mercoledì 19 settembre 2012

SIRIA

Aleppo, con i leader della rivolta divisi tra Islam, patria e jihad

AAZAZ. NON c’è un capo, non c’è un programma. Ce ne sono troppi. Per questo nessuno sa come sarà il dopo Assad. L’ideale, per chi teme che il Paese cada nelle mani di un regime islamista, sarebbe un cambio della guardia a Damasco.
SE L’ESERCITO, come è accaduto al Cairo con Hosni Mubarak, sacrificasse il rais, sostituisse Bashar al Assad con qualcuno di più presentabile, in grado di avviare trattative con gli insorti, si aprirebbe forse uno spiraglio. Ma le forze a confronto si battono con le spalle al muro, non hanno e quindi non concedono scampo.
La minoranza alawita (e quindi sciita), nucleo centrale del regime di Damasco, identifica il proprio destino con quello di Assad. E l’insurrezione, dominata dalla maggioranza sunnita, è un mosaico di formazioni e di tendenze ideologiche saldate soltanto da un comune obiettivo: la caduta di Assad. La guerra civile è destinata per ora a continuare, con ferocia crescente, e con il rischio che si espanda, perché la mischia può traboccare nel resto del Medio Oriente al centro del quale imperversa. Essa coinvolge già, indirettamente, Paesi limitrofi o vicini, ma anche lontani: da un lato, con Assad, l’Iran e la Russia; dall’altro, con gli insorti, in misura variabile, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Giordania, la Turchia, e con cautela (accentuata dal dramma di Bengasi) gli Stati Uniti. È una guerra sempre più per procura. Si direbbe, senza forzare troppo la realtà, che è un conflitto in cui l’Iran, tramite l’alleato regime di Damasco, si misura con gli avversari in territorio siriano.
Nel borgo in cui mi trovo sono ben in mostra le ferite inferte dai missili dei Mig 21.
È a una cinquantina di chilometri da Aleppo e in tempi normali a mezz’ora d’automobile da Deir Samaan, dove pensavo di andare. In quel villaggio dovrebbe esserci una comunità cristiana. E i cristiani sono circa il 10 per cento della popolazione, poco meno degli alawiti. Sono una minoranza schiacciata tra il regime, che li ha favoriti e ha conquistato l’appoggio di larga parte del clero, non tutto, e l’insurrezione agitata come una minaccia per la sempre più forte tendenza islamica. L’incertezza
sul futuro ha provocato numerosi espatri. In particolare nella provincia di Homs. Ci sono milizie cristiane armate da Damasco, senza essere direttamente impegnate nella guerra civile, e ci sono anche cristiani favorevoli all’insurrezione. Nelle vicinanze di Deir Samaan c’è il monastero di San Simeone, un santo famoso perché un millennio e mezzo fa passò gran parte della sua vita in cima a una colonna. Ma Deir Samaan è irraggiungibile. L’esercito lealista e le milizie che lo fiancheggiano sono nella zona, e la strada è dunque più che insicura. Non la si può percorrere.
Nell’informarmi sulla situazione interrogo i rappresentanti delle unità ribelli presenti nella provincia. E subito mi appaiono evidenti le divisioni all’interno di quella che Nur, la mia guida di un giorno, chiama la “rivoluzione”, e della quale lei, Nur, è una sintesi. Una sintesi delle varie formazioni militari e delle correnti islamiche e nazionaliste che animano la sua rivoluzione. Quando le chiedo se è molto religiosa scuote la testa; dal suo comportamento traspare un piglio femminista; è laureata in letteratura inglese e tratta gli interlocutori maschi alla pari, a volte con distacco, se avverte la propria superiorità culturale, e questo accade spesso; ma indossa l’hijab, che lascia scoperto soltanto l’ovale del volto, e un abito lungo color cenere.
L’abbigliamento, in evidente contraddizione con il suo comportamento e le sue idee, è imposto dalla situazione. Abdel Aziz Salama, comandante della Divisione Tawhid, ha richiamato all’ordine una donna perché dal suo hijab uscivano ciocche di capelli, coprendole la fronte. Quella frangia, lasciata libera per civetteria o trascuratezza, ha provocato la collera di uno dei più importanti capi della regione “liberata” di Aleppo. Salama, un ex commerciante di spezie, ha raccolto nella Divisione Tawhid uomini provenienti dalle zone rurali, o inurbati di recente, gente semplice, sensibili ai richiami religiosi, e con loro ha formato la più numerosa unità combattente.
La quale partecipa alla battaglia di Aleppo e presidia i territori del Nord, verso il confine turco.
Abdel Aziz Salama è un islamista, vale a dire che l’Islam è il punto centrale della sua azione e auspica la creazione di uno Stato islamico. Ma l’espressione è generica; tante sono infatti le correnti islamiste. Salama non è un estremista. Non è un jihadista. Mi è stato descritto come un uomo semplice e con una capacità di comando eccezionale. Gli riconoscono questa dote anche i nazionalisti, benché perplessi di fronte alla sua forte impronta religiosa e ai suoi modi spicci nel condurre la guerra.
Nella Divisione Tawhid la disciplina lascia desiderare. E la giustizia è piuttosto sbrigativa. L’esecuzione di prigionieri ha sollevato polemiche e proteste nelle formazioni che si distinguono da quelle islamiste. Ma l’abilità e la rapidità con cui Salama ha saputo creare la sua Divisione e la decisione con la quale l’impegna fin dall’inizio nella battaglia di Aleppo, e nella regione, gli danno un grande prestigio, anche tra i concorrenti —alleati.
