venerdì 30 settembre 2011


Damasco, assalto all´ambasciatore Usa

Una torma di sostenitori del regime siriano ieri a Damasco ha preso a bersaglio l´ambasciatore americano Robert Ford con lanci di uova, pomodori e sassi. «Ford e i suoi assistenti stavano recandosi a un incontro con un esponente politico siriano», fa sapere la pagina Facebook resa famosa dagli interventi di Ford. Il quale, primo fra i suoi pari a infrangere l´effimera etichetta della diplomazia, da quella tribuna si rivolge ai siriani, simpatizzanti e detrattori. «Sono tornati sani e salvi», è scritto sulla bacheca virtuale: «Una folla ha tentato di assalirli senza riuscirvi, però ha danneggiato i veicoli. Le forze dell´ordine siriane infine hanno aiutato ad assicurare un passaggio fino all´ambasciata».
Ieri mattina Ford aveva appuntamento con un personaggio dell´opposizione, Hassan Abdul Azim, nasseriano di lunga data, già arrestato in aprile all´inizio del Risveglio arabo siriano. Un uomo a prima vista moderato, incline al dialogo con il regime, convinto che la soluzione dei "problemi" (così nel lessico siriano) che ora dilaniano il Paese passi attraverso le riforme e una "morbida transizione" verso la democrazia. Per questo Azim era stato eletto a capo della conferenza dell´opposizione - la prima nella storia moderna del Paese - riunitasi in giugno all´hotel Semiramis. E anche per questo il gesto di Ford, la visita all´anziano dissidente, non aveva il sapore di una delle sue molto citate "sfide" al regime: come la visita poco protocollare a Hama, in luglio, nella piazza dei ribelli; o quella in agosto a Jassem, scossa dai tumulti, che gli valse l´accusa di «interferire negli affari interni del Paese». O "l´affronto", più recente, indirizzato secondo i siriani al presidente Assad definito «evil», malvagio, in un´intervista perché, Ford argomentava, «sotto la sua autorità la gente viene torturata, uccisa, e nessuno finisce in tribunale. Capisco che qualcuno disobbedisca agli ordini, che sia difficile riformare la polizia, però se nessuno viene punito, c´è da pensare che lui lo accetti». Se a questo si aggiungono i moniti dell´America: «Assad ha le ore contate. Il regime è clinicamente morto», si capisce come il litigio verbale si sia fatto rovente.
Malgrado tutto, Ford rimane. Forse non ha torto chi sostiene che dietro le quinte l´Amministrazione Obama coltivi un brandello di speranza di dialogo con il regime, per riformarlo. Intanto il dipartimento di Stato condanna «la campagna di intimidazione». Rivolti più al Senato repubblicano, contrario alla nomina di Ford, ricorda: «L´ambasciatore rischia in prima persona per sostenere le legittime aspirazioni del popolo siriano». E i disegni della diplomazia americana.



Alix Van Buren 

giovedì 29 settembre 2011

CRITERI ETICI E VALORI UMANI UNIVERSALI COME BASE PER UN CONFRONTO COSTRUTTIVO E PARITETICO TRA CRISTIANESIMO E ISLAM

Nel 1998 l'assemblea generale dell'ONU annunciò in una risoluzione "la ferma decisione di promuovere e favorire il dialogo tra le culture" e dichiarò l'anno 2001 "anno del dialogo", contro i foschi presentimenti di chi prospettava un inevitabile "scontro di civiltà" tra civiltà islamica e civiltà cristiana.
Lo spunto per questa risoluzione è raggiunto dal mondo islamico e cioè dal presidente della repubblica islamica iraniana Seyed Mohammad Khatami, il quale nel suo discorso davanti alla citata assemblea generale dell'ONU aveva dichiarato: "A nome della repubblica islamica propongo che le Nazioni Unite dichiarino l'anno 2001 "anno del dialogo fra le culture nella ferma speranza che grazie ad esso possa realizzarsi la giustizia e la pace universale.
Gli avvenimenti dell'11 Settembre 2001, la guerra in Afghanistan e in Iraq e la perdurante tensione in medio oriente confermarono quanto fosse assolutamente urgente intraprendere iniziative come quella proposta. Nei giorni 8 e 9 Novembre 2001, l'assemblea generale dell'ONU si riunì nuovamente per deliberare sul tema presentando la relazione di un gruppo di esperti e i progetti in cantiere. Sotto la direzione dell'ex segretario generale dell'ONU Kofi Annan, fra cui alcune personalità del mondo islamico, venne consegnato allo stesso segretario una copia dell'edizione originale americana della loro relazione dal titolo "Crossing the Divide". Dialogue among Civilization. All'assemblea generale dell'ONU le delegazioni dei diversi stati, fra cui moltissimi stati musulmani, si pronunciarono dopo 2 giorni di dibattito a favore del dialogo tra culture condannando l'idea di un "Crash of Civilization". Il 9 Novembre l'assemblea generale promulgò una risoluzione dal titolo "Agenda Globale per il Dialogo tra le Culture". Nove articoli descrivevano dettagliatamente gli obiettivi, i principi e i soggetti di questo dialogo definito come un processo fondato sulla volontà collettiva di conoscenza, di verifica e di superamento dei pregiudizi, di ricerca di un senso più ampio dell'esistenza e dei suoi valori fondamentali attraverso una maggiore comprensione reciproca basata su criteri etici comuni e valori umani universali.
Nell'ottica della conciliazione, unica vera risposta alla spirale viziosa dell'odio e della violenza, vennero anche citati quattro criteri imprescindibili, destinati a costituire il nucleo dell'etica universale: l'ideale della non violenza, dell'amore per la verità e per la giustizia e dell'uguaglianza tra uomo e donna.
Studiosi e musulmani di varie nazionalità si sono successivamente impegnati a confrontare la dichiarazione "per un'etica mondiale delle religioni mondiali" con il messaggio del Corano. La loro netta conclusione è stata: "I contenuti della dichiarazione per un'etica mondiale sono perfettamente corrispondenti allo spirito dell'Islam e radicati nel libro sacro dei musulmani, il Corano". Così, in particolare:
I - Una cultura della non violenza e per il rispetto della vita: "Abbi rispetto per la vita; non uccidere, non infliggere torture, suplizi e sevizie". Il rispetto per la vita, per ogni forma di vita, è profondamente radicato nell'etica islamica. Il Corano dice che uccidere un uomo innocente è come uccidere l'intera umanità, e sappiamo da innumerevoli hadith quanto il Profeta amasse gli animali e la natura;
II - Una cultura della solidarietà e della giustizia del sistema economico: "Agisci in modo corretto e sincero, non rubare, non sfruttare, non corrompere". Nell'etica del Corano la giustizia è un aspetto talmente importante che solo chi agisce giustamente può considerarsi un credente in Dio: "O voi credenti! State dritti davanti a Dio come testimoni di giustizia e non vi induca l'odio contro gente empia ad agire ingiustamente. Agite con giustizia perché questa è la cosa più vicina alla misericordia. Il Corano richiede che le eccedenze di beni e denaro e tutto ciò che non è strettamente necessario venga distribuito ai poveri e ai bisognosi; e la tassa sociale della Zakat è uno dei 5 Pilastri dell'Islam;
III - Una cultura della tolleranza e dell'amore per la verità: "Parla e agisci secondo verità, non dire il falso, non ingannare, non mentire, non tramare nell'ombra". La verità (Haqq) è uno dei nomi di Dio e ha lo stesso valore della giustizia. Una società giusta non può realizzarsi senza il fondamento essenziale dell'amore per la verità;
IV - Una cultura dell'uguaglianza e della parità tra uomo e donna: "Amatevi e rispettatevi gli uni con gli altri, non commettete atti impuri, non umiliate e non calpestate la dignità dell'altro sesso. Le donne agiscano coi mariti come i mariti agiscono con loro, con gentilezza";
V - Il principio di umanità: "La dignità umana di ogni essere umano costituisce una delle enunciazioni fondamentali del Corano: Dio ha dato un valore più alto all'uomo rispetto alle altre creature, e lo ha posto sulla terra quale suo vicario. Collegata al principio di umanità è la regola della disponibilità reciproca, attestata all'intera tradizione dell'islam: "Nessuno di voi è un credente di Allah se non desidera per il suo fratello ciò che desidererebbe per se stesso".
Questi principi etici fondamentali, definiti universali dall'Islam, sono i temi intorno ai quali i musulmani che si trovano a vivere in Europa, diventando in numero sempre più alto una componente umana essenziale, sono i temi con i quali il confronto con i cattolici, e con i cristiani in genere, debbono essere portati avanti. Tutte le iniziative a sfondo folkloristico o pittoresco, senza che vi sia nulla che ricordi l'impegno prioritario che abbiamo analizzato è una pura perdita di tempo, che rischia di trasformare le iniziative di dialogo inter religioso in inutili giochi da dopo lavoro ferroviario o in partitelle di calcio tra squadrette parrocchiali.

lunedì 26 settembre 2011

26/09/2011 LIBIA


Fossa comune, orrore a Tripoli 1700 cadaveri nel carcere del raìs

TRIPOLI - Laceri brandelli di stoffa intrisi di sangue e scoloriti dal tempo. Quel tempo che però non è riuscito a cancellare né il nome - Abdul Salem el Meddaj - dell´uomo che li indossava, né il foro del proiettile che l´uccise quindici anni fa. La prova di un omicidio, forse addirittura di un massacro. Abdul era infatti uno dei detenuti di Abu Salim, il carcere dove Gheddafi internava e torturava i suoi oppositori. Lo stesso nel quale nel ‘96, e in un solo colpo, ne avrebbe fatti ammazzare più di 1700. Cadaveri poi interrati nell´immensa spianata al di là dell´alto, bianco muro di cinta del penitenziario e i cui resti iniziano ad affiorare da una delle più agghiaccianti fosse comuni mai scoperte.
È pomeriggio inoltrato e in questo "cimitero" senza lapidi alla periferia di Tripoli, portato ieri alla luce dagli attivisti del Cnt, teschi, tibie, femori, costole sono ammucchiati qua e là alla rinfusa sotto lo sguardo smarrito di centinaia di persone. I familiari di quelle vittime accorsi lì nella speranza di ritrovare un padre, un fratello, un amico di cui non avevano saputo più nulla. Ma siamo soltanto all´inizio di un´impresa titanica, l´area è di almeno un chilometro quadrato e ci sarà ancora da scavare per chissà quanto tempo.
Mohammed Sharif ha combattuto e rischiato la vita su più fronti di questa guerra di liberazione, ma confessa di essersi sentito mancare quando si è improvvisamente «e come per miracolo» trovato tra le mani la tuta del suo vecchio amico Abdul Salem. Tuta che ora stringe al petto come una reliquia. «Porterò questo mucchietto di stracci alla sua famiglia a Misurata, non posso fare altro, glielo lo devo». Anis Nasser, 23 anni, è lì per suo padre Salem di cui ha solo un vago ricordo. «Avevo due anni - racconta - quando la polizia di Gheddafi ce lo portò via. Era uno studente di ingegneria, un sognatore, uno che non sopportava la tirannia. Forse ora potremo finalmente piangere su una tomba».
Khaled Sherif, portavoce del Consiglio militare, non ha dubbi: «Siamo di fronte alle inconfutabili prove dei crimini dal regime di Gheddafi». Un comitato tecnico avrà il difficile compito di identificare i corpi, sui quali sarebbe stato versato dell´acido per impedirne l´identificazione. Salim al-Farjani, esponente del Cnt lancia un appello alla comunità internazionale «perché ci aiuti nella difficile impresa di dare un nome ai resti di più di 1.700 persone». Diverse organizzazioni in difesa dei diritti dell´uomo avevano già denunciato l´assassinio, nel 1996, di diverse centinaia di prigionieri nel famigerato penitenziario di Abu Salim. Il massacro, avvenuto probabilmente per reprimere una sommossa, è stato indirettamente all´origine della rivolta di febbraio, cominciata nell´est della Libia, trasformatasi poi via via in un conflitto contro il raìs e il suo quarantennale strapotere. Le prime manifestazioni a Bengasi si erano infatti verificate per protestare contro l´arresto del legale dei familiari dei detenuti uccisi.



