sabato 28 luglio 2012

LIBIA







ISRAELE

Individuato il kamikaze di Burgas giallo su un documento americano

È un giallo l’identità del terrorista che ha fatto saltare in aria un bus carico di turisti israeliani in Bulgaria. Su di lui ci sono solo delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto. Nel video si vede che scalpita. Osserva il cartellone elettronico con i voli in arrivo, procede verso i controlli di sicurezza, torna ancora sotto il cartellone.
Per i servizi Usa, israeliani e bulgari che hanno formato un team d’indagini, è l’autore dell’attentato contro cinquanta turisti israeliani. Si è fatto esplodere quando erano saliti tutti a bordo: si è presentato davanti
alla porta d’ingresso del mezzo e ha attivato il detonatore. Ha ucciso sei persone: cinque israeliani e un bulgaro che era alla guida. Un’ora prima si aggirava attorno ai bus in attesa. E’ stato incerto fino all’ultimo: forse voleva piazzare l’esplosivo nel bagagliaio. Ma qualcosa non ha funzionato e ha scelto, alla fine, di saltare in aria. Aveva addosso una patente falsa. E’ intestata a Jacques Felipe Martin, residente a Baton Rouge, Michigan. In una via, ad un numero civico, dove non c’è nessuna casa ma uno casinò: «La Belle».
L’intelligence è perplessa. Sa solo che è stato lui ha far saltare in aria il bus. I suoi atteggiamenti, la sua ansia nell’attesa, il fatto che abbia girato attorno ai mezzi in attesa dei turisti non lascia dubbi. Ma chi è in realtà questo ragazzotto con la faccia avvolta da una sottile peluria, bermuda maglietta e cappellino, lo zaino in spalle, che tutti scambiano per un normale giramondo? Le impronte digitali raccolte dalle dita mozzate dall’esplosione sono state spedite negli Usa. Il data base della Cia conferma che il nome della patente non esiste. Non è segnalato. E’ inventato. Le notizie filtrano a fatica. Sono confuse. Le autorità bulgare forniscono pochi dettagli. Devono badare alle critiche che cominciano a piovere da tutto il mondo.
La falla nella sicurezza e nei controlli all’aeroporto mettono in difficoltà l’intelligence di Sofia. Israele accusa di nuovo l’Iran. Anzi, precisa che il mandante è Hezbollah. Il potente partito sciita libanese. Con la regia di Teheran che lo sostiene da sempre. Sui siti israeliani esce un nome. Sarebbe la vera identità dell’attentatore. Si chiamava Mehdi Ghezali, 25 anni, cittadino svedese con genitori algerini e finlandesi. Un passato di tutto rispetto: detenuto a Guantanamo dal 2002 al 2004, studi coranici in una madrassa
della Gran Bretagna. Nuova cattura, nel 2009, in Afghanistan con altri 13 combattenti stranieri. Il nome fa il giro del mondo. Ma arriva anche una smentita. Secca e molto imbarazzata. Doppia. Da parte della Bulgaria e della Svezia.
L’attentatore non ha nulla a che fare con Mehdi Ghezali. «Diffondere nome e cognome con tanto di profilo e storia personale è una grave scorrettezza », aggiunge piccato il ministro degli Interni bulgaro. Ma le smentite sono una prassi nella guerra che serpeggia tra Iran e Israele. Tace il Mossad. Se il premier Benjamin Netanyahu si espone in modo così forte contro Teheran e il suo braccio armato in Libano vuol dire che gli hanno fornito prove solide. E’ un giallo. L’ennesimo di questa strage ancora tutta da spiegare.

Daniele Mastrogiacomo

SIRIA

Tra la gente di Aleppo assediata dai tank “Molti scappano, temiamo un massacro”

ALEPPO — Aleppo, la seconda città più importante della Siria, si prepara alla controffensiva da parte dei soldati governativi dopo un’altra giornata sotto i colpi d’artiglieria o sparati dagli elicotteri contro i quartieri presi dagli insorti. Le forze speciali siriane sono state dispiegate intorno alla città e altri soldati dovrebbero arrivare per l’attacco, previsto oggi o sabato: lo ha riferito all’Afp una fonte della sicurezza siriana. Si dice che anche i circa 2mila ribelli già ad Aleppo abbiano ricevuto rinforzi, pari a circa 1500-2000 uomini appena arrivati. La Francia sollecita le Nazioni Unite a intervenire per fermare il “bagno di sangue” , mentre Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu, ammonisce le potenze mondiali a non ripetere gli errori commessi in Bosnia. «Non voglio che nessuno dei miei successori visiti la Siria tra vent’anni e si ritrovi a dover chiedere scusa per quello che avremmo potuto fare per proteggere i civili in Siria e che non stiamo facendo».
Ad Aleppo Abu Firas, il portavoce del consiglio rivoluzionario cittadino dice che nella zona occidente è arrivata una colonna di carri armati e di veicoli blindati, mentre colpi di artiglieria o sparati dagli elicotteri prendono di mira i quartieri degli insorti. I testimoni affermano di aver contato fino a 80 carri armati.
Dentro la città l’atmosfera è di tensione e preoccupazione, e uno degli abitanti ci dice: «Abbiamo la brutta e spiacevole sensazione che la situazione possa degenerare in una catastrofe, con i rinforzi dell’esercito già qui. Il regime prende saltuariamente di mira aree densamente popolate, e provoca molte vittime. Gli ospedali non riescono a star dietro al numero dei feriti. Pane e carburante sono introvabili. Molte famiglie sono sfollate, vagano in strada o si accampano nei parchi o in rifugi nelle scuole,
ma restano esposte e vulnerabili. La popolazione sta preparandosi al peggio».
Violenti scontri si sono verificati tra l’Esercito libero siriano (Els) e le forze governative lungo le strade che a Nord e a Ovest portano ad Aleppo. I residenti scappati dagli scontri raccontano di sette famiglie sterminate martedì notte nel quartiere di Salaheddin, dopo che le loro case nei pressi di una clinica sono state distrutte a colpi di mortaio. Un residente fuggito oltre la frontiera turca confida agli amici di voler tornare ad Aleppo e spiega: «Sento il bisogno di tornare indietro e morire a casa mia».
Mohammad Issa, un comandante dell’Els, dice che il convoglio di carri armati arrivato ad Aleppo è partito dalla vicina cittadina di Idlib. Il regime non ha ancora il controllo su questo centro, ma teoricamente ha perso il controllo delle zone circostanti. Il convoglio ha impiegato più giorni per arrivare ad Aleppo, tenuto conto della presenza di numerosi combattenti dell’opposizione che hanno teso loro agguati. «Li abbiamo attaccati in
piena campagna, cercando di coinvolgere meno possibile la popolazione civile negli scontri », dice Isa, aggiungendo che le sue milizie hanno preso prigionieri e accolto parecchie decine di disertori.
Secondo Amir, un fiancheggiatore degli insorti ad Aleppo, le forze anti-Assad al momento hanno il controllo del 40 per cento
della città in una fascia a semicerchio che si allarga da Est verso Dud. «L’Els è arrivato venerdì e si è spinto fino alle aree che riteneva che non sarebbero state ostili. Le forze governative a quel punto se la sono data a gambe. Aleppo è una città complicata: c’è chi appoggia il regime, chi ha paura, chi è favorevole alla rivoluzione. La classe media e i ricchi
non vogliono che i ribelli abbiano la meglio. Vogliono che tutto continui come al solito. Nessuno può prevedere che cosa accadrà di qui a poco, ma permane molta tristezza per il fatto che gli insorti abbiano attirato su Aleppo tutta quella potenza di fuoco».
Si parla di combattimenti a fuoco anche a Damasco, con colpi sparati dai carri armati e dagli
elicotteri, e continua a girare voce di violenti scontri tra i disertori e le forze del regime a Hajar al-Aswad, uno degli ultimi quartieri in mano ai ribelli in città, e nel campo profughi palestinese di Yarmuk. Gli attivisti hanno riferito di almeno cinque civili uccisi e di 25 feriti. I cecchini erano appostati sui tetti degli edifici e secondo quanto ha affermato un abitante della città hanno preso di mira chiunque si sia azzardato a scendere in strada.
Luglio sta per concludersi e diventerà di fatto il mese più cruento finora dell’insurrezione siriana. Il bilancio dei morti nel Paese è stimato in oltre cento al giorno, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani con sede in Gran Bretagna. Gli attivisti parlano di 19mila morti dal marzo 2001 a oggi, e Medici senza frontiere calcola gli sfollati dal paese in oltre 120mila persone.

