martedì 31 maggio 2011

QUANDO IL POPOLO SI DESTA, DIO SI METTE ALLA SUA TESTA!

Il partito che schiera fra le sue file repellenti personaggi come Borghezio hanno preso una sonora lezione. Andrebbe applicato a loro l'invito "Foer de ball!".
L'aspetto più singolare di tutta la loro campagna elettorale, non solo degli abominevoli uomini della paludi e delle nebbie visibile sopravvivenza dell'uomo di Neanderthal, ma di notevoli masse di persone che, dovrebbero leggere qualche giornale e vedere qualche servizio televisivo (anche sul TG1 di Minzolini o sui giornalacci di Vittorio Feltri e di Sallusti),  una notizia sull'esistenza di una grande moschea a Roma dovrebbe essere pure arrivata. Tale temibile ricettacolo di terroristi islamici provenienti da tutta Europa è stata costruita alla fine degli anni 70' su progetto del grande architetto Portoghesi, niente di meno che dietro uno dei più prestigiosi quartieri della captale, sede della più benestante e raffinata borghesia romana, il quartiere Parioli. L'iniziativa della costruzione fu dell'ex ambasciatore italiano in Arabia Saudita, il principe Scialoja al quale, in segno di amicizia, il re dell'Arabia Saudita fece pervenire un più che consistente finanziamento per onorare il primo italiano famoso convertito all'Islam. La costruzione dell'opera, definita un capolavoro di architettura anche dai critici più arcigni, andò avanti per quasi un decennio per i continui ostacoli burocratici e politici frapposti da progettisti comunali, sindaci democristiani, personaggi della curia vaticana, ben pensanti e pidocchi arricchiti e tutto il campionario che quasi riesce nella difficile impresa di far diventare antipatica una città ridanciana, tollerante e pacifica come Roma: pur essendo personaggi con scarsa dimestichezza con la religione (intesa come qualcosa che con Dio centra poco) dicevano di opporsi all'esistenza di un tempio islamico, perché offendeva l'immagine cattolica della città del Papa. Alla fine Scialoja decise di rivolgersi direttamente al Papa, che a quei tempi era il grande umanista Giovanbattista Montini, noto con il nome di Paolo VI: "Non capisco perché tanta gente si oppone alla costruzione di un grande tempio musulmano nella nostra città. Non capiscono che una grande moschea islamica aumenta il carattere sacro della nostra città?".
Dal giorno della sua inaugurazione la moschea di Roma, con annesso centro culturale, scuole di ogni ordine e grado musulmane, biblioteche, sale di conferenze e di riunione, ha avuto per lo meno un milione di visitatori. Non si è dovuto lamentare mai neppure il minimo incidente, mentre i residenti sono lieti di avere vicini tanto cortesi e tanto poco rumorosi. Mi è capitato di raccogliere il commento di un romano non propriamente religioso: "Io non credo in nessuna religione, però, quando sento il Muezin chiamare alla preghiera i fedeli, un inspiegabile emozione mi prende".
La seconda moschea di Italia è sorta a Catania per iniziativa di un avvocato siciliano convertito all'Islam, che è riuscito a farsi finanziare dal colonnello Gheddafi. Anche la moschea di Catania ha avuto centinaia di migliaia di visitatori: non si è mai registrato il minimo incidente. Le due moschee menzionate sono le sole degne di questo nome esistenti in Italia. Negli Stati Uniti ve ne sono 5000, in tutta l'Europa occidentale ve ne sono, esclusa la Russia, con circa 20 milioni di musulmani, oltre 10000. In Cina, dove, come è noto i diritti umani sono calpestati e misconosciuti, solo a Pechino di moschee ve ne sono più di 10; ma ai fedeli è permesso nelle ore di preghiera mettere fuori della finestra un tappeto che riproduce il portale di una moschea per dare la possibilità a chi è di passaggio di inginocchiarsi a pregare col volto rivolto alla Mecca. L'Italia è l'unico paese dove il tema della libertà religiosa dei musulmani (un milione e mezzo di residenti) diventa oggetto di campagna elettorale. Del resto non è questo il solo primato negativo che negli ultimi decenni della nostra storia è stato costretto a collezionare

sabato 28 maggio 2011

L'ISLAM NEL MONDO ATTUALE - 9a parte

IX - IL PAKISTAN 


Nato da una divisione dell'antico dominio britannico in India, chiesto nel 1947 dal leader della lega musulmana Muhammad Jinnah contro la volontà di Gandhi e di Nehru, il Pakistan ebbe fin dall'inizio come unico cemento nazionale la fede religiosa dei suoi abitanti: ciò rese enormemente difficile la sua esistenza come stato, i cui deboli organi di governo si trovarono in lotta con problemi quasi insolubili di ordinamento politico, di impianto economico e di composizione etnica. A rendere più difficile la vita del nuovo stato stava la sua conformazione "bipartita": esso era infatti costituito da una regione occidentale attraversata dal fiume indo e comprendente tra l'altro le regioni del Sind, del Punjab, del Belucistan, del Kashmir, e da una parte orientale costituita dal Bengala, divise tra loro dalle migliaia di km di territorio indiano.
Le relazioni con l'India furono fin dall'inizio molto tese: la spartizione, che era iniziata abbastanza pacificamente pur dando luogo a un massiccio spostamento e scambio di popolazioni, con milioni di induisti che si dirigevano in India e milioni di musulmani che muovevano verso il Pakistan, degenerò presto in un terribile mattatoio con bande armate impegnate a massacrarsi lungo le strade percorse nei due sensi e con terribili massacri che non potevano non coinvolgere la popolazione civile; i morti si contarono a milioni.
Successivamente la tensione si collegò alla questione del Kashmir che, pur essendo di popolazione musulmana, venne in gran parte annesso dall'India. Morto Jinnah nel 1948, il successore Liaquat Alì Khan governò fino al 1951, quando venne assassinato. Da allora le difficoltà si aggravarono e apparve chiaro che le forme democratiche della vita statale, che con tanto successo si andavano affermando in India, coprivano una realtà arcaica dominata dalla strapotenza dei grandi proprietari terrieri e dall'impotenza di interessi regionalistici e secessionistici. In breve ogni speranza di instaurare un corretto regime parlamentare fallì, finché si giunse al colpo di stato del 1958 con il quale il comandante delle forze armate Ayub Khan assunse poteri dittatoriali.
Nel 1959 Ayub Khan, riconfermato alla carica di presidente alle elezioni del 1965, legalizzò il suo governo autoritario dando vita a un regime presidenziale denominato "democrazia di base". Sul piano internazionale la tensione con l'India diminuì con l'accordo del 1960 per la spartizione delle acque del bacino dell'Indo, ma a partire dal 1963 la crisi del Kashmir peggiorò rapidamente fino a sfociare nel Settembre 1965 in una vera e propria guerra. D'altra parte la politica estera del Pakistan viveva la profonda contraddizione tra il progressivo avvicinamento alla Cina in funzione anti-indiana e il bisogno di aiuti economici occidentali.
Intanto in Pakistan prendeva corpo un'opposizione di sinistra che faceva capo all'ex ministro degli esteri Alì Bhutto, mentre i gravi problemi riguardanti la struttura dello stato diventavano esplosivi a causa di un potere militare, cui non si affiancava una moderna élite politica in grado di operare una modernizzazione del paese. Peggiorò inoltre sensibilmente la situazione nel Pakistan orientale, ridotto allo stato di semi-colonia sovrappopolata continuamente tormentata dalle alluvioni monsoniche, che continuava a essere sacrificata dalla classe dirigente espressione delle élites della regione occidentale.
Nel 1966 il Pakistan orientale fu scosso da vaste agitazioni autonomiste, promosse dalla lega Awami, che vennero sanguinosamente represse. Dopo periodici sussulti, la situazione precipitò nell'Autunno 1968 con l'esplosione di violente agitazioni, espressione del malcontento sociale latente, a cui il governo rispose con una brutale repressione. La spirale di violenza continuò a crescere rivelando la debolezza di Ayub, schiacciato tra la possibilità di essere travolto dal movimento popolare e la minaccia di un putsch militare di destra. La rivolta popolare, tuttavia, dilagò fino a minacciare direttamente le autorità statali di Dacca e ogni tentativo di mediazione promosso dal governo fallì. Nel Marzo 1969 Ayub Khan si dimise e il generale Yahia Khan, appoggiato dall'esercito e dalla destra, assunse i pieni poteri, deciso a ripristinare l'ordine con ogni mezzo. Nel Novembre 1969 Yahia Khan varò un programma di progressiva legalizzazione del nuovo regime, annunciò elezioni a suffragio universale per la fine dell'anno successivo pur mantenendo la legge marziale, la concessione di larghe autonomie regionali e l'equiparazione della rappresentanza politica tra Pakistan orientale e Pakistan occidentale.
La stabilità del regime di Yahia Khan era tuttavia minata dal sostegno di un forte partito politico organizzato e la ripresa di sanguinosi moti sociali nella regione orientale guidati dalla lega Awami.
Tra il Dicembre 1970 e il Gennaio 1971 si tennero elezioni politiche che mostrarono con drammatica evidenza un paese politicamente scisso nei suoi due tronconi geografici. Il Pakistan occidentale registrò infatti la vittoria del "partito del popolo" di Alì Bhutto mentre quello orientale vide il trionfo della lega Awami e del suo programma secessionista. Yahia Khan aggiornò la convocazione della nuova assemblea nazionale e impose la legge marziale per impedire alla lega Awami, maggioritaria anche su scala nazionale, di assumere la guida del paese.
Poco dopo il governo pakistano mise al bando la lega Awami, che rispose proclamando l'indipendenza del Pakistan orientale, sotto il nome di Bangladesh. Seguirono pesanti scontri tra l'esercito pakistano e i guerriglieri del Bangladesh, che ottennero pieno appoggio dall'India. Nello stesso periodo si intensificarono gli incidenti sul confine orientale indo-pakistano e in Dicembre, dopo un attacco contro alcuni aeroporti in India, questa dichiarò guerra al Pakistan e penetrò con le proprie truppe nel Pakistan orientale riconoscendolo come repubblica del Bangladesh.
La guerra ebbe termine il 17 Dicembre 1971 con la resa del Pakistan, in seguito alla quale gli ambienti militari decisero la destituzione di Yahia Khan e la sua sostituzione con Alì Bhutto. Sul piano internazionale l'accettazione pakistana della perdita della provincia orientale favorì una ripresa nel dialogo con l'India. All'interno Bhutto tentò di dare un più stabile assetto al paese proclamando nel 1973 una costituzione che istituiva un sistema bicamerale e divideva le cariche di presidente della repubblica e di capo del governo.
L'esplosione di istanze separatiste nella provincia del Belucistan e il conseguente insorgere del terrorismo spinsero Alì Bhutto ad adottare la maniera forte e a sospendere l'attività del parlamento. Confermata la presidenza del consiglio dopo le elezioni del 1977, Bhutto fu contestato da vasti settori del suo partito e dalle gerarchie militari e venne deposto da un colpo di stato, in seguito al quale il generale Muhammad Zia Ul-Haq assunse la carica di primo ministro a Binterin. Poco dopo Bhutto fu arrestato con l'accusa di aver fatto assassinare un suo nemico politico e, dopo essere stato condannato a morte venne giustiziato nel 1979.
Zia Ul-Haq, divenuto anche presidente della repubblica, vantò al suo attivo la parziale soluzione di alcuni problemi economici, grazie a prestiti senza precedenti ottenuti dal fondo monetario internazionale e dagli Stati Uniti, per compensare il Pakistan dei "danni" subiti per i contraccolpi dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. All'inizio degli anni 80' i partiti politici, posti sotto il giogo della legge marziale, si riunirono in un movimento per la restaurazione della democrazia, che chiedeva una sollecita consultazione popolare. Il generale Zia, che aveva cercato di ingraziarsi i fondamentalisti islamici introducendo nel paese una Sharia particolarmente rigida (che prevedeva tra l'altro la pena di morte per il delitto di blasfemia), continuò a rimandare le elezioni, malgrado l'aperta sfida della figlia di Bhutto, Benazir, principale esponente dell'opposizione. Nel 1988, subito dopo aver imposto la Sharia come legge suprema dello stato pakistano, Zia morì, e qualche mese più tardi, la sua morte riaprì la dialettica politica nel paese.
La carica di presidente ad Interim venne assunta dal capo del senato Ghuran Ishaq Khan. Le elezioni del Novembre 1988 videro la contrapposizione tra la coalizione dei partiti islamici sostenuta dagli Stati Uniti e il partito del popolo guidato da Benazir Bhutto che ottenne una vittoria travolgente. Nominata primo ministro Benazir avviò un programma democratico moderato e rispettoso della tradizione progressista musulmana che era la migliore eredità dell'Islam indiano.
L'azione di governo di Benazir Bhutto fu molto apprezzata sul piano delle relazioni internazionali, ma su quello interno la tensione non diminuì. I contrasti etnici tra Punjabi e Pashtun e l'affermarsi del radicalismo islamico più estremista, sfruttato a fini politici dall'alleanza democratica islamica, espressione dei grandi proprietari terrieri, determinarono gravi difficoltà per la premier pakistana a cui venne rimproverata l'eccessiva occidentalizzazione e la mancata soluzione dei problemi economici del paese. Nel 1990 Benazir Bhutto fu destituita dal presidente della repubblica, Ghalam Ishaq Khan che proclamò lo stato di emergenza.
Alle successive elezioni politiche anticipate dell'Ottobre 1990, l'alleanza islamica si assicurò il governo del paese. Miam Muhammad Nawaz Sharif fu nominato primo ministro e puntò la riconciliazione nazionale. La situazione interna rimase tuttavia difficile, mentre nel 1992 si aggravò la tensione nel Kashmir, tanto da portare a un rinnovato inasprimento delle relazioni con Nuova Delhi: la circostanza suscitò grave allarme internazionale perché Pakistan e India erano ormai entrate nel novero delle nazioni fornite di arma nucleare.
In seguito a una grave crisi politica interna, causata dallo scontro tra il presidente della repubblica e il primo ministro, nel 1993 furono indette elezioni anticipate, che registrarono una nuova vittoria del partito di Benazir Bhutto, che tornò alla guida del governo, mentre il suo compagno di partito Farooq Leghari, venne nominato presidente della repubblica. Il governo si trovò ad affrontare una situazione finanziaria sempre più difficile, mentre a partire dal 1994 si verificò un'escalation senza precedenti delle violenza inter-religiose, a causa dell'intensificarsi del fondamentalismo islamista. Sul piano internazionale continuò un alto livello di tensione sulla faccenda del Kashmir perché il movimento di guerriglia islamica costituitosi in forze intensificò la politica degli attentati in India.
Nel 1996 la Bhutto fu nuovamente destituita dal presidente della repubblica e le elezioni dell'anno successivo portarono alla vittoria la lega musulmana.
Sharif divenne primo ministro e perseguì una politica di forte accentramento del potere; nel 1998 fu introdotto un emendamento costituzionale che dichiarava la legge coranica legge fondamentale dello stato al di sopra della costituzione. C'è da precisare che il "Corano" a cui ci si riferiva non era certamente il libro sacro rivelato al Profeta Muhammad, ma un testo manomesso e stampato in milioni di copie dall'università statunitense del Nebraska, con un finanziamento di 5 milioni di dollari stanziato dalla CIA.
Nell'Autunno 1999 Sharif fu deposto da un colpo di stato militare guidato dal generale Pervez Musharraf, che nel 2001 assunse anche la carica di presidente della repubblica. Allo scoppiare della crisi internazionale del Settembre 2001, Musharraf si schierò con gli Stati Uniti contro il regime dei talebani afghani, in precedenza sostenuto dal Pakistan, ottenendo in cambio forti aiuti economici da Washington, ma suscitando il malcontento di ampi settori della popolazione, che esplose in scontri con la polizia dopo l'inizio dei bombardamenti in Afghanistan. Oltre al radicalizzarsi delle tensioni interne il conflitto afghano comportò per il Pakistan il difficile problema della gestione di milioni di profughi.
Tra la fine degli anni 90' e l'inizio del nuovo secolo anche le relazioni con l'India furono caratterizzate da forti tensioni sia per la disputa sul Kashmir, dove nel 2002 si registrarono scontri particolarmente sanguinosi, sia per la questione aperta degli armamenti nucleari.
Nell'Aprile 2002 si tenne il referendum per la riconferma di Musharraf al potere, ma la sua legittimità fu contestata dai partiti di opposizione forti del sostegno della corte suprema. Alle elezioni parlamentari dell'Ottobre 2002 la lega musulmana ottenne la vittoria e nel Novembre successivo Mir Zarafullah Khan Jamali fu nominato primo ministro del primo governo formato da civili dopo il colpo di stato di Musharraf, il quale mantenne il controllo dell'esercito e la facoltà di licenziare il primo ministro. L'ambiguo atteggiamento tenuto dai servizi segreti pakistani nei rapporti con i movimenti di guerriglia talebana in Afghanistan e, soprattutto i sospetti sempre più gravi che il governo americano nutriva sul fatto che le zone di confine (le cosiddette aree tribali) sembravano essere il rifugio inespugnabile di Al Qaeda e del suo leader Osama Bin Laden, spinsero il governo americano a togliere ogni sostegno a Musharraf, che fu costretto a lasciare ogni carica militare.
Alle nuove elezioni che vennero immediatamente indette partecipò come candidata del partito popolare, Benazir Bhutto, la quale venne assassinata nel corso di un attentato, la cui responsabilità venne accertata ufficialmente in capo ai servizi segreti. Mentre il figlio della Bhutto veniva nominato presidente del partito, il ruolo di primo ministro fu assegnato al vedovo della Bhutto, in attesa che il figlio raggiungesse la maggiore età. Il Pakistan seguita ad essere tragicamente squassato dalle vicende afghane, dalla presenza di Al Qaeda e dai sempre crescenti scontri inter-etnici: oggi il Pakistan può essere considerato uno dei principali focolari di tensione a livello internazionale.