Renato Caprile



Nel deserto con il cacciatore di Gheddafi "Lo catturerò"


TRIPOLI. L´ultimo suo "avvistamento" risale a pochi giorni fa. Quando Gheddafi era sicuramente nella zona di Gath, perso da qualche parte in quello splendido scenario di sabbia e di rocce, regno incontrastato dei Tuareg, a centinaia di chilometri a sud ovest di Tripoli, non lontano dal confine col Niger e l´Algeria. A un passo cioè dalla salvezza. Ecco perché scuote la testa infastidito Abdul Aziz Abu Hajar, il Cacciatore, il capo della task force che da mesi sta inutilmente braccando l´ex tiranno. Non è un tipo facile a concedersi alla stampa, Abu Hajar. E non certo per spocchia. Un po´ per pudore, visto il difficile compito, molto perché la sua giornata è pienissima e i suoi dieci tra telefonini e satellitari non smettono mai di squillare. Comanda otto squadre dislocate sul terreno. Piccoli team di venticinque al massimo cinquanta unità, metà uomini dell´intelligence, metà soldati. Perché non c´è solo da localizzare il "rifugio" del ricercato numero uno, ma all´occorrenza saper mettere mano alle armi.
Un piccolo, selezionatissimo esercito, quindi, si sta muovendo tra mille difficoltà sul più ostile dei terreni, il deserto, con un unico grande obiettivo: liberare il paese dall´ingombrante fantasma del dittatore che lo ha tenuto stretto in un pugno di ferro per oltre quarant´anni.
In un´ala del vecchio municipio in stile fascista al centro di Tripoli c´è la centrale operativa da cui Abu Hajar coordina il lavoro dei suoi. Sui quaranta, atletico, inglese perfetto, Abu Hajar non è né un militare né un politico di carriera. Non veste mimetiche, non impugna pistoloni, non si perde in chiacchiere inutili, ha piuttosto l´aria del manager efficiente. Non a caso è il rampollo di una ricca, potente famiglia di commercianti. Buone scuole, viaggi all´estero, ottime relazioni qua e là per il mondo.
Ma alla fine riuscirete a prenderlo? La domanda che tutti gli rivolgono e alla quale lui non si sottrae, anche se ha un attimo di perplessità prima di rispondere uno scontatissimo: «Certo che sì». Una pausa però che la dice lunga su quanto sia arduo mettere la parola fine all´ultimo più importante capitolo di questa guerra di liberazione. Le ragioni per cui Muammar Gheddafi non può sfuggire, per Abu Hajar sono essenzialmente tre. «La prima: fino a quando Lui sarà ancora in circolazione costituirà una minaccia. Reale, ha troppi soldi, e psicologica, la gente ha ancora tanta paura di lui. La seconda: perché non potremo dire di aver veramente vinto, di dare vita a una nuova Libia se non ci saremo definitivamente sbarazzati di Lui. La terza ragione, non meno importante delle altre attiene a una mera questione di giustizia. Deve pagare, visti i gravissimi crimini contro il suo popolo di cui si è macchiato».
Intelligence e tecnologia, le armi a disposizione di Abu Hajar. La Nato gli sta dando una grossa mano nel tentativo di individuare dove si nasconda l´ex raìs. Ma anche la supertecnologia dell´Alleanza atlantica nulla può contro il Ghibli, il vento del deserto che soffia in quelle zone e alza altissime colonne di sabbia che accecano i suoi occhi elettronici. Nemmeno i tanti farneticanti audio messaggi del Colonnello sono serviti a localizzarlo. Registrazioni, fatte chissà dove, e quindi inutilizzabili per stanarlo. «Certo - riconosce con onestà intellettuale Abu Hajar - che la sua ultima partita il raìs la sta giocando benissimo. Si è rintanato in un´area in cui la natura e le distanze sembrano essere decisamente dalla sua parte, ma non è ancora finita».
Con lui non ci dovrebbe essere nessuno dei figli, solo la guardia pretoriana. Non più di trecento uomini, secondo il Cacciatore. Più i Tuareg, senza i quali in quel nulla non si va da nessuna parte. Perché gli "uomini blu" lo stiano spalleggiando, Abu Hajar lo spiega così: «Potrebbero non essere del tutto informati del reale stato delle cose, senza contare la quotidiana guerra di disinformazione dei lealisti che contribuisce a ingarbugliare ancora di più una situazione già ingarbugliata». Ma sono proprio i Tuareg la "speranza" segreta, l´asso nella manica di Abu Hajar e di gran parte del paese. Il Cacciatore non lo dice, ma lascia chiaramente intendere che Gheddafi rischia di diventare un ostaggio, un preziosissimo ostaggio nelle mani dei padroni del deserto. L´intelligence del nuovo corso sta sotterraneamente lavorando in questa direzione. Ma Lui, come lo definisce il Cacciatore che non pronuncia mai il suo nome, non solo è furbo come e più di una volpe, ma può contare su montagne di danaro. Alle brutte quando fiuterà il vento cattivo, tenterà di oltrepassare quel confine che non è poi così lontano che lo separa dalla "vittoria". Partita ancora apertissima, dunque anche se Abu Hajar continua a ripetere forse più per convincere se stesso che non l´interlocutore: «Lo prenderemo, dobbiamo prenderlo, altrimenti tutto questo sangue versato sarà stato inutile».



Renato Caprile

26/09/2011 ARABIA SAUDITA


Arabia Saudita, voto alle donne la svolta democratica della monarchia del petrolio

BEIRUT - Dopo una riflessione durata anni, re Abdullah bin Abd el Aziz al Saud ha annunciato che le donne saudite potranno finalmente votare e candidarsi alle elezioni amministrative, le uniche permesse In Arabia Saudita. Rappresentati femminili avranno anche accesso al Consiglio della Shura, una sorta di Camera con potere esclusivamente consultivo, composta da 150 membri di nomina reale. L´annuncio di re Abdullah ha fatto subito gridare alla "svolta" nella ultra conservatrice monarchia petrolifera. Essa, tuttavia, rappresenta soltanto una goccia nell´oceano che separa le donne saudite dalla condizione di parità.
L´occasione scelta da re Abdallah, un sovrano al quale viene attribuita una cauta propensione alle riforme, non poteva essere più solenne: l´apertura della nuova legislatura, se così si può dire, della Shura, inaugurata con un discorso di cui è stata diffusa soltanto la sintesi riguardante il voto alle donne. «Dal momento - ha detto il sovrano - che noi ci rifiutiamo di emarginare le donne in tutti quei ruoli conformi con la Sharia (la legge islamica, ndr), abbiamo deciso, dopo deliberazioni con i nostri anziani ulema (gli esponenti religiosi che fanno parte dell´omonimo potente consiglio, ndr) e con altri, di coinvolgere le donne nella Shura come membri, a partire dalla prossima sessione. Le donne potranno concorrere come candidate alle elezioni municipali e avranno persino il diritto di voto». Ma anche qui, a partire dalla tornata elettorale che dovrebbe aver luogo fra quattro anni, perché per le prossime elezioni, in programma il 29 settembre, tra tre giorni, è troppo tardi per avanzare candidature, o modificare le liste elettorali.
In un sistema dove i partiti sono vietati, come tutte le manifestazioni del libero pensiero e dove l´unica vera istituzione su cui si fonda lo stato è la famiglia reale, anche le elezioni amministrative rappresentano un´operazione largamente di facciata. Basta dire che il corpo elettorale elegge soltanto il 50 per cento dei consiglieri, l´altro 50 per cento essendo nominato dalla Corona. Non è un caso, poi, che alla scadenza del primo mandato, nel 2009, le elezioni comunali sono state tranquillamente rinviate di due anni.
E tuttavia per chi è costretto a vivere in una condizione di inferiorità e di sostanziale sottomissione, come di fatto sono le donne saudite, quel primo passo verso il riconoscimento dei diritti di cittadinanza è già qualcosa. Tant´è che, in previsione della scadenza del 29 settembre, alcune donne hanno voluto proporsi come candidate, ma solo per essere rifiutate. Ad aprile, una di queste, Samar Badawii, ha presentato un esposto al ministro per gli enti locali contro il bando alle donne. Contemporaneamente a Gedda, città considerata molto più tollerante di Riad, un gruppo di donne ha persino osato presentarsi al comitato elettorale per reclamare l´iscrizione nelle liste. Ma anche qui sono state respinte con perdite.
I consiglieri di re Abdullah devono aver tenuto presente tutto questo prima di annunciare la "svolta". Soprattutto avranno considerato il rischio che si ripeta quello che è successo la scorsa primavera, dopo la protesta delle donne contro il divieto di guidare la macchina e la pessima pubblicità che ne è venuta per l´austero regno del petrolio. Un regno dove le donne non possono esercitare alcun diritto se non assistite da un "tutore" o "guardiano". Non possono guidare, non possono viaggiare, non possono studiare materie non consentite, non possono lavorare se non come insegnanti (di classi femminili), o infermiere o medici (di reparti femminili). Non possono ereditare. Non possono scegliersi il marito. Non possono persino farsi sottoporre a determinate operazioni. Ma fra quattro anni, forse, voteranno.



