sabato 30 aprile 2011

L'ISLAM NEL SUD-EST ASIATICO FINO ALL'INDIPENDENZA DALLE COLONIZZAZIONI EUROPEE

L'Islam del Sud-Est asiatico si sviluppò in modo completamente diverso dall'Islam turco di stato ma anche dall'Islam dell'Impero Moghul perché al posto dell'unità imperiale la regola fu la frammentazione etnica e politica. Il Sud-Est asiatico non fu mai conquistato da tribù musulmane e non fu mai unificato. Il mondo pre islamico della Malesia, di Sumatra e di Giava, (in cui il forte influsso indù e buddhista non venne mai meno) restò il presupposto politico culturale dell'Islam indo-malesiano. Portato da singoli commercianti, da confraternite Sufi o da giuristi, l'Islam si sviluppò in modo decentralizzato attorno a singoli Ulema di villaggio, a Sufi oppure ad altri insegnanti popolari, in ogni caso senza un'organizzazione statale, a volte persino in opposizione all'autorità costituita.
Anche le confraternite e le scuole degli Ulema non riuscirono a svilupparsi molto. La maggior parte dei musulmani nei villaggi non dedicava molta cura a rituali, concetti, istituzioni e consuetudini di natura islamica. L'Islam fu più una questione di identità personale piuttosto che di organizzazione sociale.
All'inizio dell'epoca moderna il mondo islamico tra Sumatra, Giacarta e fino ad alcune isole delle Filippine mostrò che non esisteva "l'Islam" ma una vasta gamma di paesi e sistemi diversi tra loro che saranno sfidati in ogni campo, scientifico, culturale, politico-militare e tecnologico dalle colonizzazioni europee, in particolare da quella olandese e da quella inglese.


A - INDONESIA
Nel XIV secolo un impero induista si estese a tutta l'Indonesia grazie alle capacità militari del Rajah Madjapahit.
In seguito alla conquista musulmana dell'India del Nord l'Islam cominciò ad espandersi nelle regioni indonesiane occidentali. In un'epoca di vigoroso sviluppo degli scambi mondiali, i principati musulmani costieri dediti al commercio, soffocati dal centralismo di Madjapahit assunsero l'Islam come bandiera di lotta contro la monarchia "infedele", che abbatterono verso il 1520 acquistando il predominio politico dei principati di Bantam, Mataram e Atjeh, che gli europei si trovarono di fronte al loro apparire nell'arcipelago.
La prima fase di influenza europea nel secolo XVI ebbe a protagonisti i portoghesi, che la esercitarono indirettamente attraverso il controllo sulla rete commerciale dell'Estremo Oriente. Quando alla fine del secolo l'impero commerciale lusitano crollò, gli inglesi, in concorrenza con spagnoli e olandesi, fondarono alcuni scali commerciali sulle coste delle varie isole; ma presto gli olandesi imposero la propria supremazia sull'arcipelago, tramite la compagnia olandese delle Indie Orientali che, pur restando una società privata, fu per due secoli lo strumento della penetrazione dello stato olandese di Indonesia.
In una prima fase la compagnia stabilì il proprio monopolio sul commercio delle spezie e costituì una rete di basi mercantili e militari con piccoli possessi territoriali sulle coste. L'obiettivo della compagnia era il predominio commerciale e i suoi dirigenti erano contrari a espandere la conquista all'interno e ad assumerne la sovranità politica; ma questo sistema di governo indiretto impoverì e indebolì le strutture politiche esistenti e portò alla disgregazione dell'unità statale.
Alla metà del secolo XVIII gli orientamenti politici della compagnia cambiarono, i governatori cominciarono conquiste territoriali su larga scala e imposero ai principi indonesiani rapporti di vassallaggio politico diretto. Il controllo commerciale lasciò il posto allo sfruttamento produttivo, che portò a una profonda trasformazione sociale: i contadini furono ridotti a servi della gleba, l'aristocrazia indigena fu degradata alle funzioni di capi squadra e funzionari coloniali.
In conseguenza di ciò la compagnia si avviò verso un grave dissesto finanziario e venne sciolta nel 1789 e l'Indonesia diventò una colonia dello stato olandese.
All'inizio del XIX avvertì le ripercussioni delle vicende europee e, per effetto delle guerre napoleoniche, tra il 1811 e il 1814 venne occupata dagli inglesi. Il ritorno degli olandesi concordato con l'Inghilterra, si scontrò con un'aspra resistenza indigena e comportò una volta soffocate sanguinosamente le rivolte, l'irrigidimento del sistema coloniale attraverso l'introduzione di un sistema di lavoro forzato a carico dei contadini indonesiani su terreni di cui lo stato si riservava la proprietà.
Dopo il 1860, sotto la pressione dei gruppi privati lesi dalla concorrenza statale, il sistema lasciò gradatamente il posto a un regime di libera concorrenza,  che aprì le porte alla colonizzazione privata e agli investimenti internazionali di capitale. Questi mutamenti ebbero decisive conseguenze sulla società e in particolare favorirono la formazione di una borghesia nazionale nelle città non compromessa con il colonialismo, il crescente impoverimento dei contadini, la formazione di una classe operaia che si organizzò rapidamente in sindacato all'inizio del secolo XX.
Il nuovo secolo, con la crescente diffusione del pensiero politico europeo, conteneva le premesse per il costituirsi di un coscienza nazionale indonesiana. Il partito comunista, fondato nel 1920, tentò nel 1926 un'insurrezione anti-coloniale, ma venne sconfitto e ridotto all'illegalità. Da questo momento la direzione della lotta nazionale passò al partito nazionalista indonesiano a maggioranza musulmana, guidato da Ahmed Sukarno e diventato presto clandestino. Durante la Seconda Guerra Mondiale, nel periodo dell'occupazione militare giapponese (Gennaio 1942 - Agosto 1945), il partito nazionalista costruì le premesse per la formazione di un governo indonesiano provvisorio, che subito dopo il crollo del Giappone proclamò la nascita della Repubblica Indonesiana.
A guerra finita gli olandesi ritornarono pensando di poter restaurare il loro dominio coloniale. Iniziò così una sanguinosa guerra, che si trascinò fino alla conferenza della tavola rotonda dell'Aia (1949), che riconobbe la sovranità della repubblica degli Stati Uniti di Indonesia nel quadro di un unione tra questa e i Paesi Bassi. Nel 1950 la Repubblica fu trasformata da federale in unitaria e nel 1954 un nuovo accordo dell'Aia sancì il completo scioglimento dell'Unione e la piena indipendenza dell'Indonesia.

B - MALAYSIA

Nella penisola malese governata da un sultanato musulmano collegato all'Impero Moghul, nel XV secolo,  con la fondazione del porto di Malacca e con la penetrazione portoghese, iniziò lo sviluppo economico della Malesia che, un secolo dopo cadde sotto il dominio degli olandesi passando più tardi sotto quello britannico. Col trattato di Londra la Malesia venne assegnata alla Gran Bretagna, mentre Malacca passò agli olandesi che poi la cedettero ai britannici in cambio di alcuni possedimenti sulla costa occidentale di Sumatra. Nel 1867 Malacca e Singapore entrarono a far parte della colonia britannica degli stabilimenti degli stretti. Nel 1909 la Gran Bretagna ottenne dalla Thailandia, gli stati di Kedah, Kelantan, Perlis e Terengganu che poi riunì nei Confederate Malay States. Durante la seconda guerra mondiale la Malesia venne in gran parte conquistata dai Giapponesi (1942). Nel dopoguerra la propaganda antibritannica e l'acceso spirito nazionalista e indipendentista portarono alla costituzione dell'Unione Malese (1946). Nel 1957 venne proclamata l'indipendenza della Federazione Malese, che, ampliatasi ancora con l'unione di Singapore, Sarawak e Sabah, si costituì in federazione della Grande Malesia, da cui però si staccò Singapore.

