venerdì 5 ottobre 2012

VENTI DI GUERRA TRA SIRIA E TURCHIA

Turchia-Siria chi cammina sull’orlo del cratere

BEIRUT. SONO  in tanti a camminare  sull’orlo del cratere, ma  tutti cercano di non  perdere
l’equilibrio. Pur alimentandola  con armi, denaro e parole,  nessuno vuole lasciarsi inghiottire
dalla guerra civile siriana, che si  calcola abbia fatto trentamila  morti e un paio di milioni di
profughi  in un anno e mezzo.       Pare che la prudenza non sia una virtù dei turchi,  ma pur
rispondendo  con energia all’uccisione  di una famiglia rimasta  vittima dei tiri d’artiglieria
dell’esercito  siriano in una zona di  confine, il governo di Ankara si è ben guardato dall’andar
oltre una  rappresaglia destinata soltanto  a salvare la faccia. Non ha minacciato  un vero
intervento. E la Nato, di cui la Turchia è un’importante  componente, ha espresso la sua
solidarietà. Nulla di più. Il governo di  Damasco,  è vero, si è scusato.
Sono in molti ad auspicare la fine  del regime di Bashar el Assad,  giudicandolo una dittatura
sanguinaria e  senza avvenire, ma sono anche in molti a temere  le conseguenze di  quella fine.
È FORSE per questo che i sostenitori  dei ribelli centellinano gli  aiuti.  Mentre l’esercito lealista,
quello di Damasco, usufruisce della  generosità dei suoi alleati russi e iraniani. Quanto siano
spilorci i  primi e di manica larga i secondi lo vedi sul terreno. I Mig 21 e gli  elicotteri governativi
possono scorrazzare  sui territori “liberati”  senza imbattersi  in un’antiaerea efficace, quindi
bombardano e  mitragliano senza correre  grandi rischi. Gli insorti essendo per lo più  dotati
soltanto di armi leggere, quando  vogliono colpire le zone  controllate dal regime devono
ricorrere alle autobomba,  spesso guidate  da prigionieri costretti a sacrificarsi come kamikaze.
Non si  intravede nel futuro scrutabile una soluzione del conflitto. Per ora non  ci sono in vista
né vinti né vincitori. Né si scorge la possibilità di  una tregua, di un compromesso tra le parti.
Anche perché l’Esercito  siriano libero è in realtà un mosaico di movimenti e milizie di varie
tendenze, senza un comando unico sul piano nazionale. Ed è quindi  difficile identificare un
interlocutore valido. Pur essendo male armata e  pur disponendo di meno uomini (un decimo
dei più di trecentomila  soldati lealisti) l’insurrezione  appare in vantaggio sul campo di  battaglia
perché il regime di Damasco non osa impiegare tutto il suo  pletorico esercito. Per impedire le
diserzioni non vuole che esso venga a  contatto con i ribelli  o con la popolazione dei territori
contesi. Si  limita quindi a usare aerei, elicotteri  e unità blindate (i T72 russi)  che servono da
artiglieria.
Insomma adotta sempre di più la guerra a  distanza, che infligge pesanti danni alla ribellione,
ma che non  favorisce  il controllo del territorio. Le diserzioni
sono state per  più di un anno la grande  risorsa in uomini e in armi dell’Esercito   siriano libero.
Ahmed Qunatri, un ex ufficiale adesso comandante di  un’unità ribelle nelle regioni del Nord,
confessa che da alcuni mesi  deve ricorrere a svariati  espedienti per convincere i soldati lealisti
a  cambiar campo. Ha cominciato  a praticare un’azione psicologica; a  offrire vantaggi in
denaro; a ricorrere a mezzi coercitivi. «Degni del  diavolo», ammette. E non è comunque facile.
Anche  perché la polizia di  Damasco colpisce  le famiglie dei disertori. Inoltre le azioni
terroristiche spengono la simpatia  per l’insurrezione della gente, e  quindi  dei soldati richiamati
alle armi. Consapevoli  di questo, pochi  giorni fa i gruppi  ribelli operanti nella zona hanno
cercato  di  attribuire ai governativi l’attacco suicida, che aveva appena ucciso  quaranta
persone in un quartiere di Aleppo, ma poi una milizia  affiliata o ispirata da Al Qaeda (Jabhet
al-Nusra) l’ha rivendicato.
Le  milizie estremiste, indicate come jihadiste o salafite, non prevalgono  tuttavia  nel vasto
mosaico dell’insurrezione.  La propaganda  governativa ne esagera  l’importanza per
spaventare la popolazione, in  particolare i cristiani. Un sondaggio tra gli insorti condotto da
siriani  per conto di vari organismi americani  (International  Republican Institute,  Pechter Polls
of Princeton, N. J., Carleton   University ed altri), ha rilevato una forte maggioranza di moderati per  quanto riguarda l’eventuale applicazione  di principi islamici. Il  riferimento alle democrazie