Alberto Stabile


Una battaglia vinta in Rete ecco la "Primavera di Riad"

IL VENTO della primavera araba soffia anche sul Golfo e la monarchia saudita corre ai ripari prima che le sue folate si facciano impetuose.
L´annuncio, fatto dal re Abdullah, che le donne avranno diritto di voto e potranno candidarsi ed entreranno nel consiglio della Shura, è sicuramente una novità di rilievo. Anche se, per sopire le riserve dell´ala più conservatrice del regime, questi passi vengono diluiti nel tempo. Così le donne non potranno godere dell´elettorato attivo e passivo nella tornata delle municipali, uniche elezioni previste nel regno, del 29 settembre ma dovranno aspettare quattro anni. Anche la partecipazione alla Shura, organo che risponde al principio coranico della consultazione del leader con i suoi più stretti collaboratori e con le diverse "sensibilità" della comunità, riguarderà la prossima sessione. Il Consiglio, formato da 150 membri cooptati, è una sorta di antenna e, allo stesso tempo, una camera di compensazione, che la monarchia usa come recettore e mediatore delle diverse istanze che si muovono nella società.
La decisione di Abdullah è il frutto della battaglia modernizzante delle donne più giovani e istruite della vastissima famiglia reale e di quelle dei ceti che vi ruotano attorno. Donne che appartengono a pieno titolo alla nuova élite mondiale globalizzata, abituate a viaggiare e che spesso hanno completato la loro formazione, all´estero. Donne che discutono in Rete. Se esse non avessero posto il problema, nulla si sarebbe mosso. Nello Stato-rentier saudita, che ha storicamente rovesciato il principio liberale «niente tassazione senza rappresentanza» nel suo opposto patrimonialista «niente rappresentanza senza tassazione» - grazie ai proventi della rendita petrolifera i sauditi non pagano di fatto imposte - l´estensione del voto femminile tende a prevenire e svuotare le contestazioni che potrebbero arrivare da quei settori, pur minoritari, che chiedono maggiore democrazia e potrebbero godere della "non ostilità" degli Stati Uniti.
Quella battaglia non avrebbe avuto successo senza i profondi sconvolgimenti che stanno scuotendo la Mezzaluna. Concedere più spazio alle donne, anche se molti nella Shura avevano sconsigliato il loro diritto a candidarsi, è ritenuto il male minore di fronte alla prospettiva del "contagio" esterno. Giudizio condiviso anche in quei settori della famiglia reale e degli ulama meno favorevoli all´apertura. Essi sanno che nel mondo islamico il Dio del Politico è maschio. E l´ascesa al cielo delle donne è ritenuta controllabile. Molto di più di quanto sarebbe avvenuto se il regime avesse concesso loro maggiori diritti sul terreno dei diritti civili. Come ricordano le mobilitazioni, apparentemente impolitiche, che le donne hanno fatto per poter guidare o quelle, ancora sotto traccia, per spostarsi senza essere accompagnate, o prendere una decisione, senza coinvolgere un familiare maschio che funge da "tutore".
Riconoscere questi diritti avrebbe voluto dire lasciare spazio all´autonomia e alla libertà femminile. Un passo che sia il regime, sia il corpo sociale maschile, rigidi fautori del controllo del corpo femminile, non vogliono compiere. Paradossalmente ma non troppo, la concessione di maggiori libertà politiche senza allargare prima quelle civili, consente di accantonare questioni dirompenti, destinate a sollevare il veto degli ulama, veri garanti della legittimazione religiosa dei Saud. Una scommessa comunque, quella del Regno: la soggettività femminile si sta rivelando ovunque una variabile di non facile controllo. Pur tra mille resistenze, potrebbe farsi strada anche nei, sin qui, impenetrabili labirinti maschili del potere saudita.



Renzo Guolo















sabato 24 settembre 2011

PALESTINA, IL VOTO DELL'ASSEMBLEA DELL'ONU


Il giorno più lungo della Palestina Ma l' America ci ha tradito

HEBRON - Se ne sta chino sulla macchina da cucire a pedali Nabil, il fabbricante di bandiere più famoso di tutta la città. Messe da parte quelle del "Barcelona F.C." e del "Real Madrid" che si vendono come niente nella Città vecchia di Gerusalemme, da giorni sotto i suoi sfilano chilometri di stoffa bianca, rossa, verde e nera: i colori della bandiera palestinese. Migliaia e migliaia sono uscite da questo laboratorio che di colpo si è affollato di parenti vicini e lontani di Nabil, venuti a cucire per far fronte alle richieste di queste settimane. «Il mio sogno è di confezionare quella destinata a sventolare davanti al Palazzo di Vetro dell' Onu, la mia vita sarebbe appagata, uno Stato e la nostra bandiera che sventola con tutte quelle altre a New York». Il sogno di Nabil però per il momento è destinato a aspettare, si infrange sul muro di gomma alzato dal presidente americano Barack Obama sulla richiesta di riconoscimento all' Onu che Abu Mazen a nome della Palestina intende chiedere. Fra i due ieri notte a New York c' è stato un nuovo incontro - il capo della Casa Bianca ha visto anche il premier israeliano Netanyahu - che però non ha mutato la sostanza: l' America metterà il veto al Consiglio di Sicurezza perché rifiuta "la scorciatoia" - così il presidente ha definito la richiesta palestinese - delle Nazioni Unite. Abu Mazen non intende cedere alle pressioni e alle velate minacce americane e porterà il caso all' Assemblea generale dell' Onu, dove oggi pronuncerà il discorso più importante della sua vita da quando è succeduto a Yasser Arafat nel gennaio 2005 per chiedere un seggio per la Palestina. C' è più rabbia che sorpresa nelle strade di Hebron - sulfurea città dove Hamas alle ultime elezioni ha fatto il pieno ma che ora è sotto il controllo militare dell' Anp - per il «tradimento» di Obama. I palestinesi se l' aspettavano. «Quando è arrivato alla Casa Bianca le sue idee e le sue aspirazioni ci hanno dato speranza. Quel che ha detto all' Onu dimostra che non è differente dai suoi predecessori», incalza Mohammad Zidane delegato della federazione sindacale mobilitata a sostegno del discorso che Abu Mazen terrà a New York. Manifestazioni pacifiche sono previste in tuttii centri della Cisgiordania, con discorsi nelle piazze, canti, balli tradizionali. «Deve essere un giorno di festa e facciamolo restare tale», ha ordinato il presidente palestinese prima di partire ai capi della sicurezza. Ma la tensione è palpabile, l' incendio potrebbe essere improvviso. L' ultimo sondaggio dice che Abu Mazen nonè mai stato così popolare da quando è presidente, oltre l' 83% dei palestinesi sostiene il ricorso all' Onu. Ed è piaciuta alla gente anche quella sua fermezza davanti alle pressioni di Usa e Europa, non sempre benevole. Ma è un appoggio intriso di cautela e scetticismo e passare con facilità dalla disillusione alla rabbia. «E' la prima cosa positiva in vent' anni e forse è l' ultima chance per una soluzione pacifica per i due Stati», dice Abdul Rahman, direttore di una Ong palestinese, il futuro della Palestina nonè così roseo visto da Hebron. Qui, dove vivono 165 mila palestinesi, ci sono 3000 soldati israeliani che proteggono 300 coloni asserragliati a ridosso del mercato nel centro della città. E' un continuo di intemperanze, provocazioni, sassaiole e scontri sfociati spesso nel sangue. Chi spera di ballare sulle ceneri della richiesta palestinese all' Onu sono gli uomini di Hamas, che hanno sempre visto con scetticismo l' iniziativa pronti a sfruttare una possibile débacle di Abu Mazen a loro favore. «E' stato sbagliato in partenza andare all' Onu», dice al telefono da "Gazastan" Sami Abu Zuhri, portavoce del movimento che controlla la Striscia dal 2007. «Il discorso di Obama riflette la tendenza americana a favore di Israele e dell' occupazione militare, dimostra che gli arabi e i palestinesi hanno sbagliato a continuare a puntare sugli americani». 


Fabio Scuto



Abu Mazen: "Riconoscete la Palestina"

NEW YORK - L´uomo in grigio che rinunciò alla kefia sbandiera la domanda di ammissione all´umanità: «Eccellenze, ladies and gentlemen, ho il piacere di informarvi che prima di pronunciare questa dichiarazione ho presentato domanda per l´ammissione della Palestina alle Nazioni Unite». L´assemblea generale dell´Onu esplode in un boato da stadio come se Mahmoud Abbas, il presidente palestinese che non ha nulla del carisma di Yasser Arafat, fosse il leader dei leader. Ma davvero ha ragione Barack Obama: fosse così semplice arrivare all´indipendenza, ha detto da questo stesso podio, l´avremmo fatto da tempo.
Vedremo. La sfida è lanciata e adesso tocca al Consiglio di Sicurezza non fare precipitare tutto nel caos. La standing ovation che chiude il discorso è la conferma che tutti sanno: la maggioranza dei 193 Stati è pronta ad accettare la 194esima nazione. Ma finora l´unica pace che la richiesta è riuscita a suggellare è quella tra Israele e l´amico americano.
«Non credo ci sia nessun con un briciolo di coscienza» dice il palestinese «che possa rifiutare la nostra richiesta». Invece c´è. Gli Stati Uniti, che hanno promesso il veto, sarebbero riusciti a neutralizzare la mossa coalizzando al Consiglio una maggioranza di blocco di 9 voti: l´ultimo paese deciso ad astenersi sarebbe la Bosnia Erzegovina. Ma la speranza è di riallacciare i colloqui prima di un voto che comunque non ci sarà prima di settimane o mesi. Come? «Nell´anno della primavera Araba è venuto il momento della Primavera Palestinese» grida Abbas scatenando la platea. E proprio la lezione della primavera e il metodo-Libia potrebbero guidare le mosse del Quartetto - Onu, Usa, Ue e Russia. Con i francesi in un ruolo più attivo - Nicolas Sarkozy ha già stilato proprio qui una road map - e l´America ormai troppo ingombrante in posizione appunto più defilata. La proposta: palestinesi e israeliani si rivedano entro un mese impegnandosi a raggiungere un accordo in un anno. «Approfittatene» si appella ai duellanti di rimbalzo la Clinton. «E´ l´unica strada». Basterà?
«Dividiamo la stessa patria, dividiamo la stessa terra» dice il premier israeliano Bibi Netanyahu dallo stesso podio mezz´ora dopo: «Siamo qui sotto lo stesso tetto, incontriamoci ora per discutere». La claque degli israeliani strategicamente piazzati nel loggione del Palazzo di Vetro si scatena. Ma lo sa lo stesso Bibi che sono parole. E´ lui che ha bloccato il dialogo evitando di fermare quegli insediamenti «che sono il nucleo» accusa Abu Mazen «della politica di occupazione coloniale e della brutalità dell´aggressione e della discriminazione razziale contro il nostro popolo». Di più: l´occupazione è «una violazione della legge internazionali e delle risoluzioni dell´Onu». E diventando stato, si sa, la Palestina potrebbe chiederne conto: trascinando Israele davanti alla Corte di giustizia.
Netanyahu contrattacca: «Non sono venuto qui per raccogliere gli applausi ma raccontare la verità». Difficile d´altronde pretendere applausi prendendosi gioco dell´assemblea. Senza offesa per nessuno, dice, ma quando per la prima volta arrivai qui un rabbino mi disse che mi andavo a infilare «nella casa delle bugie». Sfodera tutta la sua grinta: contro di noi da qui sono partite più risoluzioni che contro tutti gli altri paesi insieme. E sentenzia: qui è «un teatro dell´assurdo».
Un teatro che si infiamma però alle parole di Abu Mazen: «E´ venuto il tempo per i nostri uomini, le nostre donne e i nostri bambini di vivere vite normali. Di andare a letto senza aspettare il peggio che il giorno dopo porterà. E´ venuto il tempo per le nostre mamme di essere sicure che i bambini possano tornare a casa senza paura di essere uccisi, arrestati, umiliati». E che dialogo aprire con Netanyahu che gli risponde ironico che da quando Israele ha alleggerito i checkpoint, in fondo, la Palestina «ha potuto godere della crescita dell´economia»? Sì, bibi continua a dire che è venuto fin lì «per tendere ancora la mano». Ma è sempre Abbas a eccitare l´assemblea ricordando proprio Arafat che nella stessa aula invitò «a non lasciare cadere il ramo di ulivo dalla mia mano». Non ricorda, il premier dal nome di battaglia di Abu Mazen, che nell´altra mano, in aula, Yasser stringeva anche la pistola del guerrigliero. E Netanyahu lo sfida ancora: Abbas dice che i palestinesi sono armati solo di «sogni e speranze»? «Sì: sogni, speranze e 10mila missili forniti dall´Iran».
Abbas si indigna: «Il mio popolo aspetta di sentire la risposta del mondo: permetterà a Israele di continuare 

l´unica occupazione della terra?». Lunedì il consiglio comincia a discutere: la risposta arriverà. Col tempo.