venerdì 29 aprile 2011

FINALMENTE LA LEGA NORD COMINCIA A PRENDERE LE PRIME MERITATE LEGNATE

I risultati della xenofobia


Convinta fino a ieri di veleggiare trionfalmente, in sintonia con gli umori popolari e lo spirito dei tempi, la Lega d´un colpo s´imbatte nella maledizione della politica. Vent´anni dopo, non si può permettere di tornare all´opposizione. Ma l´abuso propagandistico dello strumento legislativo, adoperato come orpello simbolico a prescindere dalla sua funzionalità, quasi che le istituzioni potessero impregnarsi di stati d´animo, ora rivela platealmente i suoi limiti.
In poche settimane il popolo cui veniva promessa la salvaguardia dall´”invasione straniera” ha visto sbriciolarsi l´architrave normativo della xenofobia leghista. La partnership con il dittatore-amico Gheddafi ridotta a carta straccia; la pena detentiva per chi non ottempera al decreto di espulsione bocciata dalla Corte di Giustizia dell´Unione europea. Una sequenza inesorabile perché il vento della storia soffia in tutt´altra direzione, e la rendita parassitaria sugli effetti perduranti del terrorismo islamico non basta più a orientare la rotta, trascorso un decennio dall´11 settembre 2001.
Sta inceppandosi il meccanismo di accumulazione leghista: protesta e potere sono addendi che alla lunga non si sommano neppure dietro la maschera del populismo. Né si può governare un paese mediterraneo, grande e industrializzato come l´Italia, predicando la contrapposizione alle sue normative comunitarie (Ue) e alle sue alleanze militari (Nato).
Anche l´introduzione del reato di clandestinità per i migranti irregolari, legge approvata nel 2009, è un episodio tipico di questo abuso propagandistico della legislazione. Tale norma ha solo contribuito a intasare i tribunali. Altro che processo breve. Nessun vantaggio nella lotta al crimine deriva da questo allungamento delle istruttorie, solo oneri aggiuntivi per la macchina giudiziaria distratta dal perseguimento di reati più gravi. Nel frattempo, invece di sveltire le pratiche di espulsione, è subentrato l´obbligo di arresto replicato per migliaia di volte nei confronti degli stranieri espulsi inadempienti, con ingente spreco di spesa pubblica.
Tutto ciò venne fatto presente dall´Associazione nazionale dei magistrati prima del varo di norme che peraltro il Guardasigilli emanava malvolentieri, solo perché alla Lega non poteva dire di no. Per giustificare la necessità di introdurre il nuovo reato di clandestinità nei nostri codici, ad esempio, non potendo ammetterne la finalità meramente ideologica, il povero Angelino Alfano si arrampicò sui vetri: “Riteniamo che possa essere una misura di deterrenza forte che disincentivi l´ingresso di immigrati che vogliono essere clandestini”, dichiarò. Insomma, una minaccia in più che chissà come dovrebbe risuonare fino alle orecchie di persone che partono dai loro paesi per miseria o disperazione, convincendole che venire in Italia sarebbe troppo pericoloso. Argomento risibile, non concernesse la fatica di vivere toccata in sorte a tanti nostri simili.
Il ministro degli Interni, Roberto Maroni finge di non capire quando lamenta uno speciale accanimento della Corte di Giustizia europea ai danni dell´Italia. È per sua volontà, infatti, che il nostro Parlamento non ha ancora approvato la Direttiva comunitaria che regolamenta i rimpatri dei migranti irregolari solo dopo un vaglio accurato dei loro diritti: il contrario dei respingimenti sbrigativi, nel bel mezzo del Canale di Sicilia, che ci hanno procurato disonorevoli condanne internazionali. Sa benissimo, Maroni, che anche i paesi europei in cui vige il reato di clandestinità ottemperano al dovere dell´accoglienza dei profughi in misura di gran lunga superiore all´Italia. Hanno introdotto nella loro legislazione la Direttiva comunitaria. E soprattutto non brandiscono leggi-spauracchio, come ha fatto lui, pretendendo una pena sino a 4 anni di reclusione per i clandestini che non ottemperano al decreto di espulsione, anziché governare i flussi migratori. È difatti la mentalità della legge-spauracchio a subire la bocciatura della Corte di Lussemburgo. Evidenziando la differenza fra severità funzionale e cattivismo propagandistico.
Il leghista pretende di urlare pure quando legifera, ma nel frattempo è incapace di governare con efficienza. Guarda con invidia gli apparati statali dei nostri vicini europei, più severi del nostro nell´effettiva applicazione dei decreti di espulsione, ma ne ignora i percorsi d´integrazione e la cultura dei diritti umani.
La Lega che in questi giorni sta simulando le sue prove di crisi di governo, nell´attesa che giunga il momento propizio per sganciarsi da Berlusconi e ereditarne l´elettorato settentrionale, non prevedeva di trovarsi di fronte a un tale bivio strategico. Ha parlamentari in carica da tre o quattro legislature, e nuove leve che premono. Non può rinunciare alla sua vocazione di governo e sottogoverno, tramite fra Roma e la provincia. Ma i flussi dell´economia internazionale e i mutamenti in corso sulla sponda meridionale del Mediterraneo rivelano all´improvviso l´anacronismo del suo progetto isolazionista, di piccola patria. Può prendersela con gli arabi, con i cinesi, con i francesi. Può sparare minacce secessioniste dall´Unione europea o dall´Italia meridionale. Ma la sua protesta risuona come un mugugno dialettale minoritario, dal fiato sempre più corto.

giovedì 28 aprile 2011

SE DIO VUOLE... (INSCIALLAH)

Quando meno si aspettava un evento del genere e dopo quattro anni di guerra e di odio, il più antico partito palestinese, Al-Fatah, e Hamas sembra siano riusciti a scrivere la risoluzione e la rivoluzione più invocata nell'intero mondo arabo e cioè la riconciliazione del popolo palestinese. L'annuncio è arrivato dal Cairo, dove i delegati delle due parti in conflitto si incontravano inutilmente ogni 3 mesi. Caduto Mubarak, nell'ultimo mese, tutto sembra essersi messo in movimento: le proteste a Gaza e in Cisgiordania hanno portato in piazza decine di migliaia di persone che chiedevano la fine della divisione; è stata anche annunciata la visita del presidente Abu Mazen nella striscia di Gaza e la decisione di Hamas di inaugurare un ufficio di rappresentanza al Cairo su invito della nuova giunta di governo egiziana. Ieri la sorpresa più gradita: Abu Mazen e Khaled Meshaal arriveranno al Cairo giovedì prossimo e firmeranno 5 punti di intesa per costituire un governo provvisorio di tecnici, per fissare elezioni comuni entro 8 mesi, per riformare la vecchia OLP di Arafat per scambiarsi prigionieri, per dividersi i servizi di sicurezza. Il giornale progressista israeliano scrive: "E' una storica riconciliazione". Fra i palestinesi non mancano gli scettici: un politologo palestinese avverte: "Finché non firmano e anche dopo è meglio avere dubbi". 
In effetti il passato è ricco di accordi non rispettati: ancora nell'Ottobre 2009 una conferenza stampa dei capi delegazione di Hamas e del Fatah all'ultimo momento è stata cancellata. I più ottimisti per il momento sono gli egiziani, ma anche nelle file di Hamas si comincia a sorridere. Uno dei leader di Hamas, Mahmoud Al-Zahar, assicura: "Tutti gli ostacoli sembrano superati. In futuro il problema non sarà chi governa. Sarà come si governa". 
Oltre che dei nuovi governanti cairoti, che Hamas riconosce essere non più servi degli americani come Mubarak, oltre che del vento delle rivoluzioni arabe che fa traballare perfino la Siria, l'accordo è figlio di Abu Mazen. Il presidente dell'autorità nazionale palestinese (ANP) ha dichiarato chiuso il dialogo con Israele essendosi convinto della sua inutilità e raccoglie tutte le forze per Settembre quando all'ONU verrà presentata la proposta di auto proclamazione dello stato di Palestina: 130 paesi hanno già garantito il voto favorevole, ma per Abu Mazen è fondamentale presentarsi senza divisioni. 
Il vecchio leader, compagno di lotta di Arafat, sa benissimo che la scelta di pace con Hamas avrà conseguenza. Egli sa che Israele farà di tutto per impedire la nascita di una Palestina al cui governo partecipa anche Hamas. Il premier israeliano Netaniyahu ha già messo le carte in tavola: "Hamas lancia razzi sui nostri bambini. Penso che la riconciliazione di Abu Mazen con Hamas sia un segno di debolezza dell'autorità palestinese e ci porta a chiedersi se Hamas si impadronirà della Giudea e della Samaria, come ha fatto a Gaza. Non si può avere una pace con Hamas e Israele insieme, la scelta spetta alla ANP. Spero faccia quella giusta".
Le parole pronunciate a futura memoria dal teppista Netaniyahu servono a gettare, anche se non sarebbe necessario, la consueta luce sulla natura eversiva dello stato di Israele, inanzi tutto per l'uso sistematico della propaganda fatta di bugia:
I - I missili lanciati da Hamas sugli insediamenti israeliani del deserto di Neged hanno fatto in 3 anni quattro morti di cui 2 beduini di una famiglia nomade e due militari israeliani. Le bombe al fosforo lanciate su Gaza di bambini ne hanno ammazzati 335;
II - Il primo ministro israeliano seguita a ripetere il disco rotto della impossibilità di riconoscere uno stato palestinese che non riconosce lo stato di Israele. Ormai anche i sassi sanno che Israele è stato riconosciuto da tutti i paesi arabi confinanti, mentre il diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato è da sempre rosicchiato giorno per giorno dai "topi" israeliani che seguitano a divorare territori e fonti d'acqua della Cisgiordania.
E' veramente singolare che il capo del governo di un paese pretenda di stabilire lui come deve essere organizzato e governato uno stato che ancora non c'è. E' la solita logica dei guerrafondai, tanto conosciuta dai tempi della favola del lupo e dell'agnello.
Ma intanto mentre gli israeliani cercano nuovi trucchi per nascondere i loro veri intenti che sono quelli di mangiarsi l'intera Palestina (non a caso Netaniyahu seguita a fare riferimento ai termini di Giudea e di Samaria) i palestinesi sembrano avviarsi a ricostituire l'arma più importante della loro causa e cioè la loro unità.