LUKE HARDING E IAN BLACK


Tra i ribelli della battaglia di Aleppo Vinceremo, noi abbiamo Dio e loro no
ALEPPO - Nella moschea si sentono grida di «Dio è grande!». Un ritratto incorniciato mostra un uomo giovane in posa solenne e marziale, con un berretto rosso scuro. I funerali sono per Ahmad al-Fij, comandante 28enne dell' Esercito libero siriano, ucciso venerdì nella battaglia per Aleppo. La cerimonia è frettolosa, l' esercito siriano potrebbe riprendere i bombardamenti da un momento all' altro. «Mio figlio era onesto e rispettabile, un patriota», dice Abdul-Rahman, il padre. «Questo regime sta usando il fuoco contro gli esseri umani, gli alberi, tutto». Ma potrà essere sconfitto? «Assolutamente sì», risponde. «Noi abbiamo Dio, loro no». Sarebbe avventato prevedere una rapida conclusione del sanguinoso conflitto siriano. I volontari delle milizie sono armati di kalashnikov, pistole di fabbricazione ceca e coltelli da caccia. Contro di loro è schierato uno Stato militare armato di elicotteri da guerra, carri armati russi e pezzi d' artiglieria. Eppure la sensazione è che i ribelli stiano vincendo, lentamente e inesorabilmente. La battaglia per la città più grande di tutta la Siria, Aleppo, è drammaticamente in bilico. I ribelli stanno combattendo strada per strada, contro un nemico che vomita morte dai cieli. L' Esercito libero siriano registra meticolosamente gli attacchi con i telefoni cellulari: la guerra di Siria è trasmessa in diretta streaming per la generazione di YouTube. «La vittoria è prossima. Quasi metà di Aleppo ormai è controllata dall' Esercito libero siriano», dice spavaldo Abdul Gabbar Kaidi, il colonnello che guida i ribelli nella battaglia. Kaidi è seduto nel suo quartier generale, un' ex scuola. «Loro (il regime, ndr) sono deboli. Non credono in se stessi», dice Kaidi. «Uccidono, stuprano le donne, distruggono il Paese. Noi stiamo combattendo per difendere la gente». L' esercito libero siriano sostiene di controllare circa l' 80 per cento della Siria. Probabilmenteè un' esagerazione, ma l' apparato militare di Damasco, duramente scosso dall' attentato della settimana scorsa, deve fronteggiare rivolte ovunque: Homs, Hama, Aleppo, Deir el-Zour. I ribelli sono riusciti a ritagliarsi un impero rurale, che abbraccia gran parte delle compagne e le aree di frontiera con la Turchia, a Nord e a Est. Qui c' è un paesaggio biblico di uliveti argentati, montagne brune e rocciose e ragazzini che portano a pascolare le pecore. Qui la situazione è relativamente calma. Nel villaggio di Atma, vicino al confine con la Turchia, i civili siriani si spostano lentamente di notte, sotto un cielo stellato, oltrepassando di nascosto il confine. Nell' altra direzione affluiscono volontari. Un sergente barbuto dell' Esercito libero siriano registra i nuovi arrivati, ingannando il tempo, nei momenti di pausa, con la lettura del Corano. «Sono tornato per vendicare mio padre», spiega un volontario 22enne, Ahmed Syri. Syri è cresciuto a Copenaghen. Suo padre lasciò il Paese nel 1982, quando Hafez al-Assad, il padre di Bashar, schiacciò un' insurrezione dei Fratelli musulmani uccidendo migliaia di persone. L' Esercito libero siriano ha assunto l' amministrazione di Atma a ottobre dell' anno scorso. Da quel momento ha conquistato sempre più territorio, impadronendosi delle province di Idlib e Aleppo, anche se le città capoluogo rimangono nelle mani del regime, come gran parte delle altre città siriane. Oggi Atareb, città «liberata», è un campo di macerie. Solo qualche abitante è tornato. Il vecchio suq era un letale covo di cecchini durante i combattimenti, oraè un intrico di vetri rotti e negozi distrutti. La bandiera rivoluzionaria sventola dall' alto della cittadella, con i suoi 2000 anni di storia. I ribelli stanno facendo progressi sul piano tattico, ma non sembrano esserci segnali di massicci rifornimenti di armi pesanti dall' esterno. Soldati in divisa cachi cercano di mettere in moto a spinta la malconcia auto di Kaidi. Altri, radunati per andare a combattere ad Aleppo, stipano sacchi di plastica e granate per lanciarazzi nel bagagliaio di una berlina, poi partono per il fronte come se andassero a una gita fuori porta. Il morale è alto, ma la paura è tanta. Abdullah, un ingegnere civile, colto e che parla inglese, prevede che la guerra si trascinerà per mesi: «L' Esercito libero siriano sta diventando più forte. Ma il prezzo da pagare sarà molto alto, senza un aiuto da parte dell' Occidente». Abdullah è fuggito da Damasco giovedì scorso, il giorno dopo che Assad aveva preso la drastica decisione di bombardare la sua stessa capitale. Lui e la sua famiglia sono partiti a bordo di tre macchine in direzione nord, verso la zona controllata dai ribelli, passando numerosi posti di blocco, del Governo e dell' opposizione. «Il regime insiste che tutto è normale. Ma la rivoluzione è come un' enorme palla di neve che può distruggere tutto». Come molti siriani, Abdullah teme per il futuro del suo Paese: «Ora stiamo finendo in un buco nero. Nessuno sa che cosa succederà. Il regime comincia a cadere. La rivoluzione diventa sempre più forte. Ma mi chiedo: sono uniti?».

domenica 15 luglio 2012

AFRICA

MALI. Riccardi lancia l’allarme, ‘è il nuovo Afghanistan’
”Ci sono diciotto milioni di persone colpite dalla carestia nel Sahel che rischiano la morte e 400 mila sfollati del Mali, in larga parte passati nei paesi vicini. Abbiamo un nuovo Afghanistan che sta per esploderci sotto i piedi con l’islamizzazione proprio del Mali. E ancora ci chiediamo se se possiamo permetterci la cooperazione?”. E’ l’allarme che lancia Andrea Riccardi, ministro per la Integrazione e la cooperazione internazionale, in un’intervista al ‘Corriere della Sera’. Il governo ha rimesso a punto la macchina degli aiuti allo sviluppo. Convinto che sia un ”dovere” ma soprattutto ”un’opportunita”’, Riccardi anticipa la sua battaglia culturale e politica e la nuova sfida del governo Monti da lanciare il prossimo ottobre, con il primo Forum sulla cooperazione: trasformare la solidarieta’ con le aree di crisi in occasione di sviluppo. Quanto ai fondi, spiega, ”occorre declinare quel poco che abbiamo con intelligenza. Per questo -rimarca il ministro- l’1 e 2 ottobre promuoveremo, insieme al comune di Milano, il primo Forum della cooperazione, al quale interverra’ anche il presidnete Monti. I soldi possono essere trovati anche con l’intervento dei privati. La societa’ -conclude Riccardi- puo’ mobilitarsi. Ci saranno grandi aziende, Ong, enti locali e tutti insieme dimostreremo che la cooperazione e’ un dovere, ma conviene all’Italia”.

Da quando è finito il dominio coloniale su gran parte dell'Africa, quello che una volta veniva chiamato il "Continente Nero" è stato teatro di innumerevoli guerre e atrocità: dalla guerra civile nigeriana provocata dalla Secessione del Diafra (causa scatenante il controllo dei giacimenti petroliferi) al genocidio dei Tutsi ad opera dei "cattolici hutu", dall'interminabile guerra nel Congo (1 milione di morti) alle guerre civili in Liberia, Sierra Leone, Somalia, Eritrea, Etiopia e Uganda; dalle guerre civili nelle ex colonie portoghesi (quella fra i seguaci di Salimbi e la neonata repubblica indipendente di Angola e, ancora, quella tra Frelimo, indipendentista, e Re.Na.Mo. fomentata dai razzisti sud africani). Non siamo in grado di entrare nel dettaglio delle guerre civili più lunghe e sanguinose come quella tra Nord Sudan arabizzato e Sud Sudan cristiano e animista: 3 milioni di morti.
Fin'ora il Mali e l'attivo e confinante Niger sono arrivati all'attenzione della cronaca perché la corrente Salafita dell'Islam, caratterizzata dall'odio verso monumenti a santi e a idoli risalenti all'epoca pre islamica, ha assaltato e distrutto le tombe di antichi santoni: da tenere presente che i Salafiti che hanno operato nell'Arabia Saudita nel secolo scorso volevano distruggere persino la tomba di Muhammad, considerando l'adorazione del Profeta una forma di politeismo idolatro. Abbiamo l'impressione che questa improvvisa attenzione per un fenomeno tutto sommato di minore interesse effettivo sia ispirata dall'odio verso l'Islam, necessario a richiamare l'attenzione sulla guerra civile strisciante che contrappone in Nigeria le tribù pastorali del Nord musulmane e le tribù agricole del centro e del Sud che la siccità pluriennale spinge alla guerra civile per controllare qualche pezzo di terra e qualche area da pascolo: i cui episodi più cruenti offrono il settimanale destro a qualche ministro italiano e al Vaticano a lanciare il grido d'allarme: in Africa è in corso lo sterminio dei Cristiani.

sabato 14 luglio 2012

SIRIA

Siria, l'allarme della Clinton
"L'Onu intervenga subito"


WASHINGTON - Hillary Clinton entra in gioco in prima persona sulla crisi siriana. Domani parteciperà alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, cui chiederà di "agire" subito per porre fine "ai violenti e brutali attacchi" delle forze di Bashar el Assad contro i dimostranti.
Malgrado la ripetuta opposizione della Russia (insieme alla Cina, il principale alleato di Damasco) al varo di una risoluzione di condanna, Clinton ha annunciato che domani dal Palazzo di Vetro invierà "un chiaro messaggio al popolo siriano: siamo al vostro fianco".

Domani il Consiglio di Sicurezza ascolterà dal segretario generale della Lega Araba, Nabil al Araby, il rapporto degli osservatori inviati in Siria. In oltre 10 mesi la sanguinosa repressione della rivolta, da parte del regime di Bashar el Assad, ha causato secondo stime Onu oltre 5.400 morti. La situazione sul terreno è sempre più tesa. Secondo attivisti citati dalla tv al-Jazeera, i morti oggi sono almeno 45. Stando ai Comitati di coordinamento locale in Siria (Lccs), tra le vittime vi sono almeno una donna e sei bambini. Sul loro sito Internet, gli attivisti di Lccs denunciano l'uccisione da parte delle forze governative di 25 persone a Homs, città della Siria centrale. Altre sette persone, riferiscono, sono state uccise a Daraa, nel sud (dove a metà marzo dello scorso anno sono iniziate le proteste antigovernative), cinque nei sobborghi di Damasco e due a Idlib, nella Siria nordoccidentale.