Angelo Aquaro, Vincenzo Nigro



Lacrime, canti e bandiere nelle piazze di Ramallah "Siamo entrati nella storia"

RAMALLAH - Il passaggio storico per il Medio Oriente con il discorso di Abu Mazen dal podio dell´Onu sembra nelle piazze di Ramallah quasi una finale del mondiale di calcio, con la Palestina in vantaggio sull´avversario. Nella Al Manara Square decine di migliaia di occhi sono puntati sui maxi-schermi, bandiere, t-shirt con la scritta "Palestine 194", bambini con i colori nazionali palestinesi dipinti sul volto, canti, balli, qualcuno che distribuisce dolcetti, ci sono i banchetti con i succhi di frutta. Bar e caffè sono pieni qui, così come tutte le piazze delle principali città della Cisgiordania dove sono stati montati i maxi-schermi, a Nablus, Jenin, Hebron. Una festa, la festa della Palestina. Solo a Gaza ognuno ha seguito il discorso di Abu Mazen da casa perché Hamas ha vietato ogni manifestazione.
Le parole del presidente, certamente meno retoriche e teatrali di quelle con cui Arafat nel 1974 si rivolse al mondo dallo stesso podio («Vengo qui con un fucile e un ramo d´olivo: non lasciate che il ramoscello cada dalla mia mano»), hanno suscitato applausi, commosso la gente. Abu Mazen ha saputo toccare davvero - forse per la prima volta - il cuore della sua gente. Quella sua fermezza, nonostante le pressioni di Usa e Europa, ha fatto breccia nell´uomo della strada. Fermezza ribadita poco prima di salire sul podio quando ha voluto personalmente consegnare al segretario generale Ban Ki-Moon una cartellina bianca con al centro l´aquila palestinese contenente la richiesta di adesione «a pieno titolo» della Palestina all´Onu. Applausi scroscianti dalla folla quando Abu Mazen ha denunciato l´occupazione, «l´attività criminale» e «la pulizia etnica» a cui sono sottoposti i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, le violenze dei coloni. Ma questo, dice Abu Mazen, non ha mutato la nostra posizione: siamo con la mano tesa verso Israele per una pace giusta e durevole. E quando al termine il presidente mostra la richiesta di adesione all´Onu sale un boato dalla folla, e poi quando ha detto visibilmente commosso che i «palestinesi non possono mancare l´appuntamento con la storia, con l´indipendenza, con la libertà» è venuto giù il cielo: urla, lacrime, applausi. Poi un solo slogan urlato da migliaia di voci: «Palestine, Palestine».
Una festa macchiata solo da qualche incidente sporadico, visto anche il forte dispositivo di sicurezza messo in campo sia dall´Anp che da Israele, con migliaia di uomini mobilitati. Un palestinese è morto negli scontri con coloni israeliani in un villaggio a sud di Nablus, in Cisgiordania. L´uomo è stato centrato da un proiettile di gomma sparato dai soldati israeliani intervenuti per sedare le violenze. Tutto era cominciato nel pomeriggio quando una cinquantina di coloni, provenienti dal vicino settlement di Esh Kodesh, aveva attaccato il villaggio di Qusra, spaccando le finestre delle case con pietre e bastoni. I residenti hanno risposto con lancio di sassi, innescando gli scontri. Sulla scena sono intervenuti i soldati israeliani che hanno utilizzato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per dividere le due parti. La tensione nella città è altissima, nei giorni scorsi due moschee nella zona sono state bruciate e migliaia di alberi d´ulivo sono stati abbattuti; diversi coloni sono stati fermati dopo questi episodi. Qualche scaramuccia è avvenuta in altre località, a Bilin, a Naalin e Har Gilo, tutti insediamenti colonici della Cisgiordania.



Fabio Scuto


La moltiplicazione dei rischi
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu merita comprensione quando oppone un rifiuto categorico alla nascita, chiesta ieri all'Onu da Abu Mazen, di uno Stato palestinese. Cosa vede attorno a sé, oggi, il governo di Gerusalemme?
Vede l'incerto procedere delle «primavere arabe» in Tunisia e soprattutto in Egitto, dove salgono le quotazioni dei Fratelli musulmani e alcuni cominciano a dire, dopo l'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo, che «il trattato di pace firmato da Sadat non è sacro». Vede che la guerra in Libia non è finita, e teme il futuro ruolo degli islamisti a Tripoli. Vede che i programmi atomici dell'Iran sono stati rallentati ma non fermati.
Vede che l'Iraq va verso l'ignoto dopo il ritiro, a fine anno, delle forze Usa. Vede che la nuova potenza regionale, la Turchia, tende a volgersi contro Israele. Vede fuoco e fiamme nello Yemen, una Arabia Saudita fragile, e soprattutto una Siria lacerata che può dar fuoco anche al confinante Libano. Se oggi non si opponesse a uno Stato palestinese nato autonomamente all'Onu, senza accordo con Gerusalemme e dunque capace di esaltare la voglia di rivincita tanto diffusa tra gli arabi, Netanyahu verrebbe meno al suo primo dovere che è quello di difendere la sicurezza di Israele. E di prevenire, come ha detto ieri, «una nuova Gaza».
Ma per quanto la sicurezza di Israele stia a cuore anche a noi, figli di una memoria che non vogliamo e non possiamo eludere, oggi Benjamin Netanyahu non ha soltanto ragione. Perché il premier ha anche accumulato, da quando guida il governo più a destra della storia di Israele, torti che in futuro rischiano di pesare proprio su quella sicurezza che vorremmo veder efficacemente tutelata.
Tener duro sui temi tradizionali del contenzioso (i confini di uno Stato palestinese già accettato in linea di principio, il diritto al ritorno dei rifugiati e lo status di Gerusalemme) poteva essere da parte di Netanyahu una buona tattica per andare al confronto. Si poteva sperare che proprio lui, uomo di destra, riuscisse a concludere quell'accordo che nessun laburista israeliano potrebbe sottoscrivere senza farsi travolgere dalle accuse di cedimento. Invece Netanyahu, anche a causa della composizione del suo governo, falco lo è stato davvero. E a forza di autorizzare nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (con un solo periodo di sospensione strappato da Obama), ha finito per indebolire Abu Mazen e per rendere impossibile quel negoziato che non a caso ora i palestinesi sarebbero disposti a rilanciare soltanto se fosse fermata la costruzione delle colonie.
Certo, non è stato Netanyahu a determinare gli sconvolgimenti e i timori di oggi, da Tripoli a Damasco. Ma è stato Netanyahu, ieri, a scegliere l'immobilismo, a chiudersi nella politica del bunker, e a perdere così l'occasione, che oggi ci sarebbe forse stata, di far partecipare Israele alle nuove dinamiche che scuotono Mediterraneo e Medio Oriente. Nelle parole del politologo americano Joseph Nye, Israele per la sua sicurezza ha bisogno di dimostrare che possiede anche un soft power . Ipotesi questa che Netanyahu non sembra aver preso in considerazione, restringendo le sue opzioni anche se adesso offre al leader palestinese di «incontrarci subito, qui, all'Onu».
Poi c'è il tormentato Obama. Il presidente spera di non dover usare il veto quando il Consiglio di sicurezza voterà (e non sarà subito), dal momento che basterebbero nove voti contrari a bloccare la richiesta di Abu Mazen. Ma se dovrà usarlo, lo farà. Perché nelle ore gravi l'America è sempre con Israele. Perché è cominciata, ormai, la campagna elettorale. Ma anche con tutta l'amarezza di un presidente costretto a contraddirsi, lui che aveva puntato moltissimo su nuovi rapporti con il mondo musulmano e sulla nascita concordata di uno Stato palestinese.
E c'è il rantolo europeo, con una Unione divisa che vorrebbe votare insieme ma non sa come farlo (non sarebbe il caso di considerare l'unità un valore supremo, e astenersi?), con Sarkozy che propone un «suo» piano poi ripreso nella sostanza dal Quartetto, con l'Italia e la Germania che sono i più vicini al no.
A conti fatti, dall'esercizio del Palazzo di Vetro vengono rischi per tutti. Per Netanyahu, che vince nell'immediato ma rischia l'isolamento. Per Abu Mazen, che potrà cercare parziale soddisfazione elevando il rango palestinese in Assemblea generale ma, davanti alla mancanza di cambiamenti concreti, è esposto al boomerang della delusione del suo stesso popolo. Per Obama, che si sparerà sui piedi nel Mondo arabo se dovrà usare il veto. Per l'Europa, che paga molto (in denaro) e si avvia a contare ancor meno di prima se manterrà le sue divisioni. Per le «primavere arabe» in odore di elezioni, dove il no del Consiglio di sicurezza potrebbe favorire estremisti e Fratelli musulmani. E, quel che più conta, per israeliani e palestinesi, con un eventuale nuovo negoziato che nascerebbe fragile e con un accordo di pace ancora lontanissimo. Oltre l'orizzonte, verrebbe da dire, a meno che Obama ottenga un secondo mandato e ricordi le contorsioni di questi giorni.



Franco Venturini









giovedì 22 settembre 2011

VERSO LA PALESTINA!