Nonostante sia sempre stato un groviglio di etnie diversissime tra loro (pashtun e tagichi di ceppo iranico, azhara di ceppo mongolo, uzbechi e turkeni, di ceppo turco, beluci, arabi, urdu, kafiri di religione idolatrica, sherpa delle aree himalayane, ecc.ecc.) in perenne guerra intestina e nonostante non si sia veramente affermata una struttura statale con poteri centrali di qualche spessore, l'Afghanistan è stato uno dei pochi territori al mondo che non ha mai subito dominazioni coloniali troppo prolungate. Gli afghani, infatti, pur essendo perennemente impegnati in interminabili guerre inter-tribali, quando un esercito straniero prova a invadere il loro territorio, si uniscono in fronte comune  e impartiscono agli invasori severe punizioni.
Una storia autonoma dell'Afghanistan inizia nel secolo XVIII quando Ahmed Shah, capo della tribù dei Durrani, fondò il nuovo regno, aggredito agli inizi dell'800 dall'emiro pashtun Dost Muhammad, che riuscì ad estendere la sua autorità su tutto il paese. L'ultimo erede della dinastia durranica per far fronte all'emiro Dost Muhammad ottenne l'intervento delle truppe inglesi, ma queste ultime furono costrette a ritirarsi, pagando la disastrosa ritirata da Kabul al passo Kyber con oltre 20 mila morti: le truppe inglesi vennero completamente sterminate e l'unico sopravvissuto fu un medico che portò a Lahore il messaggio che gli avevano consegnato i seguaci di Dost Muhammad: "Non provate più a mettere il naso nelle faccende interne del nostro paese".
Nel 1855 Dost Muhammad fu riconosciuto emiro dalla Gran Bretagna e la sua dinastia continuò a governare il paese. Nel 1880 la Gran Bretagna cercò di imporre il proprio protettorato ma l'emiro Amanullah Khan ne ottenne la rinuncia formale nel 1919. Questi fu il promotore della modernizzazione dell'Afganistan, assunse nel 1926 il titolo di re, ma tre anni dopo fu deposto da un colpo di stato organizzato dai capi tribù. Dopo una lotta per la successione fu proclamato re Muhammad Nadir Khan assassinato nel 1933. A lui successe il figlio Muhammad Zahir, che durante la Seconda Guerra Mondiale mantenne la neutralità per due anni, quindi dichiarò la guerra alla Germania e nel 1946 entrò a far parte dell'ONU.
La nascita del Pakistan suscitò gravi questioni sulla frontiera orientale, dove le tribù pashtun, incluse nel Pakistan e aspiranti all'indipendenza, vennero sostenute dal governo di Kabul.
Nel corso degli anni 50' vi furono numerosi momenti di tensione tra l'Afghanistan e il Pakistan. Il più drammatico si registrò nel biennio 1955-1956, quando il Pakistan aderì a due alleanze create sotto l'egida degli Stati Uniti, il Patto di Baghdad e la SEATO. Per reazione l'Afghanistan intensificò i suoi rapporti con l'URSS, ma in seguito accettò le offerte di aiuto dell'USA e ripristinò normali relazioni con il Pakistan. Sul piano interno le delusioni provocate dal lento processo di democratizzazione provocarono nel 1973 un colpo di stato anti monarchico che destituì re Muhammad Nadir Khan e instaurarono una repubblica presidenziale. Capo degli insorti e nuovo capo dello stato fu Muhammad Daud Khan il cui governo varò un piano di riforma agraria, nazionalizzò l'industria mineraria e riconobbe la parità giuridica fra i due sessi. Nel 1978 il partito democratico del popolo afghano attuò un nuovo colpo di stato e Nur Muhammad Taraki, segretario del partito, proclamò la repubblica democratica dell'Afghanistan di cui assunse le cariche di presidente e di primo ministro.
Presto esplosero i primi contrasti nel governo e il vice primo ministro, Babrak Karmal, venne esiliato. Furono comunque avviate ulteriori riforme nel settore agrario frenate tuttavia dalle componenti conservatrici della società afghana: capi tribali, "signori della guerra", grandi proprietari terrieri coltivatori di oppio.
Taraki ricorse allora all'URSS, da cui ottenne l'invio di consiglieri militari. Nel Settembre 1979 emerse drammaticamente il dissidio tra i vertici del partito: Hazfizullah Amin, primo ministro da Marzo, allontanò dal potere Taraki; ma in Dicembre Babrak Karmal assunse il potere con un nuovo colpo di stato e si servì dei soldati sovietici per combattere la guerriglia anti-governativa. La presenza dei soldati dell'Armata Rossa contribuì ad estendere i focolari di ribellione; particolarmente ostile fu la guerriglia del gruppo islamico dei Mujahidin, la cui espansione fu provocata dall'atteggiamento ottuso dei responsabili militari delle truppe sovietiche.
Seguirono anni di aspra lotta che distrussero praticamente l'economia del paese. Dopo l'avvento al potere di Gorbaciov in URSS, Karmal venne sostituito da Muhammad Najibullah 1986, che tentò una politica di riconciliazione rifiutata dai Mujahidin. Nel 1988 Gorbaciov ordinò il ritiro delle truppe sovietiche, dietro garanzia di un non-intervento degli USA, già attivissimi sostenitori della guerriglia. Najibullah tentò di combattere quest'ultima anche sul piano diplomatico aprendo il regime alle componenti non comuniste e manifestando rispettosa considerazione verso le autorità religiose. Malgrado ciò, per comune accordo delle funzioni guerrigliere egli fu sostituito alla guida del governo da Sibghapullah Modjaddedi, mentre il potere supremo veniva affidato a un consiglio direttivo che successivamente nominò presidente della repubblica Burhanubdin Rabbani.
Nel 1993 si potevano identificare in Afghanistan 4 forze politico-militare contrapposte: le truppe del Jamiat-i Islami di Ahmat Shah Massud e del presidente Rabbani, per lo più di etnia Tagika; le milizie uzbeke del terribile generale Dostom; gli sciiti dello Hezd-i Wahdat guidati dallo sceicco Alì Mazari e sostenuti dall'Iran; i fondamentalisti dello Hezb-i Islami di Gulbuddin Hekmatyar, di ceppo pashtun e sostenuti dal Pakistan.
Nonostante gli accordi che nel Marzo 1963 assegnarono a Hekmatyar la carica di primo ministro, le fazioni continuarono a combattersi aspramente, saccheggiando a turno il paese, fino alla comparsa nel 1994 di una nuova forza politica, il Taliban, (studenti di teologia formatisi nelle scuole religiose al confine con il Pakistan e finanziati attraverso i servizi segreti dalla CIA).
Il movimento dei Taliban affermò rapidamente la propria supremazia militare e conquisto gran parte del territorio afghano di Kabul nell'Ottobre 1996. Giunti al potere essi impiccarono tutte le persone in qualche modo compromesse con la presenza sovietica, e imposero un regime dispotico rigidamente teocratico che soppresse con violenza i diritti civili, in particolare delle donne. Nel corso degli anni i Taliban resero sempre più rigida l'osservanza dei principi dell'integralismo islamista, abbatterono le gigantesche statue del Buddha a Bamyan Una, imposero alla popolazione induista un drappo giallo come segno distintivo. Sul piano internazionale, dal Novembre 1999 subì sanzioni economiche previste dal consiglio di sicurezza dell'ONU in seguito al rifiuto del governo Taliban di concedere l'estradizione di Osama Bin Laden, il miliardario accusato di essere il capo dell'organizzazione terroristica responsabile degli attentati alle ambasciate americane nell'Agosto del 1998 e quelli disastrosi avvenuto nel Settembre 2001 a New York e a Washington. Un mese dopo gli Stati Uniti appoggiati dai paesi della Nato, iniziarono azioni di guerra in territorio afghano per catturare Osama Bin Laden e per rovesciare il regime dei Taliban che lo sosteneva. Nel Dicembre 2001 il regime Taliban venne sconfitto: i delegati delle diverse etnie riuniti in conferenza a Bonn nominarono un governo provvisorio guidato dal capo tribù Hamid Kazai e convocarono l'assemblea dei capi tribali afghani (Loya Jirga). Nel 2002 quest'ultima, riunita a Kabul confermò alla guida del governo e nominò presidente del paese Karzai, mentre il governo di transizione da lui presieduto ebbe l'incarico di indire entro il 2004 nuove elezioni generali.
Per un breve periodo una precaria pace sembrò essere ritornata, ma subito dopo lo svolgimento delle elezioni, vinte da Karzai la guerriglia Taliban riesplose in tutta la sua violenza arrivando a controllare gran parte del territorio afghano e minacciando la stessa capitale Kabul. Le truppe americane e Nato hanno subito in Afghanistan pesanti perdite, e non si vede in che modo riusciranno a venire a capo di una vicenda che trae alimento dalla sempre più evidente complicità dei servizi segreti pakistani.