P.S: mi è capitato, purtroppo di assistere davanti alla televisione allo spettacolo della squallida esibizione di quel losco personaggio che risponde al nome di Magdi Cristiano Allam, i cui scritti sono diventati talmente spregevoli che da qualche tempo il Corriere della Sera ne fa volentieri a meno, e il convertito in mondo visione ha trovato come nuova sponda il "giornale" di Sallusti. Conclusione inevitabile: i fascisti devono sempre finire in compagnia dei fascisti. L'illustre pseudo giornalista, richiesto di un parere sulle rivolte dei paesi arabi e, in particolare sulle vicende di Libia ha risposto: nei paesi islamici esistono solo due centri di potere, le forze armate e le moschee. Le prime sono il puntello delle dittature, le seconde sono il principale sostegno agli estremisti islamici...
Il vecchio socialista Massimo Pini ha commentato: "Dalle parole di Magdi Allam mi sembra di capire che egli auspica il bombardamento delle forze armate di Gheddafi e contemporaneamente o subito dopo quello delle mosche. Posizione "pacifista" di indubbio respiro". 

mercoledì 27 aprile 2011

IL COLONIALISMO INGLESE IN INDIA E I SUOI RAPPORTI CON L'ISLAM INDIANO

Nel corso del secolo XVII cominciò a manifestarsi in India l'influenza delle potenze europee. Già nel secolo precedente i portoghesi avevano stabilito basi navali sulla costa, ma non ebbero mai delle idee conquistatrici sull'interno. All'inizio del secolo successivo fu fondata la compagnia olandese delle Indie Orientali che sottrasse ai portoghesi il dominio sull'Oceano Indiano e stabilì alcune basi commerciali, ma preferì presto concentrare la sua attività in Indonesia. Contemporaneamente alla compagnia olandese nacque la compagnia inglese delle Indie Orientali, che fondò numerose stazioni commerciali lungo la costa indiana e ottenne la cessione di Madras e di Mumbay, e più tardi di alcuni villaggi bengalesi dai quali sorse il Calcutta. Infine la compagnia francese delle Indie, fondata nel 1664, creò una solida base a Pondicherry. 
Nel corso del XVIII secolo la compagnia francese e quella inglese si disputarono la supremazia sull'India, inserendosi nelle travagliate vicende politiche del subcontinente. Gli inglesi uscirono vincitori dal conflitto (1761), nel corso del quale si assicurarono la sovranità di fatto sul Bengala e sul Bihar. Negli anni seguenti la compagnia inglese affrontò con successo la monarchia musulmana creata nel Mysore dall'avventuriero Haidar Alì e dal suo successore Tipu Sultan e poi procedette alla conquista di nuovi territori.
Nel corso del XVIII secolo il subcontinente indiano visse una profonda crisi interna. Dopo la morte di Auren Greb l'impero Moghul cominciò a disgregarsi: le sue provincie erano divenute indipendenti di fatto ed erano passate in mano ai Maratha. Le invasioni di Nadir Shah dall'Iran (1739) e di Ahmet Shah dall'Afghanistan (1748) tolsero all'impero i territori afghani, l'odierno Pakistan e il Kashmir; e in tal modo nel 1803 gli ultimi imperatori Moghul passarono dalla protezione maratha a quella inglese. La confederazione Maratha resse alla prima guerra contro l'Inghilterra (1778-1781), ma si dissolse in seguito alla seconda (1803-1805) e i suoi resti furono annessi ai territori inglesi come conseguenza della terza guerra (1818).
Il primo metodo di colonizzazione seguito dagli inglesi fu quello di tentare una pacifica convivenza con le popolazioni dell'India, non si opposero mai ai matrimoni misti, non operarono tentativi di conversione al Cristianesimo, non adottarono comportamenti di razzistico apartheid, arrivando addirittura ad adottare il vestiario, gli arredi domestici e perfino le forme architettoniche dell'India contemporanea.
Tutto cambiò con la salita al trono britannico della regina Vittoria: l'India venne letteralmente invasa da una folla di missionari anglicani e calvinisti; i servizi segreti britannici costruirono una "leggenda nera" sulla barbarie dei costumi indiani, inventandosi letteralmente la storia degli strangolatori Thugs, terroristi seguaci della Dea Kalì che in realtà esistettero solo nei romanzi di avventura, fornendo tuttavia il pretesto per spietate repressioni. Per quanto riguarda l'organizzazione amministrativa dell'India, nel 1813 gli inglesi proclamarono la sovranità della corona su vastissimi territori conquistati dalla compagnia, che nel 1833 divenne una pura agenzia amministrativa. Nella prima metà del secolo XIX gli inglesi introdussero inoltre alcuni radicali cambiamenti nella vita del subcontinente, dando inizio alla costruzione del sistema ferroviario e telegrafico. Essi vollero anche diffondere in India un programma di istruzione superiore di stampo occidentale per formare una nuova classe media composta da professionisti educati all'europea, che in seguito avrebbe svolto un ruolo fondamentale nella nascita del movimento indipendentista e nazionalista. 
Nel 1848 lo stato dei Sikh, in Punjab fu conquistato dagli inglesi; ma nel 1857 la misura era colma e la pazienza degli indiani di ogni fede religiosa aveva superato il limite estremo.
Nei primi mesi dell'anno esplose all'improvviso una generalizzata rivolta che in pochi giorni eliminò tutti gli inglesi di ogni età e sesso residenti in India (circa 20 mila). L'evento venne registrato nei libri di storia inglese con l'espressione "Indian Mutiny" (ammutinamento indiano). A ribellarsi furono i Chipays, e cioè i soldati musulmani e indù che servivano nelle forze armate della compagnia delle indie. La rivolta venne repressa dai britannici con inimmaginabile ferocia:il comandante delle forze militari inglesi disse che per ogni inglese ucciso nella rivolta almeno mille indiani dovevano essere giustiziati; ma quelli che erano riconosciuti senza dubbio autori materiali di un omicidio dovevano essere scuoiati vivi.
L'India ritrovò una sua momentanea disperata ed eroica unità: richiamato sul trono l'ultimo imperatore Moghul, un mite guru che da anni si era ritirato in meditazione sulle montagne dell'Himalaya, organizzarono una resistenza accanita in ogni singola città e in ogni più piccolo villaggio. La capitale Delhi resistette con eroismo a un prolungato assedio e a un massiccio bombardamento di artiglieria, ma per conquistarla i britannici dovettero praticamente raderla al suolo combattendo casa per casa. La repressione provocò oltre un milione di morti; solo a Delhi vennero passate per le armi 200 mila persone; decine di migliaia di prigionieri vennero uccisi legandoli a grappolo alle bocche dei cannoni. L'imperatore Moghul venne deposto e rinchiuso in prigione e furono puniti con maggiore ferocia i musulmani, considerati responsabili dell'insurrezione. 
Questi eventi furono decisivi per il ruolo del riformatore musulmano Ahmed Kan, che scrisse molti libri nel tentativo di convincere le autorità britanniche che i musulmani non erano stati fautori della rivolta, provocata invece dai soprusi e dalle provocazioni religiose dei conquistatori. Egli intendeva educare i suoi compagni di fede a una comprensione tollerante e illuminata dell'Islam. Nel 1878 egli fondò ad Aligarh il Muhammad College, organizzato secondo i modelli di Oxford e di Cambridge. Egli comprese chiaramente, prima di ogni altro musulmano, la necessità di una rivalutazione radicale del pensiero religioso islamico per il progresso della scienza moderna e della filosofia: grazie a lui il "modernismo" indiano parve una possibilità aperta a molti proprio in India, prima ancora che in Egitto e nell'Impero Ottomano che non mancò di influenzare la predicazione non violenta del Mahatma Gandhi.
Frattanto domata la rivolta la corona inglese assunse il governo diretto dell'India, e in India fu nominato un vice re direttamente responsabile verso il governo di Londra. Egli era assistito da un consiglio esecutivo e da un consiglio legislativo centrali nominati dalla regina, e organi simili furono introdotti anche a livello provinciale.
Nella seconda metà del secolo XIX fra le nuove classi medie colte cominciò a manifestarsi un profondo malcontento a causa della completa esclusione degli indiani di ogni religione dalla conduzione degli affari del loro paese. La richiesta di una maggiore partecipazione politica portò alla creazione del partito del congresso nazionale indiano (1885), che da prima mantenne una linea di condotta moderata, ma poi vide affermarsi al suo interno posizioni sempre più radicali. Sin dalle origini il congresso fu composto in maggioranza da indù ma all'inizio del XX secolo i musulmani che cominciarono a sentirsi una comunità separata, fondarono la Lega Musulmana (1903); e da allora la tensione tra indù e musulmani andò crescendo.
Scoppiata la Prima Guerra Mondiale, l'India dimostrò la propria realtà alla Gran Bretagna, ma questa non ne tenne conto e di fatto la guerra segnò il definitivo estraniarsi dalla classe dirigente indiana dalla burocrazia inglese. Subito dopo la guerra la guida del congresso fu assunta da Mohandas Karamchand Gandhi, che diede alla lotta nazionale un contenuto etico e sociale impregnato sulla non-violenza. Nel periodo compreso tra le due Guerre Mondiali, Gandhi guidò due importanti campagne di disobbedienza civile coinvolgendovi vasti strati di popolazione. La prima campagna (1920-1922) incluse anche il boicottaggio delle elezioni dei consigli legislativi provinciali. Dopo la seconda campagna di disobbedienza civile (1930-1933) una nuova riforma istituzionale introdusse il sistema di governo parlamentare a livello provinciale. La riforma venne accettata dal partito del Congresso che trionfò alle elezioni del 1937, assumendo il governo della maggioranza delle provincie, mentre la Lega Musulmana prevalse solo nel Punjab e nel Sind.
Nel 1939 il vice re proclamò l'entrata in guerra dell'India contro la Germania senza consultare le forze politiche indiane, con ciò provocando la reazione del congresso i cui ministri diedero le dimissioni. Nel 1942 venne lanciata una nuova campagna di disobbedienza civile, cui il governo reagì arrestando i capi congressisti. Intanto nel 1940 la Lega Musulmana sotto la guida di Muhammad Jinnah dichiarò come propria meta finale la creazione di uno stato musulmano, il Pakistan. Finita la guerra e disposti ormai gli inglesi a cedere il potere, il congresso tentò invano di evitare la spartizione del paese. Nel 1947 si arrivò alla dichiarazione dell'indipendenza e alla contemporanea divisione dell'India in due stati: il Pakistan e l'Unione Indiana. Tale scelta fu seguita da uno scoppio di odio religioso che provocò circa un milione di morti; e di questa tragedia fu vittima lo stesso Gandhi ucciso da un fanatico indù nel 1948.