Il no di Obama al Palazzo di vetro

NEW YORK - Quando Abu Mazen scuote la testa mentre Barack Obama dice che «la pace non arriverà attraverso dichiarazioni e risoluzioni dell´Onu», le 193 poltrone su cui sbadigliano i rappresentanti dei 193 Stati del mondo tremano all´unisono come in un terremoto. Perché tutti smettono di guardare il presidente degli Stati Uniti in carne e ossa, che per la prima volta in tre anni l´assemblea non ha mai interrotto con un applauso, per alzare il naso verso i due megaschermi che campeggiano sopra il podio. Come nel più smaliziato dei talk show, il regista della tv interna dell´Onu mostra tutta la delusione dell´aspirante 194esimo capo di Stato. Ma in fondo va tutto come programma. Ed è solo un attimo: ora Obama è già tornato a parlare di economie emergenti, ambiente, povertà, Aids e cambiamento climatico, elencando i mille propositi di cui - come le letterine di Natale - tutti gli annuali discorsi delle Assemblee generali sono nutrite.
Benvenuti all´Onu, benvenuti nel palazzo inutilmente di vetro perché tanto quello che conta non avviene mai qui dentro. Domani sarà il giorno più atteso, domani il presidente dell´autorità palestinese presenterà ufficialmente la richiesta di riconoscimento. Ma sotto sotto avrà già deciso - naturalmente fuori da qui, naturalmente anche dopo il colloquio con lo stesso Obama che ieri l´ha visto al Waldorf Astoria, la casa dei presidenti a New York - di non andare allo scontro diretto: acconsentendo a rimandare a data da destinarsi il voto al Consiglio di sicurezza. La sediolina blu che un membro della delegazione mostra fuori dal palazzone sulla First Avenue, incastonata in un box ovviamente di vetro, per ora resta un amuleto. «Obama svegliati» urlano le poche centinaia di persone autoasseragliate sulla 47esima strada, sotto il palazzone, sventolando bandiere bianche e blu: inneggiano cartelli contrari alla dichiarazione di Durban, per loro lo stato palestinese è una bestemmia, come urlano sotto i cappelloni anche gli ortodossi tutti di nero vestiti qualche metro più in là, farneticando di una unione di «ebrei uniti contro il sionismo».
Ma Barack s´è svegliato eccome. Malgrado quello che dice Rick Perry, il suo sfidante repubblicano, che l´accusa di essere stato «naif, arrogante, mal consigliato e dannoso» nella gestione dei rapporti con Israele, il premier Benjamin Netanyahu è così sicuro dell´amico americano da non presentarsi neppure in Assemblea. Lo aspetta alla fine dei suoi 47 minuti di discorso qualche corridoio più in là, in uno stanzone per la verità molto poco accogliente, dove i due leader si fanno fotografare sorridenti sotto le rispettive bandiere. L´uomo che ha mandato a quel paese le trattative che il presidente Usa lanciò proprio il 22 settembre di due anni fa, rifiutandosi di congelare gli insediamenti nei territori e a Gerusalemme, adesso riconosce a Barack che «tenere la posizione di principio è stato un distintivo d´onore». Di più: «La ringrazio per aver indossato questo distintivo d´onore: spero che altri seguano il suo esempio».
Beh, adesso spera troppo. Nicolas Sarkozy, che è appena salito sul podio, infischiandosene dell´appello di Obama - «Non ci sono scorciatoie per la pace» - sta dicendo il contrario, avanzando la sua proposta di "compromesso": «Smettiamola con i dibattiti senza fine» dice come se fosse ancora il presidente della Francia della grandeur «cominciamo le trattative e adottiamo una tabella di marcia». L´obiettivo è il riconoscimento della Palestina come «Stato osservatore»: una risoluzione che l´Assemblea potrebbe fare propria perché i numeri ci sono, una soluzione che per la verità Abu Mazen ha tenuto di riserva nel caso al Consiglio di sicurezza - dove gli Usa metterebbero il veto - le cose si facessero impossibili. Sarkozy parla per l´Europa e illustra anche la road map: negoziato in un mese, accordo sulle frontiere in sei, intesa in un anno. Vuol dire che Europa e America giocano su campi diversi: le nazioni unite sono già disunite.
Del resto è lo stesso New York Times a segnalare la difficoltà di Obama a giustificare la sua «incongruità»: il presidente ci prova e sfodera tutta l´abilità oratoria. «Un anno fa io stesso da questo podio reclamai l´indipendenza della Palestina. Ma la pace è un lavoro faticoso. Se fosse così facile raggiungerla con una dichiarazione, l´avremmo fatto da un pezzo». Obama rivende la sua credibilità: «Pensateci: un anno fa, quando ci vedemmo proprio qui a New York, le prospettive di un successo del referendum nel Sud del Sudan erano in dubbio». Comincia da lì ed è tutto «un anno fa» non ci avrebbe creduto nessuno: dalla Tunisia «che ha innescato un movimento» all´Egitto e la Libia. «E´ stato un anno eccezionale» dice. «Il regime di Gheddafi è finito. Gbagbo, Ben Ali, Mubarak non sono più al potere. Osama Bin Laden non c´è più, e l´idea che il cambiamento sarebbe potuto avvenire soltanto con la violenza è stata seppellita con lui». Ma la pace, insiste, «non è la mancanza di guerra. La pace è difficile. Si costruisce con un cammino di negoziati».
Parla della sicurezza di Israele, ricorda «il dato di fatto del massacro di sei milioni di ebrei»: e il delegato dell´Iran - Mohammed Ahmadinejad parlerà oggi - si alza e se ne va, offeso dalla verità. Fa il possibile, Obama: e non scatta neppure un applauso. Perché questa è la stessa assemblea che mezz´ora prima ha interrotto invece con gli applausi la brasiliana Dilma Rousseff: «Solo un pieno riconoscimento della Palestina può rappresentare una garanzia di sicurezza per Israele». Ma che importa? Il giorno più lungo è passato, l´amico israeliano rassicurato - con l´occhio lungo, ci mancherebbe, sul voto jewish che per la rielezione è vitale. E lo scontro finale, si spera, rimandato. Nell´atrio del Palazzo di vetro, quello dove sfilano tutte le delegazioni, campeggia il titolo della bella e toccante mostra fotografica di Greg Constantine. E´ dedicata alle 43 milioni di persone che sulla terra non hanno terra. Il titolo? Sembra quasi una beffa: «I senza Stato di tutto il mondo».



Angelo Aquaro, La Repubblica, 22 Settembre 2011



Abu Mazen: "L´Italia ci aiuterà in questa battaglia senza armi"

NEW YORK - «Noi chiederemo che la Palestina diventi un membro a pieno titolo delle Nazioni Unite, vogliamo uno Stato vero, non un giocattolo. Certo, ci vorrà ancora tempo: ma ce la faremo, e siamo sicuri che anche l´Italia ci appoggerà in questa battaglia che combattiamo con la politica e non con le armi». Poche parole al giornalista italiano, perché dopo Barack Obama il presidente palestinese Abu Mazen è l´uomo più scortato di New York all´assemblea Onu. Alle 9 del mattino scende dalla torre dell´hotel Millennium per iniziare una giornata di incontri e negoziati, una giornata che aggiunge altri pezzi a un disegno politico che per l´ennesima volta, in Medio Oriente, sembra sfuggire al controllo degli architetti americani.
Lo Stato di Palestina si avvicina, Abu Mazen domani consegnerà nelle mani del segretario generale Ban Ki Moon la richiesta di adesione all´Onu. «Ma sappiamo che non possiamo ottenere tutto e subito», dice Nabil Shaat, il capo dei negoziatori dell´Anp, «e allora prima di chiedere il voto dell´Assemblea generale aspetteremo che il Consiglio di sicurezza faccia le sue valutazioni».
Il piano che emerge in queste ore ha un chiaro marchio francese: è, in sostanza, quello che proprio i francesi avevano proposto all´inizio dell´estate, quando il ministro degli Esteri Alain Juppè si era fermato a Roma alla vigilia del 2 giugno per incontrare Abu Mazen prima di un vertice con Netanyahu in Israele. E´ un piano che il presidente Sarkozy ha annunciato ieri in chiaro dal podio delle Nazioni Unite, dove ha parlato dopo Obama, molti più applausi e soprattutto maggiore consenso. La Palestina presenta la sua domanda, ma per un anno congeliamo tutto a patto che i negoziati inizino al più presto e terminino entro pochi mesi.
Nelle trattative di queste ore i palestinesi si sono accorti di non avere una maggioranza certa in Consiglio di sicurezza: con 9 voti a favore avrebbero potuto farsi approvare lo Stato, mettendo gli Usa di fronte all´alternativa di dover porre il veto. «Ma con che faccia Obama avrebbe usato il veto dopo aver lodato e benedetto le rivolte arabe? Forse i palestinesi non sono arabi?», dice Mohammed Istayed, uno dei consiglieri di Abu Mazen. Gli Stati Uniti hanno fatto pressioni assieme ad Israele per garantirsi in Consiglio una maggioranza contro il riconoscimento immediato della Palestina. Russia, Cina, Sudafrica, Brasile, Libano, India, Gabon e Nigeria sono con Abu Mazen, nonostante il presidente israeliano Peres abbia telefonato in persona ai capi di stato di Gabon e Nigeria sentendosi garantire affetto e appoggio, ma non il voto all´Onu. Per ora, quindi, la Palestina si vedrebbe offrire lo status di "Stato non membro/osservatore", qualcosa di simile alla condizione del Vaticano, in cambio di garanzie sul negoziato con Israele e su un tempo determinato per chiudere la trattativa.



