Turchia-Siria chi cammina sull’orlo del cratere
BEIRUT. SONO in tanti a camminare sull’orlo del cratere, ma tutti cercano di non perdere
l’equilibrio. Pur alimentandola con armi, denaro e parole, nessuno vuole lasciarsi inghiottire
dalla guerra civile siriana, che si calcola abbia fatto trentamila morti e un paio di milioni di
profughi in un anno e mezzo. Pare che la prudenza non sia una virtù dei turchi, ma pur
rispondendo con energia all’uccisione di una famiglia rimasta vittima dei tiri d’artiglieria
dell’esercito siriano in una zona di confine, il governo di Ankara si è ben guardato dall’andar
oltre una rappresaglia destinata soltanto a salvare la faccia. Non ha minacciato un vero
intervento. E la Nato, di cui la Turchia è un’importante componente, ha espresso la sua
solidarietà. Nulla di più. Il governo di Damasco, è vero, si è scusato.
Sono in molti ad auspicare la fine del regime di Bashar el Assad, giudicandolo una dittatura
sanguinaria e senza avvenire, ma sono anche in molti a temere le conseguenze di quella fine.
È FORSE per questo che i sostenitori dei ribelli centellinano gli aiuti. Mentre l’esercito lealista,
quello di Damasco, usufruisce della generosità dei suoi alleati russi e iraniani. Quanto siano
spilorci i primi e di manica larga i secondi lo vedi sul terreno. I Mig 21 e gli elicotteri governativi
possono scorrazzare sui territori “liberati” senza imbattersi in un’antiaerea efficace, quindi
bombardano e mitragliano senza correre grandi rischi. Gli insorti essendo per lo più dotati
soltanto di armi leggere, quando vogliono colpire le zone controllate dal regime devono
ricorrere alle autobomba, spesso guidate da prigionieri costretti a sacrificarsi come kamikaze.
Non si intravede nel futuro scrutabile una soluzione del conflitto. Per ora non ci sono in vista
né vinti né vincitori. Né si scorge la possibilità di una tregua, di un compromesso tra le parti.
Anche perché l’Esercito siriano libero è in realtà un mosaico di movimenti e milizie di varie
tendenze, senza un comando unico sul piano nazionale. Ed è quindi difficile identificare un
interlocutore valido. Pur essendo male armata e pur disponendo di meno uomini (un decimo
dei più di trecentomila soldati lealisti) l’insurrezione appare in vantaggio sul campo di battaglia
perché il regime di Damasco non osa impiegare tutto il suo pletorico esercito. Per impedire le
diserzioni non vuole che esso venga a contatto con i ribelli o con la popolazione dei territori
contesi. Si limita quindi a usare aerei, elicotteri e unità blindate (i T72 russi) che servono da
artiglieria.
Insomma adotta sempre di più la guerra a distanza, che infligge pesanti danni alla ribellione,
ma che non favorisce il controllo del territorio. Le diserzioni
sono state per più di un anno la grande risorsa in uomini e in armi dell’Esercito siriano libero.
Ahmed Qunatri, un ex ufficiale adesso comandante di un’unità ribelle nelle regioni del Nord,
confessa che da alcuni mesi deve ricorrere a svariati espedienti per convincere i soldati lealisti
a cambiar campo. Ha cominciato a praticare un’azione psicologica; a offrire vantaggi in
denaro; a ricorrere a mezzi coercitivi. «Degni del diavolo», ammette. E non è comunque facile.
Anche perché la polizia di Damasco colpisce le famiglie dei disertori. Inoltre le azioni
terroristiche spengono la simpatia per l’insurrezione della gente, e quindi dei soldati richiamati
alle armi. Consapevoli di questo, pochi giorni fa i gruppi ribelli operanti nella zona hanno
cercato di attribuire ai governativi l’attacco suicida, che aveva appena ucciso quaranta
persone in un quartiere di Aleppo, ma poi una milizia affiliata o ispirata da Al Qaeda (Jabhet
al-Nusra) l’ha rivendicato.