mercoledì 25 maggio 2011

L'ISLAM NEL MONDO ATTUALE - 8a parte

VIII - LA LIBIA


Alla fine della guerra Muhammad Idris Al-Sanusi, capo dei Senussiti che per anni erano stati protagonisti della resistenza anti italiana, proclamò l'indipendenza della Cirenaica (1949) ottenendo il riconoscimento di Londra. In quello stesso periodo l'ONU sostenne la necessità di costituire uno stato indipendente libico formato da Tripolitania, Cirenaica e Fezzan e nel 1951 costituitosi effettivamente il regno unito di Libia, Idris ne divenne re. Egli inserì la Libia nel quadro del mondo arabo senza rompere con l'Inghilterra e avviò la riorganizzazione economica del paese avvalendosi di consistenti aiuti britannici.
In seguito alla scoperta e allo sfruttamento di ricchi giacimenti petroliferi nel suo territorio, la Libia legò sempre più strettamente il suo sviluppo energetico agli aiuti tecnici e agli investimenti di capitali anglo-americani. Come contropartita il paese venne utilizzato per il controllo occidentale sul Mediterraneo, mediante la presenza di basi militari inglesi e statunitensi. Sul piano politico interno la vita dello stato si caratterizzò fin dall'inizio per lo svuotamento delle istituzioni democratiche, perché di fatto i pubblici poteri erano monopolio di pochi clan feudali vicini alla corte e dei capi tribù nomadi, soprattutto Tuareg che si spostavano sull'immenso territorio libico.
Caute riforme furono avviate da re Idris all'inizio degli anni 60'; ma dagli ambienti intellettuali e studenteschi cominciò a levarsi una moderata opposizione contro gli orientamenti politici filo occidentali del governo. La ventata nazionalista panaraba sollevata dal conflitto arabo israeliano del 1967 accelerò la crisi della monarchia: larghi settori della popolazione, soprattutto giovani, piccola borghesia e quadri intermedi dell'esercito, cominciarono ad accusare il re per il suo atteggiamento rinunciatario nei confronti di Israele e per l'immobilismo a cui aveva costretto la società libica. In questo clima, il 31 Agosto 1969, un gruppo di ufficiale rovesciò la monarchia con un colpo di stato e proclamò la Repubblica araba di Libia, il cui governo venne affidato a Mahmud Soliman El-Maghrabi, sotto la supervisione di un consiglio della rivoluzione, presieduto dal colonnello Muhammar El-Gheddafi.
Il nuovo governo intraprese una politica nazionalistica fortemente ancorata ai principi dell'Islam più ortodosso. Le prime misure adottate furono la nazionalizzazione delle banche e delle proprietà straniere e l'avvio di negoziati con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per un rapido sgombero delle loro basi militari.
Nel 1970 Gheddafi esautorò El-Maghrabi e assunse la presidenza del consiglio attribuendo ai militari tutti i ministeri chiave. Gheddafi riaffermò gli orientamenti ideologici del nuovo regime: tenace opposizione tanto all'imperialismo occidentale quanto al comunismo, ricerca di una terza via fondata sul nazionalismo arabo e sulla tradizione islamica, sostegno incondizionato alla resistenza palestinese. All'interno venne istituito un partito unico, l'Unione socialista araba, ispirata al modello nasseriano.
In pochi anni il nasserismo di Gheddafi si tradusse in un frenetico panarabismo. All'inizio degli anni 70' egli dispiegò un'intensa attività diplomatica volta ad avvicinare i paesi arabi al suo regime: nel 1973 si adoperò per la fusione con l'Egitto e, fallito questo tentativo, fece analoghe proposte alla Tunisia. Nel 1974 il primo ministreo Jalloud si vide attribuire le funzioni rappresentative amministrative di capo dello stato, mentre Gheddafi manifestava il suo desiderio di dedicarsi ad attività ideologiche.
Il relativo isolamento in cui venne a trovarsi la Libia dopo la svolta filo occidentale dell'Egitto indusse Jalloud ad avvicinarsi all'URSS, interessata a consolidare la propria presenza nella regione. Nel Marzo 1967 entrò in vigore una nuova costituzione: il paese assunse la denominazione Jamahiriya (potere alle masse); i vecchi istituti di governo vennero sostituiti da un consiglio generale del popolo destinato a svolgere le funzioni di consiglio dei ministri e da una segreteria generale guidata da Gheddafi. Il Corano venne assunto come legge fondamentale dello stato e agli organismi popolari di base fu affidato il compito di realizzare il modello di democrazia diretta a cui il nuovo sistema istituzionale si era ispirato. Gheddafi intendeva promuovere l'esportazione di tale sistema e il suo impegno militante si accentuò, al pari degli atteggiamenti anti occidentali, che si affiancarono con corrette relazioni amichevoli con l'URSS.
Ciò indusse gli USA a svolgere una sempre più decisa azione contro la Libia. Nel 1977 si giunse a una guerra con l'Egitto, sia pure di breve durata, nella quale l'esercito libico, nonostante l'enorme disparità delle forze, resistette senza arretrare. Successivamente gli Stati Uniti adottarono un pesante embargo commerciale anti-libico agli inizi degli anni 80', mentre nel corso di esercitazioni navali americane effettuate nei pressi delle coste libiche si arrivò più volte vicino allo scontro militare. La situazione precipitò dopo i disastrosi attentati del Dicembre 1985 agli aeroporti di Roma e di Vienna di matrice palestinese, ma molte circostanze fecero pensare alla complicità di Tripoli; e la vicenda determinò l'aggravamento delle sanzioni economiche sia da parte degli USA e dai paesi europei. Le manovre condotte nel Marzo 1986 dalla 6a flotta americana nelle acque del Golfo della Sirpe, considerate dalla Libia "acque interne", provocarono un conflitto militare diretto che si tradusse nella distruzione di alcune basi libiche lungo la costa. In Aprile ebbe luogo un nuovo attentato a Berlino e Washington ne attribuì la responsabilità alla Libia. Subito dopo Tripoli subì un pesante bombardamento dai caccia bombardieri statunitensi, che distrussero la residenza di Gheddafi, provocando la morte di una sua figlioletta di 6 anni.
Successivamente la tensione si allentò pur restando i due paesi divisi da un'ostilità di fondo, tale che tutta la politica estera libica degli anni 80' fu influenzata dalla sfida con gli Stati Uniti. La tensione ebbe notevoli ripercussioni sulla crisi del Ciad che rappresentò il maggior banco di prova della tenuta del regime gheddafiano. Dopo che i libici avevano occupato la Striscia di Auzu nel 1973, per una decina d'anni la Libia aveva tentato di porre sotto controllo il Ciad, instaurandovi un governo fantoccio. All'inizio degli anni 80' la fazione anti libica guidata da Hissene Havré, Gheddafi intervenne militarmente nel paese (1983). Ne derivò un confronto tra Tripoli e Parigi cui Havré aveva chiesto aiuto a conclusione del quale, non essendo i francesi riusciti a prevalere, i libici ottennero il controllo del Ciad settentrionale. Nel 1987 gli Stati Uniti intervennero in appoggio ad Havré e Gheddafi fu costretto a ritirarsi dal Ciad, tranne che da Auzu. Verso la metà degli anni 80' la principale preoccupazione del governo di Tripoli diventò il superamento dell'isolamento internazionale. Ciò spiega l'unificazione con il Marocco, stabilita con il trattato di Oujda del 1984, per altro denunciato due anni dopo dal governo marocchino. Sul piano economico, dimezzatesi gli introiti petroliferi, per la caduta del prezzo del greggio sui mercati internazionali, la situazione libica peggiorò e costrinse Gheddafi ad applicare una politica di austerità. Nella seconda metà degli anni 80' il governo di Tripoli dovette affrontare una nuova fase di isolamento internazionale. Nuove tensioni si svilupparono con gli Stati Uniti in seguito all'accusa mossa dalla Libia di produrre armi chimiche; nello stesso periodo furono interrotti i rapporti con l'URSS di Gorbaciov, con il Marocco, con la Siria e con l'Iran. In risposta al crescente isolamento Gheddafi si concentrò sui problemi interni, avviando un processo di trasformazione e di riconciliazione che culmino nell'abolizione del monopolio statale sul commercio estero e nell'invito dei fuoriusciti a rientrare nel paese; quindi nel biennio 1987-1988 la Libia si riavvicinò alla Tunisia, alla Giordania e all'Iran mentre nel 1989 riallacciò i rapporti diplomatici con il Ciad che prevedeva la cessione al paese africano della controversa fascia di Auzu.
Dopo un breve periodo di distensioni nelle relazioni con l'Europa occidentale e con gli Stati Uniti si ebbe un nuovo deterioramento nelle relazioni con l'occidente quando, in occasione della prima guerra del golfo, Gheddafi si dichiarò contrario all'intervento militare multinazionale in medio oriente.
La reazione occidentale più dura si espresse contro gli atti di terrorismo internazionale: nel 1982 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU riconobbe alla Libia la responsabilità di due sanguinosi attacchi terroristici commessi rispettivamente nel 1979 contro un aereo francese precipitato sopra il Niger e nel 1988 contro un aereo americano precipitato a Lockerbie in Scozia. A rifiuto di Gheddafi di consegnare gli agenti libici incriminati del secondo attentato, entrò in vigore un embargo aereo militare e aereo totale contro la Libia.
Nel 1993 si verificarono alcune rivolte militari subito sanguinosamente represse. L'anno successivo, in quello che sembrò uno sforzo per contenere l'espansione del fondamentalismo islamico fu estesa l'applicazione della Sharia in campo penale e civile. Nello stesso anno il congresso generale del popolo nominò un segretario del comitato generale popolare con funzioni di primo ministro, ma il potere reale restava saldamente in mano a Gheddafi.
Nonostante il progressivo deterioramento dell'economia libica causata dall'embargo internazionale, cessato solo nel 1999 dopo la dissociazione della Libia dal terrorismo e la consegna degli imputati di Lockerbie, Gheddafi dichiarò di considerare favorito alla sua successione il figlio Saadi. La strategia politica perseguita in campo internazionale fu gradatamente improntata alla ricerca della distensione con i paesi occidentali, come dimostra la collaborazione libica in relazione all'attentato di Lockerbie e all'appoggio dato da Gheddafi all'azione militare anglo-americana in Afghanistan dopo gli attentati dell11 Settembre 2001. Nella stessa direzione vanno collocati i sempre più stretti rapporti con l'Italia che la Libia ha consolidato con l'acquisto del 2% del capitale FIAT e, successivamente con la stipulazione di un trattato di amicizia firmato nel 2008, con il quale si chiudeva ogni contenzioso legato alla dominazione coloniale italiana in Libia e con l'impegno del governo Berlusconi di investire svariati miliardi di euro per la costruzione di una grande autostrada Tripoli-Bengasi.

martedì 24 maggio 2011

L'ISLAM NEL MONDO ATTUALE - 7a parte

VII - I PAESI DEL MAGHREB 


Tunisia, Marocco e Algeria hanno conosciuto dopo il raggiungimento dell'indipendenza dalla Francia, più o meno, tutti i moduli politici e religiosi che abbiamo visto operare negli altri paesi musulmani fin'ora considerati: dal laicismo esasperato dei regimi tunisini al socialismo arabo presente per un periodo in Algeria fino alla monarchia assoluta del Marocco, con estese fiammate di fondamentalismo soprattutto di segno Salafita contrapposto in particolare alle dittature militari di Algeria.

