lunedì 11 febbraio 2013

ISRAELE

La scelta d'Israele
TEL AVIV Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento. E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un'impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell'aspirare al Grande Israele. Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un'estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l'occasione con quello dell'ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.
(segue dalla copertina) TEL AVIV Èsenz'altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell'attuale tendenza della società. Quindi merita un'attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze. È ovviamente ben lontano dall'immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale.
Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l'imminente rituale riposo. Al contrario appaiono in preda a un'indifferenza laica.
«Naftali?», dice l'amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. «Naftali è l'estrema destra high tech». Scherza naturalmente. Ma c'è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all'aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzoa edifici più di vetro che di cemento. Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell'abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv.
Naftali Bennett rappresenta l'estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell'industria sofisticata, orgoglio di Israele. Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l'ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari.
Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio. Naftali Bennett sa rivolgersia una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità.
Nonostante il loro estremismo.
Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c'è stata la svolta. Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni.
Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l'associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l'aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell'esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell'Israele laburista.
A dargli ulteriore credito è l'esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l'attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett. Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme. Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l'irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole "palestinese" e "pace" non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combattevae si morivaa Gaza.E la Palestina dell'Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani,è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell'Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti,e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all'estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c'è scritto: «Un uomo forte per un paese forte». Non c'è bisogno d'altro. Sono parole che rassicurano. La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. Si prodiga per far curare i giovani palestinesi ammalati,è favorevolea uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c'è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell'isolamento e al tempo stesso della tendenza all'isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell'alleato americano. È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l'estrema destra vincono le elezioni. È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall'Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l'Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un'"etnocrazia". E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi. Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di "Crisi del sionismo", hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico. Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l'hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c'è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l'obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi.
Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l'argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull'economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all'Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.

Bernardo Valli


L’ombra della destra hi-tech sul voto in Israele
TEL AVIV - Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento.
E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un'impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell'aspirare al Grande Israele. 
Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un'estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l'occasione con quello dell'ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.
È senz'altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell'attuale tendenza della società. Quindi merita un'attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze.
È ovviamente ben lontano dall'immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale. Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l'imminente rituale riposo. 
Al contrario appaiono in preda a un'indifferenza laica. "Naftali?", dice l'amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. "Naftali è l'estrema destra high tech". Scherza naturalmente. Ma c'è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all'aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzo a edifici più di vetro che di cemento. 
Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell'abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. 
Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv. Israele va alle urne domani. Il protagonista della campagna elettorale è Naftali Bennett leader dell'ala radicale dei conservatori laici Ex ufficiale, ha fatto fortuna con Internet e ora vola nei sondaggi con proposte asciutte ed estreme: niente processo di pace, estensione delle colonie, solo qualche città autonoma ai palestinesi ma sotto rigidi controlli di sicurezza Una ricetta che sta conquistando un Paese che vuole nascondere le sue paure Naftali Bennett rappresenta l'estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell'industria sofisticata, orgoglio di Israele. 
Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l'ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari. Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio. Naftali Bennett sa rivolgersi a una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità. Nonostante il loro estremismo. Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. 
La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c'è stata la svolta. Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni. Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. 
Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l'associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l'aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell'esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell'Israele laburista. 
A dargli ulteriore credito è l'esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno  stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l'attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett.
Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme. Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l'irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole "palestinese" e "pace" non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combatteva e si moriva a Gaza. E la Palestina dell'Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani, è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. 
È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell'Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti, e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all'estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c'è scritto: "Un uomo forte per un paese forte". Non c'è bisogno d'altro. Sono parole che rassicurano. La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. 
Si prodiga per far curare i giovani palestinesi ammalati, è favorevole a uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c'è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell'isolamento e al tempo stesso della tendenza all'isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell'alleato americano. 
È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l'estrema destra vincono le elezioni. È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall'Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l'Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New  York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un'"etnocrazia". E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi. 
Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di "Crisi del sionismo", hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico.
Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l'hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c'è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l'obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. 
È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi. Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l'argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull'economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all'Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. 
Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.

Bernardo Valli

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