Le milizie estremiste, indicate come jihadiste o salafite, non prevalgono tuttavia nel vasto
mosaico dell’insurrezione. La propaganda governativa ne esagera l’importanza per
spaventare la popolazione, in particolare i cristiani. Un sondaggio tra gli insorti condotto da
siriani per conto di vari organismi americani (International Republican Institute, Pechter Polls
of Princeton, N. J., Carleton University ed altri), ha rilevato una forte maggioranza di moderati per quanto riguarda l’eventuale applicazione di principi islamici. Il riferimento alle democrazie
occidentali è risultato frequente, e quindi il rispetto per le minoranze religiose. L’esempio del
governo turco, dominato da un partito musulmano moderato, è stato il più citato.
A parte la Turchia del primo ministro Erdogan, spesso evocato anche nel resto del Medio
Oriente, i paesi che appoggiano la ribellione siriana si distinguono per la loro ricchezza. Non
certo per il clima di libertà che regna entro i loro confini. Il Qatar e l’Arabia Saudita sono infatti i
principali finanziatori dell’insurrezione armata. Lo sono soprattutto in quanto sunniti. Pur
essendo in concorrenza tra di loro. Il Qatar, piccolo Stato con un grande portafogli gonfio di
petrodollari, era presente anche in Libia. Con il suo dinamismo politico-finanziario vuole
evidentemente rimediare all’esiguità del territorio nazionale, e gareggiare con la grande Arabia
Saudita.
Entrambi i paesi favoriscono in Siria i movimenti dei Fratelli Musulmani o di quelli simili, la cui
intensità islamica è variabile. Il loro fervore politico-religioso si è intiepidito negli ultimi anni.
Ma, nella grande famiglia sunnita, la corrente wahabita (vale a dire saudita) resta più intensa
di quella prevalente nel Qatar. E sarebbe questa la causa del dissidio che spesso esplode tra i
due paesi. Ed è allora che interviene la mediazione turca.
Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono gli acrobatici sostenitori della ribellione siriana, che non
vogliono correre il rischio di essere direttamente implicati, che si muovono appunto in bilico
sull’orlo del cratere senza caderci dentro, ma che sono fermi nell’intenzione di plasmare la
Siria del dopo-Assad. Essi sono appoggiati in questa loro azione dalle potenze occidentali,
Stati Uniti in testa, vigilanti ma anch’esse superprudenti. Forniscono aiuti umanitari ai profughi
e mezzi di comunicazione ai ribelli. Per ora niente di più.
La guerra civile siriana ricorda quella di vent’anni fa nei Balcani. I conflitti etnici si confondono
con quelli religiosi. Nell’Oriente complicato (da affrontare con idee semplici) lo scontro è tra
sunniti e sciiti, divisi dalla diversa interpretazione dell’Islam ma anche dalla Storia e nel
presente dalla lotta per l’influenza nella regione. La Siria, benché a maggioranza sunnita, è
governata dalla minoranza alawita, che ha radici sciite. Ed è l’alleata dell’Iran, la grande
nazione sciita. La quale è direttamente implicata a fianco di Bashar al Assad. Non solo perché
gli fornisce armi e munizioni attraverso l’Iraq, dove c’è un governo dominato dagli sciiti, ma
perché dei pasdaran sono presenti in Siria, pare nella veste di ottimi cecchini. La prova? Di
recente sarebbe stato sepolto con tutti gli onori a Teheran un pasdaran ucciso a Damasco. E
gli Stati Uniti, ancora presenti a Bagdad, hanno invitato il governo iracheno a non lasciar
passare nel suo spazio aereo gli apparecchi diretti in Siria, con a bordo armi e soldati. Se gli
Stati Uniti, e i paesi occidentali, sono tra le quinte dell’insurrezione siriana, la Russia rifornisce
di armi e munizioni il regime di Assad. E’ un frammento dimenticato della guerra fredda.