I - Tunisia
Il processo di emancipazione della Tunisia si concluse quando la Francia ne riconobbe l'indipendenza soprattutto grazie all'opera energica di Bourguiba, che costituì il primo ministero del nuovo stato, avvalendosi della maggioranza ottenuta dal suo partito, (NEO DESTOUR) nelle elezioni dell'assemblea costituente che proclamò la repubblica nel 1957, eleggendo Bourguiba a capo dello stato.
Bourguiba governò a lungo con esiti in parte positivi e in parte negativi. Se da un lato egli fu artefice di una politica che puntava a una rapida modernizzazione del paese, dall'altro diede al regime un carattere sempre più personalistico, trasformandolo infine in una dittatura. Nel 1963 venne istituito un sistema a partito unico, che affidava la guida del paese al partito "Neo Destouriano". Nel frattempo si era consumata l'unica crisi insorta nei rapporti con l'occidente, provocata dal sostegno tunisino alla lotta indipendentistica dell'Algeria e dal blocco della base navale francese di Viserta. Ne derivò una guerra limitata con la Francia che si concluse con un accordo in base al quale la base navale venne chiusa (1963). In questo periodo in Tunisia venne intanto tentato un esperimento socialista, abbandonato nel 1969 a favore di una politica di stampo liberista, che favorì un considerevole sviluppo economico, accompagnato però da sempre più gravi diseguaglianze sociali. Intanto le tendenze assolutiste del regime furono accentuate con la nomina di Bourguiba a presidente a vita (1974), mentre ogni forma di opposizione veniva ridotta al silenzio. Tutto ciò portò nel 1978 ad una serie di rivolte violentemente represse dal governo e attribuite ai Fratelli Musulmani.
Per quanto riguarda le relazione internazionali, se negli anni 60' i rapporti con l'estero erano stati caratterizzati da una continua tensione con l'Egitto Nasseriano, nel decennio successivo a dominare la scena furono i rapporti con la Libia. Nel 1974 fu proclamata l'unione tra i due paesi, subito rinnegata da Tunisi, preoccupata per le continue iniziative al limite della follia del colonnello Gheddafi: è superfluo aggiungere che da allora i rapporti con la Libia divennero tesi e il colonnello libico attentò più di una volta alla vita del dittatore tunisino.
Nel corso degli anni 80' Bourguiba, sempre più ossessionato dal timore di nuovi complotti, alimentò una crescente repressione politica, che si intrecciò con il malessere sociale provocato da una aggravata crisi economica. Nel 1984 si ripeté lo scenario di rivolta del 1978, nuovamente represso sanguinosamente. Seguirono cambiamenti politici convulsi, finché nel 1987 Bourguiba, ormai completamente impazzito, venne destituito con un colpo di stato che portò al potere il generale Ben Alì. Questi reintrodusse il pluripartitismo e rifondò il "Neo Destour" trasformato in Raggruppamento costituzionale democratico. Il processo di democratizzazione, tuttavia, procedé lentamente fino a bloccarsi del tutto, tanto che alle elezioni presidenziali del 1989 Ben Alì fu presentato come candidato unico.
Gli anni 90' videro un rafforzamento del potere di Ben Alì e del suo entourage familiare, la cui azione si orientò sempre di più verso una ripetizione del regime dittatoriale, cui, per altro fece da contrappeso un'apertura su piano economico. Unica seria minacci al regime fu rappresentato dal rafforzamento dell'integralismo islamico, in cui si unirono i Fratelli Musulmani e il movimento Salafita di marca algerina, ispiratore nel 1991 di un complotto contro il regime, che venne duramente represso.
Nel 1994 si tennero nuove elezioni che riconfermarono Ben Alì alla presidenza, anche perché egli era l'unico candidato. Ben Alì cercò di allentare la tensione consentendo l'ingresso dell'opposizione nell'assemblea nazionale mentre i successi conseguiti in campo economico consentirono al potere di rafforzare la propria immagine. Questa fu offuscata dall'arresto nel 1995 di Muhammad Moada, leader del movimento dei democratici socialisti. L'anno successivo il presidente, dopo la liberazione degli oppositori incarcerati, conseguì un nuovo successo, mentre nel 1997 il movimento dei democratici socialisti, guidato dal nuovo leader Smail Boulahya, ribaltò le proprie posizioni e accordò il proprio appoggio a Ben Alì. Avviatosi sulla strada di un esercizio sempre più incontrastato del potere, Ben Alì vinse le elezioni presidenziali del 1999 con la quasi totalità dei suffragi e fino al 2010 seguitò ad essere il padrone incontrastato della Tunisia giocando abilmente con finte aperture verso l'opposizione.

II - Marocco
Nel 1955, non potendo più contenere il movimento nazionalista marocchino, la Francia restaurò re Maometto V e permise la costituzione di un governo rappresentativo. L'anno successivo, il 28 Marzo 1956, Francia e Spagna riconobbero ufficialmente la piena indipendenza e unità del Marocco, con l'eccezione delle enclaves di Ceuta e Medilla, di Ifni e del Sahara spagnolo. L'Istaqlal, il partito indipendentista che propugnava la creazione di un grande Marocco comprendente il sud-ovest algerino, il Sahara spagnolo, la Mauritania e territori del Sudan francese (Mali), protestò vivacemente contro l'impostazione del 1956 che rimase tuttavia immutata.
Nel 1961 Maometto V morì e a lui succedette il figlio Moulay Hassan, col nome di Hassan II. Nei primi anni del suo regno il nuovo re governò in modo autoritario, escludendo dal governo l'Istaqlal e reprimendo ogni forma di opposizione. La monarchia creò un proprio partito, il Fronte per la difesa delle istituzioni costituzionali, che assunse il pieno controllo del governo sebbene in parlamento non godesse della maggioranza in seguito alle elezioni del 1963. Ciò indusse il re a gettare ogni ipocrisia pseudo democratica e ad assumere i pieni poteri.
All'inizio degli anni 70' due tentativi di colpo di stato attuati da gruppi minoritari delle forze armate, cui Hassan II scappò miracolosamente, dimostrarono che la monarchia non era in grado di reggersi esclusivamente sulla repressione del dissenso anche perché non poteva contare sulla lealtà delle forze armate, buona parte delle quali era fortemente influenzata dal movimento dei Fratelli Musulmani. La risposta di Hassan secondo fu duplice. Da un lato egli diede spazio alla dialettica dei partiti, dall'altro gestì con intransigenza la questione del Sahara occidentale, scoppiata nel 1974, ad opera della rivolta guerriera del movimento indipendentista Polisario, in modo da incanalare in quella direzione le ambizioni dei militari. Nel 1974, dopo aver rinunciato alle rivendicazioni nei confronti della Mauritania e dell'Algeria, il governo di Rabat rivendicò al Marocco il territorio del Sahara che la Spagna aveva annunciato di voler decolonizzare. Ne nacque una disputa internazionale, che si concluse con un accordo tra Spagna, Marocco e Mauritania (1975), in base al quale l'ex colonia spagnola doveva essere divisa in due parti, la più estesa assegnata al Marocco, l'altra alla Mauritania.
L'accordo fu contestato dall'Algeria e dal Polisario, che nel 1976 proclamò la nascita della repubblica araba democratica Saharaui e intensificò la guerriglia contro il Marocco rivendicando l'indipendenza.
Marocco e Mauritania sostennero insieme la guerra contro il Polisario fino al 1978, quando la Mauritania decise di cessare le ostilità; il Marocco occupò all'ora tutto il territorio dell'ex Sahara spagnolo; la sua guerra proseguì diventando un'occasione di coesione politica tanto che nel 1977 tutti i partiti marocchini, cominciando dall'Istaqlal furono chiamati ad entrare in un governo di unità nazionale. I partiti di opposizione, che non riuscirono a conquistare il controllo del parlamento nelle elezioni legislative del 1977 e del 1984 furono per altro rapidamente espulsi dal governo.
Nei rapporti internazionali la tensione con l'Algeria fu l'elemento dominante dal 1975 al 1988 quando si delineò un'inversione di tendenza. Il Marocco mantenne inoltre ottimi rapporti con la Francia e strinse i suoi legami con gli Stati Uniti e con la CEE. Fautore di una politica "moderata", Hassan II tentò persino di spianare la strada ad un'intesa generale tra arabi e israeliani.
Il problema irrisolto del popolo Saharaui rimase al centro della politica del Marocco negli anni successivi. Una parziale pacificazione si registrò nel 1993 con la sospensione degli scontri armati tra l'esercito marocchino e il Polisario. Nonostante ciò la prospettiva di un referendum appariva ancora lontana per il persistere di profonde divergenze tra le parti in causa nella definizione del corpo elettorale chiamato a pronunciarsi. Nel frattempo, dopo l'apertura verso Israele, che aveva suscitato violente reazioni da parte del mondo arabo, nel 1989 il Marocco riallacciò i rapporti con l'Algeria, intraprese relazioni diplomatiche con l'OLP (1989) pur confermando il proprio ruolo di intermediario con Israele.
In politica interna Hassan II permise la costituzione di un sistema parlamentare, di un governo relativamente autonomo, ma mantenne un controllò assoluto sulle leve del potere. Le forze di opposizione dell'Istaqlal e dell'unione socialista diedero vita a un blocco democratico, presentandosi uniti alle elezioni politiche del 1993 che sancirono la loro netta affermazione. La maggioranza uscente legata al re mantenne comunque il controllo nell'assemblea nazionale grazie all'elezione di un terzo dei deputati da parte degli organismi locali e delle organizzazione professionali.
Nel 1996 un referendum indetto da Hassan II approvò la proposta di istituire un parlamento bicamerale e l'anno successivo si tennero nuove elezioni legislative il cui esito, favorevole al blocco democratico, venne questa volta rispettato. Nel Febbraio 1998 Hassan II nominò alla guida del governo il segretario dell'unione socialista, Abderrahmane Youssoufi.
L'anno successivo Hassan II morì e a lui succedette sul trono il principe ereditario Sidi Muhammed con il nome di Maometto VI. L'esordio del nuovo sovrano apparve promettente: egli avviò infatti una politica di rinnovamento, congedò le personalità compromesse con i regimi autoritari del passato, amministrò gli oppositori, riconsiderò come argomento aperto la questione sahariana e manifestò la volontà di promuovere il pieno rispetto dei diritti umani, in particolare delle donne. La politica riformistica di Maometto VI, che annuncia il varo di una costituzione simile a quella francese, spiega perché il Marocco è rimasto esente dai grandi moti rivoluzionari che hanno caratterizzato l'intero nord Africa.