lunedì 25 aprile 2011

LA COLONIZZAZIONE ITALIANA IN LIBIA

Nonostante non fosse passato molto tempo dalla disastrosa sconfitta italiana nella guerra contro l'Etiopia, culminata nel 1896 con la terribile sconfitta di Adua dove l'esercito italiano perdette contro le forze del Negus Menerik oltre 6000 soldati, già nel 1910 i circoli affaristici italiani, soprattutto quelli che facevano capo al banco di Roma e alla banca commerciale, investirono consistenti risorse per montare una campagna di propaganda imperialistica che desse anche all'Italia "un posto al Sole". Nell'intero bacino Mediterraneo l'unica preda accessibile era il doppio pascialato turco di Tripolitania e di Cirenaica (l'antica Lybia dei romani), che a tutti gli osservatori non solo italiani ma soprattutto franco-inglesi che era parso un enorme scatolone di sabbia privo di valore; e tuttavia l'idea di dare anche all'Italia un "impero d'oltremare" che, per la sua posizione geografica si prestava a diventare addirittura la "quarta sponda" del nostro paese, fece superare ogni dubbio sull'opportunità di una guerra che si sarebbe dovuta combattere soprattutto con la Turchia sotto la cui sovranità la Libia ricadeva. Assicuratasi la benevola neutralità di Francia e di Inghilterra e la sostanziale alleanza diplomatica della Germania e dell'impero austro-ungarico, la guerra contro la Turchia fu decisa senza grandi opposizioni all'interno: la Chiesa cattolica fu anzi entusiasticamente a favore in funzione anti musulmana; l'ala sindacalistica dei socialisti enfatizzò addirittura l'idea abbracciando lo slogan del poeta Giovanni Pascoli: "La grande proletaria si è mossa". Il conflitto tra Italia e Turchia si combatté ovviamente in territorio africano (1911-1912) e si prolungò nel Mar Egeo (1912) dove si concluse con l'occupazione italiana di Rodi e delle isole del Dodecanneso. La dichiarazione di guerra (29 Settembre 1911) fu seguita dal massiccio bombardamento di Tripoli da parte della flotta italiana il mattino del 3 Dicembre. Le linee difensive turche, due sgangherati forti quasi in rovina, furono ridotti al silenzio e il 5 Dicembre Tripoli fu occupata. L'evento fu salutato con grande entusiasmo dalla popolazione italiana e celebrato con una canzone divenuta famosa: "Tripoli, bel suol d'amore".
Ai primi contingenti italiani seguì il grosso del corpo di spedizione italiano comandato dal generale Caneva e forte di 100 mila uomini che, con grande sorpresa, oltre a scontrarsi con l'esercito regolare turco che si era attestato
intorno a Tripoli, dovette affrontare la furibonda insurrezione degli arabi, la cui tattica di guerriglia e l'ottimo armamento ricevuto da una nave turca che il servizio segreto italiano aveva ritenuto fosse di nazionalità tedesca. Un grosso contingente di bersaglieri cadde in una rovinosa imboscata a Sciarasciat e perse oltre 600 uomini. La rappresaglia italiana fu spietata: per la prima volta nella storia una città, Tripoli venne bombardata dall'aviazione e i soldati italiani fecero irruzione nelle abitazioni massacrando uomini, donne e bambini senza distinzione alcuna. Qualche centinaio di arabi venne impiccato agli alberi del litorale, e i "valorosi"soldati italici mandarono come souvenir pittoresche cartoline con le foto degli impiccati.
La guerriglia araba proseguì nell'interno e tuttavia il 5 Novembre l'Italia proclamò l'annessione della Tripolitania, mentre con l'occupazione di Derna, Bengasi e Oms fu proclamata anche l'annessione della Cirenaica.
Il 18 Aprile 1912 una squadra navale bombardo le fortificazione turche all'interno dei Dardanelli, mentre tra il 26 Aprile e il 12 Maggio Rodi e il Dodecanneso vennero occupate. Trattative di pace iniziarono alla metà di Luglio e si conclusero con la pace di Losanna (18/10/1912), con la quale la Turchia riconosceva la sovranità dell'Italia sulla Libia. Le trattative di pace vennero condotte dal conte Volpi per l'Italia e da Nabi Bey per la Turchia. Entrambi i diplomatici concordarono sul fatto che la pace era stata firmata tra galantuomini, ma dopo la cerimonia uno dei diplomatici turchi lanciò a Volpi una maliziosa e profetica frecciata. Preso in disparte Volpi il turco Seifeddin Bey gli disse:
"Nel mio paese si racconta la storia di due acerrimi nemici, uno dei quali si innamorò della figlia dell'altro. Tutti scommisero che quel matrimonio non si sarebbe celebrato; ma il padre della ragazza accettò immediatamente e quando gli chiesero perché rispose: "Mia figlia farà la mia vendetta!. Per noi turchi la figlia è la Libia"."
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l'esercito italiano dovette ritirare tutte le truppe d'occupazione dalla Libia, mantenendo soltanto un piccolo presidio a Tripoli. La guerriglia araba dilagò in tutto il paese e decine di guarnigioni italiana vennero massacrate. Solo in Cirenaica gli italiani se la cavarono alla meno peggio perché il governatore di Bengasi ebbe l'intelligenza di trattare una sorta di tregua con la potente confraternita Al-Sanusyya. Le ostilità ripresero violente a partire dal 1927, quando il regime fascista ordinò la riconquista della Libia e a somiglianza di quanto avevano fatto i francesi con l'Algeria, la dichiarò a tutti gli effetti "territorio metropolitano".
La provocazione provocò una rivolta ancora più violenta dei Senussiti che condussero una micidiale guerra di movimento contro le truppe italiane comandate in un primo tempo da generali privi di effettive capacità e infine vennero affidati alla guida del generale Graziani. Questi condusse una guerra di sterminio di inaudita ferocia, distrusse completamente  tutto il bestiame domestico delle tribù Cirenaiche e internò dai 20 ai 30 mila arabi in campi di concentramento dove non meno della metà degli interrati morirono di fame, di sete e di malattie. L'eroico leader della rivolta, Omar Al-Muhtar venne impiccato.
La nomina a governatore della Libia di una persona dotata di intelligenza e di qualche umanità come Italo Balvo recò un breve periodo se non di pace, di tranquillità. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la Libia divenne uno dei tanti campi di battaglia. L'Italia fu irrimediabilmente sconfitta dagli inglesi nella battaglia di El-Alamein, e il potere venne assunto dal capo dei Senussiti Idris, riconosciuto re prima di Cirenaica e poi dell'intera Libia dal governo provvisorio di occupazione inglese che riconobbe l'indipendenza libica nel 1952 Tale riconoscimento fu un evento drammatico, non tanto per le decine di migliaia di coloni italiani che dal re libico vennero trattati con benevolenza e con fraternità, ma soprattutto per i francesi perché l'indipendenza libica fu la miccia che avviò le lotte di liberazione arabe prima in Tunisia, poi in Marocco e infine in Algeria.
A ogni buon conto è il caso di sottolineare che l'avventura di Libia era costata all'Italia circa 4000 vittime e oltre 4200 feriti. Le spese affrontate non sono mai state calcolate con qualche approssimazione.