giovedì 12 luglio 2012

LIBIA

Libia, il fronte laico della primavera così le tribù hanno fermato gli islamisti

Da alcune ore la rissosa, indisciplinata, corrotta società beduina, dispersa in un deserto posato su un mare di petrolio, frantumata in tribù, in clan, in famiglie armate fino ai denti e assetate di vendette spesso ereditate da sconosciuti antenati, quella società abbrutita per quasi mezzo secolo dal delirio di Gheddafi, e per questo giudicata impreparata e quindi inaffidabile, ha impartito una lezione di democrazia al vicino grande Egitto e all´altrettanto vicina ed educata Tunisia. E, fatto straordinario, la Libia musulmana ha fermato l´ondata islamista che ha inondato i Paesi arabi liberatisi dall´oppressione dei rais. A Tripoli, a Bengasi, sembra essersi aperta una breccia laica.
Ma si può parlare sul serio di una Libia laica? Sarebbe esagerato. Per ora è un´impressione. Forse un´illusione. Domani potrebbe essere una delusione. I risultati sorprendenti usciti dalle urne fanno lavorare le fantasie. Una Libia liberale? La definizione è azzardata. Diciamo: moderata. Anche perché espressioni come "laico" o " liberale" possono suonare come insulti nei momenti di tensione, a Tripoli o a Bengasi. Parlare, in generale, di moderazione è già rischioso, perché nonostante la saggezza dimostrata dagli elettori (saggezza elogiata dal presidente degli Stati Uniti e dal segretario generale dell´Onu), resta che le città e villaggi allineati lungo la costa mediterranea sono imbottiti d´armi, perché le tribù insorte contro Gheddafi, e poi decise a far valere i loro diritti di liberatori e le aspirazioni secessionistiche, hanno deposto mitra e bazooka, lasciandoli a portata di mano. Non si sa mai.
Affidandosi ai risultati parziali, non contestati dagli sconfitti, l´Alleanza delle Forze nazionali in cui l´ex primo ministro provvisorio Mahmud Jibril ha raccolto, con una pazienza da marabutto, una quarantina di partiti, avrebbe conquistato la maggioranza degli 80 seggi della futura Assemblea riservati ai partiti, sui 200 disponibili. I 120 restanti saranno suddivisi tra i candidati individuali, ma non dovrebbero rivoluzionare il risultato finale, poiché il controllo dei partiti si estenderebbe anche ai cosiddetti indipendenti. Comunque, nell´attesa di conoscere le cifre definitive e ufficiali, si deve rilevare la calma con cui il Paese sta accogliendo la notizia (non confermata ma strombazzata) del successo dei moderati. E quindi della sconfitta degli islamisti. Nessuna seria contestazione. Roba da anglosassoni.
Mahmud Jibril è nato a Bani Walid, sessant´ anni fa. È stato un collaboratore di Gheddafi. Ma chi non lo è stato nei quarant´anni di regime? Ha studiato Scienze politiche ed economiche al Cairo, poi ha ottenuto un master all´Università di Pittsburgh in Pennsylvania, dove è rimasto anche come professore. Cominciata la rivolta di Bengasi, nel 2011, è stato primo ministro del governo provvisorio. Quando dicono di lui che è un laico, Jibril si arrabbia. Replica pronto di essere più musulmano dei baciapile che gridano ai quattro venti la loro fede islamica. Lui recita le cinque preghiere quotidiane e rispetta il digiuno durante il Ramadan. I parenti, gli amici, i conoscenti, i vicini di casa possono testimoniarlo. E quando sarà venuto il momento di legiferare lui si ispirerà alle leggi coraniche, ma anche alle altre, estranee alla religione, e indispensabili in una società moderna.
Il principale compito di Jibril è di tenere unito il Paese, con sei milioni di abitanti dispersi su una superficie che è cinque volte quella italiana. Ha già invitato all´unità, prima ancora che la sua Alleanza venga proclamata vincitrice delle elezioni; ed è probabile che sia stato lui a suggerire di togliere al Parlamento il compito di designare l´Assemblea costituente; un´idea sorprendente ma geniale poiché ha disinnescato la protesta secessionista della Cirenaica e del Fezzan. Queste due regioni, storicamente gelose della supremazia della Tripolitania, minacciavano rivolte (e non è mancata qualche protesta violenta a Bengasi) perché dei 200 seggi del Parlamento 100 erano stati destinati a Ovest, alla Tripolitania, 60 a Est, alla Cirenaica, e 40 a Sud, al Fezzan. La supremazia tripolina avrebbe dunque pesato anche sui lavori dell´Assemblea costituente. La decisione che quest´ultima sarà eletta a parte, e che sarà composta da 20 deputati per ciascuna regione ha calmato gli animi.
Il professor Mahmud Jibril ha il vantaggio di appartenere alla più grande tribù libica. È un Warfalla; e i Warfalla sono circa un milione; un libico su sei è un Warfalla. La tribù è dispersa. Non occupa un territorio. È presente in gran numero a Tripoli, ma anche a Bengasi e nelle città della costa. I Warfalla sono sempre stati numerosi a Bani Walid, dove Jibril è nato. Molti Warfalla hanno fatto carriera, in tutti campi. Economia, banche, commercio, professioni liberali. Hanno frequentato università straniere. Hanno occupato posti decisivi nel vecchio regime. Hanno servito Gheddafi, garantendogli una solida base popolare; e l´hanno osteggiato, con complotti puntualmente falliti. Si sono spesso divisi sulla questione. A riunirli ha contribuito la tenace ostilità di alcune tribù. Ad esempio quella di Misurata.
Il forte inurbamento della popolazione ha cambiato i valori della tribù, e la sua stessa natura. La società del petrolio si è ridisegnata. Ma è certo che le prime vere elezioni democratiche hanno risvegliato vecchie alleanze e solidarietà. Sulle quali ha potuto contare Mahmud Jibril. Lasciando il Paese senza una società civile, senza partiti, senza associazioni, se non quelle legate al potere, Gheddafi ha favorito una certa sopravvivenza dei legami tribali. Dei quali gli islamisti non hanno potuto usufruire. Da qui forse la loro sconfitta.
Sul Partito della giustizia e della ricostruzione, emanazione politica dei Fratelli musulmani, pesava e pesa il lungo ambiguo rapporto tra la Confraternita e Gheddafi. Quando il matematico Ghannouchi, il leader islamista di Tunisi, è andato a Tripoli a sostenere i Fratelli musulmani, non ha trovato uomini che, come i tunisini, avevano fatto decenni di prigione, oppure, come gli egiziani, che avevano tessuto una fitta rete di scuole e di ospedali. I libici avevano meno radici.
Pare non abbia avuto maggior fortuna Abdel Hakim Belhadj, fondatore e capo di Al Watan. Partito islamista che non ha raccolto molti voti. Belhadj è stato un grande jihadista: è stato con Bin Laden in Afghanistan, nelle prigioni della Cia e in quelle di Gheddafi. Poi è stato uno dei primi capi ribelli a entrare a Tripoli, quando il regime è crollato. Gli avevano procurato le armi americani e francesi, che ormai si fidavano di lui e lo rispettavano come guerrigliero. A non fidarsi troppo di lui sono stati i tripolini andando alle urne.

Bernardo Valli

SIRIA

«Assad non è eterno». Segnali da Teheran
In Siria si tratta e si spara. Un binario consolidato nella regione, dove la diplomazia convive con la violenza. L’attenzione, nelle ultime 48 ore, è di nuovo tornata sulla missione di Kofi Annan, alla disperata ricerca di una soluzione che tanti ritengono impossibile. L’inviato Onu, dopo un colloquio con il presidente Bashar Assad, ha annunciato «un nuovo approccio » che dovrà essere sottoposto all’opposizione. Un piano (vago) di transizione ottenuto dopo un incontro definito «franco e costruttivo». Annan lavora alla definizione deimeccanismi anche se deve vincere le resistenze delle parti. Il regime è convinto di aver già concesso molto mentre i ribelli sono molto scettici e hanno espresso commenti negativi. Ora che guadagnano posizioni e sono meglio armati non sono disposti a sconti. Dunque per i mediatori c’è molto da fare e gli osservatori ammettono che i risultati concreti appaiono molto lontani. Da Damasco, Annan si è trasferito in Iran per consultazioni ritenute importanti. E lo ha accolto il ministro degli Esteri Salehi con un’intervista che pesa: «Nessun leader è eterno e questo vale anche per Assad. Nel 2014 ci saranno le elezioni presidenziali e dovremmo lasciare che le cose seguano il loro corso. Fino ad allora, però, cessino le interferenze straniere ». Teheran è l’unico alleato regionale di Damasco e aiuta il regime.Ma tra il rischio di perdere (in futuro) un avamposto e trovare un compromesso è evidente che l’Iran sceglie la seconda ipotesi. Se i siriani non vogliono più Assad — è questo il messaggio — è bene che si faccia da parte. Linea non troppo lontana da quella della Russia. Lo dimostrano i segnali emersi in queste ore. Il presidente Vladimir Putin ha affermato che sarebbe necessario costringere regime e ribelli a trovare una soluzione pacifica. Esortazione accompagnata dal rifiuto di qualsiasi ingerenza esterna. Più concrete le parole del vicedirettore dell’ufficio esportazioni russo, Vyachezlav Drizirkan: la Russia sospenderà le forniture d’armi alla Siria «fintanto che la situazione resterà instabile». Una misura che si applica ai contratti legati all’invio di nuovi aerei emissili, ma esclude parti di ricambio e «pezzi» garantiti da vecchi accordi. Ciò dovrebbe permettere l’arrivo in Siria dei famosi elicotteri d’attacco. L’annuncio —se confermato—rappresenta comunque una forma di pressione sull’alleato. Mosca è vicina a Bashar, lo tutela ma si rende conto che è necessaria una svolta. Concetto passato anche agli insorti nei contatti diretti. A Mosca è arrivato Michel Kilo, uno dei rappresentanti di un’opposizione frammentata, e domani Abdel Basset Sayda, capo del Consiglio nazionale siriano è atteso nella capitale russa per colloqui. Ecco che allora si ritorna ai meccanismi di transizione inseguiti da Kofi Annan, sperando che funzionino meglio di quanto è avvenuto in questi mesi. In attesa degli sviluppi, proseguono — feroci — gli scontri. Ieri sono morte una trentina di persone tra Homs e Qusayr, che si aggiungono all’ultimo bilancio sulla guerra diffuso dall’Osservatorio siriano di Londra: 17.129 vittime, di cui 11.897 civili, 4.348 soldati e 884 disertori.

