di distanza. Per restare "in sonno" sino a quando l' impulso all' azione, o un particolare momento politico, li indurrà a agire. Non necessariamente per un input di altri elementi della rete jihadista, ma spinti dal magnete della loro "bussola" ideologica. Un percorso che rivela come l' ideologia qaedista possa sopravvivere alla stessa crisi di Al Qaeda. Tanto lunga è la sua genesi e la penetrazione nell' immaginario collettivo della "generazione del fronte". Un' ideologia forgiata attorno alla figura del Nemico, che cristallizza il campo degli antagonisti irriducibili. L' identità dei bersagli di Merah è significativa: militari di origine maghrebina, come i parà di Montauban, musulmani percepiti, nella concezione jihadista, come "apostati" al servizio del Nemico, "traditori" che combattono gli "autentici credenti" in Afghanistan; ebrei, figli di quel popolo di Israele che, attraverso il sionismo ha dato vita a uno Stato ritenuto la causa della sofferenza dei palestinesi. È di questa ideologia mortifera che muore Merah, il qaedista delle periferie.

Renzo Guolo

sabato 24 marzo 2012

LIBIA E EGITTO

Sul Corriere della Sera fra le lettere al direttore che hanno il privilegio di ricevere delle risposte equilibrate e documentate di Sergio Romano, ne è stata pubblicata Martedì 20 Marzo una di tal Giovanni Bertei di La Spezia.
Pubblichiamo sia la lettera, sia la risposta di Sergio Romano, esemplare nella ricchezza di argomenti e di aderenza alla verità storica.

LA CRISI IN EGITTO E LIBIA DUE TRANSIZIONI A CONFRONTO

In Egitto e in Libia, due Paesi dove regnavano, se non altro, ordine, sicurezza e anche un certo progresso economico, ora imperversano guerriglia e massacri tra bande opposte, nel tentativo di pervenire a una democrazia irraggiungibile causa il prevalere di un Islam fanatico e prevaricatore, che certamente condurrà a dittature religiose o militari ben più spietate e feroci di quelle di Mubarak e Gheddafi. Valeva la pena di fare ciò che è stato fatto in Libia?

Giovanni Bertei, La Spezia


Caro Bertei, fra l’Egitto e la Libia esistono fondamentali differenze. L’Egitto ha vecchie istituzioni, collaudate dal tempo. Ha una classe dirigente che ha avuto importanti incarichi internazionali, come quello di Boutros Boutros Ghali, segretario generale dell’Onu dal 1992 al 1996, e di Mohamed el Baradei, direttore dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) dal 1997 al 2009. Ha forze armate moderne che stanno sovraintendendo, bene o male, al passaggio del Paese da un regime autoritario a un sistema politico rappresentativo. Ha una classe di imprenditori che hanno, come nel caso di Naguib Sawiris fondatore di Wind, importanti posizioni internazionali. Ha giovani educati che sanno usare le nuove tecnologie e conoscono il mondo molto meglio dei loro padri e delle loro madri. Ha scuole superiori, centri di studio e ricerca, la maggiore università del mondo musulmano (Al Ahzar) e il quotidiano più autorevole della regione (Al Ahram). È certamente la casa madre della Fratellanza musulmana, vale a dire dell’organizzazione che ha generato quasi tutti i movimenti integralisti del mondo arabo. Ma è anche il Paese dove la Fratellanza ha svolto un apprezzabile ruolo sociale e ha saputo rimettere in discussione le proprie strategie. Con tutte le incertezze di un processo incompiuto, l’Egitto ha un calendario politico e istituzionale che è stato sinora sostanzialmente rispettato. Attenzione. Questo apparente elogio tiene conto del contesto politico e sociale in cui il Paese è collocato. Ogni giudizio, in questa materia, è sempre necessariamente relativo. La Libia è pressoché totalmente priva delle virtù egiziane. Ha una classe dirigente modesta e numericamente limitata perché Gheddafi ha allevato soltanto clienti e cortigiani. Ha un esercito debole e poco autorevole perché Gheddafi diffidava delle forze armate. Non ha istituzioni statali perché Gheddafi era, letteralmente, il padrone del Paese. Non ha una società civile perché il cittadino è anzitutto membro della propria tribù. Mentre in Egitto assistiamo a una transizione, in Libia la transizione non è ancora cominciata. Il governo non può contare sull’esercito, pressoché inesistente, e deve fare fronte a una galassia di milizie (circa duecentomila uomini) che non hanno rinunciato alle armi trovate negli arsenali dello Stato o fornite dalla coalizione antigheddafiana durante il conflitto. Non può contare sulle tribù perché ciascuna di esse vuole trarre il massimo vantaggio possibile dai giacimenti scoperti nel proprio territorio. Non può contare sul sentimento nazionale perché le tribù della Cirenaica chiedono un’autonomia che confina pericolosamente con l’indipendenza. Non è facile, in una tale situazione, rimettere in moto l’economia nazionale e garantire ai libici i benefici elargiti da Gheddafi. In un articolo apparso nell’ultimo numero di Oasis, rivista di una fondazione internazionale creata dal cardinale Angelo Scola, un docente dell’Università di Losanna, Moncef Djaziri, ne ha ricordati alcuni. L’elettricità per uso domestico era gratuita, la benzina costava 10 centesimi di euro, i libici, praticamente, non pagavano le tasse, le banche concedevano prestiti a tassi d’interesse molto bassi, le automobili importate venivano vendute a prezzo di fabbrica, i lavori più sgraditi e logoranti erano fatti da un milione e mezzo d’immigrati, il reddito pro capite ammontava a 17.000 dollari, il doppio di quello tunisino, tre volte quello dell’Egitto. Non vorrei che qualche libico, di qui a poco, cominciasse a dire che il regime del colonnello non era poi così male. 

Sergio Romano


Abbiamo ritenuto di pubblicare anche la lettera, cui Sergio Romano ha fornito risposta, come esempio di quella caratteristica di tanti lettori italiani i quali pretendono di interloquire o di discettare su argomenti di cui non sanno praticamente nulla. Va chiarito che molto spesso, dietro alla pretenziosità di taluni interventi, vi è normalmente una sostanziale ignoranza di base che, per altro, non è esente da disinformazione in malafede.
Un italiano che volesse parlare con cognizione di causa sulla Libia farebbe bene prima a leggersi la fondamentale opera dello storico De Voca, che documenta i crimini che gli italiani hanno commesso per quasi 50 anni in Libia e soprattutto in Cirenaica ai tempi in cui il nostro bel paese aveva governi desiderosi di restaurare l'Impero Romano, da Giolitti a Salandra per finire al Duce per eccellenza Benito Mussolini. Convinti com'erano della loro missione "civilizzatrice", i militari italiani che sbarcarono in quella che veniva chiamata "La IV Sponda italiana" o "La Sirena del Mediterraneo", rimasero esterefatti quando si resero conto che i libici (tripolitani e cirenaici) non avevano nessuna intenzione di considerare "liberatori" e civilizzatori gli italiani e fin dall'inizio dell'invasione di essi combatterono con durezza e con valore a fianco dei Turchi, infliggendo alle sbalordite truppe ammantate dal Tricolore sconfitte dietro sconfitte. Il ministro Salandra commentò sconsolato: "E' peggio di Adua! E' peggio di Adua!", facendo riferimento alla durissima batosta che gli Etiopi avevano inflitto alle truppe italiane inviate da Francesco Crispi poco più di vent'anni prima. La risposta italiana fu una delle più feroci, sanguinarie e selvagge dell'intera storia coloniale europea, e fecero impallidire le efferatezze che i francesi avevano compiuto in un secolo in Algeria. Impiccagioni di massa, decimazioni, marce della morte, lager, stragi di rappresaglia nella popolazione civile provocarono nella popolazione libica più di 100 mila morti in una popolazione inferiore al milione di abitanti.
Siamo i meno qualificati per soffermarci sulla ferocia di Gheddafi e su quanto è avvenuto in Libia in tempi più recenti.
Lo stesso pudore storico-politico dovrebbe trattenerci dal fare troppi svolazzi su quanto è avvenuto in Jugoslavia dopo il 1940 quando il solito Mussolini, nella sua gara di grandezza imperiale e di ferocia col suo "socio dai baffetti" (Adolf Hitler), invase la Jugoslavia, la fece a pezzettini, trasformò mezza Slovenia nella provincia italiana di Lubbiana, creò il regno fantoccio di Croazia di cui venne nominato re Aimone di Savoia, ma primo ministro fu nominato Antepavelic, guida dei nazi-fascisti-cattolici croati che in un quinquennio dimezzarono la popolazione serba di Bosnia ammazzandone un milione con metodi che fecero rabbrividire anche le SS tedesche e, già che aveva le mani in pasta, massacrò 80 mila ebrei e circa 100 mila rom. Naturalmente venne il momento in cui i nazi-fascisti italo-tedeschi dovettero lasciare il "maltolto" perché i partigiani jugoslavi, con una lotta di resistenza tra le più valorose della Seconda Guerra Mondiale, gli ricacciarono dal suolo della loro patria. Era inevitabile che dopo quanto gli italiani avevano combinato soprattutto in Slovenia, gli slavi avevano qualche conto da regolare; e lo regolarono con le foibe, dove secondo i dati accuratamente ricostruiti da una commissione post bellica italo-jugoslava risultò che gli italiani infoibati erano stato un numero compreso tra gli 8mila e i 10 mila, in buona parte componenti della legione giuliana di SS italiane.
Ho citato questa vicenda per mettere in evidenza che tra i personaggi che si inventano al loro consumo una realtà storica completamente deformata non vi sono soltanto disinformati lettori autori di lettere ai giornali, ma anche illustrissimi personaggi. Quando è stato introdotto in Italia poco tempo fa la "Giornata della Memoria" per ricordare le vittime italiane delle foibe, il presidente in carica Giorgio Napolitano disse con "forte e vibrante" indignazione: "Esse erano vittime del barbaro espansionismo sanguinario degli slavi". 
Il presidente croato Stipemesic commentò: "Il presidente Napolitano deve aver bevuto troppo Chianti". 