occidentali è risultato frequente,  e quindi  il rispetto per le minoranze  religiose. L’esempio del
governo turco,  dominato da un partito musulmano  moderato, è stato il più citato.
A  parte la Turchia del primo ministro Erdogan, spesso evocato anche nel  resto del Medio
Oriente, i paesi che appoggiano  la ribellione siriana  si distinguono per la loro ricchezza. Non
certo per il clima di libertà  che regna entro i loro confini. Il Qatar e l’Arabia Saudita sono infatti  i
principali finanziatori dell’insurrezione armata. Lo sono soprattutto  in quanto sunniti. Pur
essendo in concorrenza tra di loro. Il Qatar,  piccolo Stato con un grande portafogli gonfio di
petrodollari, era  presente anche in Libia. Con il suo dinamismo  politico-finanziario  vuole
evidentemente rimediare all’esiguità del territorio nazionale, e gareggiare con la grande Arabia
Saudita.
Entrambi  i paesi favoriscono in Siria i movimenti dei Fratelli Musulmani o di  quelli simili, la cui
intensità islamica è variabile. Il loro fervore  politico-religioso  si è intiepidito negli ultimi anni.
Ma, nella grande  famiglia sunnita, la corrente  wahabita (vale a dire saudita) resta più  intensa
di quella prevalente nel Qatar. E sarebbe questa la causa del  dissidio che spesso esplode tra i
due paesi. Ed è allora  che interviene  la mediazione turca.
Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono gli  acrobatici sostenitori della ribellione siriana,  che non
vogliono  correre il rischio di essere direttamente implicati, che si muovono  appunto in bilico
sull’orlo del cratere senza caderci dentro, ma che  sono  fermi nell’intenzione di plasmare la
Siria del dopo-Assad. Essi  sono appoggiati  in questa loro azione dalle potenze occidentali,
Stati  Uniti in testa, vigilanti ma anch’esse superprudenti. Forniscono  aiuti  umanitari ai profughi
e mezzi di comunicazione ai ribelli. Per ora  niente di più.
La guerra civile siriana ricorda quella di vent’anni  fa nei Balcani. I conflitti etnici  si confondono
con quelli religiosi.  Nell’Oriente complicato (da affrontare con idee semplici) lo scontro è  tra
sunniti  e sciiti, divisi dalla diversa interpretazione  dell’Islam  ma anche dalla Storia e nel
presente dalla lotta per l’influenza nella  regione. La Siria, benché a maggioranza  sunnita, è
governata dalla  minoranza  alawita, che ha radici sciite. Ed è l’alleata dell’Iran, la  grande
nazione sciita.  La quale è direttamente implicata a fianco di  Bashar al Assad. Non solo perché
gli fornisce armi e munizioni  attraverso  l’Iraq, dove c’è un governo dominato  dagli sciiti, ma
perché dei pasdaran sono presenti in Siria, pare nella veste di ottimi  cecchini. La prova? Di
recente sarebbe  stato sepolto con tutti gli  onori a Teheran un pasdaran ucciso a Damasco.  E
gli Stati Uniti, ancora  presenti a Bagdad, hanno invitato il governo iracheno  a non lasciar
passare nel suo spazio  aereo gli apparecchi diretti in Siria, con a  bordo armi e soldati. Se gli
Stati Uniti, e i paesi occidentali, sono  tra le quinte dell’insurrezione siriana, la Russia  rifornisce
di armi e  munizioni il regime  di Assad. E’ un frammento dimenticato  della  guerra fredda.
La Siria è anzitutto una trincea dell’Iran. La più  importante dopo la guerra che ha opposto negli
anni Ottanta l’Iran di  Khomeini all’Iraq di Saddam Hussein. Oggi per Teheran la Siria è “la  linea
di resistenza”  all’imperialismo. La resistenza  agli Stati Uniti,  che impone le sanzioni,  e a
Israele, che vorrebbe distruggere le  centrali atomiche iraniane. La guerra civile siriana
riassume cosi altri  conflitti. Sottoposto a sanzioni sempre più pesanti,  per la sua  indisciplina
nucleare, l’Iran vive una stagione difficile. La sua moneta  si è svalutata del quaranta per cento
nell’ultima settimana rispetto al  dollaro, e si sono accese manifestazioni di protesta, le prime
dopo  quelle soffocate  nel 2009, l’anno delle elezioni truccate.  Se  l’insurrezione siriana
dovesse trionfare, gli ayatollah perderebbero il  loro grande alleato in un momento critico.
Rimarrebbero isolati. Gli  hezbollah, i loro amici sciiti libanesi puntati come una spada contro
Israele, sarebbero ancora  più lontani. Per Teheran si annuncia  una  possibile grande sconfitta. Anche  qui, in Libano, con gli hezbollah in  casa e la Siria ai confini, si guarda con apprensione
a un futuro che  potrebbe essere  molto vicino.