EGITTO

Egitto, battaglia sulla riapertura del Parlamento
GERUSALEMME - Erano seduti fianco a fianco ieri durante una cerimonia ufficiale al Cairo, il neo-presidente egiziano, l' islamista Mohammed Morsi, e il capo della Giunta militare, il maresciallo Mohammed Tantawi. Si sono scambiati qualche parola, un breve saluto, i due uomini che hanno nelle loro mani il futuro dell' Egitto ma avevano espressioni tese e cupe. Perché lo scontro aperto con il decreto di Morsi, che ha ordinato per oggi la riapertura del Parlamento - dominato dagli islamistie dai salafiti- annullando la sentenza della Corte suprema che lo scorso mese ne aveva deciso lo scioglimento per gravi irregolarità nel processo elettorale, può far ricadere l' Egitto nel caos. Il presidente dell' Assemblea - Saad el-Katatni, della Fratellanza musulmana - ha già convocato un seduta per oggi. Ma la Corte costituzionale ha rilanciato la posta e ha confermato la sua decisione. «Tutte le nostre sentenze e decisioni sono definitive, non soggette ad appello, e sono vincolanti per lo Stato», ha fatto sapere in giornata la Corte, che resta l' unica istituzione ancora in piedi nell' Egitto post Mubarak. In assenza del Parlamento è davanti alla Corte che Morsi ha giurato riconoscendone l' autorità, lo scorso 29 giugno. Ma oggi da presidente annuncia che le sentenze di quei giudici non hanno valore. Dice a Repubblica Said Rifaat, presidente del partito di sinistra Al-Tagammu: «In una democrazia compiuta il capo dello Stato non può mancare di rispetto alla magistratura. Piaccia o no a Morsi, le decisioni dei giudici devono essere rispettate». È stato un triste risveglio anche per quei candidati presidenziali che al secondo turno del ballottaggio di metà giugno si schierarono con Morsi contribuendo in maniera decisiva alla sua vittoria contro il suo sfidante Ahmad Shafiq, l' ultimo premier di Mubarak. Oggi Hamdeen Sabbahi (che al primo turno prese 3,5 milioni di voti) e l' islamista moderato Abdel Moneim Aboul Fotouh (che a quel voto prese 4 milioni di voti) denunciano la decisione di Morsi come «un insulto alla legge», e il braccio di ferro con la Giunta e la Corte come «l' apertura di un baratro per l' Egitto». La Fratellanza ha annunciato per oggi una "marcia del milione" a Piazza Tahrir per "accompagnare" i deputati alla seduta del Parlamento. Una decisione grave, che smaschera la scelta di Morsi di andare allo scontro aperto e di piazza: ieri già sono scoppiati tafferugli fra sostenitori e oppositori del presidente. Il Parlamento, dalla sentenza della Corte, è chiuso, presidiato dai carri armati: forzare quel blocco farà piombare l' Egitto nel caos. Gli altri partiti politici - il Partito socialdemocratico, quelli di sinistra, i liberali del Wafd - non si prestano al gioco della Fratellanza, hanno già annunciato che boicotteranno la sedutae denunciano la decisione di Morsi come «folle». Di nuovo ieri la Casa Bianca, così come le diplomazie di alcuni Paesi europei, si è schierata a fianco del neo-presidente egiziano: «Il processo democratico vada avanti».

Fabio Scuto



lunedì 9 luglio 2012

EGITTO





Egitto, Morsi sfida i militari
e riconvoca il Parlamento

Mossa del presidente: annullato
lo scioglimento dell'Assemblea.
Vertice d’emergenza dei generali
IL CAIRO
Mohamed Morsi sfida i militari. Che reagiscono con una seduta d’emergenza. Il neopresidente islamico egiziano, il primo eletto democraticamente e non emerso dalle fila militari, ha annullato oggi con un decreto lo scioglimento del parlamento dominato dalle forze pro-Islam, deciso dal Consiglio supremo militare il 15 giugno in base a una sentenza della Corte costituzionale.

«Il presidente Morsi ha ordinato la riconvocazione delle sessioni del parlamento eletto», ha affermato oggi Yasser Ali, collaboratore di Morsi, leggendo un comunicato del presidente. Il Parlamento dovrà tornare a riunirsi fino alle prossime elezioni parlamentari che dovranno tenersi entro 60 giorni dall’approvazione della nuova Costituzione: una commissione di 100 membri si è riunita per la prima volta il 18 giugno per redigerne il testo, ma non è stata fissata una data per la fine dei suoi lavori. A metà giugno la Corte costituzionale aveva invalidato l’elezione di un terzo dell’Assemblea del Popolo (la camera bassa, uscita dalle elezioni politiche di gennaio con una massiccia presenza dei Fratelli musulmani e dei salafiti) per incostituzionalità di alcuni articoli della legge elettorale. La sentenza aveva quindi consentito al Consiglio supremo - che con il maresciallo Hussein Tantawi ha governato l’Egitto dalla caduta dell’ex rais Hosni Mubarak - di sciogliere l’intera Assemblea e di attribuirsi, tra gli altri, il potere legislativo, facendo gridare al golpe le forze politiche islamiche, in primis i Fratelli musulmani del presidente.

Dopo l’elezione presidenziale Morsi, non potendo giurare davanti al parlamento sciolto, ha giurato il 30 giugno scorso - giorno del passaggio di poteri dal Consiglio militare - proprio davanti a quella Corte costituzionale che aveva dichiarato nulla l’assemblea. Davanti ai giudici, il neopresidente ha assicurato di rispettare tutti i verdetti della magistratura e della Corte. Fino alla nuova mossa di oggi e al decreto che ne ribalta la decisione. Non si sa ancora come reagiranno i militari. Tantawi ha convocato una seduta d’emergenza del Consiglio militare «per studiare e discutere le ripercussioni della decisione del presidente Mohamed Morsi di riconvocare il parlamento», ha riferito l’agenzia di Stato Mena. Intanto il presidente lavora a rilanciare l’immagine dell’Egitto sulla scena internazionale. Oggi - nel corso della visita al Cairo del vice segretario di Stato William Burns - è arrivato l’invito del presidente americano Barack Obama a visitare gli Stati Uniti a settembre a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, dove i due - confermano fonti americane - avranno anche un incontro bilaterale. Sabato prossimo sarà Hillary Clinton a recarsi al Cairo.