giovedì 22 marzo 2012

I TRAGICI EVENTI FRANCESI

I vecchi principi del diritto processuale romano ne avevano uno che testualmente recitava:
"Deminimis non curat praetor" ("Delle cose senza valore non si prende cura il giudice").
Avrei voluto oggi riprendere il filo delle mie valutazioni a proposito delle pagliacciate spacciate per "festa delle religioni" organizzate sotto l'etichetta del Centro Ecumenico Eugenio II e che hanno visto il narcisista sindaco Variati, supportato dal suo assessore Giovanni Giuliari, con il sostegno morale del re dell'Ecumenismo vicentino, Monsignor Dal Ferro, e con l'inconsapevole (questo almeno lo spero) adesione della Comunità Islamica Vicentina, che ha tra i suoi dirigenti persone talmente ingenue da ritenere di crearsi legittimità e spazio manifestando acquiescenza alle manifestazioni forkloristiche di catechismo e non invece rivendicando con la forza della Costituzione repubblicana i diritti che competono ad ogni confessione religiosa, a cominciare da decorosi luoghi di culto e finendo all'esistenza di un decoroso luogo di seppellimento dei morti. Achille Variati avrebbe dovuto a questo punto spiegare i motivi per i quali Verona, Treviso e Padova dispongono di uno spazio cimiteriale acattolico, mentre a Vicenza quello esistente è chiuso da oltre mezzo secolo e la richiesta di farne uno nuovo rimane inascoltata da ormai un decennio. Si vede che dare la possibilità a ogni cittadino residente a Vicenza non è ipotizzabile che si possa esercitare il diritto di essere sepolti da morti in conformità alle usanze funerarie della propria religione. E' un nuovo rivoluzionario segno di civiltà dell'integrazione.
Sul tema naturalmente ritorneremo in modo più esaustivo, ma vogliamo ora soffermarci sulla strage di 3 bambini ebrei e di 3 militari francesi di religione musulmana da parte di un pazzo scatenato che ha rivendicato in solitudine la sua appartenenza ad Al Qaeda. Naturalmente non pretendiamo che gente completamente ignara dei principi dell'Islam sappia che uccidendo bambini innocenti, togliendo la vita a uomini di religione musulmana e concludendo la scorribanda mortifera con il proprio suicidio, sono stati violati 3 dei comandamenti più importanti dell'Islam. Sulla vicenda, tuttavia, ci sembra necessario fare un approfondito commento che articoliamo in due parti:
I - Nella prima riporteremo il testo dell'articolo comparso su La Repubblica in data 21/03/2012 e a firma di uno dei pochi giornalisti italiani, che quando scrive sa di cosa si parla: ci riferiamo alla bravissima Barbara Spinelli

IL MALE OSCURO DELL´EUROPA
Tutti ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell´animo e del crimine.
L´occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d´un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna. Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l´ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa «uccisione-linciaggio in un impulso d´ira incontrollata»), e tale è stato l´attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell´amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l´ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l´assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l´omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus. Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: «Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio», così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell´«era dell´irresponsabilità». È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: «Mai più?». Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l´esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica". Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente «come un ragno nella sua tela, immobile da mesi». Amok è scritto nei primi anni Venti: un´epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ´14-18, Thomas Mann vedeva l´Europa sommersa da «nervosità estrema». 
«L´amok è così – spiega Zweig nel racconto– all´improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada… Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l´orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente… Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato… ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L´ossesso corre senza sentire… finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando». Ci furono opere profetiche, negli anni ´20-´30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell´orrida e precisa visione del presente?
Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest´odio del diverso (dell´ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l´Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L´attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell´isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell´America degli odii razziali, in prima linea: l´odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l´Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d´ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: «Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso». Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d´immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com´è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com´è possibile che l´Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell´aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un´isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l´alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l´etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito «la più grande tragedia dell´Ungheria moderna». Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell´Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell´odio razzista, della banalizzazione del male che s´estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come «unico contenitore della democrazia», poiché senza di lui non c´è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l´austro-ungarico, l´ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell´ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po´. 





II - Il riferimento alla figura patologica malese denominata Amok, che designa la furia omicida ossessiva che spinge chi ne è affetto ad uccidere chiunque incontri sulla propria strada fino alla conclusione inevitabile del suicidio di chi ne è affetto, è una patologia molto più frequente di quanto non si pensi e forse proprio per la sua terribilità essa viene rimossa dalla coscienza collettiva. Eppure non solo l'antichità ci riporta testimonianze sugli ossessi in preda a follia omicida ma anche le cronache moderne sono punteggiate dalle stragi consumate nelle scuole americane, probabilmente favorite dalla libera circolazione delle armi da fuoco. Io credo che l'azione omicida del franco-algerino che ha ammazzato in una settimana 7 persone sia un altro caso di Amok, cui l'omicida-suicida ha tentato di fornire una razionale spiegazione facendo riferimento alla necessità di vendicare i bambini palestinesi e di punire la Francia perché manda i suoi soldati ad uccidere gli abitanti dell'Afghanistan. Naturalmente gli argomenti di tal genere da parte del franco-algerino sono puramente pretestuosi. La furia omicida ha drammatiche motivazioni individuali che può far comodo spiegare con argomenti di carattere politico-religioso;
III - Non vorrei sembrare visceralmente anti-ebraico ricordando che l'uccisione di 3 bambini ebrei, quando venga enfatizzata per motivare deliranti articoli contro l'Islam è un esercizio ignobile di propaganda di segno razzista e anti islamico. Non sarebbe difficile ricordare che nei bombardamenti di Gaza noti con il termine "Operazione Piombo Fuso", di bambini palestinesi innocenti ne sono stati ammazzati oltre 300, che nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila in Libano sui 2000 morti provocati dalle truppe falangiste cristiane che hanno operato grazie all'illuminazione a giorno degli impianti israeliani, più della metà erano bambini; che nei massacri consumati dall'esercito israeliano nelle "rappresaglie anti palestinesi" la maggior parte delle vittime erano bambini (molti ricorderanno il bambino ammazzato a Ramallah da un eroico fuciliere israeliano tra le braccia del padre che cercava di proteggerlo). Vogliamo anche far cenno alle decine di migliaia di bambini iracheni morti nei bombardamenti statunitensi sull'Iraq? E' eccessivo l'accenno all'ultima gloriosa impresa del sergente statunitense che, in preda ai fumi dell'alcol, ha ammazzato 16 afghani di cui 12 bambini? C'è differenza tra i 3 bambini ebrei uccisi in Francia da un pazzo scatenato che dice di agire per conto di Al Qaeda e il lunghissimo elenco delle vittime infantili prima elencate? Sì, una differenza c'è: agli occhi degli antirazzisti d'accatto che popolano l'Europa e sono pronti a sfilare per solidarietà con Israele durante i bombardamenti di Gaza, ammazzare un pò di musulmani non è peccato, mentre è un delitto contro l'umanità uccidere un ebreo: magari figlio di qualche superstite dei campi di sterminio nazisti dove gli europei hanno ammazzato milioni di ebrei.