III - Algeria
Dopo l'indipendenza si scatenò in Algeria la lotta tra le diverse correnti che avevano partecipato alla guerra di liberazione. Particolarmente grave fu lo scontro tra Ben Khedda, che nel 1961 aveva sostituito Ferhat Abbas alla testa del GPRA (Governo provvisorio rivoluzionario algerino) e Ahmet Ben Bella. Quest'ultimo ebbe la meglio grazie all'appoggio dell'esercito guidato da Houari Boumedienne. Nel 1963 Ben Bella fu eletto presidente della repubblica mentre veniva varata la costituzione che conferiva al capo dello stato ampi poteri e creava le premesse di un regime a partito unico, lo FLN (Fronte di liberazione nazionale) ad orientamento socialista.
Nel 1965 il governo civile fu rovesciato da un colpo militare, guidato da Boumedienne, che consegnò il governo del paese agli alti dirigenti dell'FLN e dell'esercito. Il nuovo regime manifestò presto la tendenza di accentrare nelle mani dei funzionari statali l'intera economia. Nel 1971 fu nazionalizzato il ricchissimo settore petrolifero, venne lanciata la riforma agraria, affiancata da leggi sull'autogestione delle imprese e si potenziò lo sviluppo dell'industria pesante. L'autogestione operaia, tuttavia, divenne un'opzione quasi unicamente teorica, mentre la riforma agraria manifestò gravi carenze.
Sul piano istituzionale solo dopo un decennio venne superato lo stato di emergenza e si diede inizio alla normalizzazione, con l'adozione nel 1976 di una nuova costituzione, approvata con referendum popolare. Si procedette quindi all'elezione di Boumedienne alla presidenza della repubblica e alla nomina dei deputati dell'assemblea nazionale su lista unica. In politica estera l'Algeria continuò a destreggiarsi tra diffidenze americane e amicizie interessate dell'URSS con l'obiettivo di non lasciarsi attrarre dalla logica dei blocchi.
Nel 1978, alla morte di Boumedienne, Chadli Bendjadid diventò capo dello stato e segretario generale del partito. Il nuovo presidente avviò un cauto rinnovamento, abbandonando la politica di industrializzazione forzata, sopprimendo il controllo statale sull'economia e, dopo aver domato una rivolta di studenti e di operai nella Kabilia, liberò Ben Bella e avviò un certo rinnovamento del gruppo dirigente. La nuova costituzione approvata nel 1986 confermò le opzioni di fondo dell'Algeria, e cioè la scelta socialista, la fedeltà all'Islam e il non allineamento in politica internazionale.
Tali aperture non evitarono al paese di cadere in una pesante crisi economica che il governo tentò di fronteggiare con severe misure di austerità. Ciò provocò nel 1988 una violenta protesta, repressa duramente e dietro la quale si intravvide la presenza di un nuovo soggetto politico, il FIS (Fronte di salvezza islamico), a forte carattere integralista e collegato al movimento Salafita.
Era quest'ultimo un movimento "modernistico" islamico sorto in Egitto alla fine dell'800 e indicato con un termine derivato dalla parola araba "salafa" ("passato", "antenati"). Secondo il fondatore Gamal Ad-Din Al-Afghani e il suo discepolo siriano, Rashid Rida, l'Islam doveva tornare alla primigenia purezza e semplicità: il nuovo capo del movimento Salafi, Muhammad Abduh, era necessario in particolare fornire rimedio alla deplorevole situazione attuale dell'Islam, messa in evidenza dal confronto con la civiltà europea; per Islam originario si intendeva in pratica una rilettura ex novo del Corano che, insieme alla Sunna, doveva essere l'unica fonte di verità religiosa, liberato dagli ingombri e dalle incrostazioni accumulate nei secoli della dominazione coloniale. Per questo il movimento Salafita trovò terreno particolarmente fertile in Algeria, che la dura e quasi etnocida dominazione coloniale francese aveva di fatto alienato, nella vita quotidiana, da un autentico costume musulmano; ma questo fu anche il motivo che diede ai salafiti algerini un intransigenza che, nella vita pratica, assunse una fisionomia di fanatismo venato da ferocia.
Nel tentativo di riprendere il controllo della situazione Chadli Bendjadid calmierò i prezzi e annunciò nuove riforme costituzionali volte a introdurre una maggiore democratizzazione. Riconfermato nel 1988 capo dello stato, Chadli Bendjadid introdusse il multi partitismo, all'insegna del quale si svolsero le elezioni amministrative del 1990, boicottate dal fronte delle forze socialiste, (che raggruppava l'opposizione progressista al regime) dal movimento per la democrazia e vinte dal FIS. Forte della vittoria, quest'ultimo proclamò elezioni politiche anticipate che dopo il varo di una contestata legge elettorale furono indette per il 1991.
Al primo turno di esse si delineò una travolgente vittoria del FIS, alla quale l'esercito reagì costringendo Chadli Bendjadid alle dimissioni, sciogliendo il FIS e dando vita a un Alto Comitato di Stato con caratteri di governo dittatoriale. Si innescò allora una tragica spirale di violenza destinata a durare per anni, nella quale, alla dura azione repressiva del governo e dell'esercito gli integralisti, e tra questi gli estremisti del GIA (Gruppo islamico armato), risposero con un incessante sanguinosa e indiscriminata azione terroristica che provocò decine di migliaia di morti, villaggi incendiati e intere comunità sgozzate.
I tentativi di dialogo con esponenti moderati del FIS naufragarono ripetutamente. Nel 1994 l'Alto Comitato fu sostituito da un Alto Consiglio di Sicurezza, diretta espressione delle forze armate alla cui guida fu nominato il generale Liamine Zerual, che, nominato presidente cercò di riaprire il dialogo con gli integralisti.
Le elezioni del 1995, boicottate da tutte le opposizioni, riconfermarono Zerual capo dello stato: egli introdusse allora nel governo alcuni islamici moderati e annunciò una proposta di riforma costituzionale, che si tradusse in un aumento dei poteri del capo dello stato, accordandogli il diritto di designare un terzo dei membri di una seconda camera legislativa.
Nel Giugno 1997 le nuove elezioni legislative furono vinte dal partito di Zerual (Raggruppamento nazionale democratico), seguito dal moderato movimento della società della pace di ispirazione islamica. Dietro pressioni dell'esercito nel Settembre 1998 il presidente Zerual si dimise a sorpresa; e le successive elezioni presidenziali convocate per l'Aprile 1999 videro la vittoria del candidato governativo, ben visto dalle forze armate, Abelaziz Buteflika e il boicottaggio di quasi tutte le forze di opposizione che denunciarono violenze e brogli. Il nuovo presidente cercò di conquistare il favore popolare promettendo di stroncare il terrorismo che aveva insanguinato il paese negli anni precedenti provocando più di 100 mila vittime dal 1992; egli conseguì qualche successo grazie alla collaborazione dell'esercito di salvezza islamica, che gli permise di ricorrere alla distribuzione delle armi nelle comunità più isolate, ma non riuscì però a riportare la pace nel paese, provato dal crescente peggioramento della situazione economica, e subì sempre di più la tutela dell'esercito.
Nella primavera del 2001 si aprì un nuovo fronte di violenze Cabiglia, regione a forte popolamento berbero, che divenne centro di sommosse anti governative quando la lingua araba venne dichiarata unica lingua ufficiale del paese. Boicottate dall'opposizione e contraddistinte da un fortissimo astensionismo nelle provincie berbere, le elezioni parlamentari del 2002 riconfermarono alla guida del paese il fronte di liberazione nazionale guidato dal primo ministro Alì Benflis.
Rivale di Buteflika nell'FLN, Benflis fu da questi destituito nel Maggio 2003 e sostituito da Ahmed Ouyahia. Da allora l'Algeria vive in un costante clima di tensione e di scontro, esposta agli attentati da parte dei resti del GIA, cui si è in ripetute occasioni affiancata ad Al Qaeda. Non è difficile prevedere che anche l'Algeria verrà presto coinvolta nel generale sommovimento che sta sconvolgendo il nord Africa.

domenica 22 maggio 2011

ATTUALITA' - L'ITALIA ELETTA AL CONSIGLIO DEI DIRITTI UMANI DELL'ONU

L'Italia è stata eletta dall'Assemblea Generale dell'ONU nel consiglio dei diritti umani che ha sede a Ginevra. L'Italia, ha già fatto parte dell'organismo dal 2007 al 2010; dopo un anno di pausa ha ricevuto un nuovo mandato triennale con 180 voti insieme ad altri 15 paesi. Il ministro degli esteri Franco Frattini ha spiegato: "L'Italia si impegnerà nella promozione della libertà religiosa nel mondo".

Siamo in ansiosa attesa di registrare gli straordinari progressi che la libertà religiosa riceverà nel mondo grazie all'impegno del nostro volenteroso ministro, la cui produttività nel settore di competenza ha avuto modo di manifestarsi anche nel precedente triennio: grazie a Frattini l'Italia occupa l'ultimo posto in Europa nel campo della libertà religiosa, come dimostra il fatto che, nonostante la presenza di circa un milione  e mezzo di residenti di religione islamica nell'intero territorio nazionale vi sono soltanto due moschee, una a Roma e una a Catania, più una mini-moschea giocattolo nascosta in una viuzza secondaria di Milano. Auspichiamo comunque che grazie all'opera del ministro Frattini non sarà più consentito a un presidente del consiglio puttaniere e bestemmiatore televisivo di usare come argomento nelle sue campagne elettorali che la sinistra trasformerebbe Milano in una "zingaropoli islamica"; si auspica che il volenteroso Frattini dedichi appassionate rampogne contro i leghisti alla Borghezio, alla Salvini e alla Flavio Tosi, sindaco di Verona. Siamo certi che grazie a Frattini i musulmani avranno spazi cimiteriali in cui seppellire i propri morti, mentre cesseranno le quotidiane piccole nefandezze vessatorie nei loro confronti. di queste ultime vogliamo fornire un illuminante esempio di cui si è reso responsabile l'ufficio provinciale della motorizzazione civile di Vicenza contro il quale l'associazione vicentina dei musulmani italiani "Articolo 19" ha presentato l'esposto denuncia che di seguito pubblichiamo e che oltre al citato ufficio, è stato inviato alla direzione generale territoriale nord-est del ministero infrastrutture e trasporti, al prefetto di Vicenza, al questore di Vicenza e al procuratore della repubblica di Vicenza.

"Il sottoscritto Dottor. Domenico Buffarini, rappresentante legale e consulente giuridico dell'associazione "Articolo 19", costituita con il fine di tutelare i diritti costituzionali dei cittadini italiani di religione islamica, si vede costretto a segnalare che l'Ufficio della Motorizzazione Civile di Vicenza richiede, per rilasciare la patente di guida alle donne musulmane, comprese quelle in possesso della cittadinanza italiana, la presentazione di due fotografie recenti del volto a capo scoperto e su sfondo bianco; e ciò in forza di una non meglio precisata circolare della direzione regionale territoriale del nord-est, Ufficio Contenzioso Conducenti Veicoli.
Al riguardo lo scrivente precisa quanto segue:

I - L'art.289 del regolamento di esecuzione del Testo Unico Legge Pubblica Sicurezza (TULPS) stabilisce che "La fotografia da applicare sulla patente di guida deve riprodurre l'immagine senza cappello del titolare. La circolare numero 88827 del 05/11/2010, in conformità alla norma, ha precisato che la fotografia deve riprodurre l'immagine a capo scoperto";

II - La disposizione ha trovato successivamente diverse interpretazione ed applicazioni nelle disposizioni emanate in materia di fotografie da applicare sui documenti di identità e sui permessi di soggiorno (circolare numero 4 del 14/03/1995 e circolare numero 300/C/200/3656/A/159 del 24/07/2000, entrambe emesse dal Ministero degli Interni). In esse si precisa che la statuizione contenuta nel citato art.289 del Reg. TULPS "Non fa riferimento all'esigenza che l'interessato mantenga il capo scoperto, ma si limita a proibire l'uso del cappello quale semplice accessorio eventuale all'abbigliamento personale che potrebbe alterare la fisionomia di chi viene ritratto...Non è equiparabile a tale ipotesi il caso in cui la copertura del capo sia imposta da motivi religiosi...Il turbante, il velo e il chador islamico, come anche il velo delle religiose cattoliche, sono parte integrante degli indumenti abituali e concorrono nel loro insieme ad identificare chi li indossa, naturalmente purché mantenga il volto scoperto. Sono quindi ammesse, anche in forza all'Articolo 19 della Costituzione, che tutela la libertà di culto e di religione, le fotografie da inserire nei documenti di identità in cui la persona ritratta con il capo coperto da indumenti indossati purché, ad ogni modo, i tratti del viso (fronte, occhi, naso, gote, bocca, mento) siano ben visibili";

III - La circolare numero 4391/DGT/NO della Direzione Generale del nord-ovest del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Milano 02/12/2010) ha inviato le disposizioni di cui al punto 2 a tutti i suoi uffici periferici compresi i direttori degli Uffici dell Motorizzazione Civile concludendo con le seguenti parole: "In omaggio all'univocità dell'azione della pubblica amministrazione si invitano le SS.LL a disporre che siano accettate sulle patenti, come già avviene per le carte di identità, fotografie di donne a capo coperto per motivi religiosi, purché tali fotografie permettano una chiara identificazione del viso;

IV - Secondo la vigente legislazione italiana le autorità competenti in materia di documenti di identità sono i sindaci e le autorità di pubblica sicurezza; e ciò nell'esercizio di una competenza funzionale da nessuno derogabile. Le patenti di guida non sono, come è noto, documenti di identità con funzioni generali e chi le rilascia non può utilizzarle per foto diverse da quelle applicate alle carte di identità.
Ne consegue che il rifiuto di rilasciare patenti di guida che non abbiano fotografie conformi può configurare un abuso in atti di ufficio, penalmente perseguibile e passibile di denuncia. Risulta allo scrivente che l'ufficio destinatario della presente ha praticamente costretto una donna musulmana a farsi fotografare dopo essersi tolta il velo come condizione per il rilascio della patente, mentre un'altra signora cittadina italiana si è vista rifiutare le foto in cui era ritratta con il velo musulmano. Risulta invece che patenti sono state rilasciate senza problemi a monache cattoliche con il capo fasciato dal velo della loro uniforme. Distinti saluti il rappresentante giuridico dell'associazione Articolo 19, Dottor. Domenico Buffarini.