SIRIA

















venerdì 6 luglio 2012

Le battaglie di Algeri

Il Governo provvisorio arrivò nel centro d'Algeri su un autocarro. I ministri, tra i quali non mancavano i capi storici della rivoluzione, erano ammassati nel cassone, in piedi, come muratori diretti al cantiere.
La semplicità di quell'apparizione attizzava l'entusiasmo della folla. I vincitori della lotta armata erano in maniche di camicia. Senza mitra e pistole. La scorta armata si era perduta tra la gente in delirio. Forse non c'era. Era quella l'autentica immagine della nuova Algeria? In realtà la manciata di uomini che attraversava la capitale della nazione da poche ore ufficialmente indipendente, dopo centotrentadue anni di dominio francese, rappresentava un potere fragile, anzi già esautorato, ma nei suoi ultimi momenti di rappresentanza essa incarnava l'orgoglio di un popolo che per conquistare la dignità nazionale aveva perduto centinaia di migliaia di uomini e donne. «Un milione di morti», proclamava l'Fln, il Fronte di liberazione nazionale, arrotondando le cifre.
Era il 3 luglio di cinquant'anni fa ed io ricordo la mia affannosa ricerca di un telefono con il quale trasmettere la cronaca di quel giorno in cui si concludeva trionfalmente la guerra più sanguinosa della decolonizzazione africana. Fino a quel momento, la sola indipendenza nel continente strappata armi alla mano. Una lotta armata sostenuta da non molti ma neppure pochi occidentali. Ne auspicavano il successo l'America di Kennedy e i partiti di sinistra europei. E tanti intellettuali francesi. Sartre in testa, ma anche liberali come Raymond Aron. Alcuni erano portati dall'entusiasmo a credere che in quel coraggioso paese dell'Africa del Nord si potesse realizzare ciò che non era stato possibile alla caduta del nazismoe del fascismo in Europa. Nello slancio non tenevamo conto della realtà algerina.
An d a n d o s e n e , i francesi si erano portati via anche i telefoni. Per questo faticavo a trovarne uno. Era con me, in quelle ore, Kateb Yacine, uno dei grandi scrittori algerini, che anni dopo sarebbe stato accompagnato al cimitero da amici che alternavano l'Internazionale e i versetti del Corano. Quel 3 luglio Kateb mi urlava dietro che era un bene che io non trovassi un telefono. Cosi non avrei trasmesso una cronaca falsa. Era infatti scontato che era mia intenzione descrivere con toni trionfalistici un avvenimento storico, mentre quello che si svolgeva sotto i nostri occhi era per lui una tragedia.
Non detti retta a Kateb, del quale avevo una grande stima.
Era l'autore di Nedjma, un romanzo scritto in francese con uno stile faulkneriano, che aveva come sotto fondo la strage di Setif, nel '45, quando i francesi risposero con i cannoni e il napalm agli algerini che chiedevano anche per il loro paese la libertà appena ottenuta dalla Francia. Libertà per la quale molti algerini avevano combattuto nei ranghi dell'Armée.
Ma quel giorno non vedevo la tragedia che lui, Kateb, leggeva nella folla che accoglieva con entusiasmo il Governo provvisorio dell'Algeria indipendente. E festeggiava la fine di una guerra che aveva travolto persino le istituzioni della "métropole", come veniva chiamata allora la Francia.
Infatti (nel '58), in seguito alla rivolta dei militari francesi d'Algeria, reduci dall'umiliazione indocinese, conclusasi con la sconfitta di Diem Bien Phu (1954), e di nuovo delusi dai governi parigini scarsamente solidali, si era spenta la Quarta Repubblica, ed era ritornato al potere il generale de Gaulle, fondatore della Quinta Repubblica semi presidenziale. E, realista, il generale aveva trattato, tre anni dopo, con i capi dell'FLN, per arrivare all'indipendenza dell'Algeria. Accettando cosi la sconfitta in una guerra (di guerriglia) cominciata nel 1954, ma da tempo in incubazione. La società umiliata, e violentata, sulla quale si era sovrapposta una società europea (un milione di cosiddetti pieds noirs), era pronta ad esplodere.
Anche se non sempre concorde sulla natura dei rapporti da conservare con la Francia, fonte di repressione e al tempo stesso di idee emancipatrici.
A scuola si insegnava la rivoluzione dell'89, e con essa i principi di libertà, uguaglianza e fraternità, mentre nel paese si praticava la repressione, la disuguaglianza e la discriminazione. De Gaulle era comunque un pragmatico e detestava inoltre i coloni europei d'Algeria che l'avevano osteggiato negli anni difficili, quando lui rappresentava la Francia libera non rassegnata all'occupazione nazista. Chiunque governasse in Francia non poteva mantenere in permanenza centomila uomini armati in Algeria; né era in grado di contenere la crescente opposizione interna a quella guerra; e ancor meno di sostenere l'ostilità del mondo arabo, di cui la Francia aveva bisogno.
Tra i negoziatori, impegnati a discutere con i francesi, per mesi, a Evian, in Svizzera, c'era Benjucef Benkhedda, poi diventato primo ministro del Governo provvisorio, e quindi quel 3 luglio in piedi, sul cassone del camion, che attraversava le strade di Algeri, fendendo una folla entusiasta, benché immersa in cinquanta gradi di caldo mediterraneo umido.
Benkhedda era un farmacista, come era un farmacista Ferhat Abbas, il suo predecessore.
Due uomini moderati, tenaci combattenti nella lotta per l'indipendenza, ma sensibili ai richiami democratici occidentali, e spesso in contrasto con gli altri dirigenti della rivoluzione, marcati dalla lotta armata e favorevoli a soluzioni autoritarie.
Anche perché la società algerina, non disponendo di capitali e di una borghesia imprenditoriale, quella esistente essendo di stampo francese, non poteva che imboccare la strada di un socialismo senz'altro arabo, con venature islamiche, ma con chiari riferimenti al sistema sovietico. Non c'era mai stato, in realtà, un vero dibattito politico in seno alla resistenza, dopo il Congresso della Summam, nel '57, che si era concluso con sanguinosi regolamenti tra fazioni.
E qualche settimana prima dell'indipendenza, la riunione di Tripoli si era conclusa con un nulla di fatto. Tanto che il Governo Provvisorio che percorreva le strade d'Algeri rappresentava soltanto se stesso. Aveva in quelle ore l'appoggio popolare, perché era il simbolo dell'Algeria indipendente. Ma il potere era altrove. Risiedeva nell'"esercito delle frontiere", negli ottanta mila uomini ben armati e organizzati schierati al confine tunisino e marocchino, al comando del colonnello Huari Bumedien, e pronto a marciare su Algeri.
Kateb Yacine pensava a questo mentre cercava invano di dissuadermi dallo scrivere una cronaca trionfalistica. In quelle ore la rivoluzione vittoriosa veniva tradita dai suoi. Questa era la tragedia. Kateb diceva che i militari agli ordini di Huari Bumedien erano stati contagiati dai paras francesi del generale Massu. Non a caso alcuni ufficiali dell'esercito di Huari Bumedien venivano dall'Armée che avevano disertato. Mentre la Francia si sta liberando dei suoi paras mettendo fine alla guerra, noi ci prepariamo ad accogliere le loro imitazioni.
Questo diceva sconfortato Kateb Yacine. E io non lo ascoltavo, perché la sua disperazione affogava spesso nella birra.
Ad Algeri si festeggiava un governo provvisorio ignorando che avesse ancora qualche ora di vita. Non di più. Ahmed ben Bella, arroccato a Tlemcen, era pronto a piombare su Algeri con l'aiuto degli uomini dell'allora quasi ignoto colonnello Bumedien, deciso a usare per un po', un paio d'anni, la grande popolarità di ben Bellah, eroe della prima ora e celebre ospite delle carceri francesi. Il moderato Benkhedda e i suoi ministri erano insomma sul punto di essere messi al bando.
E con loro i principi democratici che sostenevano.
Intanto nelle campagne si regolavano i conti. Collera, odio, gioia, entusiasmo, speranza. Tutti i sentimenti raggiungevano il parossismo. Il sangue colava abbondante. E per fortuna era ancor più abbondante il vino che inondava le cantine delle fattorie francesi abbandonate dove i contadini in rivolta sventravano le botti. Del milione di coloni, in gran parte poveri, ne erano rimasti molto pochi. In quei giorni ho visitato il ghetto di Orano semideserto. Erano rimasti soltanto vecchi ebrei che non volevano abbandonare la terra dei loro antenati, e che vagavano smarriti per le strade ingombre di masserizie piovute dalle finestre di chi se ne andava. Prima di partire molti avevano ucciso persino i gatti, i cui resti appestavano l'aria.
I francesi si erano impegnati evacuare Harki e Moghazni, algerini appartenenti a formazioni paramilitari francesi, spesso impegnate contro la resistenza. L'onore impediva a de Gaulle di lasciare in balia alle vendette i collaboratori dell'esercito francese, considerati traditori dagli algerini. Ma l'onore non è stato rispettato fino in fondo, perché la Francia ha portato in salvo soltanto circa quarantamila Harki, lasciando che altre migliaia venissero uccise o torturate nei villaggi.
Gli avvenimenti svoltisi quasi in segreto nelle ore dell'indipendenza hanno marcato il destino dell'Algeria indipendente. Riducendo all'essenziale in quelle ore si sono scontrati tre elementi: i capi della Wilaya, le regioni in cui era suddivisa la resistenza, il Governo provvisorio, e l'" esercito delle frontiere". Ha vinto quest'ultimo, il più forte. Portato subito al potere dal colonnello Bumedien, e dai suoi ottanta mila uomini, Ahmed ben Bella ha cercato invano di dare un'impronta politica libertaria al suo regime.
Stanchi di quello che consideravano un insopportabile disordine, (nel 1965) i militari hanno preso direttamente il potere, e cacciato ben Bellah. E quelli che Kateb chiamava "i nostri paras" sono ancora, più o meno nascosti, nei posti di potere. Il 3 luglio di cinquant'anni fa resta tuttavia un grande giorno. Cosi l'ho vissuto e non me ne pento. È sempre un momento particolare quello in cui un popolo prende in mano il proprio destino. E quindi la propria dignità nazionale. Che cosa poi ne sappia fare, in particolare sul piano dei diritti individuali, è un altro capitolo.

Bernardo Valli

giovedì 5 luglio 2012

PALESTINA

Il giallo della morte di Arafat Abu Mazen ordina l’esumazione

GERUSALEMME — Stanno impalati a fianco della lastra di marmo con le iscrizioni in arabo, i due soldati della Guardia d’onore palestinese che vegliano sulla tomba di Yasser Arafat nella Muqata di Ramallah. Forse non ancora per molto perché il presidente dell’Anp Abu Mazen ha dato ordine di riesumare la salma del raìs palestinese, una decisione inconsueta nel mondo arabo. Perché otto anni dopo la misteriosa morte nell’ospedale militare di Percy a Parigi, emergono altre inquietanti ipotesi sulla scomparsa di Yasser Arafat: il leader palestinese sarebbe stato assassinato, forse avvelenato da polonio radioattivo, come l’ex spia russa Aleksandr Litvinenko ucciso a Londra nel 2006.
Una squadra di giornalisti di Al Jazeera è entrata in possesso di documenti classificati, ma soprattutto ha avuto accesso ai risultati e alle analisi che l’Institut de radiophysique di Losanna ha effettuato sugli effetti personali di Arafat che vennero restituiti alla vedova Suha dall’ospedale militare francese. Le analisi hanno accertato la presenza di polonio-210 in misura elevata e anomala nei vestiti, nella inseparabile kefiah del leader palestinese ma anche nel suo spazzolino da denti.
I circa 50 medici che lo hanno avuto in cura in quelle quattro settimane di malattia, non hanno mai saputo spiegare le ragioni del repentino deterioramento delle condizioni di Arafat, che all’epoca aveva 75 anni, e della sua morte l’11 novembre del 2004. Le 100 pagine delle conclusioni mediche delle équipe francesi che lo hanno avuto in cura sono un segreto di Stato, ma anche su questo dossier fioccano le indiscrezioni. I campioni di sangue di Etienne Louvet — il nome in codice dato al paziente Yasser Arafat per tutelarne la privacy — vennero analizzati dal Laboratorio tossicologico della Polizia di Parigi, e nel rapporto sono citati diversi veleni che i medici cercarono di individuare nel sangue, ma il polonio-210 non compare sulla lista.
I molti misteri attorno alla scomparsa dell’icona nazionale dei palestinesi hanno sempre tormentato la dirigenza dell’Olp che però non è mai stata in grado finora di avere delle prove «dell’assassinio », come spiega Nabil Abu Roudeina, portavoce di Abu Mazen e all’epoca di Arafat. Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi, chiede «una inchiesta internazionale dell’Onu, come quella per la morte dell’ex premier libanese Hariri», per fare chiarezza. Magistratura e polizia dell’Anp non dispongono né di laboratori né di capacità investigative all’altezza di un compito così difficile.
Israele, visto da molti arabi come il principale sospettato per la misteriosa malattia che ha ucciso Arafat, ha cercato di distanziarsi nuovamente dalla sua morte. Alcuni rivali politici di Arafat hanno sostenuto per anni che la sua morte era dovuta all’Aids, notizia sempre smentita dal medico tunisino che lo visitò poco prima che lasciasse Ramallah per Parigi. Ma la tesi dell’avvelenamento da parte di qualche servizio segreto israeliano (lo Shin Bet, il Mossad, l’Aman) è sempre stata quella con più proseliti in Palestina; rilanciata anche da suo nipote Nasser Al Qidwa, ex ambasciatore palestinese all’Onu: «L’hanno assassinato, adesso ne abbiamo la certezza». Avi Dichter — capo dello Shin Bet in quel periodo — ha smentito ieri ogni coinvolgimento di Israele, facendo riferimento a una richiesta fatta dagli americani di «non eliminare Arafat». Assediato da Israele nel quartier generale a Ramallah da tre anni, Arafat si ammalò nel mese di ottobre del 2004. Secondo i medici stranieri che accorrevano al suo capezzale dalla Tunisia, dall’Egitto e dalla Giordania l’anziano raìs aveva solo una forte influenza. Ma quando le tv inquadrarono quell’uomo dal volto scavato, debole, magrissimo che saliva un elicottero giordano per andare a farsi curare in Francia, fu chiaro a tutti che non si trattava di influenza.
I servizi segreti palestinesi propendono per avvelenamento attraverso gli alimenti o l’acqua. Arafat mangiava poco e rifiutava il cibo cucinato nella Muqata per il corpo di guardia. Le sue guardie andavano in un popolare ristorante di Ramallah a prendere l’unico pasto che consumava durante la giornata. Molti leader arabi hanno nella cerchia di sicurezza “l’assaggiatore” per i cibi e le bevande, ma non Arafat. Il polonio- 210 era probabilmente contenuto — dice una fonte dell’intelligence a Repubblica — nel kebab o nella frutta che Arafat mangiò la sera del 12 ottobre 2004. Com’è arrivato il polonio-210, materiale fissile, usato nel nucleare militare, fino al vassoio con la cena di Arafat? Il mistero continua. Il vecchio raìs aveva certamente più nemici che amici, non solo in Israele ma anche nell’ambito palestinese, nel mondo arabo e in Occidente.