mercoledì 21 marzo 2012

TURCHIA

Turchia La tele-diplomazia conquista gli arabi

INSTANBUL Lui si chiama Mehemet nella versione turca e Muhannad in quella araba. Lei Gümüs diventa Noor. Sonoi nomi dei protagonisti di una telenovela turca con poco meno di cento milioni di spettatori tra il Mar Rosso e l' Atlantico, tra La Meccae Agadir. La soap opera ha contribuito a celebrare la riconciliazione della Turchia con il mondo arabo. Gümüs-Noor e Mehemet-Muhannad, eroi di una storia sentimentale, un po' melensa come richiede il genere, hanno scandito tre anni fa un avvenimento storico quale è il ritorno tra gli Arabi dei discendenti dell' Impero ottomano. Arabi tenuti a debita distanza per buona parte del secolo scorso, perché ritenuti con protervia, dai Turchi, una "razza" arretrata, gente pericolosa, infida, pronta al tradimento, e comunque priva di interesse sul piano culturale, economico, politico. Secoli di civiltà araba, da Bagdad a Fez, cancellati con un colpo di spugna. Gümüs e Mehemet, diventati Noore Muhannad, hanno favorito l' atto di riparazione. Pacifici messaggeri turchi hanno affascinato gli Arabi, li hanno riconquistati con le immagini della loro società musulmana modernizzata. Le telenovela segnano oggi i momenti epocali (come un tempo le sinfonie di Beethoven o le opere di Verdi). A decine di migliaia di neonati, maschi e femmine, sono stati dati i nomi dei protagonisti di "Noor", questo il titolo arabo della serie televisiva che nella versione originale turca era "Gümüs". E' stato lanciato anche un taglio di capelli "alla Noor", e non si contano le T-shirts con i nomi della coppia. La quale vive sul teleschermo un rapporto amoroso agitato ma basato sul reciproco rispetto di due adulti, uguali nei diritti ed entrambi sensibili ai sentimenti dell' altro. Lui, Muhannad, non è il classico orientale, dominatore e virilmente di pelo scuro. Baffuto. E, perché no?, pure barbuto se sensibile ai richiami estetici della religione. Al contrario Muhannad è un essere delicato. Sul tipo glabro. Per i gusti tradizionali può apparire troppo fragile fisicamente e troppo vulnerabile moralmente. Insomma non abbastanza maschio. Ma non ha lasciato insensibile il pubblico femminile arabo per il quale è diventato il nuovo giovane musulmano ideale. Non senza accendere discussioni e attirare condanne dalle autorità religiose, perché la vicenda passionale di Noor e Muhannad non rispetta sempre le regole patriarcali delle società arabe, e appare troppo occidentale. Resta che Kivanç Tatlitug e Songül Öden, i due attori che interpretano rispettivamente Noor e Muhannad, sono diventati per alcuni anni personaggi centrali della vita culturale araba. Uno studioso di quella cultura contemporanea, Yves GonzalesQuijano, dal quale si possono attingere dati e notizie essenziali sull' argomento (edè quel che faccio), si è occupato dell' influenza esercitata dalle serie televisive turche non solo direttamente sulle masse mediorientali, ma anche sulle manovre geopolitiche della regione, creando un terreno favorevole all' offensiva diplomatica turca. L' attività di politicie ambasciatori non ha comunque occupato le animate discussioni notturne in famiglia, dopo il digiuno del Ramadan, nel 2008, come la disinvolta acconciatura di Noor o l' atteggiamento tormentato di Muhannad nell' ultima puntata della soap opera. Il successo di "Nour" ricorda quello di "Dallas". Con in più un forte impatto politico. I programmi televisivi, che hanno contribuito alla popolarità della Turchia tra gli arabi, hanno aggravato la tenzone tra Ankara e Tel Aviv. In una serie dal titolo "Ayrilik" (Separazione) si vedono soldati israeliani uccidere a sangue freddo dei Palestinesi. E "La valle dei lupi", un altro programma a puntate, giudicato antisemita dagli israeliani, e suscettibile di mettere in pericolo la vita degli ebrei turchi, ha provocato un incidente diplomatico. Nel 2010, dopo la trasmissione, Danny Ayalon, vice ministro israeliano degli Affari esteri, ha convocato l' ambasciatore turco, Oguz Celikkol, per esprimergli la ferma protesta del governo. L' israeliano non ha stretto la mano del Turco, e l' ha fatto sedere su una poltrona visibilmente più bassa della sua. L' eroe di "La valle dei lupi", Necati Sasmaz, al contrario del fragile protagonista di "Noor", ha il pelo scuro e un piglio virile. Non ha niente di effemminato. Come "James Bond del Bosforo" ha infiammato gli animi dei giovani arabi. In particolare dei palestinesi. Il ritorno della Turchia in Medio Oriente è una piccola rivoluzione, dall' esito ancora incerto, come tutto quel che accade in Medio Oriente in questa agitata stagione. L' offensiva politica, culturale ed economica è stata sollecitata, favorita, da una serie di avvenimenti. Elenco quelli che mi sembrano i principali: la fine della guerra fredda ha alleggerito la Turchia dal rigido ruolo di gendarme della Nato di fronte all' Unione Sovietica; la vittoria elettorale nel 2002 di un partito islamico moderato ha abbattuto sul piano ufficiale la barriera del laicismo viscerale, antiarabo, ereditato dalla Repubblica kemalista; il vuoto di leadership nel mondo arabo, all' angosciosa ricerca di un modello capace di conciliare Islam e democrazia, ha aperto ai turchi uno spazio di manovra. Dopo dieci anni di governo di Recep Tayyip Erdogan (e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l' AKP), la società musulmana, così come appare nelle immagini televisive, offre un modello di modernità che fa sognare milioni di Arabi. La realtà cruda potrebbe riservare qualche delusione. Il ripudio del mondo arabo da parte della Turchia avviene quando, negli anni Venti, dopo la disfatta dell' Impero ottomano, nasce la Repubblica fondata dal movimento nazionalista di Ataturk. Insieme alla laicizzazione forzata dello Stato (che implicò tra l' altro la chiusura delle scuole musulmane, l' abbandono del sistema giuridico basato sulla sharia, la legge religiosa, sostituito da codici laici,e il passaggio obbligatorio dall' alfabeto arabo a quello latino), ci fu un tentativo di revisione radicale della storia, al fine di presentare gli Arabi come dei nomadi del deserto, prigionieri di uno stile di vita primitivo. Una visione sprezzante, razzista, oltre che falsa, delle popolazioni dei paesi circostanti, un tempo parte dell' Impero ottomano, e accusati di "averlo pugnalato alla schiena" unendosi ai suoi nemici, durante la Prima Guerra mondiale. In sostanza il nazionalismo turco ha cercato di sopprimere gli arabi dalla grande storia musulmana. Un interesse vero, concreto per il Medio Oriente, dopo decenni di smortie ambigui rapporti, si afferma, nel 2002, con l' avvento al potere del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, erede moderato di movimenti islamici spesso messi all' indice negli anni precedenti. L' apertura verso il mondo arabo si accentua durante la seconda legislatura (20072011), e con l' arrivo al ministero degli Esteri di Ahmet Davutoglu, ispirato promotore di una politica riassunta nella formula "zero problemi con i vicini". La svolta era prevedibile. Il governo, confermato al potere da tre elezioni, fa riemergere e impone l' animo profondo della società musulmana, rimasto sepolto sotto una diffusae tenace laicità. La provincia ha avuto un ruolo decisivo. In testa l' Anatolia, dinamizzata da un boom economico. Erdogan siè dedicato prima all' interno. Ha attenuato le eredità della Repubblica kemalista, ha neutralizzato i suoi capisaldi, anzitutto l' esercito,e ha riabilitato la religione nella vita pubblica. In seguito, con la collaborazione di Davutoglu, è passato a una netta revisione della politica estera. Già avviata da Abdullah Gul, predecessore di Davutoglu poi diventato capo dello Stato. Il netto, quasi esclusivo, orientamento filo occidentale è stato messo in discussione e c' è stata la svolta verso il mondo arabo - musulmano. Meliha Benli Altunisik, insegnante all' Università di Ankara, è una specialista dei rapporti con i paesi arabi. Per lei gli Stati Uniti hanno contribuito in modo determinante a creare l' immagine di una Turchia musulmana e democratica. Non era certo trascurabile il fatto che fosse da decenni una loro alleata nella Nato. L' obiettivo era di offrire un modello alle società del Medio Orientee di preservarle dall' influenza della teocrazia iraniana. Il mondo arabo ha tuttavia cominciato ad interessarsi con crescente intensità della Turchia soprattutto a partire dal 2003, quando Ankara ha rifiutato di implicare il paese nell' invasione americana dell' Iraq. L' arrivo al potere dell' AKP, partito di origine islamica, non era certamente estranea a questa attenzione. Che si è trasformata in ammirazione con le prese di posizione in favore dei palestinesi. I successi economici hanno accresciuto il fascino della Turchia, le hanno dato un' impronta di benessere, visibile nelle immagini televisive di "Noor". La soap opera racconta una storia sentimentale in una società agiata. Che non manca di niente. E i costumi si emancipano seguendo spesso i diagrammi dei redditi. 