P.S: mi riservo di dare alla vicenda ampia pubblicità sui mezzi di informazione. "

sabato 21 maggio 2011

LE SOLITE MENZOGNE CINICHE E IPOCRITE DEL GOVERNO ISRAELIANO

I - Intervista di Viviana Mazza a Barack Obama, presidente degli Stati Uniti
Corriere della Sera, 20/05/2011

«Per sei mesi, abbiamo assistito ad un cambiamento straordinario in Medio Oriente e in Nord Africa. Piazza dopo piazza, città dopo città, nazione dopo nazione, il popolo si è sollevato per domandare i diritti umani fondamentali. Due leader sono caduti, altri potrebbero seguirli» . Per la prima volta il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha tentato ieri di articolare la strategia Usa nei confronti delle rivolte in Medio Oriente e in Nord Africa. Un discorso molto atteso: negli ultimi sei mesi, gli Stati Uniti sono stati criticati per l’assenza di una linea chiara nel gestire le rivolte nella regione, nonché per l’appoggio decennale a molti dittatori ora rovesciati o minacciati dalle proteste. «Lo status quo non è sostenibile» , ha affermato Obama, promettendo «un nuovo capitolo nella diplomazia americana» . Le rivolte, ha spiegato, offrono l’opportunità storica «di mostrare che l’America dà più valore alla dignità di un venditore ambulante in Tunisia che al crudo potere di un dittatore» . Obama ha difeso gli obiettivi di sicurezza nazionale (quali lotta al terrorismo e alla proliferazione nucleare, libero commercio, sicurezza di Israele) ma ha sottolineato che «una strategia basata solo sullo stretto perseguimento dei nostri interessi non riempirà nessuno stomaco vuoto né consentirà ai popoli di esprimersi liberamente» e «alimenterà solo i sospetti che perseguiamo i nostri interessi a loro svantaggio» . Per questo, Obama ha criticato non solo i regimi in Siria («Il presidente Assad guidi una transizione democratica o si tolga di mezzo» ) e in Libia («Gheddafi ha le ore contate» ), ricordando anche le rivolte del 2009 in Iran, ma è stato duro con «amici» quali il Bahrein («Non hanno ascoltato i nostri appelli per le riforme» ) e lo Yemen; non ha citato però Arabia Saudita e Giordania. A Egitto e Tunisia, ha promesso aiuti concreti tra cui l’annullamento di 1 miliardo di debito estero con Il Cairo. Il discorso di Obama era rivolto ad un pubblico globale ma anche americano -per spiegare il perché degli sforzi all’estero in un momento di crisi. E se due anni fa volò al Cairo per promettere un nuovo inizio al mondo musulmano, ieri ha parlato dal dipartimento di Stato a Washington. Obama ha legato la «primavera araba» alla necessità di risolvere il conflitto israelo palestinese. «Lo status quo non è sostenibile» , ha ripetuto. Nel giugno 2009 al Cairo, Obama definì la pace tra israeliani e palestinesi una delle sue priorità. Ieri ha riconosciuto il fallimento, nonché la frustrazione della comunità internazionale. Non ha delineato un piano formale per la pace, ma ha auspicato uno Stato palestinese smilitarizzato sulla base dei «confini del 1967» , con scambi di terre mutualmente concordati. Il riferimento, per la prima volta, ai confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni in cui Israele occupò Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza, era stato dibattuto fino all’ultimo dai suoi speechwriter, scrive il New York Times, divisi sull’opportunità o meno che il presidente li nominasse formalmente come punto di partenza per i negoziati, rischiando di infastidire lo Stato ebraico. D’altro canto, Obama ha sottolineato l’incrollabile sostegno alla sicurezza israeliana, ha criticato l’iniziativa palestinese di cercare il riconoscimento dello Stato all’Onu a settembre, definendolo «un tentativo di isolare» Israele, e ha osservato che l’accordo del Fatah con Hamas, che non riconosce il diritto all’esistenza dello Stato ebraico, «pone legittimi dubbi» e renderà più difficili i colloqui.


II - Articolo di Lucio Caracciolo, La Repubblica, 21/05/2011


"L'arrocco di Gerusalemme"                                                                                                         
WASHINGTON – Barack Obama e Benjamin Netanyahu non si piacciono neanche un po’. Il loro colloquio di venerdì 20 maggio, quindi, è stato tutt’altro che un successo: premesse diverse e obiettivo troppo diverso. Scrive su Repubblica Lucio Caracciolo che entrambi puntano a rimanere in carica abbastanza per poter finalmente trattare con il successore dell’altro. Difficile, però, dire chi la spunterà.
Entrambi, spiega Caracciolo, hanno come obiettivo la sicurezza. Il problema, però, è che per sicurezza i due intendono cose molto diverse. Israele è al momento l’unica democrazia del medioriente e vuole rimanere tale. Gli Usa, invece, sperano di cavare qualcosa di buono dalla primavera araba e dalle rivoluzioni in corso.
Il fatto, spiega Caracciolo, è che il canale privilegiato Usa-Israele poggia proprio sull’unicità democratica dello Stato ebraico. Se le cose dovessero cambiare, invece, il “potere negoziale” di Israele ne risulterebbe intaccato. E non poco. BlitzQuotidiano vi propone la riflessione di Caracciolo come articolo del giorno: Quando due leader alleati escono da un incontro ammettendo che fra loro esistono «differenze», significa che la loro conversazione è stata piuttosto animata. Netanyahu e Obama non si amano e il colloquio di ieri alla Casa Bianca non li ha resi più amici. Uno e l’altro sperano di restare in carica almeno il tempo necessario per confrontarsi con i rispettivi successori. Ma le “differenze” non sono solo di gusti personali. Gerusalemme e Washington sognano due mondi opposti. Israele è l`unica democrazia del Medio Oriente. E intende restarlo. Gli Stati Uniti sono invece convinti che la regione possa finalmente evolvere verso qualche forma di democrazia, come confermerebbero le rivolte incorso, dalla Tunisia all`Egitto, dalla Libia alla Siria. Il ragionamento israeliano si vuole strettamente pragmatico. Nella linea americana convivono, come d`abitudine, idealismo e realismo. Ma alla line la scelta di entrambi è guidata dalla sicurezza. Solo che la sicurezza di Israele secondo Netanyahu equivale all`insicurezza dell`America secondo Obama. E viceversa. L`alleanza privilegiata dello Stato ebraico con gli Usa ha sempre poggiato sulfatto di essere la sola democrazia nella regione: un decisivo fattore di legittimazione presso il pubblico americano. Nel momento in cui perdesse questa sua unicità perché altri paesi mediorientali si fossero riconfigurati come democratici, l`influenza di Israele a Washington ne sarebbe seriamente intaccata. E con essa la sua sicurezza. Gli israeliani non apparirebbero più agli americani come una nazione “speciale”, quasi sorella, ma rischierebbero di essere confusi con le democrazie arabe. La posizione negoziale di Gerusalemme ne sarebbe erosa.


Siamo alle solite, il presidente americano sembra credere ancora alla buona fede dei governanti israeliani; ma il primo ministro di turno dello stato sionista risponde sempre "picche": "Obama non conosce la realtà!". Su questo Netanyahu ha ragione: la realtà, infatti, è che i governi israeliani non vogliono nessuna pace ma vogliono seguitare a papparsi giorno dopo giorno l'intera Palestina. Sono a questo proposito interessanti tre brevi commenti:
A - Il blogger Issandr El-Amrani (Egitto): "Gli Stati Uniti sono paralizzati. Continuano a non riconoscere che il progetto di pace da loro sponsorizzato seguita a fallire, e così si trovano bloccati in un dialogo che non va da nessuna parte. Mi piacerebbe vedere più onesta. Perché si continua a parlare del diritto di Israele ad esistere Quando è Israele che si oppone al diritto della Palestina di esistere?"
B - John Esposito, esperto americano: "Mi aspettavo la reazione di Netanyahu sulla questione dei confini. Anche se Obama non si è sbilanciato molto: si è espresso solo a favore di quanto è previsto da decine di deliberazioni dell'ONU. Il premier israeliano ha dimostrato ancora una volta di non sentirsi legato alle leggi internazionali. Credo che anche per Obama la risposta negativa di Israele non sia stata una novità: c'è solo da sperare che ora non faccia marcia indietro".
C - Tariq Alì, giornalista tunisino: "Obama dovrebbe avere una visione più globale della realtà. Ha chiesto ai dittatori di andare via nel discorso di giovedì. Ma questo appello include anche la famiglia reale saudita che è il peggiore dittatore della regione? Include anche l'emiro Bahrein che ammazza ogni giorno la popolazione col sostegno dei sauditi e degli Stati Uniti? E perché il presidente USA ha taciuto su tutti gli abusi quotidianamente commessi da Israele?".
Intervista di Beppe Severgnini ad Al Gore, premio Nobel per la pace e già vicepresidente degli Stati Uniti
Corriere della Sera, 20/05/2011


"MEDIO ORIENTE IL DISCORSO L' INTERVISTA L' EX VICEPRESIDENTE USA: «MA OCCORRE ANCHE CAUTELA. E BISOGNA EVITARE LE MENZOGNE COME QUELLE DI BUSH CHE CI SPINSE IN IRAQ RACCONTANDO FALSITÀ»

«L' America non può ignorare il desiderio di libertà degli arabi»

Al Gore: piazza Tahrir è stata la culla della rivoluzione anche grazie a Internet Pericoli Ma la democrazia in quei Paesi non è consolidata. E ci sono altri elementi, ideologici e religiosi, che competono con questa fortissima spinta verso la libertà

L' ex vicepresidente americano Al Gore è stato ospite ieri di «Corriere tv». Al termine della trasmissione, Beppe Severgnini lo ha intervistato anche sull' attualità americana e la situazione in Medio Oriente. Bsev: Il Presidente Obama sta per parlare e si annuncia un discorso importante, come quello che tenne al Cairo nel gennaio 2009. Per gli Stati Uniti quanto sta succedendo in Medio Oriente rappresenta davvero una grande opportunità? Al Gore: «Sicuramente è un periodo di grandi trasformazioni in tutto il mondo. Un periodo complesso. Credo sia virtualmente impossibile predire in quale direzione ci stiamo muovendo, quali saranno gli sviluppi. Sicuramente ci sono molte e diverse direzioni per i Paesi del Medio Oriente. Ma il desiderio di pace, libertà e democrazia - magari il loro tipo di democrazia - è certo l' elemento che ha fatto scaturire quei movimenti». Bsev: Gli Usa hanno avuto un ruolo in questa evoluzione? Magari attraverso Internet? Al Gore: «Piazza Tahrir al Cairo non era solo una piazza oggettiva e reale. Era anche una piazza virtuale, grazie a Facebook, a Twitter, ai messaggi di testo. È stata la culla di questo movimento, di questa rivoluzione che ha permeato tutto il Medio Oriente e il mondo arabo. Ma la democrazia non è stata creata lì. Voglio dire: questo impulso verso la libertà è difficile da sostenere in culture dove le istituzioni non sono ancora consolidate. Ci sono altri elementi, ideologici e religiosi, che competono con questo impeto, questo fortissimo impulso per la libertà. Io spero che il Presidente Obama dia un contributo essenziale a questo movimento». Bsev: L' implicazione di quanto ha detto sembra questa: gli Stati Uniti devono essere cauti nell' affrontare i cambiamenti in Medio Oriente. Oppure ho tratto una conclusione frettolosa? Al Gore: «No, non credo. Dobbiamo davvero stare attenti, esser cauti. Ma dobbiamo sicuramente appoggiare questo desiderio di libertà. La politica mediorientale della precedente amministrazione non è stata particolarmente cauta. La decisione di invadere l' Iraq è solo uno dei tanti episodi. Fox News - non dimentichiamolo - ha contribuito a convincere la gente che Saddam Hussein fosse il principale colpevole dell' 11 settembre; e che probabilmente, con armi nucleari, fosse pronto ad attaccarci di nuovo. Quando grandi nazioni prendono grandi decisioni sulla base di falsità e menzogne è pericoloso. Noi siamo ancora in Iraq, questo è il dramma. E non siamo neanche riusciti a concludere il capitolo Afghanistan»."