sabato 23 aprile 2011

A PROPOSITO DELLE RIVOLTE SIRIANE - La ferocia del regime siriano

Articolo di Renzo Guolo, La Repubblica, 23/04/2011

"La Ferocia del Regime Spezzato"



A poche ore dall`abolizione dello stato di emergenza, in vigore da quando, quarantotto anni fa il partito Baath prese il potere, la polizia siriana spara sui manifestanti, facendo decine di vittime. 
Una reazione, purtroppo, prevedibile, dalmomento chelavecchiastruttura di potere nell`esercito e gli apparati di sicurezza non sono certo favorevoli alle riforme annunciate da Assad, leader che, contrariamente al padre, non ha il pieno controllo del regime. La dura repressione è motivata dalla supposta presenza tra i manifestanti di «bande armate» e «salafiti», categorie del politico che, nei regimi autocratici dilatano sino al limite estremo la concezione del Nemico. Dunque, il regime risponde con il sangue alle manifestazioni chela fine delle leggi emergenziali dovevano garantire: abrogazione assai attutita, negli effetti, dall`annuncio di nuove leggi destinate a proteggere la sicurezza dei cittadino e la «stabilità della nazione». O meglio, la stabilità del regime, sin qui fondata sulle «regole di Hama», dal nome della città in cui il regime stroncò nel sangue, nel 1982, la rivolta dei Fratelli Musulmani siriani, da allora simbolo della violenta repressione di ogni dissenso, e ora bisognosa di essere puntellata da nuove «regole». Una risposta che mostra l`ennesima debolezza di uno stato militare-claníco come la Siria, che si regge sulla doppia alleanza tra minoranza alauita e forze armate, incapace di legittimarsi mediante il consenso. 

Le vicende siriane sono altrettanto importanti di quelle egiziane nello scacchiere mediorientale. Damasco è legato a un ferreo patto di assistenza militare con Teheran. 
Come già alCairo i militari costituiscono, una volta che il Baath la spina dorsale di uno Stato che mai è riuscito stabilmente a comporre divisioni tribali, etniche, religiose. 
Non è un caso che il timore della frammentazione «settaria» sia presente ai manifestanti che nella capitale indossavano simbolicamente una striscia in cui era scritto «Arabi, siriaci (cristiani) e curdi, contro la corruzione»; e che i promotori delle manifestazioni avessero chiamato la giornata ai protesta «Venerdì santo». Evidente omaggio al giorno festivo islamico ma anche alla ricorrenza pasquale cristiana. 
In Siria come altrove la richiesta è la nascita di un sistema politico che metta fine all`autocrazia. Non saràfacile.In molti preferiscono, più o meno silenziosamente, la ferrea stabilità del regime all`incertezza del futuro. Da un rivolgimento che mettesse ai margini la minoranza alauita, pur sempre decisa a restare ancorata agli sciiti in funzione antisunnita, Teheran sarebbe la prima a non aver nulla da guadagnare: la sua influenza in Libano, ne risulterebbe sminuita. 
Lo stesso Israele guarda con timore a un mutamento che potrebbe sfociare nell`ascesa dei Fratelli Musulmani a Damasco, esito non escluso dopo eventuali elezioni legislative. Evento che rappresenterebbe uno scacco enorme per Gerusalemme. Così, mentre attivisti peri diritti umani, giovani, donne, reclamano «libertà e dignità», dentro e fuori la Siria in moltiguardano con -terrore al dopo Assad. Anche se il regime è deciso a resistere e i rivoltosi siriani sanno che qui non sarà né «facile» né «rapido» come al Cairo.