Fabio Scuto

SIRIA

Tra i cristiani in fuga da Hama “Il regime siriano ci proteggeva ora non possiamo uscire da casa”

DAMASCO — «Per anni abbiamo vissuto nel Paese più sicuro del mondo. Ci siamo sentiti protetti, rispettati. Ma quando abbiamo visto che non potevamo più neanche affacciarci alla finestra senza rischiare di esser uccisi, abbiamo deciso che non era più il caso di restare e abbiamo lasciato le nostre case». Ai piedi del convento della Vergine Maria, a Saidnaya, una delle culle dei cristiani d’Oriente, dove si parla ancora l’aramaico, la lingua dei Vangeli, Abdu e George ricordano la loro fuga, pochi giorni fa, da Hama. George è definitivo: «Io avevo dieci anni, nell’82, quando l’esercito siriano schiacciò la rivolta dei Fratelli musulmani, ma quello che sta succedendo oggi è peggio». Il luogo è lo stesso, Hama, l’antica città sull’Oronte, ma le circostanze sono diverse. La città martire della repressione ordinata da Hafez al-Assad nel febbraio 1982 contro i Fratelli musulmani, è ora uno dei fronti caldi della rivolta che da un anno e mezzo infiamma la Siria. Ma per Abdu le parole del suo amico riflettono una realtà del tutto nuova: «Quello che vogliamo dire è che oggi, a differenza di 30 anni fa, l’esistenza dei cristiani è minacciata a Hama, dove eravamo una comunità di ventimila persone e adesso sono rimasti soltanto quelli che non hanno nulla da mangiare». Lo stesso succede a Homs e nelle altre città in cui i cristiani, dopo essere rimasti per mesi estranei al conflitto, si sono visti mettere sempre di più nel mirino di gruppi armati, spesso d’incerta provenienza, genericamente definiti “salafiti”, integralisti islamici di fede sunnita, che, anche solo per infiammare lo scontro con l’esercito, o per diffondere il panico, hanno imposto la loro presenza nei quartieri cristiani. «Gente venuta da fuori — dice George — . Violenti, arroganti. Entrano in casa, controllano i documenti, interrogano. E se non sono convinti, magari ritornano la notte. Vicino a casa mia si sono portati via una ragazza di 20 anni ritrovata morta qualche ora dopo». Se non fosse per le parole di questi profughi, seppure di categoria benestante, artigiani, tecnici, commercianti, sarebbe difficile cogliere, a Saidnaya, i segni della tragedia siriana. Il convento risalente all’XI secolo, costruito su una rocca scoscesa, domina come una fortezza inespugnabile una vallata immobile e silenziosa sotto il sole cocente. Qui nulla sembra turbare la calma di questo paesaggio da sempre uguale a se stesso.
Eppure sono giorni di grande tensione per la Siria, che sembra scivolare verso la sua dissoluzione. Una deriva che niente e nessuno sembra in grado di fermare.
Non certo le divisioni in seno alla comunità internazionale, con Stati Uniti e Russia su posizioni sempre inconciliabili, né quelle esplose nei ranghi dell’opposizione. L’ultima riprova viene dal Cairo, dove, in base al piano approvato a Ginevra dalle cinque potenze del Consiglio di sicurezza, s’è riunita ieri l’opposizione per elaborare una strategia condivisa sulla proposta di dar vita ad un governo di unità nazionale, per guidare la transizione, con la partecipazione tanto di esponenti del regime che della rivolta. Ma i ribelli armati, fra i quali i disertori del Libero esercito siriano e alcuni gruppi “indipendenti”, hanno subito fatto appello al boicottaggio del vertice, cui invece hanno preso parte rappresentanti del Consiglio nazionale siriano, che raggruppa i dissidenti all’estero.
Ma per i cristiani di questo Paese, circa 2 milioni di persone, intorno al 10 per cento della popolazione, l’opposizione è soltanto
una pedina della “grande trama” imbastita alle spalle della Siria. Determinati a difendere la loro identità di “siriani di religione cristiana”, prima ancora che di “cristiani di nazionalità siriana”, quelli che incontriamo a Maalula, altra meta di pellegrinaggi, dove riposano i resti di Santa Tecla, ad una quarantina di chilometri da Damasco, vedono proprio nelle manovre della comunità internazionale la causa della rivolta che sta scardinando il regime. I guai della Siria, dice in sostanza Gabriel, un comandante della marina commerciale che lavora sulle rotte mediterranee delle compagnie greche, «derivano dalle interferenze americane, per far saltare un equilibrio che non soddisfa i loro interessi, né quelli israeliani, né quelli dell’Arabia Saudita. E l’Europa, vergogna, li segue ciecamente».
In questo contesto, le prospettive di un cambiamento di regime fanno paura. «Non posso dire — afferma nel suo elegante studio di Damasco l’architetto Maria Sadeeh, recentemente eletta come indipendente in Parlamento — che Assad sia il protettore dei cristiani ma dico che noi viviamo in un regime laico che protegge i cristiani. L’Occidente deve stare molto attento a combattere i regimi laici del Medio Oriente perché non si sa quello che potrebbe arrivare dopo. Qui in Siria c’è un tessuto multi religioso che fa parte della storia del Paese. Un regime diverso finirebbe per annullare questo elemento imprescindibile dell’identità siriana. Un sistema salafita lo rifiuteremmo».