Vincenzo Nigro, 22 Settembre 2011, La Repubblica

mercoledì 21 settembre 2011

TURCHIA


Il sultano Erdogan

ISTANBUL. «Perché la Turchia è oggi uno dei Paesi più importanti? Semplice: perché si trova al centro di tutto». Spiazzante e diretto. Può apparire arrogante la risposta data dal ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, l´altro giorno prima di partire per l´Assemblea delle Nazioni Unite, pronto ad affossare Israele e ad appoggiare il riconoscimento della Palestina. Eppure le parole dette dall´"architetto della nuova politica estera di Ankara", "il Kissinger turco" come è chiamato, già consigliere internazionale del premier Recep Tayyip Erdogan, rappresentano l´espressione muscolare di un Paese in palese stato d´euforia. Che si permette di prendere a schiaffi l´ex alleato Israele, si pone a modello dei Paesi arabi in preda alla crisi, calcola addirittura di sostituirsi all´America in Medio Oriente e che, proprio oggi, ha detto addio all´Europa.
Istanbul è ancora solare e calda a metà settembre. Il traffico delle navi, sul Bosforo che solca la città dei due continenti, è tranquillo e ordinato. Ma mai come ora Europa e Asia sembrano tanto distanti. Perché la Turchia, stanca di aspettare alle porte d´Europa, è arrivata a dire ieri per la prima volta, con il suo capo dello Stato, l´islamico moderato Abdullah Gul, studi a Londra, economista in Arabia Saudita: «Accetteremo di non essere un membro dell´Unione Europea se la gente di uno solo dei Paesi d´Europa non ci vorrà e considererà la Turchia come un peso».
«Una dichiarazione che è una bomba», ha rilanciato subito il giornale filogovernativo Sabah. Un´affermazione pronunciata da un esponente dello Stato, non a caso dall´istituzione più alta, solo in apparenza di resa.
Nei locali di Besiktas, poco lontano dal palazzo dove morì Ataturk, difatti nessuno è rimasto scioccato. C´è, anzi, un contenuto entusiasmo. Perché mentre Ankara abbandona il sogno europeo, accarezzato a lungo, mostra in realtà di voler avere finalmente le mani libere, con la possibilità di esplorare orizzonti diversi. La nuova Turchia chiude con l´Europa e si apre al mondo. Tra i pericoli e i timori di molti.
Il Vecchio continente assiste con moltiplicata diffidenza. Un Paese dalle istituzioni laiche, ma musulmano al 99 per cento, e che porta in dote un partito di ispirazione religiosa con addirittura il 50 per cento dei consensi, suscita preoccupazione in un club fondato anche sui valori della fede cristiana.
La Turchia ha dalla sua numeri che non mentono. Oltre l´11 per cento di Pil nel trimestre gennaio-marzo, superiore alla Cina. La seconda economia in crescita al mondo nel semestre corrente. Il terzo esercito più potente nella Nato, dopo Usa e Regno Unito. Uno fra i più alti tassi di presenza giovanile. Il sedicesimo Paese più ricco, «puntando presto a entrare nei primi dieci», ha confidato di recente Gul a Repubblica. «La Turchia oggi è dotata di una società molto dinamica - commenta l´ex ministro dell´Economia, Kemal Dervish - perché tutti, tanto gli imprenditori quanto i semplici cittadini, sono grandi lavoratori. E abbiamo ottimi margini di miglioramento». Dervish fu l´economista capace di risollevare, nel 2001, il Paese da una crisi finanziaria che lo portò a un soffio dal collasso, con misure draconiane da molti considerate alla base della crescita odierna. «Non mi stupirei - continua - che questo diventi uno dei Paesi più prosperi nel 2023, quando la Repubblica celebrerà i 100 anni. Il futuro per noi è promettente».
Una Turchia potenza regionale? Gli indicatori danno segni ambivalenti. I lusinghieri risultati economici rischiano di essere inficiati dallo spettro del deficit, visto che l´altro ieri lo stesso ministro delle Finanze, Mehmet Simsek, già economista alla Merrill Lynch, ha ammesso «una mancanza piuttosto alta di denaro liquido», con il rischio di far fronte a «shock esterni».
Ma è soprattutto il protagonismo esibito in politica estera a rivelare il Paese come nuovo attore globale. La recente sfida con Cipro greca per le trivellazioni di petrolio al largo dell´isola abitata anche dalla comunità turca, la cacciata dell´ambasciatore israeliano dopo il rifiuto di Gerusalemme di scusarsi per l´uccisione di nove cittadini sulla Mavi Marmara con aiuti verso Gaza, il trionfo con cui il premier di Ankara è stato accolto in Tunisia, Libia ed Egitto («Dateci Erdogan per un mese!», ha scritto un editorialista sul quotidiano Al Wafd), sono tutti segnali di una strategia mirata.
«Israele è il solo responsabile» della quasi rottura delle relazioni fra Ankara e Gerusalemme, tuona "l´architetto" Davutoglu. Gerusalemme, che non vuole abbassarsi a scuse che la indebolirebbero di fronte ai Paesi arabi e alla propria opinione pubblica, reagisce ancorandosi all´America. Ma il rischio è di isolarsi ancora di più in un Medio Oriente ora del tutto nemico, adesso che anche lo storico "asse di ferro" militare con Ankara è saltato. Incontenibile, Davutoglu prima di partire per l´assemblea Onu ha fatto una significativa tappa in Egitto, inaugurando con il Cairo quello che ha definito «un nuovo asse di potere»: «Un asse di vera democrazia - ha spiegato - fra le due maggiori nazioni nella regione, da nord a sud, dal Mar Nero alla Valle del Nilo in Sudan». E mentre l´Iran e gli Stati Uniti guardano con ansia alla repentina modifica degli equilibri in Medio Oriente, preoccupa molto l´Europa quell´«affinità psicologica» evocata da Davutoglu fra Turchia e mondo arabo, dominato difatti per secoli dall´Impero ottomano di cui Costantinopoli fu il centro. Una prospettiva che spaventa, ma ormai difficilmente controllabile.
All´ombra delle moschee, gli uomini pii che si riconoscono nel partito conservatore, e di matrice religiosa, fondato dieci anni fa da Erdogan e Gul cavalcando l´onda delle riforme, sono stati capaci di sovvertire l´ordine controllato per decenni da laici e militari. E adesso, considerata inutile e persa la corsa all´Europa, hanno lanciato la sfida in tutta la regione circostante, spingendosi persino in Africa, dove la Turchia è considerata nella sua esuberanza imprenditoriale una piccola Cina.
La disoccupazione è calata. E gli immigrati, dalla Germania, hanno cominciato a rientrare. Nei campus turchi le borse di studio assegnate ai migliori studenti di tutto il mondo competono direttamente con quelle assegnate dagli atenei americani. «Qui abbiamo tutto - dice un giovane con la barba appena accennata all´Università Bahceshehir - accademici fra i più preparati e la possibilità di trovare lavoro».
Eppure, nonostante i cambiamenti, l´islamismo strisciante è percepibile. Per i divieti e le tasse altissime imposte a fumatori e consumatori di alcolici. Nelle redazioni dei giornali infarcite di giovani redattori dai nomi che rivelano l´innegabile origine confessionale. Su metà delle donne con la testa fasciata da copricapi multicolori, magari truccate e con il tacco assassino, ma pur sempre velate. Nell´editoria in preda a timori e censure, con decine di giornalisti, scrittori, addirittura traduttori, minacciati oppure in carcere. Un Paese alle prese con una vera guerra al suo interno, come rivelano i fulmini appena scagliati «contro i terroristi» dai militari ultra laici - ma ormai addomesticati dal pugno dell´islamico Erdogan - pronti a lanciare attacchi aerei nel Nord Iraq sui santuari che proteggono i guerriglieri del Pkk.
Islam al governo significa una classe di cittadini anatolici, i cosiddetti "turchi neri" perché più scuri di pelle e soliti vestire di grigio, sostituire gradualmente nelle leve del potere i "turchi bianchi" espressione dei militari e dei laici socialdemocratici che si ispirano ad Ataturk, il padre della patria biondo e con gli occhi azzurri. «È ironico pensare - spiega Murat Yetkin, commentatore dell´Hurriyet Daily News, quotidiano appartenente al gruppo Dogan, finanziariamente massacrato lo scorso anno da una colossale causa vinta dal governo - che Erdogan, l´oppositore giurato del laicismo in Turchia, stia portando una nuova aria laicista nella pesante atmosfera della "primavera araba"».
L´Europa si trova così a fare i conti con un protagonista ingombrante, cresciuto sotto i suoi occhi, avendolo scientemente tenuto a distanza. Anche se c´è chi teme che il Vecchio continente rischi di affondare in un asfittico conservatorismo. Con un´Europa priva della capacità di incidere oltre le proprie frontiere. Quelle stesse agguantate con rapacità dalla nuova Turchia "ottomana": Medio Oriente, Nord Africa, Asia centrale, Caucaso, Paesi arabi, Balcani. Una Turchia, come pretende Davutoglu, al centro di tutto. Ma rifiutare Ankara potrebbe anche voler dire ritrovarla un domani come diretta concorrente. «Forse un giorno saranno i turchi - ha concesso Gul - a non voler entrare. Per ora il nostro dovere è quello di onorare la decisione presa». Europa avvertita, insomma, mezza salvata. Anche se, per tanti ormai, la Turchia è un´occasione già finita.



Marco Ansaldo, La Repubblica, 21 Settembre 2011







martedì 20 settembre 2011

IL DIBATTITO SULLA PALESTINA INDIPENDENTE


A quanto pare l'ebreo Thomas L. Friedman la pensa come un musulmano non moderato come me e non come l'avvocaticchio ebreuzzo del quale abbiamo pubblicato l'articolo ieri. L'ebreo Friedman è mio fratello in Abramo. Per fortuna, nel mondo, ce ne sono tanti. 

Palestina, primo passo per il riconoscimento "Venerdì presenteremo la richiesta all´Onu"



NEW YORK - Adesso è solo una corsa contro il tempo per evitare che le Nazioni Unite si ritrovino disunite come mai. Il presidente dell´autorità palestinese Abu Mazen ha ufficialmente informato il segretario dell´Onu Ban Ki-moon che venerdì prossimo presenterà la «richiesta di adesione come stato dell´Onu».
Dovrebbe essere una festa per tutti. Era stato lo stesso Barack Obama ad augurarsi che entro il 2012 le Nazioni Unite avrebbero potuto accettare il loro 194esimo stato. E invece proprio il presidente Usa - che a New York parlerà domani - sarebbe costretto ad apporre il veto. Il riconoscimento doveva arrivare attraverso i colloqui di pace: promossi dagli stessi americani ma falliti di fronte al rifiuto del premier Benjamin Netanyahu di fermare gli insediamenti nei Territori e a Gerusalemme Est.
La mossa palestinese è una implicita ammissione dell´impossibilità del dialogo. E quindi una sfida. Lo dice sempre Abu Mazen di prevedere un «periodo difficile»: un eufemismo per indicare quella «esplosione di violenza» evocata ieri dal ministro degli Esteri francese Alain Juppè. Hamas ha annunciato l´accordo con Fatah per «annullare tutte le manifestazioni»: ma che potrebbe succedere nei Territori se la richiesta si infrangerà contro il no del Consiglio?
Il fatto è che la sfida palestinese ha tutti i crismi della giurisdizione internazionale: e per questo mette in imbarazzo l´Unione europea. «Una divisione tra Usa e Ue sarebbe catastrofica» ha detto il ministro Franco Frattini a New York per l´Assemblea generale. Aggiungendo però che «bisogna dare ai palestinesi qualcosa di tangibile». Ma cosa? Gli americani minacciano piuttosto qualcosa da togliere: gli aiuti da 500 milioni di dollari all´anno. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha incontrato il commissario europeo Catherine Ashton. E lo stesso Ban Ki-moon ha partecipato alle riunioni del Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) accavallatesi tra domenica e ieri. La Casa Bianca continua a sperare che palestinesi e israeliani negozino «un compromesso» attraverso una «trattativa diretta». Ma a questo punto gli scenari si intrecciano vertiginosamente.
Il più ottimista è la controproposta su cui lavora proprio il Quartetto per dissuadere in extremis i palestinesi: facendo ripartire i colloqui proprio nella meravigliosa cornice dell´Onu oggi ridipinto in scenografia da guerra. Ma Abu Mazen ha già rispedito al mittente l´offerta che l´ex premier inglese ha confezionato con i due inviati Usa Dennis Ross e David Hale: e che avrebbe detto alla Palestina «gli attributi di uno stato» senza però la qualifica. Piccolo particolare: l´Autorità palestinese avrebbe così potuto sedere in tutte le organizzazioni internazionali. Tranne in quelle giudiziarie: dove invece come stato membro potrebbe portare gli israeliani davanti alla Corte di giustizia o alla Corte criminale internazionale.
Senza accordo Abu Mazen venerdì presenta quindi la sua richiesta che va al Consiglio di Sicurezza. E qui scatterebbero gli scenari due, tre e quattro. I palestinesi ottengono i 9 voti su 15 necessari: ma già sei Stati sarebbero contro e gli Usa stanno lavorando sul numero per evitare di porre il veto. Scenario numero tre: il Consiglio di sicurezza passa la richiesta e gli americani la bloccano. Per la Turchia di Recep Tayyip Erdogan - che ha da tempo raggelato le relazioni con Israele, sempre più isolato, e ora in freddo anche con l´Egitto - la posizione americana sarebbe «difficile da comprendere e sostenere». Ma a questo punto saremmo già allo scenario numero quattro: la proposta bocciata viene presentata all´Assemblea generale. Qui per i palestinesi i numeri ci sarebbero. L´Assemblea ha il potere di conferire lo status di "Stato osservatore". E la qualifica riservata oggi solo alla Città del Vaticano ma permette l´accesso a tutte le organizzazioni internazionali - e quindi anche a quelle giudiziarie.
Ma i tempi? Ecco: sui tempi del voto - da quello del Consiglio a quello eventuale della Assemblea - è ancora tutto da decidere. E qui si aprirebbe lo scenario numero cinque. Il Consiglio potrebbe rispondere alla richiesta palestinese istituendo una bella commissione incaricata di esaminarla. L´ultimo disperato tentativo per prendere quello che in queste ore freneticamente manca: il tempo.