venerdì 20 maggio 2011

L'ISLAM NEL MONDO ATTUALE - 6a parte

VI - L'IRAQ


L'Iraq conta oggi 23 milioni di abitanti per il 60% sciiti e si estende sulla terra della cultura forse più antica della terra, quella Mesopotamica, cui l'umanità deve la scrittura, la ruota, la divisione del tempo in settimane, l'anno solare, il più antico sistema di calcolo e le prime leggi. Essa è la terra tra i due fiumi dal passato glorioso: nell'antichità le città dei sumeri, gli imperi di Babilonia, degli assiri, dei caldei e, più tardi, i regni dei Sasanidi, degli Omayyadi e degli Abbasidi non può essere oggi destinata a un nuovo ruolo di rilievo anche se è un paese privo di storia lineare ininterrotta: la distruzione totale della Baghdad Abbaside da parte dei mongoli nel 1258, in cui raffinati sistemi di irrigazione furono distrutti e centinaia di migliaia di persone massacrate, è ancora oggi profondamente radicata nella memoria degli iracheni. Soltanto dopo il dominio mongolo, durato secoli, e soltanto dopo lunghi e faticosi contrasti con i Safavidi, nel XVII secolo si annesse l'Iraq e lo divise in tre provincie, Mosul, Baghdad e Bassora. La concessione ottomana ai tedeschi nel 1899 per la costruzione della ferrovia di Baghdad allarmò gli inglesi, che durante la prima guerra mondiale occuparono l'Iraq. Nel 1821 lo stato iracheno venne assemblato in modo artificiale dagli inglesi senza alcuna considerazione dei confini etnici. Ai curdi che vivevano nell'Iraq settentrionale, in Turchia, in Siria e in Iran, venne negato un proprio stato. L'Iraq nacque come regno formato da diverse popolazioni: i curdi a nord intorno a Mozul, la maggioranza sciita a sud intorno a Bassora e nella regione di Baghdad la minoranza sunnita. Il paese secondo le intenzioni degli inglesi, doveva essere tenuto insieme da re Faisal, che proveniva dalla Mecca e aveva origini Hashemite; nel 1932 il regno ottenne l'indipendenza formale dagli inglesi, ma già nel 1933 il re venne assassinato e mancò negli anni seguenti una personalità araba in grado di portare avanti l'integrazione.
Durante la seconda guerra mondiale, le attività anti britanniche a favore dei tedeschi offrirono il pretesto per un ulteriore occupazione britannica. Alla guerra seguirono costanti disordini che condussero nel 1958 a un colpo di stato da parte dei militari nazionalisti arabi: re Feisal II venne ucciso, insieme a molti membri della sua famiglia e al primo ministro Nuri Said, un corrotto e feroce agente degli inglesi. I loro cadaveri, fatti letteralmente a pezzi, vennero impiccati ai lampioni della città. Venne proclamata la nuova repubblica e il nuovo capo dello stato fu il colonnello Abd Al-Karim Kassem, che esercitò il potere in modo sempre più dittatoriale, e si trovò presto in conflitto con le forze interne panarabe e, all'esterno con il presidente egiziano Nasser.
I cambiamenti di potere in Iraq sono in genere sanguinosi. Nel 1963 Kassem venne spodestato ed eliminato dal partito Baath, di orientamento panarabo. In Iraq, tuttavia, esso venne soppiantato da un Baath diverso da quello siriano, che rese stabile la posizione di potere dell'esercito, e praticamente nulla ogni influenza religiosa. Per un certo periodo Iraq, Siria ed Egitto collaborarono, ma i progetti di unione fallirono e furono seguiti da altri colpi di stato. Nel 1968 salì al potere, tra incarcerazioni di massa ed esecuzioni pubbliche, di cui furono vittima soprattutto i membri del forte partito comunista iracheno, il generale sunnita Ahmad Hassan Al-Bakr che portò avanti una forte riforma nell'assetto del paese e del diritto del lavoro e nel 1972 nazionalizzò la produzione del petrolio. I proventi derivanti da quest'ultima resero possibile l'ampliamento delle forze armate, immensi programmi di modernizzazione e provvedimenti infrastrutturali, soprattutto una sanità statale gratuita e un imponente sviluppo dell'istruzione, aperta anche alle donne che, azzerò il diffuso analfabetismo.
Il capo dei servizi segreti di Al-Bakr era un personaggio brutale e violento di nome Saddam Hussein. Egli non era certo un musulmano devoto, ma un personaggio autoritario capace di ogni astuzia e di ogni efferatezza, che trasformò l'apparato di sicurezza nella sua base di potere assoluto. Nel 1979 egli rovesciò Al-Bakr con un colpo di stato e divenne egli stesso presidente del consiglio della rivoluzione, presidente dello stato e segretario generale del partito Baath che, tuttavia, continuò ad incentivare l'istruzione pubblica e la formazione professionale, sostenendo soprattutto la parità dei diritti per le donne anche nel mercato del lavoro. Saddam Hussein incrementò anche la ricerca archeologica, restaurò Babilonia e sollecitò il collegamento organico delle eredità mesopotamiche e musulmane. I suoi modelli erano il califfo Harum Al-Rashid e Salael Din ("Con la loro gloria") anche se molti modi di gestione del potere potevano accostarlo al sovietico Stalin con il suo terrore. Egli avrebbe voluto per altro creare uno stato modello, con una burocrazia e un sistema sanitario funzionanti e con uno stipendio minimo per tutti gli iracheni. Il regime del Baath non riuscì a realizzare una vera integrazione della popolazione curda a nord e di quella sciita a sud; e tuttavia il sunnita Saddam Hussein fece restaurare i santuari sciiti delle città sante di Najaf e di Kerbala. Era evidente la strumentalizzazione della religione perché Saddam Hussein fece massacrare crudelmente i capi religiosi sciiti scomodi e i politici curdi dell'opposizione; e in questo modo tra i gruppi eterogenei non riuscì a svilupparsi un sentimento politico iracheno.
L'arbitrario tracciato di confine, fissato negli anni 20' tra Iraq e Kuwait, era risultato utile all'americano Calouste Gulbenkian, magnate petroliere alle società petroliere anglo-olandesi e a quelle americane. Dopo la separazione del Kuwait, all'Iraq rimase come unico accesso al golfo arabico la foce comune dell'Eufrate e del Tigri a sud di Bassora. Questo importante accesso al mare venne garantito all'Iraq dagli inglesi nel 1937, ma nel 1969 venne contestato dallo Scià. Ancora una volta questi poté godere dell'appoggio degli USA, i quali nello stesso tempo incoraggiavano i curdi a una insurrezione contro Baghdad. I curdi, per altro guidati dal grande condottiero Barzani, ricevettero forniture militari anche dall'URSS. Nel 1975 Saddam Hussein, con il trattato di Algeri, trovò un accordo con l'Iran rinunciando alle proprie rivendicazioni sullo Shatt El Arab; per questo gli USA abbandonarono i curdi e li consegnarono alla feroce repressione degli sgherri di Saddam.
Nel 1979 l'Iran di Khomeyni sfidò gli USA con la cacciata dello Scià e la cattura degli ostaggi dell'ambasciata americana; gli USA cercarono per questo un nuovo contatto con Saddam Hussein, che avevano già rifornito ampliamento con armi di ogni tipo. Con tale incoraggiamento Saddam iniziò nel 1980 l'invasione dell'Iran, indebolito dalla rivoluzione khomeynista. Egli aveva però sottovalutato, anche perché depistato dalle informazioni dei servizi segreti americani, la capacità di resistenza delle truppe di Khomeyni e non esitò per questo ad attaccarle con gas tossici. L'inviato speciale americano che negoziava personalmente con Saddam era lo stesso Donald Rumsfeld che, in qualità di ministro della difesa americano, negli anni 2002-2003 fu uno dei principali fautori della guerra contro l'Iraq e che nel 2004 si dichiarò unico responsabile delle torture degli americani contro i prigionieri iracheni.
Già nel Marzo del 1984 gli esperti delle Nazioni Unite documentarono l'inizio della guerra chimica ad opera di Saddam sui campi di battaglia iraniani; ma nonostante ciò gli USA seguitarono a potenziare gli aiuti a Saddam anche perché l'Iraq era il secondo paese al mondo con i più grandi giacimenti petroliferi; nel 1984, oltre a riprendere ufficialmente i rapporti diplomatici, vennero fornite immagini satellitari che documentavano i movimenti delle truppe iraniane e intensificarono le operazioni dei servizi segreti diretti a compiere attentati sulle installazioni iraniane. Dal 1985 al 1990 gli Stati Uniti fornirono all'Iraq mezzi per la fabbricazione di armi biologiche (Carbonchio e batteri della peste) in collaborazione con altri nazioni occidentali. La parallela guerra di Saddam contro i curdi e l'attacco chimico al paese curdo Halabsha nel 1988 (oltre 5000 morti) da parte delle truppe irachene non provocarono l'interruzione del sostegno americano.
La guerra Iran-Iraq aveva provocato il blocco con le relitti e carcasse dello Shatt El-Arab e l'Iraq si trovò praticamente isolato dal mare, e questo fu per Saddam Hussein un motivo più che sufficiente per considerare inevitabile la forzata annessione del Kuwait. D'altra parte l'ambasciatrice americana  a Baghdad, in un colloquio del 27 Giugno 1990, assicurò a Saddam Hussein che gli USA avrebbero considerato tutto ciò una faccenda araba interna; e così il 2 Agosto 1990 le truppe irachene invasero l'emirato del Kuwait. A Washington e a Londra la conquista del Kuwait fu improvvisamente vista come una minaccia diretta per l'Arabia Saudita; e sotto l'influenza decisiva del primo ministro britannico Margaret Thatcher, George Bush Senior, presidente degli Stati Uniti che era stato precedentemente capo della CIA, decise di creare una grande coalizione contro l'Iraq (operazione "Tempesta nel Deserto").
Bush vinse militarmente questa prima guerra del Golfo nel Gennaio-Febbraio 1991; perse però dal punto di vista politico a causa della prematura cessazione delle operazioni militari che abbandonarono alla ferocia repressione di Saddam Hussein i curdi a nord e gli sciiti a sud: gli uni e gli altri si erano fidati delle promesse americane di portare avanti le operazioni contro Saddam fino alla sua caduta. In questa guerra Saddam, notoriamente ateo usò la religione musulmana come arma ideologica. Di fronte agli americani, ai sauditi e a Israele egli si atteggiò spudoratamente come protettore delle città sante e della terra araba, anche se nel frattempo distruggeva le moschee sciite e quelle curde.
Con questo escamotage il dittatore iracheno rimase al potere anche perché gli otto anni di guerra contro l'Iran erano per lo meno serviti a formare un certo sentimento nazionale iracheno. Il disarmo dell'Iraq totalmente indebitato fece passi avanti; molte aree militari vennero distrutte tanto che l'Iraq, secondo la stima del ministro della difesa americano, non costituiva più un pericolo per i suoi vicini. Durante il conflitto e subito dopo fu soprattutto la popolazione civile a soffrire a causa dei bombardamenti americani e inglesi nell'area di interdizione del traffico aereo e per le sanzioni sempre più aspre dell'ONU. Con la guerra Iran-Iraq egli aveva potenziato contro i principi del Baath una nuova base di potere, tornando ad appoggiarsi ai clan iracheni tradizionali e alla sua estesa rete di parentele, che presero di fatto il posto delle strutture statali.
La seconda guerra irachena dimostrò in quanto poco conto i suoi vicini e gli Stati Uniti temessero la minaccia delle armi di distruzione di massa; e tuttavia essa venne iniziata da George W. Bush e dal primo ministro Tony Blair il 20 Marzo 2003 dopo giganteschi preparativi comprendenti una campagna mediatica durata mesi che cercava di accreditare la tesi del tutto infondata che Saddam fosse in combutta con Al Qaeda negli attentati dell'11 Settembre 2001.
Dopo la conquista di Baghdad, il 1 Maggio, Bush affermò che la guerra era finita: si trattava chiaramente di una guerra offensiva e preventiva basata sul sospetto, chiaramente vietata dal diritto internazionale e dalla carta dell'ONU; essa venne anche definita da Bush come "crociata". Questa guerra non ottenne mai l'approvazione del consiglio di sicurezza e dell'opinione pubblica mondiale ma provocò una ancora più violenta rivolta anti americana da parte dell'intero mondo islamico.
Del resto questa guerra dipendeva interamente dalla linea dell'amministrazione di George W. Bush, basata su una politica estera aggressiva e imperialista tipica dell'unica super potenza dopo l'implosione dell'URSS. Furono inoltre i due rappresentanti più in vista della lobby israeliana che consigliò a Israele la rottura dei patti stipulati precedentemente con i palestinesi: Israele chiedeva già da tempo la guerra in Iraq in accordo con il primo ministro israeliano Ariel Sharon, al quale nulla interessava che in questo modo Israele assumeva attivamente la funzione di odiata "testa di ponte" dell'occidente più aggressivo.
L'invasione americana nel 2003 non aiutò certo l'Iraq a superare la propria frammentazione interna, ma la rese più grave con conseguenze difficili da stabilire: il destino del paese continuò ad essere deciso a Baghdad, soprattutto da parte dei sunniti; gli sciiti al sud, con circa il 55-60% della popolazione rimasero maggioranza nel paese, ma erano governati da un conglomerato composto da guide religiose e da organizzazioni in perenne conflitto tra loro; i curdi che rappresentavano il 20% della popolazione si impegnarono in prima linea per la propria autonomia economica e politica, mentre le tendenze secessioniste a favore di un Kurdistan che unisse tutti i curdi di Turchia, Iraq e Siria. L'occupazione militare americana fu sempre più coinvolta nella lotta contro la dura guerriglia organizzata dai militari iracheni, praticamente ridotti senza lavoro a causa dell'improvvida decisione statunitense di sciogliere le forze armate irachene. Di fronte alla crescente resistenza degli insorti gli americani si macchiarono di sempre più gravi atrocità, dalla totale distruzione della città di Falluja, con 70 mila abitanti, fino alla pratica della tortura di massa nel centro di Abu Ghraib. Aumentavano intanto le vittime tra la popolazione civile, sia per opera degli insensati attentati kamikaze organizzati da Al Qaeda, sia per le reazioni scomposte di truppe americane sempre più terrorizzate.
Neppure lo svolgimento delle prime elezioni legislative, cui partecipò poco più del 50% della popolazione, e la nomina di un governo nazionale poco meno che fantoccio, sembrò portare a un miglioramento della situazione. Ormai in Iraq anche gli americani hanno iniziato il loro ripiegamento, preceduti in questo da spagnoli e italiani. Nessuno è in grado tuttavia di prevedere quando la tragica guerra avventuristica di George W. Bush cesserà di produrre i suoi effetti nefasti, mentre l'Iraq potrà conoscere finalmente un periodo di pace.