Bernardo Valli

AFGHANISTAN

Karzai: «La sicurezza la gestiremo da soli a partire dal 2013»
WASHINGTON - La distruzione del Corano, la strage di civili ad opera di un soldato e la visita del segretario alla Difesa americano Leon Panetta. Tre elementi contingenti che hanno spinto il presidente afghano Hamid Karzai alla grande provocazione: «Le forze Nato lascino subito villaggi e zone remote, restino nelle loro basi. Alla sicurezza baderanno le nostre unità». Una sortita per ridurre frizioni, spesso insostenibili, tra quelli che sono visti comunque come dei corpi estranei e la popolazione. A giudizio del presidente i «soldati afghani sanno fare mille volte meglio di qualsiasi straniero», loro sì che hanno la giusta «sensibilità» nei rapporti con i civili. Affermazioni usate anche per riconquistare un po' di credito in un momento segnato da episodi gravi che hanno causato proteste violente nel Paese. L' idea (di fondo) di Karzai non è poi diversa da quella della Casa Bianca che sogna una «afghanizzazione» del conflitto ma con tappe più lente. Non subito ma dal 2014, quando le unità afghane saranno pronte (si spera). O, forse un po' prima, come qualcuno dei collaboratori di Obama sollecita da tempo convinto che sia meglio andarsene lasciando il campo alle unità speciali. Un dibattito forte a Kabul come a Washington, poiché tra al Pentagono l' ipotesi di accorciare i tempi è vista come una ritirata. Ma il punto è che questi temi andrebbero discussi in privato. Invece Karzai ha sfruttato i disastri combinati da alcuni soldati americani per rilanciare in modo clamoroso. E gli Usa, colti di sorpresa, hanno cercato di minimizzare: «Non c' è alcun contrasto. E non crediamo che Kabul ci voglia tagliar fuori», sono stati commenti di portavoce e dello stesso Panetta, obiettivo di un mezzo attentato nella base di Helmand. A ristabilire con decisione i parametri, la Casa Bianca: «Il calendario per il ritiro resta quello fissato. La transizione sarà completata nel 2014». Come aveva ribadito, mercoledì, lo stesso Obama con a fianco il principale alleato, il premier britannico Cameron. C' è da fissare un accordo sulle basi e soprattutto gli alleati devono preparare le truppe afghane per i compiti che li attendono. Una missione per nulla facile e che molti ritengono destinata a fallire. Per questo si è cercato di intavolare negoziati con i talebani. Una trattativa che, dopo un paio di piccoli passi, si è subito bloccata. Ieri gli insorti hanno deciso di interrompere i contatti in corso nel Qatar accusando gli americani di non aver mantenuto gli impegni presi. E il guaio è che la lite non è neppure su questioni di fondo, bensì sulle precondizioni. In questo caso uno scambio di prigionieri che dovrebbe portare al trasferimento di 5 talebani da Guantanamo in Qatar. Le parti, però, non hanno trovato l' accordo su come debbano essere «sistemati» una volta arrivati nel Golfo. Nodi resi ancora più stretti dalle proteste di alcuni parlamentari repubblicani che hanno contestato aspramente l' ipotesi. La campagna elettorale Usa incide, tutto è buono per colpire l' avversario. Toccherà allora aspettare e sperare anche che passi la rabbia per la strage compiuta dal sergente uscito fuori di testa a Kandahar. Ieri il Pentagono ha annunciato che il militare è stato trasferito in una base in Kuwait, primo passo verso un procedimento giudiziario americano e non afghano come invece aveva auspicato Kabul. La decisione non piacerà certo a Karzai e a quanti in Afghanistan volevano processarlo in un loro tribunale. Il percorso era però segnato.


Olimpio Guido

IRAN

L' ultima battaglia di Teheran Ahmadinejad tenta la riscossa

TEHERAN Un' aula della Facoltà di scienze umane e politiche dell' Università Imam Khomeini, il giorno dopo le elezioni. E' vero, vogliono sapere gli studenti, che i giornalisti stranieri (come hanno letto su internet) sono stati obbligati a visitare solo certi seggi scelti dal ministero della Guida islamica? E' vero per i giornalisti televisivi, rispondo; ma chi lavorava per la carta stampata e non aveva bisogno di immagini, ha potuto come me girare tranquillamente e visitare seggi in tutta la città, tenendosi il taccuino in tasca. E che cosa ha visto? Quello che avete visto tutti voi. Risata generale, tutti hanno visto i seggi vuoti. Gli studenti parlano liberamente, scherzano con il professore. Ci sono anche in Italia per i giornalisti linee rosse invalicabili come qui, vogliono sapere. Chiedo come mai loro scelgano questo mestiere visto che sono consapevoli delle linee rosse. Quando hanno cominciato a studiare, quattro anni fa, le cose andavano meglio e la loro speranza era che migliorassero ancora, rispondono. «Sognavo di cambiare questo paese scrivendo - dice una ragazza - ma sono stata delusa». L' ultima domanda viene da un ragazzo alto e grosso con la barba: qual è secondo lei un organo di informazione che possiamo considerare indipendente? Dico che le mie parole potranno suonargli provocatorie, con tutto quello che il regime racconta sulla Bbc, ma personalmente ritengo sinceramente che la Bbc faccia giornalismo indipendente. Dopo la fine della lezione il ragazzo viene a salutarmi: «Sono un hezbollahì - mi dice - ma perché non se ne vada con l' idea che noi iraniani siamo retrogradi le voglio dire che anch' io guardo la Bbc e sono d' accodo con lei». La cosa che stupisce sempre in Iran è quanto le persone siano ben informate. Sarà per via delle tv satellitari e di internet, sarà perché tutti hanno familiarie conoscenti all' estero, sarà perché nonostante la gente abbia smesso di interessarsi di politica il fuoco cova sotto la cenere, tutti sono perfettamente al corrente di quello che succede nel loro paese e nel mondo - non solo questi studenti ma la gente normale per strada: il tassista, il venditore di valigie, la signora che fa la spesa in un supermercato. Ieri sono stati resi noti i risultati delle elezioni: in tutto sono stati assegnati 225 seggi su 290 (che diventeranno definitivi solo dopo che il Consiglio dei Guardiani li avrà confermati). Per i restanti 65 si andrà al ballottaggio in aprile, la data sarà fissata dal Consiglio dei Guardiani, ha detto a Press tv il ministro dell' Interno Najjar. Dei 30 seggi di Teheran di definitivi ce ne sono solo 5. Gli altri 25 andranno al ballottaggio. Dei seggi assegnati una cospicua maggioranza è andata al Fronte allineato con la Guida Suprema Khamenei, mentre per Ahmadinejad il risultato è amaro - sebbene prevedibile, dopo che il Consiglio dei Guardiani, a cui spetta valutare l' ammissibilità dei candidati, aveva bocciato un gran numero di quelli fedeli al presidente. Ma non è nel carattere di Ahmadinejad di farsi mettere facilmente nell' angolo, dicono in molti, e che ci siano in ballo ancora 65 seggi da assegnare lo conferma. Ricorrerà contro il voto anche la sorella del presidente Parvin, consigliere comunale a Teheran, che ha subìto un' umiliante sconfitta - da lei definita un falso - nella cittadina natale di Garmsar, vicino a Teheran. Il presidente, per la prima volta nella storia della Repubblica islamica, dovrà rispondere in Parlamento della sua politica economica, la settimana prossima, si dice: ma la data viene continuamente spostata. Di sicuro il risultato delle elezioni, e soprattutto il dato ingigantito dell' affluenza alle urne (che il regime considera una prova della propria legittimità) dimostra che per il momento la Guida suprema non intende cambiare corso. Ahmadinejad è stato punito non solo per la politica economica ma perché (nonostante tutte le intemperanze verbali e le negazioni dell' Olocausto) ha cercato il contatto con gli Stati Uniti. Khamenei invece ribadisce la sua posizione contro il "grande Satana". Ma anche Khamenei conosce la situazione, conosce i dati veri dell' affluenza, vede il declino galoppante dell' economia, l' isolamento dell' Iran rispetto ai vicini paesi arabi, le minacce di un attacco israeliano, la possibile caduta di Assad. Proprio ieri Hamas si è defilato: non abbiamo alleanze militari con nessuno, in caso di guerra non appoggeremmo l' Iran attaccando Israele, ha detto un dirigente. Tutto questo, sottolineano diplomatici a Teheran, potrebbe non escludere una svolta: Khamenei potrebbe aver messo Ahmadinejad da parte per entrare lui tra qualche tempo nei libri di storia come colui che ha normalizzato i rapporti con l' Occidente. L' Iran è sempre diverso da come ci si aspetta, e nel frattempo, è il parere dei diplomatici, l' Occidente farebbe bene a non agire solo con minacce e sanzioni, ma con l' offensiva di un vero negoziato, per mostrare agli iraniani che non sono isolati e assediati. Dopo l' attacco all' Iraq non è solo l' Iran a considerare la bomba un' assicurazione sulla vita. Ma un paese che non si sente preso di mira evita di scegliere le strade più irrazionali. 