L'articolo di Renzo Guolo ci offre l'opportunità per evidenziare l'estrema complessità della composizione etnica e religiosa della popolazione siriana e, di conseguenza l'estrema difficoltà con la quale può essere trovata un'alternativa al regime dittatoriale del clan degli Assad, ferrea composizione in cui confluiscono il cemento clanico di una grande famiglia, la compattezza di un esercito armato fino ai denti per far fronte ad Israele ma anche come efficacissimo strumento di potere repressivo interno e gli interessi confessionali della potente minoranza religiosa Alawita di ascendenza sciita. 
I - Su una popolazione di circa 17 milioni di abitanti il 70% è costituito da musulmani sunniti e dal 20% da musulmani sciiti (di questi ultimi oltre la metà appartengono alla setta considerata "eretica" degli Alawiti). Il restante 10% è costituito da una miriade di confessioni cristiane: greci ortodossi, greci cattolici, siriani cattolici, cattolici maroniti, cristiani armeni in costante litigiosità settaria tra loro. Non mancano circa 200 mila drusi insediati sulle montagne al confine col Libano. La Siria è stata la prima sede della più antica espansione islamica tanto che Damasco era la capitale del califfato Omayyade: il fatto che dopo tanti secoli esista ancora un mosaico religioso che trova l'eguale solo nella ex Jugoslavia è la dimostrazione dell'estrema tolleranza religiosa dell'Islam;
II - Una varietà altrettanto complicata esiste a livello etnico-linguistico: oltre agli arabi che costituiscono la parte di popolazione di religione islamica sia sunnita che sciita vi è circa un milione di curdi, 400 mila armeni e poi greci, siriaci, caldei, assiri, turchi e un numero imprecisato di tribù beduine nomadi; 
III - Questo mosaico, risultato di una storia altrettanto variegata, è stato tenuto unito da un sottofondo culturale che deve molto all'epoca ellenistica. Del resto la cultura greca si diffuse nell'intero bacino Mediterraneo grazie ai traduttori siriani che traducevano in arabo le opere dell'antica Grecia e persino delle culture preelleniche. Appare evidente che in un contesto tanto complicato e variopinto (una vera e propria "macedonia") immaginare che potesse fiorire una qualche durevole forma di potere fondato sui principi della democrazia rappresentativa non sembra un'ipotesi tanto sostenibile. I primi cementi che unificarono, a partire dai primi dell'800' una qualche parvenza di nazione siriana furono i dominatori ottomani, rispetto ai quali le elites siriane potevano vantare una più antica e articolata tradizione culturale. A saldare i popoli di Siria fu l'inconcepibile sopruso consumato ai loro danni dopo la prima guerra mondiale, quando nel piano di spartizione del medio oriente la Siria venne assegnata a tavolino al protettorato francese, nello stesso momento in cui l'Iraq veniva affidato al protettorato inglese. Per la verità all'interno della borghesia commerciale e professionale siriana aver esercitato una forte influenza politica quanto proveniva dall'America dalla forte immigrazione negli Stati Uniti: per una sorta di scherzo della storia nel luogo in cui vennero costruite le Torri Gemelle, distrutte l'11 Settembre 2001, sorgeva un piccolo quartiere chiamato "Piccola Siria";
IV - Nel secondo dopo guerra come, sviluppo del conflitto israelo-palestinese la Siria entrò con tutto il medio oriente nella logica dei blocchi contrapposti della Guerra Fredda. Prevalse infine, grazie alla potenza che l'esercito siriano acquisì grazie all'aiuto sovietico, la Siria divenne il principale punto di riferimento dell'URSS in medio oriente: tale circostanza venne coronata dall'assunzione di un potere dittatoriale da parte di Hafiz        Al-Asad un uomo cinico, spregiudicato e feroce che fu tanto abile da crearsi, in aggiunta al puntello militare e religioso (egli apparteneva alla minoranza Alawita) quello politico: fu lui a fondare il partito Ba'th copia filo sovietica del filo americano Ba'th iracheno fondato da Saddam Hussein. E' inutile dire che i due tiranni, entrambi pseudo socialisti, si odiavano mortalmente anche se entrambi si dedicarono allo sterminio dei loro avversari politici interni: Saddam Hussein massacrò l'intero partito comunista iracheno e Asad dedicò il suo impegno a cercare di eliminare la più influente forza politica di Siria e cioè i Fratelli Musulmani;
V - Questi ultimi, per altro, sono tutt'ora la più organizzata forza politica sopravvissuta in Siria a 30 anni di persecuzione poliziesca e con ogni certezza sono i principali ispiratori delle rivolte anti regime di questi giorni. La loro rivolta è ispirata a principi di non violenza e ricerca intelligentemente l'unità tra musulmani sunniti e cristiani di varie confessioni, come dimostra il fatto che l'ultima recente esplosione, brutalmente repressa in quasi tutte le più grandi città della Siria è stata già chiamata la "Rivolta del Venerdì Santo", perché centina di migliaia di persone sono scese nelle piazze nel venerdì di preghiera islamico e nel venerdì di Pasqua cristiano in nome della Siria libera.
E' difficile prevedere come si concluderà il drammatico intrigo della situazione siriana, se con una guerra civile di tipo libico o in maniera quasi pacifica come in Tunisia. Di una cosa si può essere quasi certi: se lo sbocco sarà la fine della dittatura e l'adozione di una costituzione che garantisca libere elezioni, queste ultime vedranno come vincitore il partito dei Fratelli Musulmani ed è allora che si metterà alla prova la "sincerità" e la solidità dei principi democratici dell'occidente e di Israele che considerano i Fratelli Musulmani pericolosi estremisti islamici, o se varrà la regola non scritta che per l'occidente e i suoi alleati "democratici" sono soltanto quelli che piacciono a loro.


giovedì 21 aprile 2011

LA CRISI LIBICA E IL RUOLO DELL'ITALIA

Articolo di Giorgio Ruffolo, La Repubblica, 21/04/2011

"LA CRISI LIBICA E IL RUOLO DELL'ITALIA"

Nello scontro con l´Europa il governo italiano sta dando segni di insostenibile leggerezza. Non possono essere diversamente qualificate le minacce espresse e malamente ritrattate dal Premier e dal ministro degli Interni di uscire dall´Unione: minacce che, se prese sul serio, dovrebbero preoccupare molto più gli italiani che l´Unione stessa.

La rappresentazione di uno tsunami che investe l´Italia è chiaramente strumentale alle fantasie e agli interessi elettorali leghisti. Come tutti sanno, la condizione dell´immigrazione in Italia è molto meno drammatica che in altri paesi. C´è sì uno tsunami migratorio, che riguarda un´isola, Lampedusa, che va affrontato, come finalmente si è fatto con grave ritardo, con politiche di dislocazione degli immigrati nel territorio nazionale, osteggiate vigorosamente dalla Lega. Un problema europeo, invece, certamente esiste sul problema drammatico dell´immigrazione. Quel problema è oggi ingigantito dai movimenti insurrezionali che investono i paesi arabi. Questi movimenti hanno colto l´Europa di sorpresa. I governi europei, tutti, scorgevano in quei paesi una sola minaccia di sovversione, quella islamica. E accettavano le politiche populiste che sembravano proteggerli da quella minaccia. C´erano quelli che lo facevano solo per realpolitik. E quelli che ci mettevano dell´entusiasmo, per congeniale simpatia verso i regimi autoritari e i leader folkloristici. L´insurrezione libica e la conseguente violenta repressione li hanno costretti a una scelta: appoggiare apertamente la rivolta o lasciarla al suo destino. Ambedue le scelte hanno i loro rischi. La prima è che attraverso quelle confuse insurrezioni si sviluppi davvero una più violenta minaccia islamica. La seconda è che la prospettiva di una evoluzione democratica di quei paesi sia perduta e con essa un futuro migliore per quelli e per l´Europa stessa. Penso che la seconda sia di gran lunga peggiore. Stare a guardare per capire come si mettono le cose è stolto se intanto ti cavano gli occhi: se la repressione schiaccia ogni prospettiva democratica. Bene hanno fatto i francesi a impedire con un pronto intervento che la ribellione fosse schiacciata nella sua culla. La politica non può aspettare le ricerche sociologiche. La scelta del non intervento è la peggiore per una semplice ragione. Non possiamo essere spettatori di un dramma nel quale siamo direttamente coinvolti: per l´immediata prossimità e anche, certamente, perché esso investe il petrolio. Che non è solo la fonte dello strapotere delle Grandi Sorelle, ma anche del nostro benessere materiale. C´è qualcuno, tra gli indignati che il petrolio sia una ragione dell´intervento, disposto a rinunciare alla sua quota di consumi vistosi? Dunque le ragioni forti dell´intervento sono politiche ed economiche. Non umanitarie. Non ci si può commuovere sulle vittime della Libia e fregarsene delle stragi che si compiono nell´Africa nera. D´altra parte non mi convincono le istanze pacifiste applicate a Gheddafi. E´ difficile parlare in termini critici del pacifismo all´indomani del fatto che ci ha commosso e sconvolto. Dico egualmente ciò che penso. Penso con grande rispetto al pacifismo praticato come ideale, come messaggio e soprattutto come missione praticata con impavida semplicità fino al sacrificio della vita. Non credo nel pacifismo come pratica politica che per essere coerente dovrebbe condannare la guerra e la resistenza armata al nazismo, disarmandoci di fronte ai nemici della libertà. Mi chiedo se in questo pacifismo assoluto non trovi sfogo quell´antiamericanismo sistemico che costituisce la residua passione della sinistra; e che oggi prende di mira il più democratico presidente degli Stati Uniti. Quanto all´Europa. Mai come oggi è evidente l´impotenza che deriva dalla sua assenza politica. Solo un´Europa unita avrebbe dato alla giusta scelta di appoggiare l´insurrezione giovanile nei paesi arabi un sostegno non inficiato da sospetti nazionali egemonici, mettendola in grado di usare il suo grande peso economico e politico per pilotarla verso un esito democratico. Quanto, ancora, all´Italia. «Meglio soli che male accompagnati», ha recitato il ministro degli Interni. E se n´è andato. Male accompagnato.