Alberto Stabile


Tra i martiri di Homs Siria 
Nella città ribelle sotto le bombe di Assad
HOMS QUESTO è un documento, non un testo rielaborato. È la trascrizione, più fedele possibile, di due taccuini di appunti che ho preso durante un viaggio clandestino in Siria, nel gennaio di quest' anno. Inizialmente dovevano servire come base per gli articoli che ho scritto al ritorno. Ma a poco a poco, nei lunghi periodi di attesa e di inattività, nei tempi morti creati dalla traduzione durante le conversazioni, e a causa di una certa frenesia che tende a voler trasformare subito il vissuto in scrittura, quegli appunti si sono dilatati. È ciò che rende possibile la loro pubblicazione. A giustificarla, invece, è ben altro: sono il rendiconto di un momento breve e già scomparso, quasi senza testimoni esterni, degli ultimi giorni della rivolta di una parte della città di Homs contro il regime di Bashar alAssad, poco prima che fosse soffocata in un bagno di sangue, ancora in corso mentre sto scrivendo. Solo dopo aver scritto questi appunti, e dopo aver lasciato la Siria, a Homs le cose hanno cominciato a precipitare per davvero. Pensavo che ciò che avevo visto fosse abbastanza violento, e credevo di sapere cosa significasse questa parola. Ma mi sbagliavo. Perché il peggio era appena iniziato, e quindi oggi mi vergogno rileggendo certi passi, per esempio quelli in cui riferisco le nostre stupide liti con gli attivisti di Baba Amr, liti che ci sono state e che avevano un motivo (ecco perché non censuro quei passi), ma che assumono tutt' altro significato alla luce di ciò che sarebbe accaduto, e del comportamento successivo degli interessati (Jeddi e Abu Hanin, per citarne solo due), a cui molti giornalisti occidentali devono la vita. (segue dalla copertina) HOMS Riassumo: la sera del 3 febbraio, all' indomani della mia partenza, molte granate si sono abbattute sul quartiere di al-Khaldiye, proprio vicino alla piazza degli Uomini liberi. Cadevano a intervalli,e tutte hanno colpito piùo meno lo stesso punto, il che non può essere una coincidenza. Conseguenza: le persone che si erano precipitate a soccorrere le vittime della o delle prime granate sono state a loro volta uccise o gravemente ferite. I telefoni funzionavano ancora e ho chiamato Mani, che era rimastoa Baba Amr. Avrei voluto conoscere la sorte di tanta gente - Abu Adnan, Abu Bakr, Najah (sono sopravvissuti, per lo meno a quell' episodio), il barbiere della piazza, il pasticcere Abu Yasser, il meccanico e i suoi amici, i due venditori di kebab - ma gli ho chiesto di informarsi su una sola persona: Mahmud, il bambino di dieci anni che danzava durante le manifestazioni e lanciava gli slogan stando sulle spalle degli adulti. Mani non è mai riuscito a farmi sapere niente. Molti altri erano già morti, allora. Sabato 4 l' esercito ha intensificato il bombardamento su Baba Amr, e il 6 o il 7, non ne sono del tutto sicuro, la rete telefonica è stata definitivamente disattivata. In quel momento Mani si trovava in centro città e, con la direzione di Le Monde, abbiamo un po' perso le sue tracce finché anche lui non se n' è andato da Homs, l' 11 febbraio. Quasi tutti i contatti che potevamo avere con gli attivisti si sono interrotti in quel momento, tranne con i due gruppi che disponevano di un sistema satellitare Bgan, ovvero gli attivisti di al-Khaldiye e di Baba Amr. Tutti i giorni, su YouTube, compaiono video, uno più immondo dell' altro, commentati, fino alla sua partenza per il Libano, dal siriano-britannico Danny Dayem,e poi molto spesso da un giovane medico - o piuttosto, probabilmente, uno studente di medicina, non sono sicuro - che avevo incrociato varie volte ma che non compare in questi taccuini, il dottor Mohammed al-Mohammed. Una cosa era evidente: il bombardamento del quartiere si intensificava di giorno in giorno (si sapeva poco degli altri quartieri, ma non sembrava che fosse meglio), e il numero delle vittime civili aumentava. Chi non ha troppi problemi ad addormentarsi si prenda la briga di guardare alcuni di quei video, lo invito a farlo. In effetti Baba Ami ha una particolarità, che avevo notato ma a cui al momento non avevo attribuito tutta l' importanza che merita: è stato costruito frettolosamente e in modo semiabusivo da persone respinte ai margini di Homs e con pochi mezzi, che quindi ritenevano superfluo scavare una cantina costruendo il loro piccolo edificio. Una cantina è utilissima per sistemarci vecchi mobili o immagazzinare patate e cipolle, ma si può farne a meno quando non si buttano mai via i mobili e la scorta di patate e cipolle sta facilmente in cucina. È tutt' altra storia quando un esercito moderno, equipaggiato con carri armati d' assalto, razzi di tipo Grad, e mortai di calibri diversi sino ai 240 mm, arma mai usata in un conflitto contemporaneo a parte la Cecenia, bombarda il tuo quartiere strada per strada, casa per casa, in modo metodico e sistematico, per ventisette giorni. L' offensiva delle forze di Bashar al-Assad era cominciata, guarda caso, all' indomani del voto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite su una risoluzione, peraltro piuttosto fiacca, ispirata al piano di pace della Lega araba, a cui Russia e Cina hanno risolutamente opposto il loro veto. Poco interessate a ripetere l' avventura libica, anche quando appariva chiaro che il massacro tanto temuto a Bengasi si stava effettivamente svolgendo a Homs, la diplomazia americana e quella europea si invischiavano in discussioni interminabili, piuttosto ridicole, su «corridoi umanitari»o proposte dello stesso tenore. I loro colleghi arabi, qatari o sauditi cominciavano a mormorare che si sarebbe potuto prospettare un intervento più energico, in particolare mediante trasferimento di armi all' Esl, ma nessuno li ascoltava. È a questo punto che, alquanto esasperato, nell' ultimo dei miei articoli per Le Monde ho proposto di tacere e abbandonare i siriani al loro destino. Purtroppo è ciò che è stato fatto. L' epopea dei giornalisti occidentali uccisi o feriti a Baba Amr ha acceso i riflettori su ciò che accadeva laggiù, e al tempo stesso ne ha paradossalmente distolto l' attenzione. Da una parte non si poteva più dire di non sapere cosa stesse succedendo; dall' altra si potevano riempire i telegiornalie le colonne dei quotidiani di omaggi (più che meritati) a Marie Colvin e Rémi Ochlik, uccisi il 22 febbraio in un bombardamento mirato, con razzi, della casa dell' «Ufficio stampa», e poi concentrare tutta l' attenzione delle diplomazie e dei media sul salvataggio dei giornalisti feriti nello stesso attacco, Édith Bouvier e Paul Conroy, nonché degli altri due che avevano scelto di rimanere con loro invece di fuggire attraverso il tunnel, Javier Espinosa e William Daniels. Non trovo le parole per parlare del loro coraggio e dell' incubo che hanno vissuto finché non sono riusciti, uno dopo l' altro, a raggiungere il Libano, una settimana dopo. Ma constato anche che, salvo rare eccezioni, nessun media occidentale ha parlato degli attivisti e giornalisti siriani che si trovavano con loro, tranne alla fine, quando tredici «militanti» non identificati sono rimasti uccisi durante il trasferimento in fretta e furia dei feriti. Ho scarse notizie dei siriani che, in pochi giorni, sono diventati nostri amici. La maggior parte degli attivisti dell' informazione e del personale medico di Baba Amr (tra cui Abu Hanin e Mohammed al-Mohammed) sono riusciti a fuggire con i resti dell' Esl appena prima della caduta definitiva del quartiere, venerdì 2 marzo, a eccezione di Jeddi, che ha scelto di rimanere: il I° aprile Jeddi, il cui vero nome è Ali Othman, è stato arrestato ad Aleppo, e da allora starebbe subendo le peggiori torture. Gli attivisti di al-Safsafi, al-Khaldiye e al-Bayada - Omar Telaoui, Abu Bilal, Abu Bakr, Abu Brahim - sono ancora in vita, stando ai contatti che Mani è riuscito ad avere, anche se la loro situazione resta difficilissima. Fadi, Alaa, Abu Yazan, Ahmad e gli altri combattenti dell' Esl che compaiono in questo taccuino devono essere morti o peggio, o forse no, ma con ogni probabilità non lo saprò mai. Di molti tra quanti ho citato qui con il nome proprio, un' iniziale o uno pseudonimo che si erano scelti per lanciarsi in questa avventura, certo non rimarrà nulla al di là di questi appunti,e del loro ricordo nella mente di chi li ha conosciuti e amati: tutti quei giovani di Homs, sorridenti e pieni di vita e di coraggio, e per i quali la morte,o una ferita atroce,o la rovina, la degradazione e la tortura erano poca cosa rispetto all' inaudita felicità di essersi scrollati di dosso la cappa di piombo che pesava da quarant' anni sulle spalle dei loro padri.

Jonathan Littell


CRISTIANI NEL MONDO ARABO TRA RESISTENZA E FUGA
Alla luce di quanto è successo dopo la caduta di Saddam Hussein in Iraq e di Hosni Mubarak in Egitto, quale scenario è più realistico per i cristiani della Siria post-al Assad, qualora dovesse esserci, libertà o esodo?

Valerio Modoni


Caro Modoni,
in mancanza di censimenti affidabili il numero dei cristiani nei Paesi arabi non è facilmente verificabile. I copti egiziani sarebbero il 10% della popolazione, ma la percentuale può variare considerevolmente da un interlocutore all’altro. In Iraq, prima della guerra americana, erano probabilmente il 3% (circa 400.000), ma il loro numero, dopo la prima fase del conflitto, si è probabilmente dimezzato. Nel 2006, a Beirut, il vecchio patriarca maronita Nasrallah Boutros Sfeir mi ha detto che i cristiani, prima dello scoppio della guerra civile (1975), erano grosso modo metà della popolazione e che i maroniti fuggiti all’estero durante il conflitto sono non meno di un milione. È ormai finita l’epoca in cui la grande comunità cristiana libanese era la spina dorsale del Paese, il nucleo più influente della classe dirigente nazionale.

In Siria sarebbero il 10% della popolazione, quindi poco meno di due milioni, e hanno goduto per molto tempo di uno statuto invidiabile. Il quartiere cristiano di Aleppo è una sorta di compendio della storia del cristianesimo, il luogo dove si allineano, a breve distanza l’una dall’altra, le chiese degli ortodossi, degli assiri, dei caldei, degli armeni, dei melchiti, dei maroniti. A breve distanza dalla città sorgono le rovine della grande basilica di San Simeone stilita, il santo che trascorse gran parte della sua vita sulla sommità di una colonna e divenne meta di innumerevoli pellegrinaggi. Qui esistono ancora monumenti che dimostrano quanto le tre religioni del libro fossero strettamente intrecciate. Nella grande moschea degli Omayyadi, a Damasco, una grande tomba custodisce la testa di san Giovanni Battista. Nella maggiore moschea di Aleppo una tomba conserva la testa di Zaccaria, padre di Giovanni. Nel museo nazionale di Damasco è stata trasportata e ricostruita la sinagoga di Dora Europos (un’antica città sull’Eufrate, a breve distanza dalla frontiera irachena): la sola al mondo interamente affrescata con storie dell’Antico Testamento. Nel villaggio di Maalula, a 60 km dalla capitale, gli abitanti parlano amarico, la lingua di Gesù, e vivono all’ombra del monastero di Santa Tecla, martire cristiana e, forse, discepola di san Paolo. Se la guerra civile siriana diverrà un conflitto fra sunniti e sciiti, come in Iraq e nel Bahrein, i cristiani saranno condannati alla parte del terzo incomodo e saranno egualmente invisi agli uni e agli altri. Temo che molti decideranno di lasciare il Paese.

Anche a Gerusalemme, Betlemme, Ramallah, Nablus il numero dei cristiani sta rapidamente diminuendo. Ma nelle scorse settimane, durante un viaggio a Gerusalemme e a Ramallah, ho visitato la Custodia di Terra Santa, l’istituzione a cui una bolla di Clemente VI, nel 1342, affidò il compito di rappresentare la Chiesa di Roma nei luoghi della rivelazione. Da una conversazione con il Custode, Pierbattista Pizzaballa, sono uscito con l’impressione che da queste terre i francescani non se ne andranno mai.

mercoledì 4 luglio 2012

PALESTINA

Betlemme, vittoria palestinese la Chiesa della natività diventa patrimonio dell’Unesco