Angelo Aquaro, La Repubblica







lunedì 19 settembre 2011

MAMMA LI TURCHI!


Cipro, la Turchia minaccia l´Europa

E' il momento del «redde rationem» fra Turchia ed Europa. E un Paese oggi economicamente più solido, e sotto il profilo geo - politico sempre più agguerrito, si presenta puntuale alla resa dei conti minacciando di voltare le spalle all´Europa. Con l´isola di Cipro, pericolosamente davanti alle coste dell´ormai nemico Israele, come possibile terreno di scontro.
Ieri il vice premier Beshir Atalay ha detto che Ankara è pronta a «congelare» le sue relazioni con l´Unione Europea nel momento in cui la presidenza a rotazione passerà, nel luglio 2012, alla Repubblica di Cipro (greca) senza prima una soluzione sull´isola divisa. «Se i negoziati su Cipro - ha affermato il vice del premier Recep Tayyip Erdogan - non hanno una soluzione positiva, e se la UE dà la presidenza dell´Europa a Cipro del sud, la crisi sarà soprattutto fra la UE e la Turchia. Perché congeleremo le nostre relazioni. Ciò causerà una rottura grave. È una decisione appena presa dal governo».
E ad attizzare nuove polemiche è giunta ieri anche la decisione del capo di Stato cipriota Dimitris Christofias di avviare «nei prossimi giorni» trivellazioni sottomarine alla ricerca di consistenti giacimenti di petrolio di nuova individuazione. Il governo aveva commissionato a un´impresa americana di condurre ricerche in un´area off shore a sud est dell´isola. Esplorazioni che potrebbero essere ora completate, in modo congiunto, con società israeliane. Il ministro degli Esteri turco Davutoglu ha definito il passo «una provocazione», affermando che le perforazioni andrebbero condivise con la parte settentrionale dell´isola. E ha avvertito che «se questo fatto compiuto continua» la Turchia potrebbe condurre proprie esplorazioni al largo, in collaborazione con Cipro Nord.
La situazione nel Mediterraneo si fa incandescente. Erdogan termina il suo viaggio «anti-israeliano» in trionfo nei Paesi della «primavera araba». Ankara rafforza la propria flotta navale, e toglie dagli aerei il dispositivo che segnala Israele fra i velivoli amici, sintonizzandolo invece tra i nemici. E Cipro, metà già in Europa, l´altra metà invece abbandonata al suo destino nonostante nel 2004 avesse con entusiasmo aderito al referendum per la riunificazione (però bocciato dalla parte greca), rischia di far naufragare i tempestosi rapporti fra la Turchia e l´Europa. Proprio il braccio di ferro sull´isola ha causato il congelamento di 18 dei 35 capitoli negoziali. La portavoce della Commissione europea, Maja Kocijancik, ha reagito spiegando che «non è il momento di fare speculazioni, la nostra linea non cambia, l´Unione Europea resta impegnata per trovare una soluzione alla questione di Cipro». E il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha dichiarato che «non possiamo permetterci di perdere la Turchia» e che «allontanarla sarebbe un errore gravissimo». Persino l´Osservatore Romano in un editoriale («Erdogan, Obama e la crisi del Vicino Oriente»), si chiede ora se nel momento in cui l´America è piegata dalla peggiore crisi della sua storia, «se la Turchia - oggi con un Pil che sfiora il 9% - possa garantire la stabilità del Medio Oriente». 



Marco Ansaldo, La Repubblica, 19/09/2011




L'articolo numero 2 che riporta le dichiarazioni dall'avvocaticchio ebreuzzo Dershovtz, pomposamente presentato come giurista e fratello del musulmano "moderato" Giovanni Pallavicini, contiene un numero tale di bugie, falsificazioni, infamie, deformazioni della realtà che non meriterebbero una risposta seria. Dichiarandosi contrario al ricorso all'ONU per riconoscere lo stato palestinese, egli sostiene che in conseguenza di ciò si rischia ora un bagno di sangue: ipotesi verosimile nel caso in cui l'aviazione criminale dello stato israeliano sia già pronta per decollare e per bombardare le città palestinesi nel caso che l'ONU riconosca fondata la richiesta che, per altro, risale ad un voto dell'assemblea generale successiva alla guerra dei 6 giorni del 1967.
Ci limitiamo perciò ad elencare molto schematicamente le scemenze in malafede dell'ebreuzzo:

I - "Abu Mazen ha sollevato nel suo popolo attese enormi che non potrà mai soddisfare. Quando vincerà l'assemblea generale i palestinesi gli chiederanno l'indipendenza che può venire solo da negoziati diretti con Israele".
L'avvocaticchio dimentica che di trattative dirette con Israele i palestinesi ne fanno da almeno trent'anni e quando gli accordi di Camp David tra Arafat e Rabin stavano per sbloccare la situazione, un "estremista" israeliano assassino Rabin, primo ministro in carica di Israele;

II - "Quando nel successivo vertice del 2000 il presidente americano Clinton e il premier israeliano Barak offrirono ai palestinesi tutto ciò che chiedevano (uno stato, Gerusalemme capitale, il diritto al ritorno dei profughi, confini sicuri e risarcimenti da 35 miliardi di dollari), Arafat rifiutò facendo scoppiare la seconda Intifada che provocò migliaia di morti. In realtà Barak non offrì proprio niente al di là di generiche chiacchiere, e del resto si era alla vigilia delle elezioni israeliane e le sue decisioni non sarebbero contate molto. Anche Clinton era "un'anatra zoppa" perché vicino alla scadenza del mandato presidenziale. Quindi Arafat rifiutò un'offerta che veniva da due soggetti che non avevano nessun potere di fargliela. A far scoppiare la seconda Intifada fu in realtà la provocatoria passeggiata del criminale di guerra Ariel Sharon sulla spianata delle mosche a Gerusalemme, grazie alla quale egli vinse le elezioni accantonando ogni proposito di trattativa con i palestinesi;
III - "Netanyahu ha accettato la richiesta USA di andare a Ramallah per discutere senza precondizioni la creazione di due stati indipendenti. I palestinesi hanno rifiutato, preferendo ottenere dall'ONU una vittoria simbolica". 
La spudoratezza dell'avvocaticchio ebreuzzo raggiunge qui la sua vetta. I palestinesi, in realtà si sono rifiutati di trattare con un losco individuo che ha persino respinto la richiesta di Barack Obama di sospendere la costruzione di nuove colonie ebraiche in Cisgiordania. Fino a quando dovremmo sopportare le menzogne di chi, credendosi il popolo eletto, si sente in diritto di stravolgere in maniera così infingarda la verità?;
IV - "Se la Turchia dovesse continuare nel suo corso belligerante contro Israele, il congresso americano varerà misure punitive drastiche e io spesso parteciperò personalmente perché venga espulsa dalla NATO. Dopo essere stata rifiutata dalla UE, Ankara ha deciso di guardare ad Est invece che a Ovest sperando di tornare ad essere il grande impero Ottomano alleato dei peggiori nemici del mondo. Ma l'America non starà a guardare". 
Dopo le minacce all'Iran, siamo già alle minacce contro la Turchia. Quali sarebbero i peggiori regimi del mondo con cui la Turchia intenderebbe allearsi? La Cina? L'India? Le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale che parlano turco? L'Egitto liberato dal faraone ladro? I popoli arabi che si stanno scrollando di dosso le dittature filo occidentali? O gli USA versione Bush?
In realtà, in una situazione come quella attuale le minacce dell'ebreuzzo fatte per conto dell'America sono una via di mezzo fra il patetico e lo spudorato: allo stato attuale l'America non ha avuto nemmeno i mezzi per partecipare ai bombardamenti NATO in Libia. 