Il suo comando si sposta da un villaggio all’altro, nelle cantine in cui è più o meno al riparo dai missili dei Mig 21 e degli elicotteri che gli danno la caccia. Penso che le unità di prima linea, in cui mi sono imbattuto ad Aleppo, appartenessero alla Divisione Tawhid. Le ho indicate come reparti del Libero esercito siriano, che è in realtà una nebulosa senza un comando unico a livello nazionale. Le discussioni per crearne uno non sono ancora arrivate a una decisione. Alla frontiera turco-siriana di Kilis c’è un “media center”, qualcosa di simile a un ufficio stampa, che ritengo dipenda dal Consiglio militare della zona di Aleppo. Il quale è stato nominato dopo estenuanti negoziati e non deve essere considerato un comando unico. Abdel Aziz Salama non si assoggetterebbe.
Benché comandi la più importante ed efficiente unità combattente della zona, lui non è comunque stato designato come il responsabile di quel Consiglio. Gli uomini d’affari della regione, quelli che si sono schierati con l’insurrezione e la finanziano, e i rappresentanti dei Paesi che forniscono armi o mezzi di comunicazione, riuniti in territorio turco, hanno preferito Abdel Jabbar al Hughaidy, un ex colonnello dell’esercito di Assad, nato ad Aleppo e diventato il comandante della più disciplinata unità combattente della zona. Il colonnello Hughaidy dà più affidamento. Non è un islamista. È un nazionalista. Non ha la barba come Salama. I suoi uomini sono stati in gran parte reclutati nelle città. Nelle sue unità ci sono studenti e professionisti. E i borghesi di Aleppo, quelli favorevoli alla “Siria libera”, non gli hanno risparmiato gli aiuti.
Chi ne fa il ritratto sostiene che Hughaidy sa essere sprezzante. Gli capita di rimproverare coloro che parlano l’arabo scorretto o lo scrivono con troppi errori. Come militare di carriera è puntiglioso anche sulle regole di guerra. È contrario alla giustizia sommaria applicata ai prigionieri, come la pratica Salama. Capita che i soldati lealisti catturati siano usati come autisti delle autobomba fatte saltare nelle zone governative. Hughaidy non è d’accordo con questo sistema contrario ad ogni etica militare. Un’etica che non è quella di Salama. La differenza di stile tra l’ex colonnello e l’ex commerciante alimenta racconti che sembrano già leggende.
I due capi, ai cui ordini ci sono migliaia di uomini, sono rivali ma impegnati nella stessa lotta. Quindi difficili alleati. Salama dispone di unità numericamente più robuste, Hughaidy dispone di più mezzi. Come responsabile del Consiglio militare deve tuttavia fornire armi anche a Salama. Insieme Hughaidy e Salama prefigurano forse il dopo Assad. E non è facile prevedere quali saranno i loro rapporti. Né del resto sappiamo come vanno esattamente adesso le cose. La realtà non è del tutto accessibile al cronista che si aggira in alcune limitate zone della Siria in preda alla guerra civile, che avrebbe già fatto 23 mila morti, in gran parte civili.
L’uccisione di Abu Muhammad non è tenuta segreta: essa rivela sanguinose dispute interne alla “Siria libera”. Il suo vero nome era Tal al-Kabama ed era un medico. In questa veste e con un atteggiamento a prima vista pacato, adeguato alla sua professione, aveva conquistato la stima della gente. Aveva annunciato l’intenzione di aprire un centro medico nel villaggio di Firas al-Abseh, e questo gli dava prestigio. Ma si è ben presto rivelato un fanatico, un jihadista. Guidava un gruppo di cento uomini chiamato dei “mujahidin siriani”, in cui c’erano molti stranieri. Sono stati loro a rapire in luglio due giornalisti, un olandese e un inglese, poi liberati. A uccidere Abu Muhammad sarebbe stata la Brigata Faruq al-Shamal, presente nella provincia di Homs. Non sono sempre così drammatici i rapporti tra islamisti e nazionalisti. Quest’ultimi li definirei musulmani laici, se l’espressione laici non avesse, per molti arabi, il significato di atei, e quindi non fosse accettabile. Ad Aleppo ho visto unità con le bandiere nere salafite operare a fianco di unità nazionaliste.
La disparità dei mezzi rende difficile valutare l’appoggio della popolazione ai ribelli. Le zone della “Siria libera” sono spopolate perché sottoposte a bombardamenti quotidiani. Ho percorso a lungo la bellissima pianura a Nord di Aleppo. Molte case erano vuote e i campi deserti in una stagione che di solito impegna gli agricoltori. La gente è fuggita in Turchia, o è emigrata nelle zone governative, dove non piovono bombe perché gli insorti non hanno, almeno per ora, un’artiglieria e ancor meno un’aviazione. Lo stesso vale per i commercianti e in generale gli uomini d’affari. Il regime ha inoltre liberalizzato in anni recenti l’economia favorendo la nascita di una classe di imprenditori, sunniti come alawiti. E questa classe teme il dopo Assad, che resta un’incognita.

Bernardo Valli

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