Vanna Vannuccini 

lunedì 19 marzo 2012

SIRIA

Foto osé di un'amica misteriosa ecco l'e-mail che imbarazza Assad

LONDRA - E se fosse una e-mail a far cadere il brutale regime di Bashar Assad? Quel che la rivolta interna, le sanzioni economiche e le pressioni internazionali non sono ancora riusciti a produrre, potrebbe arrivare dalla posta elettronica, in particolare da un messaggio inviato al presidente siriano l'11 dicembre scorso: non conteneva nemmeno una parola, ma un'immagine che ne vale molte. In allegato all'e-mail c'era la foto a colori di una giovane donna, ripresa di spalle, in posa sexy, vestita soltanto di un tanga e di un bikini bianchi, con un mucchietto di vestiti ai suoi piedi. La foto è stata inviata a un indirizzo segreto, usato da Assad per comunicare con i suoi intimi. Fa parte di un dossier di 3 mila messaggi intercettati da un hacker dell'opposizione siriana (o forse, chissà, dai servizi segreti occidentali) e fatti pervenire alla stampa britannica, che li ha pubblicati proprio nel giorno in cui due attentati hanno sconvolto Damasco provocando almeno 27 vittime. La scoperta che il dittatore siriano ha un'amica, se non un'amante, da cui riceve immagini provocanti, non può certo compiacere Asma Assad, sua moglie, nata e cresciuta in Gran Bretagna, dove si conobbero quando anche lui andò per laurearsi in oftalmologia. Voleva diventare ottico: poi la morte del fratello maggiore in un incidente di moto gli ha spianato la strada per un'altra professione, quella del tiranno, per la quale suo padre, Assad senior, e molti membri della nomenklatura siriana non lo credevano portato, sebbene i massacri degli ultimi mesi sembrino dimostrare il contrario.
In un'altra e-mail, pubblicata dal Daily Telegraph, inviata ad Assad il 28 dicembre scorso, sua moglie gli scrive: «Se siamo forti insieme, supereremo questa difficoltà.
Ti amo». Lui rispose in modo meno romantico: «Non sono preoccupato, non ho dubbi». Chi si aspettava che Asma, in passato elogiata in Occidente per presunte idee pro-democratiche (oltre che per la sua bellezza), prendesse le distanze dal marito, finora è rimasto deluso. Qualche indiscrezione sostiene che sia tenuta in condizioni di semi prigionia, per paura che fugga all'estero e danneggi il regime. Ma in pubblico ha sempre espresso sostegno a Bashar. La presenza di un'amante potrebbe cambiare le cose. Alcune e-mail inviate da un indirizzo diverso da quello della foto, ma che sembra appartenere alla stessa donna misteriosa, contengono messaggi espliciti di affetto per il presidente siriano. In uno il mittente scrive soltanto: «Ciao». E dopo 18 minuti Assad replica: «Ciao e mezzo». In un altro il mittente gli manda dei baci. In un terzo gli dice "I love you".
E nonè finita perché un'altra serie di e-mail, pubblicate dal Guardian, rivelano l'esistenza di un circolo di giovani siriane educate in Occidente con cui Assad intrattiene una fitta corrispondenza, ricevendo consigli politici ma pure apprezzamenti personali. «Sei così carino, mi manchi», gli scrive per esempio Hadel al-Ali. Da lei Assad apprende che giornalisti stranieri hanno cominciato a trasmettere notizie da Homs, la città ribelle sotto assedio: i pesanti bombardamenti in cui hanno trovato la morte due reporter occidentali potrebbero avere dunque avuto l'obiettivo concreto di ucciderli.

Enrico Franceschini

NON CONFONDIAMO IL DIALOGO PROFONDO TRA FEDI RELIGIOSE CON LE MANIFESTAZIONI DI RAFFAZZONATO FOLKLORISMO, OLTRETUTTO DI NON GRANDE LIVELLO.