Bernardo Valli


Nel villaggio ferito dalle bombe di Assad
la Turchia si scopre frontiera di guerra

AKCAKALE (CONFINE TURCO-SIRIANO) - I bambini sono tornati a giocare sul marciapiedi dove le tre sorelline Zainab, Mariam e Shaigul, assieme alla loro mamma, Zeliah e alla sua amica, Gulshan, sono state dilaniate da un colpo di mortaio sparato dall'esercito siriano. Nella loro incontenibile vitalità, i bambini sono riusciti ad assorbire la tragedia nei loro giochi. Mohammed spalanca la mano davanti agli obbiettivi dei fotografi per mostrare, orgoglioso, 4 o 5 schegge raccattate attorno al cratere dell'esplosione e Mustafà si arrampica sulla grata contorta del cancello per mostrare a tutti dove, quel mercoledì pomeriggio, è stato sbattuto dall'onda d'urto.
È come se Akcakale, una cittadina di 40 mila abitanti distesa tra biancheggianti campi di cotone, a ridosso del confine con la Siria, si sia spaccata in due. Metà è viva, illuminata, fragrante di odori e rutilante di colori; l'altra metà, quella che sfiora la frontiera e, con la sua periferia, incorpora il valico di Tel al Abjad, è una retrovia deserta, percorsa soltanto da mezzi militari, sorvegliata dagli elicotteri che le ronzano sopra, mentre oltre i recinti delle installazioni militari i carri armati, interrati, hanno i canoni rivolti verso la Siria. Centinaia di famiglie, ci dicono, hanno deciso di abbandonare le loro case per fare ritorno, almeno per ora, nei villaggi d'origine.
Questa è lo sfondo, visibile, del confronto esploso tra Ankara e Damasco, dopo il "triste incidente", parola del governo siriano,
di mercoledì. Ma l'incidente si è nuovamente ripetuto, ieri, a sud, nella regione di Antiochia (Atai) dove l'artiglieria turca ha risposto al fuoco dopo che un altro colpo di mortaio siriano è esploso vicino ad un'azienda agricola. Appena poche ore prima, il premier Erdogan aveva detto chiaramente di preparasi al peggio, ammonendo Damasco a non sottovalutare "la capacità di deterrenza" della Turchia.
È vero che qui a Akcakale dall'alba di giovedì non si spara più, ma per capire come questa specie di tregua armata sia appesa ad un filo, basta avvicinarsi al valico di Tel al Abjad. Su quella che appena poche settimane fa era la dogana siriana sventola il tricolore degli insorti, azzurro, bianco e nero, che fu anche la bandiera della Repubblica prima che nel 1970 salisse al potere Hafez el Assad, il padre di Bashar, l'attuale presidente.
Metà dell'edificio è sventrato dalle cannonate dell'esercito regolare. Non si vede anima viva. Solo quel lento sventolio. Ma i ribelli sono asserragliati all'interno e per il regime di Damasco, questa palese riduzione della propria sovranità territoriale, che si ripete in altri due valichi dei sei in cui si articola la lunga (900 chilometri) frontiera con la Turchia, è insopportabile. Anche perché la scelta di campo del governo Erdogan di schierarsi a favore della rivolta garantisce ai ribelli di poter contare, nel caso che i soldati siriani muovano per riconquistare il valico, su una facile via di fuga.