domenica 18 settembre 2011

OCCORRE SEMPRE VIGILARE CONTRO I VENDITORI DI FUMO

Litigi e contrapposizioni, anche di un certo peso, avvengono anche nelle migliori famiglie e naturalmente i musulmani residenti in Italia non vanno esenti dalla cattiva abitudine dei "bisticci di condominio". La cosa non diventa particolarmente grave a meno che non vi sia qualche giornale pronto a dare uno spazio superiore all'importanza dell'evento, come ha fatto il Giornale di Vicenza, che ha enfatizzato oltre il limite del dovuto un bisticcio che ha contrapposto alcuni fratelli marocchini ad alcuni fratelli tunisini su una questione relativa alla campagna elettorale per il referendum istituzionale svoltosi recentemente in Marocco per lodevole iniziativa di Re Muhammad VI. Naturalmente è stato particolarmente sottolineato che per sedare una lite potenziale sono intervenuti cospicui drappelli di forze dell'ordine: chi li ha mandati temeva che fuori della sede del centro culturale islamico esplodesse una sorta di guerra etnica tra musulmani marocchini e musulmani tunisini. Ho ritenuto mio dovere avvertire i malaccorti contendenti che quanto avvenuto poteva essere strumentalizzato da quanti sono sempre pronti a denunciare la naturale vocazione alla violenza degli "islamici". Le mie previsioni si sono presto dimostrate fondate, anche se solo a metà. Ad approfittare del litigio da cortile che, per altro, non ha avuto alcun drammatico esito, questa volta sono stati non già i soliti leghisti o gli anti islamici ad oltranza, ma, con la benedizione di un già più volte nominato Alto Prelato, alcuni misteriosi e comunque non conosciuti "musulmani" che si sono affrettati ad annunciare, tramite il solito Giornale di Vicenza che omette in maniera sistematica di far riferimento a eventi ben più importanti che coinvolgono la stra grande maggioranza dei musulmani vicentini, la nascita di un secondo centro islamico nella nostra città. La nascita, avvenuta in una mini sede che non poteva che raccogliere una mini folla (???), ha avuto padrini di eccezione: oltre a 3 assessori comunali e il solito Monsignore,  attivissimo nel promuovere iniziative inter-religiose, un sedicente imam capo del COREIS veneto, oltre ad un paio di residenti di comunità islamiche esistenti sul territorio.
Il sedicente imam è conosciuto con il nome di Giovanni Zanolo (cito le sole generalità italiane perché quelle arabe che si è dato da solo sono troppo lunghe e complicate e assomigliano a quelle solenni che usavano i piccoli emiri che polverizzarono la grande potenza arabo spagnola di Al-Andalus e favorirono la Reconquista cattolica. Questo signore, sembra, ha sempre praticato l'Islam in quel di Milano, partecipando, sempre a suo dire alla preghiera del venerdì, nella mini moschea che, per essere usata da personaggi come lui, gode del singolare privilegio di essere dotata di un mini minareto che costituisce una sorta di attrazione turistica di tipo didattico da parte delle scolaresche milanesi e degli insegnanti di religione che, per spirito ecumenico vogliono mostrare come sono fatti i templi musulmani. Sembra che i musulmani come me che volessero praticare la preghiera in un luogo siffatto debbono prenotarsi previamente per appuntamento.
Il signora Zanolo, pur essendo vicentino di nascita e forse di residenza non è stato mai visto nel luogo di preghiera di Via della Vecchia Ferriera, neppure in occasione delle più solenni festività islamiche come il Ramadan e la festa del Sacrificio; in qualche occasione, avendo sempre a fianco il protettore cattolico dei musulmani, Monsignor Del Ferro, come relatore in qualche conferenza inter religiosa annunciata dal Giornale di Vicenza. Nessuno sa quali corsi di approfondimento religioso e giuridico abbia frequentato per guadagnarsi il titolo di Imam ne da quale comunità musulmana veneta abbia avuto conferito il titolo.
Da notare che il termine COREIS, che designa la sua organizzazione di appartenenza, è un acronimo che sta per COMUNITA' RELIGIOSA ISLAMICA, ma riecheggia maliziosamente in nome della tribù del Profeta Muhammad. Come dire che solo gli appartenenti al COREIS sono dei musulmani doc, mentre tutti gli altri musulmani pur essendo almeno il 98% dei musulmani residenti in Italia sono, a scelta, fondamentalisti, terroristi tradizionalisti reazionari e altre terminologie che richiamano gravi pericoli per l'ordine pubblico. Il concetto, del resto è stato esplicitamente espresso nella dichiarazione che il valoroso Zanolo ha rilasciato al Giornale di Vicenza,: "Il COREIS raccoglie i 50 mila musulmani italiani moderati". Peccato che nessuno sappia con esattezza dove siano nascosti i 50 mila musulmani buoni, mentre resta evidente che tutti gli altri musulmani in circolazione sono "musulmani cattivi". Chi scrive, naturalmente, è un musulmano cattivissimo tanto che è stato oggetto di particolari attenzioni da parte della Digos e il più volte richiamato monsignore si è preoccupato di raccomandare ai dirigenti della comunità islamica di Via Vecchia Ferriera di non utilizzarne il bagaglio culturale in conferenze pubbliche organizzate per conto dell'Islam.
Al mio rientro dal viaggio a Roma, dove, con somma gioia ho potuto concludere il mio Ramadan nella grande moschea di monte Antenne (trattasi della seconda moschea per dimensioni esistente in Europa, in grado di accogliere fino a 5000 fedeli nella preghiera del venerdì: costruita tra il 1988 su progetto dell'architetto Portoghesi, fu inaugurata il 25 Giugno 1995 niente di meno che dall'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini), ho trovato numerose sorprese del COREIS:
I - L'11 Settembre il vicepresidente nazionale della nominata organizzazione, Dottor. Giovanni Pallavicini, ha partecipato alla solenne celebrazione commemorativa dell'attentato alle Torri Gemelle: all'evento hanno presenziato il console statunitense, l'assessore comunale Ruggeri, sempre attivo quando si tratta di sponsorizzare Zanolo e company, il solito Zanolo e perfino il sindaco di Vicenza, Achille Variati, che la stragrande maggioranza dei musulmani residenti a Vicenza non ha avuto l'onore di avere come ospite o di incontrare sia pure per caso. Il Giornale di Vicenza ha presentato l'incontro come "la riappacificazione tra americani e musulmani". E qui alcune precisazioni si rendono necessarie:
A - L'attentato dell'11 Settembre non è mai stato una dichiarazione di guerra dell'Islam al popolo degli Stati Uniti, del quale oltretutto fanno parte in qualità di cittadini a pieno titolo dai 10 ai 15 milioni di musulmani. E' stato invece il criminale atto inconsulto di un ricchissimo petroliere saudita di nome Bin Laden compiuto in nome dell'Islam e preso a pretesto dal presidente degli Stati Uniti per intraprendere una sanguinosissima guerra con centinaia di migliaia di morti contro un paese islamico che retto da un dittatore feroce come Saddam Hussein, per molti aspetti creatura e strumento della politica americana in medio oriente, che tuttavia con l'attacco alle Torri non centrava niente. La guerra all'Iraq si è svolta senza il voto favorevole delle Nazioni Unite nonostante il grottesco tentativo dell'inconsapevole segretario di stato americano Colin Powell di spacciare l'iniziativa come una preventiva risposta al possesso di inesistenti armi di distruzione di massa (una fialetta di innocuo liquido esibita all'ONU) da parte di Saddam;
B - Le tensioni tra i musulmani e gli Stati Uniti d'America cesseranno quando il governo americano si deciderà a dar corso al diritto del popolo palestinese ad avere un proprio stato, in conformità a decine di risoluzioni dell'ONU che il governo americano ha sempre bloccato esercitando il suo diritto di veto. Sembra che lo stesso diritto verrà esercitato dal governo Obama anche il 20 Settembre quando l'autorità nazionale palestinese presenterà all'ONU formale domanda di ammissione come stato indipendente. Se ciò avverrà, quali che siano le pagliacciate di Zanolo, Pallavicini, Ruggeri e Variati non vi sarà vera pace tra mondo islamico e governi americani.
II - In un comunicato stampa del SIR (Servizio Informazione Religiosa) di Lunedì 12 Settembre 2011 si legge:
"Anche quest'anno, in occasione della giornata europea della cultura ebraica, la comunità religiosa islamica italiana COREIS ha manifestato ieri la sua vicinanza ai fratelli ebrei, partecipando alle manifestazioni che si sono svolte nelle maggiori città italiane, cogliendo così l'occasione di sostenere i propri fratelli ebrei, con i quali dialoga ormai da decenni a dimostrazione che le vere fedi uniscono nell'aspirazione comune alla pace e all'elevazione interiore. A Milano una delegazione della COREIS, guidata dal suo vicepresidente l'imam Giovanni Pallavicini, è stata ricevuta in Sinagoga dal presidente della comunità ebraica Roberto Jarach.
A Genova una delegazione della COREIS - sezione triveneto è intervenuta pubblicamente in Sinagoga. Nel pomeriggio la delegazione si è recata a visitare il cimitero ebraico di Vicenza dove era presente anche il vescovo vicentino, Mons. Beniamino Pizziol."
Ci piace immaginare che della delegazione triveneta faceva parte il sedicente imam Giovanni Zanolo, l'assessore comunale Ruggeri e, magari anche il sindaco Achille Variati.
Ci piace anche immaginare che alla delegazione facevano deferente contorno quei piccoli "topi" che vantano la presidenza di qualche comunità islamica, distintisi in un recente passato per aver proposto il sostegno elettorale al leghista Zaia e per aver usufruito del permesso ad aprire un circolo islamico a Thiene dalla sindachessa che due anni fa lo avevo rifiutato ad un'altra associazione di musulmani, forse perché non fornivano sufficienti garanzie di moderazione.
Il Dottor. Giovanni Pallavicini assomiglia molto alla rana della favola di Esopo che per sembrare più grande di quanto la natura consentiva si gonfiava forsennatamente fino a scoppiare. Pallavicini non si gonfia, fa visite e tutte le entità da lui visitate diventano comunità di suoi fratelli.
Forse perché non condivido un moderatismo che sa tanto di servilismo subalterno o di ruffianeria opportunista  (non posso non pensare a Magdi Cristiano Allam, battezzato in mondo visione dal Papa e autore, lui egiziano ed ex-musulmano di un libro intitolato "Viva Israele", che gli ha fruttato un seggio come parlamentare europeo dell'UDC).
Il Pallavicini ama girovagare tra uffici vaticani, logge massoniche, sinagoghe, vantando ogni volta di rappresentare la maggiore comunità di musulmani italiani. In realtà i suoi seguaci sono quattro gatti che nessun musulmano degno di questo nome ha mai avuto il piacere di incontrare in una moschea durante il Venerdì di preghiera. E' chiaro che tutti questi sforzi da "rana gonfiatrice" sono prodotti in vista del varo del comitato che dovrebbe diventare destinatario dell'8x1000 da destinare per la religione islamica. Sforzi impropri: io mi proclamo fratello in Abramo di ebrei come Moni Ovadia, Daniel Barenboim, Amos Oz, Amos Gitai e finanche del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, assassinato da un estremista sionista perché era il primo politico israeliano che aveva seriamente intrapreso la strada della trattativa della pace. Altri ebrei di diverso orientamento come il primo ministro Netanyahu o come il ministro degli esteri Ieberman, li lascio volentieri in fratellanza a Giovanni Pallavicini mentre al sedicente imam Giovanni Zanolo lascio la compagnia di amministratori locali che, come il sindaco Achille Variati, hanno per abitudine di promettere la stessa cosa a una decina di persone diverse.
Resta da chiarire che i rapporti inter religiosi sono qualcosa di molto più serio delle recite a soggetto dove ognuno recita una parte in cui non crede affatto.

P.S: In occasione dell'operazione "Piombo Fuso" nel corso della quale l'aviazione israeliana ha ammazzato con le bombe al fosforo, sganciate su Gaza, circa 1500 persone, un terzo dei quali bambini, i musulmani non moderati come me hanno manifestato con i democratici veri di tutti il mondo a favore della popolazione palestinese. Il musulmano moderato e pochi altri moderati come lui hanno manifestato agitando pateticamente una bandiera con la stella di David per esprimere in compagnia di Giuliano Ferrara la loro solidarietà ai fratelli ebrei.