La Siria è anzitutto una trincea dell’Iran. La più importante dopo la guerra che ha opposto negli
anni Ottanta l’Iran di Khomeini all’Iraq di Saddam Hussein. Oggi per Teheran la Siria è “la linea
di resistenza” all’imperialismo. La resistenza agli Stati Uniti, che impone le sanzioni, e a
Israele, che vorrebbe distruggere le centrali atomiche iraniane. La guerra civile siriana
riassume cosi altri conflitti. Sottoposto a sanzioni sempre più pesanti, per la sua indisciplina
nucleare, l’Iran vive una stagione difficile. La sua moneta si è svalutata del quaranta per cento
nell’ultima settimana rispetto al dollaro, e si sono accese manifestazioni di protesta, le prime
dopo quelle soffocate nel 2009, l’anno delle elezioni truccate. Se l’insurrezione siriana
dovesse trionfare, gli ayatollah perderebbero il loro grande alleato in un momento critico.
Rimarrebbero isolati. Gli hezbollah, i loro amici sciiti libanesi puntati come una spada contro
Israele, sarebbero ancora più lontani. Per Teheran si annuncia una possibile grande sconfitta. Anche qui, in Libano, con gli hezbollah in casa e la Siria ai confini, si guarda con apprensione
a un futuro che potrebbe essere molto vicino.
Bernardo Valli
Nel villaggio ferito dalle bombe di Assad
la Turchia si scopre frontiera di guerra
AKCAKALE (CONFINE TURCO-SIRIANO) - I bambini sono tornati a giocare sul marciapiedi dove le tre sorelline Zainab, Mariam e Shaigul, assieme alla loro mamma, Zeliah e alla sua amica, Gulshan, sono state dilaniate da un colpo di mortaio sparato dall'esercito siriano. Nella loro incontenibile vitalità, i bambini sono riusciti ad assorbire la tragedia nei loro giochi. Mohammed spalanca la mano davanti agli obbiettivi dei fotografi per mostrare, orgoglioso, 4 o 5 schegge raccattate attorno al cratere dell'esplosione e Mustafà si arrampica sulla grata contorta del cancello per mostrare a tutti dove, quel mercoledì pomeriggio, è stato sbattuto dall'onda d'urto.
È come se Akcakale, una cittadina di 40 mila abitanti distesa tra biancheggianti campi di cotone, a ridosso del confine con la Siria, si sia spaccata in due. Metà è viva, illuminata, fragrante di odori e rutilante di colori; l'altra metà, quella che sfiora la frontiera e, con la sua periferia, incorpora il valico di Tel al Abjad, è una retrovia deserta, percorsa soltanto da mezzi militari, sorvegliata dagli elicotteri che le ronzano sopra, mentre oltre i recinti delle installazioni militari i carri armati, interrati, hanno i canoni rivolti verso la Siria. Centinaia di famiglie, ci dicono, hanno deciso di abbandonare le loro case per fare ritorno, almeno per ora, nei villaggi d'origine.
Questa è lo sfondo, visibile, del confronto esploso tra Ankara e Damasco, dopo il "triste incidente", parola del governo siriano,
di mercoledì. Ma l'incidente si è nuovamente ripetuto, ieri, a sud, nella regione di Antiochia (Atai) dove l'artiglieria turca ha risposto al fuoco dopo che un altro colpo di mortaio siriano è esploso vicino ad un'azienda agricola. Appena poche ore prima, il premier Erdogan aveva detto chiaramente di preparasi al peggio, ammonendo Damasco a non sottovalutare "la capacità di deterrenza" della Turchia.