L'Islam è, secondo il grande islamista Alessandro Bausani (forse il migliore traduttore in lingua italiana del Corano), una delle forme più pure del monoteismo profetico mai apparso nel mondo, più puro del Cristianesimo che conserva numerosi elementi gnostico-ellenisti, più puro dell'ebraismo che è pur sempre una religione razziale. L'Islam si configura come una sintesi dei monoteismi esistenti, particolarmente genuino e incorrotto nella sua rigorosa coerenza.
Per chi come me ha avuto lo svelamento dell'Islam a un'età ormai tarda e dopo aver percorso innumerevoli esperienze filosofiche antropologiche e religiose, e ha perciò ricevuto dall'Altissimo lo "svelamento" delle sue verità come un segno di particolare favore, è più che naturale un intransigente rigore nell'attenersi alla sostanza del messaggio divino o, se si preferisce, una inevitabile intransigenza che alla superficialità mondana abituata a confrontarsi con le superficialità che reca nel marchio dello "spettacolarismo" di segno televisivo, può apparire qualcosa di simile al cosiddetto fondamentalismo islamico. In realtà il termine fondamentalismo è usato a sproposito: il mio modo di intendere l'Islam sente di aderire in maniera completa ai principi esposti nella fondamentale opera di Abu Al Ban, fondatore della Fratellanza Musulmana e fucilato dal tiranno corrotto e asservito agli inglesi che per un breve periodo ha insozzato il titolo di monarca d'Egitto (Faruk).
Per questo motivo non posso riconoscere un qualche pregio alle iniziative che ormai annualmente vengono intraprese a Vicenza dal Centro Ecumenico Eugenio IV, che annovera fra i suoi animatori l'onnipresente Monsignor Dal Ferro che ama indossare gli abiti dell'ecumenismo religioso che trasforma il fenomeno religioso in una sorta di notte buia nella quale tutti i gatti sono neri.
Non capisco cosa possa esserci di valido in una specie di spettacolino da parrocchia nel quale l'Islam si presenta con un patetico coro di bambini del Centro Islamico, con le pittoresche danze dei gruppi induisti e sikh presente in città per dare l'opportunità a un narcisista esibizionista come l'attuale sindaco di Vicenza, di definire la città da lui amministrata come un luogo in cui gli stranieri non si devono sentire ospiti, bensì cittadini.
Lo stesso sindaco, Achille Variati, che non ha mai trovato qualche minuto del suo tempo per incontri seri con i rappresentanti delle varie fedi religiose presenti in città, si è intrattenuto sul concetto di integrazione: "A quest'ultima parola preferisco il termine "convivenza", perché raccoglie fede e cultura". Non occorre essere dei filosofi o dei letterati per capire che il concetto non significa assolutamente nulla. Variati avrebbe un'opportunità per dimostrare che la sua non è manifestazione di ciarlataneria esibizionista e propagandista: potrebbe dare finalmente dopo anni di false promesse e prese in giro una parola per affrontare il pratico problema del cimitero per i CITTADINI VICENTINI di religione musulmana invece di nascondersi dietro al cespuglietto della non conoscenza di essi.
Aggiungo anche dopo aver dato ad Achille quello che è di Achille che ho letto con molto maggiore interesse l'affermazione di un brillante esponente della Curia Vaticana, il quale ha affermato in una recente intervista al Corriere della Sera che il tanto temuto scontro tra le civiltà teorizzato all'indomani dell'11 Settembre da uno pseudo storico americano e che sarebbe l'inevitabile sbocco dei rapporti tra Islam e Cristianesimo, se ipotizzato sullo stato di reciproca ignoranza che caratterizza oggi musulmani e cristiani sui contenuti delle loro fedi, sarebbe più uno scontro tra ignoranze invece che uno scontro tra civiltà.
L'affermazione dell'altro prelato contiene un elemento di verità. E' in dubbio che le grandi masse che si riconoscono nella religione musulmana e in quella cristiana, non sanno molte cose sulla religione l'uno dell'altra.
Questa affermazione è particolarmente vera se riferita ai cristiani, i quali, oltre a non aver mai letto una riga del Corano, traggono le loro conoscenze sull'Islam sulla propaganda bellica dei mezzi di informazione occidentali tanto malati di anti islamismo da aver costretto una recente conferenza organizzata dalle Nazioni Unite contro il razzismo a parificare l'anti islamismo all'antisemitismo, e a giudicare entrambi i fenomeni come forme di razzismo.
Per la verità la stessa cosa non può dirsi della grande maggioranza dei musulmani ai quali non può certo attribuirsi la qualifica di anticristiani: le recenti manifestazioni di intolleranza che soprattutto nel Pakistan e in Nigeria e sporadicamente in Egitto hanno punteggiato i rapporti tra i musulmani e i cristiani, sono manifestazioni di astio politico che non hanno nulla a che vedere con le fedi religiosi. I musulmani sono assidui lettori del Corano e sanno benissimo che il libro sacro dell'Islam trabocca di manifestazioni di grande rispetto e addirittura di venerazione nei confronti di Gesù, Profeta di Bontà e di Carità, e di sua madre Maria che l'ha concepito vergine per volontà diretta dell'Altissimo. Del resto il Corano considera i Vangeli libri ispirati da Dio al pari della Torah ebraica e i profeti dell'ebraismo profeti dell'Unico Dio.
A nessun musulmano verrebbe mai in mente di bruciare i Vangeli o di fare vignette in cui Gesù, indossando abiti di avviatore americano, sgancia tonnellate di bombe sulle città occidentali. D'altra parte il Corano non ha mai avuto il riconoscimento di Libro ispirato da Dio da parte di qualcuna delle numerose confessioni cristiane, mentre il Profeta Muhammad, messo nel girone degli apostati nella Divina Commedia di Dante, è stato da sempre considerato dai seguaci del Cristianesimo come un pazzo Profeta, sanguinario e invasato da spiriti demoniaci. Per evitare che per il futuro i rapporti tra Islam e Cristianesimo seguitino ad essere dominati da una inevitabile ostilità sarebbe opportuno invece di fare innocenti festicciole in stile parrocchiale per passare in allegria qualche pomeriggio festivo, incontri nei quali, con estrema franchezza e senza spiriti apologetici, conoscitori dei Testi Sacri si confrontassero sulle differenze e sulla comunanza dei principi. Per parte mia voglio fornire un sintetico prospetto dei punti sui quali le differenze sono insormontabili, salvo concludere alla fine con le parole del Corano che, rivolgendosi alle genti del Libro, ricorda che islamici, ebrei e cristiani hanno da percorrere una grande strada insieme rivolgendo preghiere al Creatore, praticando la carità verso i poveri e ispirando le loro reciproche azioni alla regola della tolleranza e del rispetto reciproco.

venerdì 16 marzo 2012

IRAN

Iran, la prova di forza di Khamenei Votate contro i nemici dell' Islam
TEHERAN - Mi scusi, dov' è il seggio elettorale più vicino? L' uomo sulla porta di un negozio di abiti risponde beffardo all' interprete iraniana che gli ha fatto la domanda: «Davvero lei vuole andare a votare?». «No, voglio andare a vedere chi vota». Allora accenna a un sorriso e ci indica un seggio vicino, dove non c' è nessuno ad eccezione degli addetti al controllo dei documenti. Siamo sulla via Valiasr, una centrale strada commerciale, qui tutti i negozianti sono stati testimoni delle repressioni e delle violenze degli ultimi anni, e perfino i più religiosi che in passato hanno sempre difeso la Repubblica islamica non si riconoscono più nell' Islam che i teocrati al vertice pretendono di rappresentare. Sono le 11.30, un' ora in cui dovrebbe essere al massimo la «gloriosa affluenza alle urne» che il ministro dell' Interno prevedeva due giorni fa parlando ai giornalisti. La chiusura dei seggi è stata annunciata per le 18, ma tutti dicono già che verrà prolungata (come in effetti è stato, fino alle 23) per dimostrare che la partecipazione al voto è stata imponente. Il leader supremo Khamenei, votando nel Beite Rahbari, il palazzo dove riceve i postulanti, ha lanciato un nuovo appello: «la forte affluenza alle urne manderà un messaggio ai nemici della nazione, in un momento così delicato» ha detto. Ma da sud a nord, da ovest a est, tutti i seggi che abbiamo visitato erano immancabilmente semivuoti, tranne alcuni da dove trasmetteva in diretta la tv iraniana mostrando, miracolosamente, file di persone in attesa. Forse in provincia le cose saranno diverse, lì la gente vota per il proprio clan, per il candidato locale conosciuto. Ma Teheran reagisce al voto con distacco, con indifferenza. Eppure queste elezioni sono importanti per il corso futuro dell' Iran, i futuri rapporti con l' Occidente e, alla fine, per la guerra o la pace in Medio Oriente. Mai elezioni erano avvenute sotto una pressione così forte: lotta di potere interna e minacce di guerra. Ancora una volta siamo di fronte a un tipico paradosso persiano: Ahmadinejad, vituperato in Occidente per la sua retorica tracotante, cerca in realtà una soluzione diplomatica, affermano i diplomatici europei a Teheran, mentre Khamenei risponde alle pressioni con minacce sempre più forti. L' avversione di Khamenei a qualsiasi compromesso è controversa perfino tra i comandanti dei pasdaran , finora fedelissimi del Leader. Anche l' impero finanziario dei pasdaran comincia a vacillare sotto il peso delle sanzioni. Il mantra del leader supremo è che nessuno debba avere più potere di lui. Dopo aver sostenuto Ahmadinejad anche alle ultime contestate elezioni del 2009, quando si è accorto che il presidente stava diventando sempre più potente, gli ha tagliato le gambe. Un discorso di Ahmadinejad alla tv a conclusione della campagna elettorale è stato cancellato, la maggior parte dei suoi candidati nelle province bocciati dal Consiglio dei Guardiani, i suoi più stretti consiglieri accusati di corruzione, e vanificata ogni sua speranza di far eleggere come successore alla presidenziali dell' anno venturo un suo sodale, Esfandiar Rahim Mashaie. Perfino il suo consigliere peri media, Javanfekr,è stato condannato a un anno di carcere. A votare sono andati i fedelissimi del leader, quasi tutti con in mano una lista con in testa il nome di Haddad Adel, genero di Khamenei, che tutti danno come futuro presidente del parlamento. Qualsiasi saranno i risultati elettorali annunciati, nell' ultimo anno del suo mandato Ahmadinejad sarà un' anatra zoppa: Khamenei potrebbe perfino decidere di abolire tout court l' istituto della presidenza sostituendo il presidente con un primo ministro nominato dal parlamento. Ma le preoccupazioni della maggioranza degli iraniani sono altrove. L' economia dà segni di un declino di cui non si conosce il fondo, dice un dirigente della fabbrica che produce la Coca Cola iraniana, incontrato per caso in un ristorante: «Se continua così a fine anno chiudiamo,e 500 persone dovranno andare a casa». Al bazar, se superi il labirinto dei banchi gialli di zafferano e di quelli odoranti di acqua di rose e arrivi ai venditori di borse e valigie, non c' è nemmeno un cliente in vista, eppure è alta stagione, siamo vicini a Nowruz, il capodanno quando tutti fanno spese. «La maggior parte della gente non ha soldi e se li ha compra solo dollari o euro» mi dice un commerciante. Dopo l' isolamento della Banca centrale voluto dagli americani e le sanzioni decise dall' Europa il 23 gennaio il rial ha perso quasi la metà del suo valore. Un ayatollah ha minacciato la pena di morte per chi cambia clandestinamente valuta. I circa 30 euro a persona che Ahmadinejad aveva assicurato alle famiglie come compensazioni per l' abolizione dei sussidi sul carburante, le tariffe e i generi alimentari di base, e che già non erano sufficienti almeno per chi vive nelle grandi città (in provincia rappresentavano invece un piccolo gruzzolo), si sono dimezzati, e nessuno sa più come arrivare in fondo al mese. 