mercoledì 18 maggio 2011

L'ISLAM NEL MONDO ATTUALE - 5a parte

V - LA SIRIA


Già nel contesto dell'Impero Ottomano, in Siria si era molto sviluppata la sedicente idea di un "panarabismo" che unisse in uno stato comune tutti i paesi arabi. In contrapposizione alla frammentazione politica del mondo arabo, causata dall'Inghilterra e dalla Francia dopo la Prima Guerra Mondiale, il grande impero arabo degli Omayyadi con capitale Damasco rappresentava un meraviglioso ricordo. Una lingua, una cultura, un regno, un califfato: non avrebbe potuto rappresentare, in chiave moderna, anche una visione per il futuro? Fu così che in Siria venne fondato il Partito della Rinascita (Baath), di cui fu fondatore e ideologo il cristiano siriaco Christ Michelle Aflaq, formatosi sulla duplice ideologia del socialismo francese e del nazionalismo tedesco. Lo scopo del partito era il rinnovamento culturale del mondo arabo e l'unione di tutti i paesi arabi, dal Marocco all'Iraq, in un singolo grande stato.
Nel 1944 la Siria ottenne l'indipendenza piena dalla Francia, che aveva diviso il Libano per tutelare i propri interessi. Ottenuta nel 1936 la promessa dell'indipendenza, a partire dal 1940 i patrioti siriani dovettero subire il rifiuto del parlamento francese a rettificare l'accordo. Il governo di Vichy mantenne il controllo della Siria anche dopo la disfatta del 1940, ma le forze inglesi e golliste che attaccarono il paese dalla Palestina nel 1941 lo occuparono e imposero la liberazione del territorio, proclamandone l'indipendenza in Settembre. A guerra finita, nel Maggio 1945, Siria e Libano insorsero in armi contro i francesi ancora presenti nel loro territorio. L'intervento militare e diplomatico della Gran Bretagna e la pressione della lega araba appena fondata con l'entusiastica adesione della Siria, imposero nel 1946 il ritiro totale delle truppe francesi e l'effettivo compimento dell'indipendenza siriana.
All'indomani dell'indipendenza i governi civili siriani rivelarono tutta la loro debolezza e l'esercito assunse quasi subito un ruolo preponderante. A queste vicende interne si intrecciò l'irriducibile ostilità nei confronti di Israele per impedire la nascita dello stato ebraico, ma nel 1949 fu firmato un armistizio e in quello stesso anno ebbero luogo 3 colpi di stato successivi, l'ultimo dei quali portò al potere il colonnello Shishakli. Alla fine degli anni 40'  la Siria sentì di doversi confrontare con il progetto dell'Iraq, che prevedeva di unificare i paesi della "Mezzaluna Fertile" attraverso un'unione araba sotto il dominio della dinastia Hashemita. Nel 1954 un nuovo colpo di stato militare portò alla presidenza Shukri Al-Quwatli che varò una politica filo sovietica e filo egiziana. Tre anni più tardi si tennero le elezioni generali in cui prevalse il partito Baath che, subendo il fascino della "rivoluzione" nasseriana  decise l'unione della Siria con l'Egitto, che sancì la nascita della repubblica araba unita.
Presto però la Siria venne a trovarsi in condizioni di totale subordinazione rispetto all'Egitto; si giunse così nel 1961 alla denuncia da parte di Damasco del patto federativo, grazie anche al colpo di stato dell'esercito. Subito dopo vennero indette in Siria le elezioni, vinte dai moderati guidati da Nazzim Al-Quvsi, ma nel 1963 un nuovo colpo di stato portò al potere il Baath, la cui ala sinistra guidata da Noureddin Atassi prese il sopravvento a partire dal 1966. Il partito Baath promosse una politica di socializzazione e diede al paese un netto orientamento filo sovietico e cementò nello stesso tempo una nuova alleanza con l'Egitto.
Nel convulso clima che portò nel Giugno 1967 alla guerra dei 6 giorni, combattuta dalla Siria al fianco di Egitto e Giordania contro Israele, il governo di Damasco ebbe un ruolo centrale. La guerra si tradusse in una disfatta per la Siria e per gli altri stati arabi e le truppe israeliane assunsero il controllo delle alture del Golan, di grande importanza strategica. Nel dopoguerra i contrasti all'interno del Baath assunsero un'incontrollabile gravità fino a che, nel 1970, il generale Afez Al-Assad, leader dell'ala nazionalista, si impose al potere con un colpo di stato.
Assad tentò dapprima di presentarsi in veste di leader moderato; ma una volta eletto presidente della repubblica in modo plebiscitario nel 1971 e più volte riconfermato, creò un regime dittatoriale, divenuto in breve il principale punto di riferimento del radicalismo nazionalista arabo, sospettato di essere uno dei principali ispiratori del terrorismo internazionale. All'interno l'esercito appariva il vero arbitro della situazione e non caso Assad dedicò sempre la massima attenzione alle forze armate, facendole diventare praticamente un sostituto sostanziale dello stato. L'impresa più impegnativa per l'esercito siriano fu la nuova guerra contro Israele nel 1973, sferrata insieme all'Egitto e alla Giordania. Pur non risultando disastrosa come quella del 1967, anche questa guerra si concluse in modo insoddisfacente per la Siria, che non riuscì a recuperare le alture del Golan.
A partire dal 1976 le forze armate siriane vennero impiegate in Libano, dove la Siria non aveva mai smesso di imporre il proprio controllo. Alcune parti di quel paese si trasformarono in un protettorato siriano, ma tutta la vita politica libanese venne fortemente condizionata dalla Siria. Nel 1982, in seguito all'invasione israeliana del Libano si verificarono scontri diretti tra le forze armate israeliane e quelle siriane: tre anni più tardi gli israeliani si ritirarono dal Libano mentre i siriani vi rimasero sia pure con crescenti difficoltà, dovendo fronteggiare il coinvolgimento nella guerra civile libanese tra cristiani maroniti, musulmani sunniti e sciiti e profughi palestinesi, oltre alla strisciante guerriglia della minoranza drusa insediata sulle montagne.
Nel corso degli anni 80' il conflitto tra Iran e Iraq ebbe importanti riflessi sulla Siria che si schierò affianco dell'Iran, anche perché, pur essendo minoritaria, la componente religiosa dominante era la minoranza Alawita cui apparteneva Assad. Ciò contribuì a isolare la Siria nel mondo arabo, dove era prevalente la preoccupazione della rivoluzione islamica di Khomeyni.
Assad, tuttavia, dovette fare i conti con la crescita dell'integralismo islamico, che in Siria era controllato dai Fratelli Musulmani. Questi organizzarono vere e proprie insurrezioni di massa schiacciate da Assad con una sanguinosissima repressione: nel 1982 nell'antica città di Hana sottoposta a una settimana di continui bombardamenti di artiglieria, vennero massacrati almeno 20 mila Fratelli Musulmani.
La Siria colse l'occasione per uscire dall'isolamento internazionale nel 1990, quando, dopo l'invasione irachena del Kuwait, essa si schierò con la coalizione anti-Saddam. Assad ne approfittò per imporre al Libano una sorta di protettorato, consacrato nel 1991 da un trattato di cooperazione. Negli anni 90' Assad continuò a governare autoritariamente il paese in forma dittatoriale e negli anni dei suoi rinnovati mandati presidenziale (dal 1991 al 1999), seguitò ad opporsi ad ogni processo di normalizzazione in medio oriente.
La sola opposizione reale al regime seguitò ad essere quella dei Fratelli Musulmani che finirono col dividersi in tre correnti: una era pronta a una collaborazione velata con il regime purché questo assicurasse la rigorosa separazione tra politica  e religione e non tentasse più di minare lo spazio dell'Islam all'interno della cultura e della società. L'università di Damasco costituì così una facoltà di diritto musulmano e la sua sezione di arabistica propose corsi di letteratura islamica antica. Sebbene il regime Baath avesse nazionalizzato dal 1967 tutte le scuole private musulmane  e cristiane, continuarono ad esservi impartite lezioni sulla religione musulmana  e cristiana. Assad lasciò persino costruire molte moschee e molte scuole coraniche, incentivando così la rifioritura di un Islam piuttosto conservatore, che però doveva rimanere apolitico. Stesso comportamento Assad tenne con le variegate componenti del cristianesimo siriaco (ortodossi, nestoriani, cattolici siriaci, caldei, armeni, assiri, ecc.ecc.).
Dopo la morte di Assad nel Giugno 2000 gli successe in via ereditaria il figlio, il giovane oculista cresciuto in Inghilterra Bashar Al-Assad. Egli voleva introdurre riforme interne e lottare contro la corruzione diffusa e, in politica estera desiderava difendere la posizione della Siria nei confronti di Israele e degli Stati Uniti. La Siria era così diventata la prima repubblica per diritto di eredità nel mondo arabo e Mubarak in Egitto cominciò a prendere in considerazione una soluzione simile per la successione. Dopo la sconfitta dell'Iraq nella Seconda Guerra del Golfo, nel 2003, anche la Siria finì sotto pressione da parte degli USA; ma questa sembrò alleggerirsi nel 2004 dopo la guerra, quando gli USA dovettero utilizzare tutta la loro energia per venire a capo della situazione disastrosa che essi avevano creato. Riprese invece, sempre più radicata nella grande maggioranza sunnita e nelle componenti cristiane della popolazione siriana l'opposizione politica degli irriducibili Fratelli Musulmani destinata a sfociare nella massiccia rivolta degli ultimi mesi.