L'autore dell'articolo, Giorgio Ruffolo, è una di quelle persone, ormai troppo poche, che per l'acutezza delle analisi e la profondità degli ideali manifestati, fa rimpiangere ai vecchi socialisti come me il grande patrimonio che nella storia d'Italia, in tutta l'Europa e in molte parti del mondo ha rappresentato la tradizione del socialismo democratico: nel nostro paese spazzata via dalla irrefrenabile ondata di cinismo, di pressapochismo  e di ipocrisia che ha inondato la realtà politica quotidiana. Per questo voglio dedicare alcune sottolineature al suo articolo, riguardante i tragici eventi in Libia e la insussistenza di quanti seguitano a blaterare la tesi della non interferenza in nome di un pacifismo di accatto, che darebbe campo libero a quell'ignobile macellaio travestito da pagliaccio che è sempre stato il dittatore libico Gheddafi.
Il "pacifismo" non è una posizione politica tipica di chi ritiene un bene la pace e una terribile tragedia la guerra, ma è l'ideologia di quanti devono cogliere ogni occasione per farsi delle passeggiate agitando cartelli e bruciando bandiere, nella falsa convinzione che ciò serva a risolvere i problemi dei rapporti internazionali. Come giustamente osserva Giorgio Ruffolo chi ama veramente la pace si comporta come il giovane Vittorio Arrigoni il quale "Si è dedicato alla sua missione di aiutare un popolo martire come quello palestinese praticandola con impavida semplicità fino al sacrificio della vita". L'autentico pacifismo di Vittorio non appartiene alla categoria del "pacifismo" politico: quello, tanto per citarne l'esempio più eclatante, del primo ministro inglese Chamberlain che nel 1938 cedette a Hitler la Cecoslovacchia per "salvaguardare la pace"; costui per il suo pacifismo rinunciatario che pensava di acquietare la belva nazista dandogli in pasto un agnello sacrificale, furono i principali responsabili della Seconda Guerra Mondiale. 
Uomo di pace non pacifista fu il cancelliere tedesco Willy Brandt. Giovane dirigente della socialdemocrazia tedesca, andò esule in Norvegia e quando le armate di Hitler invasero il paese scandinavo non esitò a rinnegare la cittadinanza tedesca e a combattere come partigiano nelle file della resistenza norvegese. Tornato in patria e additato come traditore da molti dei suoi concittadini si disinteressò degli ottusi pregiudizi che lo criticavano, riprese la sua battaglia politica nelle file della S.P.D e fu eletto, dopo essere stato per molti anni sindaco di Berlino Ovest, Primo Cancelliere socialdemocratico della Repubblica Federale tedesca e in questa veste fu il primo uomo politico dell'occidente che praticò un'autentica politica di distensione nei confronti dell'Unione Sovietica. Willy Brandt restituì con un solo gesto l'onore al popolo tedesco, tanto offuscato e coperto di sangue dalle infamie naziste: molti ricordano il giorno in cui, visitando Varsavia si gettò letteralmente in ginocchio davanti a fuoco perenne e al monumento edificato dove un tempo sorgeva il ghetto di Varsavia, senza trattenere lacrime. In questo modo un tedesco è diventato per quelli della mia generazione uno dei più alti simboli dell'umanità che si batte per la pace. 
Oggi credo di poter riconoscere un uomo di pace nel presidente degli Stati Uniti, Barack Hussein Obama e non valgono ad offuscare questa immagine le guerre che il suo paese ha ereditato dal suo criminale predecessore George W. Bush. Proprio perché è un uomo di pace egli non ha esitato a sostenere le rivoluzioni democratiche di Tunisia e di Egitto, e non ha neppure esitato a schierarsi senza se e senza ma al fianco degli insorti di Libia indicando al consenso internazionale la necessità che Gheddafi venga rimosso dal potere. Sempre Obama non esita a sostenere finanziariamente gli insorti siriani contro l'autocrazia della dinastia Assad, senza chiedersi, come invece fanno tanti ipocriti europei, se come è probabile dietro alle rivolte delle città siriane vi sia il demonizzato movimento dei Fratelli Musulmani. Ricordo che durante le primarie statunitensi finite con la designazione a candidato democratico alla presidenza di Barack Obama, un noto giornalista, oggi campione dei pacifisti all'italiana, scriveva corrispondenza dagli Stati Uniti nei quali traspirava una sottile aura di ostilità nei confronti del candidato afroamericano. Non manca chi ascrive il fatto che nelle manifestazioni dei giovani arabi non vi sia qualcuno che bruci le bandiere americane. Ma a nessuno viene in mente che se ciò avviene è perché Obama, in un applauditissimo intervento fatto all'università Al-Azahr del Cairo, ha proclamato con sincerità di accenti che gli Stati Uniti non sono in guerra con l'Islam e che anzi ritengono i popoli arabi tra gli artefici più importanti della civiltà umana mondiale. Vorrei concludere dicendo che il vero pacifismo non è quello assoluto (quello italiano è tutt'ora percorso dalle nature di anti-americanismo ad oltranza e ricorda tanto quello dei "partigiani della pace" che intorno agli anni 50' raccoglievano firme contro la guerra fredda e si meritavano per questo il plauso di un "pacifista" come Stalin).
La difesa della pace non è un sentimento imbelle e neutrale ma è una posizione ideale che deve sapere distinguere tra aggressori e aggrediti, tra oppressori ed oppressi, tra carnefici e vittime e quando occorre, deve saper anche impugnare le armi.
Nel Corano è detto "Combattete per la causa di Dio, ma non siate aggressori...Contro chi aggredisce combattete senza tregua fino a distruggere il nemico. Ma se questo a un certo punto mostra di preferire la pace, anche voi preferitela..."  