Vanna Vannuccini

SIRIA

La primavera siriana schiacciata dopo un anno

Questa constatazione, avremmo preferito non doverla fare, ma i fatti sono davanti a noi. A un
anno dall´inizio dell´insurrezione siriana, dopo dodici mesi, giorno dopo giorno, di manifestazioni
pacifiche su cui Bashar al-Assad ha ordinato sistematicamente di sparare a freddo, malgrado il
coraggio stupefacente di un popolo che ha sfidato le pallottole per conquistarsi la libertà, la
vittoria di quel regime di assassini appare sempre più vicina.      
Homs è caduta, schiacciata dai bombardamenti a tappeto, perché il suo martirio serva a
terrorizzare l´intero Paese. Ieri anche Idleb è stata costretta alla resa; gli oppositori e i loro
familiari sono braccati, votati alle torture e alla morte. Mentre dissemina mine lungo i confini con
la Turchia, l´esercito attacca le città e le regioni non ancora colpite dai massacri. La notte
scende sulla Siria, perché oramai quel popolo ha soltanto il suo eroismo e qualche misera
pistola da contrapporre ai blindati che nessuna aviazione straniera verrà a neutralizzare. A
meno che le minoranze cristiane, druse e curde depongano la loro neutralità; a meno che si
spezzi all´improvviso l´alleanza che hanno stretto con la minoranza alawita al potere, per
evitare il predominio della maggioranza sunnita; a meno che d´un tratto, nel momento stesso in
cui la forza trionfa, accada l´improbabile, l´insurrezione si spegnerà presto, e il mondo lo sa.
Il mondo lo vede, prostrato dall´impotenza e dalla vergogna, dato che non è indifferente, né
complice di questo massacro. Al contrario, le grandi potenze non hanno mai smesso di gridare
la loro indignazione. Gli Stati arabi, l´Europa, la Turchia, gli Stati Uniti e molti altri Paesi di tutti i
continenti hanno denunciato quei crimini e decretato pesanti sanzioni economiche; hanno
ostracizzato quella dittatura spietata, ma nessuno interverrà, né aiuterà gli insorti con forniture
di armi, non previste perché – orribile a dirsi, ma è così - vi sono motivi reali per non farlo.
Fornire armi a civili che non le hanno mai maneggiate non servirebbe a controbilanciare un
regime armato fino ai denti, al quale per di più si offrirebbe il pretesto che cercava per
moltiplicare i suoi crimini. A meno di voler ripetere l´avventura irakena, e di provocare una
rottura in seno all´Onu, nessuna potenza può intervenire senza l´avallo del Consiglio di
Sicurezza; e quest´avallo non sarà dato, perché Cina e Russia non vogliono che le Nazioni
Unite prendano l´abitudine di andare a difendere un popolo in lotta per la sua libertà. 
I siriani non possono sperare in un soccorso dall´esterno, e Bashar al-Assad lo sa benissimo,
tanto che può completare in piena tranquillità la sua mattanza. Il suo regime ha effettivamente
buone probabilità di superare quest´ondata. Ma poi?
Gli scenari possibili sono due. Secondo gli ottimisti, il dittatore siriano otterrà solo una vittoria di
Pirro, dato che con le baionette si può fare di tutto, ma non sedervisi sopra. Odiato dal suo
popolo, con le casse svuotate dalla guerra, potrà solo cadere come un frutto bacato, roso dalla
tempesta. Magari. 
Ma i pessimisti mormorano che innanzitutto il mondo dovrà pur finire per trattare con
l´assassino di Damasco, visto che resterà al suo posto; cosa peraltro già preannunciata dai
tentativi di mediazione rivolti a un capo di Stato nell´esercizio delle sua funzioni, per chiedere
gesti di apertura e umanità: un po´ come domandare a un antropofago di apparecchiare la
tavola.
Non lo sappiamo. Questi scenari sono entrambi plausibili, ma qualunque cosa accada nel breve
termine, il popolo siriano, sia pure sconfitto, non dimenticherà il sangue versato per la libertà, né
rinuncerà alle speranze che aveva destato. Anche perché in un anno tutto è cambiato.
L´economia è crollata; e gli ambienti d´affari ricercano una soluzione politica che ne consenta il
rilancio. Le minoranze si sono rese conto che non potranno governare in eterno contro la
maggioranza. La Siria è in attesa del secondo round; e una generazione si è formata in questa
battaglia. Dovrà forse passare molto tempo prima che riesca a vincere; ma chi avrebbe
immaginato, un anno fa, che il mondo arabo avrebbe respinto i suoi potentati, e che la dittatura
siriana, la più poliziesca e brutale di tutte, avrebbe subito scossoni tanto violenti?
Alla primavera araba è seguito l´inverno. Ma né la Storia, né la libertà avanzano d´un sol colpo.
Lo si era visto in Francia, così come in Polonia e in Italia; lo si vede in Russia. La libertà prende
slancio, retrocede sotto i colpi, stagna sotto il peso della reazione, ma una volta in marcia non si
ferma. Riprende fiato, e finisce per prevalere.