Il colpo di mortaio di mercoledì ha azzerato qualsiasi considerazione, se mai da queste parti ne ha avuta, nei confronti del raìs di Damasco. Le tende del lutto della famiglia Timucin, quella decimata dalla bomba, sono state innalzate a Bolatlar, 1400 abitanti, a una decina di chilometri da Akcakale. Le donne, che nascondono le capigliature sotto foulard dello stesso colore viola, sono inavvicinabili. Gli uomini si riuniscono a un centinaio di metri. Sulla soglia del capannone bianco il marito di Zeliah e padre delle tre bambine uccise, Omar, di 43 anni, riceve le condoglianze con accanto il figlio Ibrahim, 16 anni, sopravvissuto assieme ad altre tre sorelle rimaste ferite. Sotto il tendone, dove si entra a piedi scalzi come in una moschea. gli ospiti si raccolgono in piccoli gruppi. In un angolo, un vassoio colmo di sigarette, le teiere, le caffettiere, le ciotole con lo zucchero.
Omar, un contadino di 43 anni, sembra rifiutare sentimenti d'odio, o desideri di vendetta. "Queste cose vengono da dio e a dio deve rendere conto chi le commette", dice ad occhi asciutti. Il muktar del villaggio, Mustafà Tashtan, consente. "Noi non vogliamo vendette. Abbiamo fiducia nella fermezza del nostro governo", aggiunge col tono ufficiale del sindaco. Ma appena ci allontaniamo di qualche metro dalla gruppo che circonda i parenti stretti, un giovane ci chiede in un buon inglese: "Ma voi, in Italia, accettereste che un paese vicino spari e ammazzi la vostra gente?". "Bashar? - dice lo sceicco Taher Ozgut, arrivato per testimoniare la sua solidarietà - E' un assassino che non merita pietà", e accompagna le sue parole con il gesto inequivocabile di una lama che attraversa la gola. E tuttavia le cose non sono così semplici come vorrebbe far apparire l'anziano capo tribù.
La guerra civile siriana minaccia di ripercuotersi seriamente sul complicato caleidoscopio di minoranze su cui si regge la Turchia. E questo non può non indurre Ankara a qualche cautela. Akcakale, ad esempio, è un città mista arabo-curda. Siamo sulla pianura pedemontana del Kurdistan turco cioè alle pendici del vulcano separatista curdo. Ora, i curdi, oltre che in Iraq, in Iran e in Turchia, sono presenti e numerosi anche in Siria, e lì, in cambio di alcune concessioni sul piano dell'autonomia, hanno scelto di non schierarsi contro il regime. Ecco che i curdi turchi cominciano a sentirsi a disagio, stretti tra l'inevitabile solidarietà con i loro fratelli che vivono nel Kurdistan siriano, l'"invasione" degli arabi in fuga dalla Siria e l'antica diffidenza, se non ostilità, verso il governo di Ankara.

Alberto Stabile



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