BETLEMME — La notizia sulla Piazza della Mangiatoia invasa dal sole la porta il cronista che chiede ai negozianti di souvenir cosa cambierà adesso che la Basilica della Natività è stata dichiarata Patrimonio universale dell’Umanità. Stupore, sorpresa, un pizzico di orgoglio. C’è chi telefona subito ai parenti per raccontare la novità. Le reazioni sono improntate alla chiara speranza che qualunque cosa significhi la decisione dell’Unesco, l’importante è che porti più turisti. Nessuno degli abitanti di Betlemme poteva immaginare che il 29 giugno sarebbe diventata una data storica. Ancora fuori dall’Onu come Stato — per il veto degli Usa al Consiglio di sicurezza — la Palestina ha da ieri il suo primo sito protetto come Patrimonio mondiale dell’umanità. La richiesta
di includere la Chiesa della Natività e la Via dei Pellegrini nella città di Betlemme nei lista dei siti protetti è stata votata ieri a San Pietroburgo dal Comitato di cui fanno parte 21 Paesi, ed passata con una maggioranza di 13 voti contro 6 e due astenuti. Si felicita per la grande vittoria il presidente dell’Anp Abu Mazen. «E’ un momento di gioia per i palestinesi, un momento di orgoglio nazionale e una conferma dell’unicità e della ricchezza della propria identità», spiega Hanan Ashrawi, dirigente cristiana dell’Olp, che rafforza la determinazione ad agire per la nascita di uno Stato indipendente entro i confini del 1967. Secca la reazione israeliana che con Netanyahu critica una
decisione «totalmente politica » che «danneggia gravemente la convenzione Onu e la sua immagine». Negative anche le reazioni degli Stati Uniti. Dice l’ambasciatore americano presso l’Unesco David Killion: «Si tratta di un sito sacro per tutti i cristiani» e l’Unesco «non dovrebbe essere politicizzato
»; e critica anche la “procedura d’urgenza” che negli ultimi 40 anni è stata adottata solo quattro volte in casi estremi. La richiesta di inserire il «Luogo di nascita di Gesù» nella lista Unesco è stata presentata dall’Anp, dopo che l’organizzazione con sede a Parigi ha riconosciuto la Palestina
come suo membro a tutti gli effetti nell’ottobre 2011. All’epoca come misura di ritorsione Stati Uniti e Israele sospesero i loro finanziamenti all’Unesco, privandola del 22% delle sue entrate. Tiepide per ora le reazioni dei religiosi Cristiani, Ortodossi e Armeni che gestiscono la Basilica.
Costruita dall’imperatore Costantino nel IV° secolo, la Natività necessita certamente di serie opere di restauro, inclusa la riparazione di parte del tetto attualmente mancante.
«È stata fatta giustizia e ne siamo molto contenti» — spiega il vice sindaco George
Saade», perché tutti a Betlemme sperano che la decisione dell’Unesco riscatti la città da un lento declino. Con quasi due milioni di presenze l’anno, è il luogo più visitato da turisti e pellegrini tra quelli nei Territori palestinesi, ma la città soffre perché nessuno si ferma. I turisti arrivano in pullman e due ore dopo se ne vanno, alberghi, e ristoranti restano vuoti. Il senso di isolamento poi è certamente aumentato da quando si è trovata circondata dal Muro di sicurezza costruito da Israele. I turisti sono costretti a lunghe code di ore ai check-point israeliani per il controllo dei documenti, mentre gli abitanti di Betlemme che vanno in senso opposto devono ora richiedere un permesso speciale, raramente concesso, per andare a Gerusalemme, che dista appena sei chilometri. Tagliata fuori dalle terre coltivate a nord e a ovest dal Muro, a sud e ad est dalle strade che soltanto i coloni israeliani possono percorrere, la città è diventata un ghetto. Pieno di torri di guardia, il Muro è dentro il perimetro urbano, aumentando il senso di una prigione a cielo aperto. «Il simbolo di tutto ciò che è sbagliato nel cuore dell’uomo», lo definì l’Arcivescovo di Canterbury quando lo vide durante la sua visita alla Basilica.

Fabio Scuto

LE CIALTRONATE DI HENRI LEVY, SEDICENTE "NUOVO FILOSOFO" FRANCESE

Dopo aver, per qualche settimana, capeggiato in tutti i modi la vittoria elettorale del candidato dei militari, ultimo primo ministro del governo Mubarak, nelle elezioni presidenziali egiziane, di fronte alla vittoria di Mohammed Morsi, candidato dei Fratelli Musulmani, il Corriere della Sera non si è dato per vinto e si è affidato alla penna di uno dei più grossi cialtroni della pseudo cultura d'oltre Alpi, il sedicente filosofo Henri Levy. Costui ha infatti sparato un articolo a mezza pagina dal titolo "L'ideologia oscurantista dei Fratelli Musulmani - la Primavera Araba non è finita: la metà degli egiziani attende ancora un futuro di diritti" nel quale vomita tutto il suo rigore contro una grande storica vittoria della democrazia politica nel mondo arabo: che smentisce nella maniera più limpida il vergognoso titolo del libro scritto qualche anno fa, "Viva Israele", di cui è autore il suo sodale neo cristiano Magdi Cristiano Allam.
Nell'articolo citato Henri Levy accusa il fondatore dei Fratelli Musulmani di essere stato in gioventù un ammiratore di Adolf Hitler e l'attuale capo della Fratellanza Musulmana, Yusuf Al-Qaradawi, di essere stato un esaltatore oltre che di Hitler anche di Stalin. Dell'attuale leader europeo della Fratellanza, Tarik Ramadan, non è riuscito a raccontare nessuna balla, e la cosa sarebbe stata difficile visto che Ramadan è stato ed è docente in un'università americana e lo scorso anno ha lanciato la proposta di una moratoria della pena di morte nel mondo in tutti i paesi musulmani; il cialtrone si dedica allora a sminuire il valore di Mohammed Morsi che viene definito un candidato di terza scelta (???), senza ricordare che il principale candidato che la Fratellanza aveva in mente non è stato presentato per evitare il rischio che una corte costituzionale non del tutto obbiettiva (la stessa che ha annullato le elezioni parlamentari) ne escludesse la candidatura.
Il valoroso bugiardone Henri Levy lamenta che in questo modo è stato eletto presidente dell'Egitto un candidato che ha riportato poco più di un quarto dei voti dell'elettorato egiziano, poco più di quanto è bastato al candidato francese nelle recenti elezioni transalpine per essere eletto a sua volta presidente della Francia: finge di ignorare, lo spregevole, che nelle elezioni di ballottaggio la percentuale dei votanti tende inevitabilmente ad abbassarsi: e infatti nelle elezioni di secondo livello egiziane gli astenuti sono stati molto più numerosi anche perché del 28% degli elettori Salafiti solo una minima parte si è recata a votare; e i Salafiti nelle elezioni per la Camera hanno conseguito una percentuale superiore al 20%.
Henri Levy non manca neppure di usare il suo argomento principe da vero libertario circa il tradimento della Comune di Piazza Tahrir (???): il nostro eroe è un fissato di una democrazia che deve nascere da qualcosa che somigli alla comune libertaria parigina del 1870; egli, infatti, da cripto-fascista quale è, detesta che delle istituzioni democratiche siano il frutto di libere e pacifiche elezioni nelle quali vince chi ha maggiore seguito fra i cittadini.
A questo punto vale la pena ricordare qualche precedente del Nuovo Filosofo:
I - A differenza di Jean Paul Sartre e di quasi tutta la cultura francese, Henri Levy preferì assumere una sorta di posizione di equidistanza tra i paras francesi torturatori guidati dal colonnello Massu, con la motivazione che egli era troppo legato alle posizioni dello scrittore Albert Camus, troppo influenzato alle posizioni dei coloni francesi e dei "piez noir";
II - Nel 1975 il Nostro si schierò decisamente con gli altri Nuovi Filosofi come lui, al fianco delle posizioni della cosiddetta "Autonomia Operaia" teorizzata dal cialtrone nostrano Toni Negri. Di quest'ultimo, il generale della chiesa, aveva dichiarato in un'intervista televisiva: "Che differenza c'è tra Renato Curcio, capo dell Brigate Rosse, e Toni Negri, leader culturale-spirituale di Autonomia Operaia?".."Il primo nel nome della rivoluzione proletaria si arma di mitra o di pistola, entra in un supermercato e pratica un esproprio proletario rischiando di persona. Il secondo predica ai suoi ebeti allievi di fare le stesse cose, va in macchina alla sua cattedra universitaria, e si becca pure lo stipendio dallo stato". Henri Levy, per solidarizzare con le scemenze di Negri, teorizzò dalla Francia la tesi secondo la quale l'Italia, e in particolar modo l'Emilia Romagna governata dai comunisti, era alla vigilia di una rivoluzione comunista che avrebbe instaurato una dittatura di marca sovietica. In nome di questo delirio lo stesso propugno una grande manifestazione/invasione di Bologna dove sicuramente erano in attesa carri armati sovietici o, almeno, mezzi corazzati delle cooperative rosse. Per sua disgrazia il sindaco di Bologna era il professor Renato Zangheri, maestro di cultura e di tolleranza, e invece dei carri armati i seguaci di Henri Levy trovarono l'albergo pagato per ospitarli e i militanti comunisti che gestivano la mensa gratuita per gli ospiti nei numerosi posti di ristoro comunali. Naturalmente lo scorno bruciò parecchio ai mancati rivoluzionari dell'autonomia i quali per reazione impedirono a mano armata a Luciano Lama di tenere un discorso nel piazzale della Minerva dell'università di Roma, mentre i seguaci dell'autonomia passarono dalle minacce alle gambizzazioni dei nemici del popolo, per lo più pacifici e democratici giornalisti. Poi si andò oltre..
III - Uno dei capi dell'Autonomia tal Cesare Battisti, passò il nome di una rivoluzione ispirata all'antica comune di Parigi alle rapine a mano armata, e si macchiò di 4 omicidi per i quali si è beccato 4 ergastoli, mai scontati. Grazie infatti alle protezioni di Henri Levy e di quelli come lui, trovò rifugio e ben retribuite pubblicazioni di libri presso case editrici francesi fino a quando, data l'enormità dello scandalo, il governo francese si decise ad estradarlo non già in Italia come sarebbe stato giusto, ma in Brasile dove l'eroico Cesare recita ancora la parte dell'eroe rivoluzionario ingiustamente perseguitato da un governo borghese.
A personaggi come Henri Levy, il Corriere della Sera affida la diffamazione di un movimento politico come quello dei Fratelli Musulmani che gli osservatori politici neutrali di tutto il mondo assimilano ai partiti cristiani e ai social democratici europei, anche se ai tempi della dominazione inglese in Egitto, delle monarchia corrotte alla Faruk e delle dittature militari alla Sadat e alla Mubarak, la Fratellanza Musulmana è stata sempre oggetto di una persecuzione accanita fatta di carcere e di torture.
Come fa un giornale che pretende di essere serio ad affidarsi a cialtroni come Henri Levy?