Bernard Guetta

Siria, caccia al tesoro del regime in fuga all' estero i capitali delle élite
NEW YORK - È la prima defezione di alto rango che colpisce il regime di Bashar al-Assad. Ieri il viceministro del petrolio siriano ha annunciato di essere passato dalla parte dell' opposizione. L' alto dignitario, Abdo Husameddine, ha affidato a un video su YouTube la sua dichiarazione, denunciando «la brutale repressione» e lanciando un appello perché altri esponenti del governo lo seguano. Il viceministro ha detto di volersi «unire alla rivoluzione di un popolo pieno di dignità». "Sono stato al governo per 33 anni - ha dichiarato Husameddine - e non voglio servire la mia carriera al servizio dei crimini di questo regime. Preferisco fare ciò che ritengo sia giusto, anche se so che questo regime distruggerà la mia casa e perseguiterà la mia famiglia». La notizia è stata accolta con interesse e cautela negli Stati Uniti. Si tratterebbe del primo esponente del governo di Assad che passa all' opposizione, ha sottolineato il deputato repubblicano Mike Rogers che presiede il comitato della Camera sui servizi segreti. La notizia arriva in una fase in cui l' intelligence americana è a caccia di notizie sulle fughe dei capitali siriani all' estero. La Cia e il Pentagono hanno ricostruito l' uscita di milioni di dollari da Damasco, finiti per lo più in conti offshore a Dubai e in Libano. I servizi americani sono certi che si tratta di capitali che appartengono all' oligarchia del regime, a personaggi molto vicini allo stesso Assad. Resta aperto però un interrogativo cruciale: queste fughe di capitali sono i sintomi che l' élite si sta disintegrando e che i notabili si preparano alla caduta di Assad? Oppure si tratta di una semplice precauzione, come spesso accade nei regimi autoritari e corrotti, i cui oligarchi si costruiscono delle "polizze assicurative" parcheggiando patrimoni all' estero? Quale delle due risposte sia giusta, è fondamentale per la Casa Bianca. Da tempo ormai Obama ha incaricato il Pentagono di mettere a punto piani dettagliati per un intervento militare in Siria. Anche se il presidente è molto riluttante ad aprire un nuovo conflitto, vuole che tutte le opzioni siano sul suo tavolo. Ma l' eventualità di un' azione militare è legata alla credibilità, alla forza e alla compattezza dell' opposizione siriana. Nonché alle probabilità di decomposizione del regime di Assad. Washington ha bisogno di capire anche in quale misura le sanzioni economiche imposte sulla Siria, da parte dell' Occidente e della Lega araba, stiano davvero "mordendo" negli interessi delle élite. È noto che Assad ha consolidato il suo potere in diversi modi: da una parte con la repressione militare degli avversari e di ogni protesta popolare; d' altra parte anche garantendo opportunità di arricchimento alla cerchia dei suoi alleati, in particolare i membri della religione alawita che è il nocciolo duro del consenso al regime. «Il collante che tiene insieme il sistema di potere a Damasco - ha dichiarato al Washington Post l' esperto Andre Tabler del Washington Institute for Near East Policy - è il fatto che quella vasta cerchia guadagna milioni di dollari all' anno. Hanno un investimento personale nella sopravvivenza del regime. Il problema è che ancora non riusciamo a capire dove sta il punto di rottura nelle relazioni che li legano». L' intelligence americana tende a interpretare le fughe di capitali a Dubai e in Libano come dei sintomi di crisi nell' entourage di Assad. Il deputato Rogers teme che si tratti solo di «gente che preferisce avere una forma di copertura dal rischio». La Cia e il Pentagono hanno coinvolto anche gli esperti del Dipartimento del Tesoro, per avere un' idea più chiara di quei flussi finanziari. Se si confermasse che le uscite di fondi segnalano uno sfrangiamento nel cuore del regime, allora anche l' ipotesi di un' azione militare in appoggio all' opposizione diventerebbe meno rischiosa. La defezione del viceministro del petrolio aggiunge un tassello all' interpretazione più ottimista, di chi considera imminente un fuggi fuggi dal regime di Assad sul modello di quel che avvenne in Libia nelle ultime settimane di Gheddafi.


Federico Rampini




mercoledì 14 marzo 2012

SIRIA

Siria, Onu: “Ottomila morti in un anno”. E Assad fissa le elezioni per il 7 maggio

Ottomila morti. E’ questo il bilancio di un anno di repressione da parte del governo siriano secondo i dati citati da Nassir Abulaziz al-Nasser, presidente dell’Assemblea generale dell’Onu. «Le violazioni dei diritti umani sono sistematiche e diffuse – ha detto oggi al Nasser – E in questo la comunità internazionale ha la sua responsabilità». E mentre continua a salire il numero delle vittime a Damasco, Assad ha annunciato le elezioni per il prossimo 7 maggio.
Le parole di al-Nasser arrivano mentre nel Consiglio di sicurezza i paesi occidentali e quelli arabi rinnovano gli sforzi per superare i veti russo e cinese e arrivare a una risoluzione di condanna contro il regime. Al Consiglio ha riferito l’esito della sua missione a Damasco l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, oggi inviato speciale per la Siria, di passaggio in Turchia per incontrare i vertici del governo di Ankara: «So che c’è un grande sostegno da parte della comunità internazionale e sono fiducioso sulla possibilità di trovare una via d’uscita. Mi aspetto oggi risposte dal governo siriano alle proposte che ho lasciato sul tavolo – ha detto Annan dopo il colloquio con il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan – Quando avremo quelle risposte sapremo come reagire». All’incontro hanno partecipato anche esponenti del Consiglio nazionale siriano (Cns), il principale gruppo dell’opposizione anti-regime. Secondo Burhan Ghalioun, portavoce del Cns, nell’incontro non si è parlato di armare l’opposizione. Il Cns e il Free Syria Army, ha aggiunto Ghalioun «sono pronti a smettere di combattere se cessa la repressione, i prigionieri vengono liberati e l’esercito viene richiamato nelle caserme».
L’unica risposta però arrivata per il momento da Damasco sono ancora i carri armati. Dopo l’orrore del massacro di civili – soprattutto donne e bambini – a Homs (massacro per cui il governo siriano nega ogni responsabilità), l’attenzione dell’esercito si è spostata verso nord, a Idlib, vicino al confine con la Turchia, dove da almeno tre giorni ci sono combattimenti. L’esercito sta usando di nuovo l’artiglieria pesante per tenere sotto il fuoco la città, dove c’è una forte presenza dei combattenti del Free Syria Army. Secondo le testimonianze che rimbalzano sui media internazionali, Idlib è sotto assedio, com’è successo a Homs per quasi un mese prima dell’ingresso in città delle forze regolari dell’esercito e soprattutto degli shabiha (milizie irregolari filogovernative) a cui sono state attribuite le peggiori atrocità, incluso il massacro scoperto ieri. A Idlib sono già almeno 25 le persone uccise dall’artiglieria. E intanto, nel nord est del paese, a Qamishli, migliaia di persone hanno manifestato per ricordare l’anniversario di una rivolta che otto anni fa oppose la locale comunità kurda alle forze di sicurezza del regime. Anche questa manifestazione è stata repressa nel sangue: la polizia ha sparato sulla folla e almeno tre persone sono rimaste uccise.
La preoccupazione del regime sembra essere quella di isolare l’intero Paese, per evitare che profughi scappino in Turchia e in Libano (al momento i paesi più facilmente raggiungibili dalle zone dove infuria la repressione). Secondo l’Ong internazionale Human Rights Watch, il governo sta piazzando mine antipersona lungo le strade e i passi usati proprio dai rifugiati per scappare oltre confine. In un rapporto diffuso oggi, Hrw sostiene che ci sono già state delle vittime civili e che l’esercito sta minando sistematicamente i confini siriani. Le informazioni sono basate tu testimonianze raccolte sia tra i profughi sia tra gli sminatori siriani. Le mine antipersona sono vietate dal 1997, dopo una campagna internazionale che ha portato all’adozione di un Trattato ratificato da 159 paesi, tra i quali, comunque, non c’è la Siria (assieme a Israele, Birmania e alla Libia di Gheddafi). Per quanto Damasco non abbia impianti di produzione per mine antipersona, si ritiene che nei suoi arsenali che ne siano diverse migliaia, probabilmente soprattutto di produzione sovietica. L’esercito le ha usate nella guerra “di prossimità” contro Israele in Libano nel 1982. Secondo le informazioni raccolte da Hrw, i soldati di Damasco hanno steso diversi campi minati a pochi metri dalla frontiera con la Turchia per cercare di fermare la fuga di rifugiati nei campi allestiti dalla Mezza luna rossa turca fin dall’inizio delle proteste, un anno fa. Sul confine libanese, invece, le mine sono state messe “solo” a partire da novembre del 2011, quando le proteste erano scoppiate nella zona di Tel Kalakh. Proprio in questa cittadina, un ragazzo di quindici anni ha perso una gamba dopo essere saltato su una mina mentre cercava di passare il confine con in Libano lungo una strada fino a quel momento considerata sicura.
Le mine lungo il confine turco, inoltre, servirebbero anche a rallentare un eventuale ingresso di truppe turche, le più “attrezzate”, logisticamente e quanto ad equipaggiamento, se si dovesse decidere di aprire corridoi umanitari per consentire l’arrivo di convogli di soccorso nelle zone più colpite dalla repressione.
Il clima di tensione non si placa, ma Bashar al-Assad ha fissato al 7 maggio la data delle prossime elezioni legislative, dopo averle rimandate più di una volta. A riferirlo è il sito del Parlamento siriano, che pubblica il decreto emesso dal presidente. La nuova costituzione siriana, approvata con referendum popolare il 26 febbraio scorso e boicottata dall’opposizione, indicava la necessità di indire elezioni parlamentari entro 90 giorni dalla sua entrata in vigore. Le legislative avrebbero dovuto svolgersi ad agosto dello scorso anno, ma sono state rimandate a causa della crisi scoppiata in Siria un anno fa, anche se le autorità di Damasco hanno giustificato il posticipo con l’attesa del varo della legge elettorale e di quella sui partiti, che avrebbe dato a nuove forze politiche la possibilità di presentarsi al voto.