È vero che qui a Akcakale dall'alba di giovedì non si spara più, ma per capire come questa specie di tregua armata sia appesa ad un filo, basta avvicinarsi al valico di Tel al Abjad. Su quella che appena poche settimane fa era la dogana siriana sventola il tricolore degli insorti, azzurro, bianco e nero, che fu anche la bandiera della Repubblica prima che nel 1970 salisse al potere Hafez el Assad, il padre di Bashar, l'attuale presidente.
Metà dell'edificio è sventrato dalle cannonate dell'esercito regolare. Non si vede anima viva. Solo quel lento sventolio. Ma i ribelli sono asserragliati all'interno e per il regime di Damasco, questa palese riduzione della propria sovranità territoriale, che si ripete in altri due valichi dei sei in cui si articola la lunga (900 chilometri) frontiera con la Turchia, è insopportabile. Anche perché la scelta di campo del governo Erdogan di schierarsi a favore della rivolta garantisce ai ribelli di poter contare, nel caso che i soldati siriani muovano per riconquistare il valico, su una facile via di fuga.
Il colpo di mortaio di mercoledì ha azzerato qualsiasi considerazione, se mai da queste parti ne ha avuta, nei confronti del raìs di Damasco. Le tende del lutto della famiglia Timucin, quella decimata dalla bomba, sono state innalzate a Bolatlar, 1400 abitanti, a una decina di chilometri da Akcakale. Le donne, che nascondono le capigliature sotto foulard dello stesso colore viola, sono inavvicinabili. Gli uomini si riuniscono a un centinaio di metri. Sulla soglia del capannone bianco il marito di Zeliah e padre delle tre bambine uccise, Omar, di 43 anni, riceve le condoglianze con accanto il figlio Ibrahim, 16 anni, sopravvissuto assieme ad altre tre sorelle rimaste ferite. Sotto il tendone, dove si entra a piedi scalzi come in una moschea. gli ospiti si raccolgono in piccoli gruppi. In un angolo, un vassoio colmo di sigarette, le teiere, le caffettiere, le ciotole con lo zucchero.
Omar, un contadino di 43 anni, sembra rifiutare sentimenti d'odio, o desideri di vendetta. "Queste cose vengono da dio e a dio deve rendere conto chi le commette", dice ad occhi asciutti. Il muktar del villaggio, Mustafà Tashtan, consente. "Noi non vogliamo vendette. Abbiamo fiducia nella fermezza del nostro governo", aggiunge col tono ufficiale del sindaco. Ma appena ci allontaniamo di qualche metro dalla gruppo che circonda i parenti stretti, un giovane ci chiede in un buon inglese: "Ma voi, in Italia, accettereste che un paese vicino spari e ammazzi la vostra gente?". "Bashar? - dice lo sceicco Taher Ozgut, arrivato per testimoniare la sua solidarietà - E' un assassino che non merita pietà", e accompagna le sue parole con il gesto inequivocabile di una lama che attraversa la gola. E tuttavia le cose non sono così semplici come vorrebbe far apparire l'anziano capo tribù.
La guerra civile siriana minaccia di ripercuotersi seriamente sul complicato caleidoscopio di minoranze su cui si regge la Turchia. E questo non può non indurre Ankara a qualche cautela. Akcakale, ad esempio, è un città mista arabo-curda. Siamo sulla pianura pedemontana del Kurdistan turco cioè alle pendici del vulcano separatista curdo. Ora, i curdi, oltre che in Iraq, in Iran e in Turchia, sono presenti e numerosi anche in Siria, e lì, in cambio di alcune concessioni sul piano dell'autonomia, hanno scelto di non schierarsi contro il regime. Ecco che i curdi turchi cominciano a sentirsi a disagio, stretti tra l'inevitabile solidarietà con i loro fratelli che vivono nel Kurdistan siriano, l'"invasione" degli arabi in fuga dalla Siria e l'antica diffidenza, se non ostilità, verso il governo di Ankara.
Alberto Stabile
Nessun commento:
Posta un commento