mercoledì 20 aprile 2011

L'EGITTO

Una nuova fase della storia egiziana iniziò con la turbinosa spedizione Napoleonica (1798-1901), culminata nella battaglia delle piramidi in cui i Mamelucchi furono duramente sconfitti: la vicenda fu priva di immediati risultati politici ma gettò nel paese i semi di un prossimo Risorgimento: era la prima volta, infatti che il paese arabo che era stato nei secoli uno dei punti di riferimento dell'Islam prese diretto contatto con "la modernità europea" e soprattutto con le sue straordinarie conquiste tecnologiche e con i principi illuministici e liberali della rivoluzione francese.
Dal 1806 il restaurato dominio turco fu rappresentato da Mehmet Alì, un rude guerriero di origine albanese che vi fondò per quasi un secolo e mezzo la sua dinastia. Il suo potere si affermò attraverso il massacro in tipico stile medievale dei Mamelucchi che costituivano pur sempre l'oligarchia dominante in Egitto. Mehmet Alì si affermò anche con i servigi resi all'impero ottomano e all'ortodossia musulmana nella prolungata repressione del movimento Wahhabita esploso in Arabia e, inoltre nella spietata lotta contro l'insurrezione greca (1824-1827). Ormai consapevole della sua forza Mehmet Alì non esitò a dichiarare guerra al sultano di Costantinopoli per difendere l'autonomia della Siria che si era ribellata alla "Sublime Porta". Il conflitto si risolse solo per l'intervento inglese che impedì l'annessione della Siria all'Egitto.
In questi brillanti successi militari si distinse il figlio di Mehmet Alì, Ibrahim Pascià: i suoi successi furono il risultato non solo del valore organizzativo e guerriero del nuovo signore d'Egitto, ma soprattutto del suo intelligente accoglimento delle rivoluzionarie tecniche europee, alle quali egli aprì il suo paese non solo in campo militare ma anche economico, agricolo e industriale. Egli rimase un despote orientale, turco di lingua e di educazione e del tutto estraneo a ipotetici ideali di un Risorgimento nazionale arabo, ma per consolidare e potenziare il suo stato non esitò a sollecitare l'aiuto europeo, circondandosi di consiglieri militari  e inviando in occidente missioni di studenti egiziani, gettando in tal modo le basi dell'Egitto moderno che considerò a lungo Mehmet Alì e Ibrahim i padri del suo Risorgimento.
Mehmet Alì morì nel 1849 ma il suo nipote più famoso, Ismail (1863-1880) ottenne dal sultano di Costantinopoli il titolo di Khedivé (Vice re). Ismail, ormai nettamente arabizzato, riprese a ritmo accelerato l'opera del nonno, affido l'apertura del Canale di Suez a una società anglo-franco-egiziana, proseguì sulla strada del progresso tecnico e intellettuale del paese e procedette in condominio con l'Inghilterra alla conquista del Sudan, che divenne infatti una sorta di condominio denominato "Sudan-anglo-egiziano". La penetrazione egiziana nell'immenso territorio esteso fino al centro dell'Africa era iniziata da lungo tempo, ma fu portata a termine grazie all'opera dell'italiano Romolo Gessi e dal generale inglese C.H.Gordon, per combattervi la tratta degli schiavi. L'Inghilterra ne approfittò per intensificare la sua penetrazione economica nel Sudan, tanto che a governatore della capitale Khartoum fu nominato Gordon che assunse il titolo di
Pascià. Intanto gli sperperi della magnificenza orientale della corte di Ismail finirono con il rovinarlo e la pressione dei creditori europei, soprattutto inglesi, lo costrinse all'abdicazione. Sotto il successore Tawfiq l'imperialismo inglese, che da tempo mirava a piazzarsi in Egitto in forma stabile sia per avere un più stretto rapporto con la via delle Indie, sia per acquisire una sorta di continuità territoriale, le colonie africane dal Mar Mediterraneo fino a città del Capo, colse l'occasione di una violenta rivolta xenofoba scoppiata sotto il governo di Tawfiq r guidata da un leader indipendente di nome Orabi Pascià, e nel 1882, con una sbrigativa azione militare, divenne di fatto padrone del paese. Il Khedivé egiziano continuò a regnare come uno degli ultimi califfi Abbasidi sotto la stretta tutela di un alto commissario britannico, che divenne in sostanza l'amministratore unico e il gestore dell'intera rete dei servizi pubblici egiziani. In questi anni gli inglesi dovettero fronteggiare un grave pericolo rappresentato da una generalizzata rivolta contro gli stranieri guidata in Sudan dallo sceicco Muhammad Ahmat, che assunse il titolo di Mahdi (Messia), conquistò il paese compresa la capitale Khartoum dove la guarnigione anglo-egiziana venne massacrata (1885) e Gordon Pascià decapitato.
Il Sudan rimase sotto il governo del Mahdi e del suo successore fino a che le truppe guidate da Lord Kitchener non riaffermarono il dominio anglo-egiziano (1898), dopo una sanguinosa battaglia combattuta ad Omdurman: gli oltre 30 mila guerrieri del Mahdi si fecero massacrare in insensate cariche di cavalleria contro le file di cannoni e mitragliatrici che gli inglesi avevano schierato in fondo a una grande vallata.
L'occupazione inglese dell'Egitto accelerò e intensificò il processo di modernizzazione, dando al paese una struttura amministrativa, economica ed educativa di tipo occidentale, che via via si impose ai modi di vita tradizionali. L'accettazione della superiorità materiale straniera spinse le giovani generazioni egiziane a ricercare le fonte di tale superiorità e a intensificare il contatto con le idee e le idiologie politiche dell'occidente: e a questa élite si rivelarono insieme nella loro recente elaborazione europea i concetti di nazionalità, di libertà e di democrazia. Nessuno di questi, per altro, poteva dirsi completamente ignoto alla tradizione nazionale egiziana potendosi perfino trovare qualche precedente nella più remota antichità egizia e nelle stesse origini dell'Islam. Tra la fine dell'800 e i primi del 900' gli egiziani impararono alla scuola europea l'amor di patria che germogliò dal senso moderno della nazionalità insieme alla sua esasperazione nazionalistica. Divenne sempre più forte tra gli egiziani l'insopprimibile ideale dell'indipendenza dallo straniero, all'inizio congiunto a quello dell'interna libertà civile e della democrazia; via via tale legame si fece sempre più labile e il fine dell'indipendenza si fece più aspro ed esclusivo della durezza e della lotta contro la potenza coloniale. I primi apostoli del nazionalismo arabo come Mustafà Kamil e la schiera dei polemisti siriani che in Egitto trovarono il loro rifugio e il loro campo di attività, svilupparono i loro ideali su linee prettamente ottocentesche, di libertà, indipendenza e democrazia strettamente intrecciate; ma quando l'Europa precipitò nell'abisso della prima guerra mondiale, gli egiziani, ancora a mezza strada nella loro battaglia per l'indipendenza, sacrificarono anch'essi a quell'unico scopo ogni altra istanza.
La fine della prima guerra mondiale trovò il paese ancora soggetto al protettorato britannico con un nominale sultano nella persona di un figlio di Ismail, Fuad, ma un irresistibile moto di piazza e di opinione, capeggiato dal leader nazionalista Saad Zaghlul, costrinse l'Inghilterra, dopo il solito primo atto delle fucilazioni, degli arresti, delle deportazioni e degli esili, a dichiarare nel 1922 l'indipendenza egiziana, pur vincolata da sostanziali riserve politico militari.

martedì 19 aprile 2011

L'ISLAM E LE ISTITUZIONI DEL POTERE

I gruppi islamici più tradizionalisti sostengono che solo lo stato islamico sarebbe in grado di stabilire condizioni di giustizia sociale e di benessere dei paesi musulmani, a condizione di applicare la Shari'a, e cioè la legge positiva divina. Si tratta così di esaminare quali istituzioni politiche amministrative il Corano ha chiaramente determinato.
L'origine dello stato islamico è nell'esperienza di governo del Profeta sulla comunità di Medina. In secondo luogo bisogna considerare le iniziative amministrative dei primi quattro califfi, in quanto interpreti autorevoli del Corano e della Sunna profetica. In terzo luogo bisogna valutare le diverse dottrine del califfato elaborate dai filosofi e dai teologi e chiarire il loro statuto per verificare se esse siano un prolungamento della Rivelazione e quindi vincolanti per la fede, oppure di ordine razionale, e cioè storiche e contingenti.

A - Le Strutture del Potere Esecutivo.
Troviamo in primo luogo il califfato che nasce a Medina insieme alla Umma, comunità di fede al servizio di Dio. Il califfo è il capo che deve guidarla e mantenerla nella via stabilità dalla Shari'a. Per i sunniti il califfo succedeva a Muhammad alla guida della comunità ma non era successore del Profeta, mentre il capo della comunità sciita (Imam) ereditava certe prerogative profetiche mediante la successione della discendenza di Alì. In base alle diverse forme di successione dei primi quattro califfi gli Ulema sunniti considerarono "canonici" i tre modi di elezione del califfo: elezione a larga maggioranza, elezione da parte di un collegio ristretto consultivo, designazione da parte del predecessore. Quest'ultimo modo finì col prevalere e condusse alla forma della successione dinastica, che doveva essere convalidata da una sorta di elezione contrattuale con la quale il califfo si impegnava a governare applicando la Shari'a e la Umma era per questo tenuta all'obbedienza e gli prestava il giuramento di fedeltà (Bay'a).
In un secondo momento comparve il Vizir o il Sultan il cui potere variò secondo tempi e luoghi. Durante il periodo di massimo splendore degli Abbasidi il califfo nominava i Vizir o i Sultan, ne determinava i compiti e gli destituiva. A partire dal X secolo il Vizir o Sultan divenne il vero capo del governo, quasi autonomo dal califfo prima di essere nuovamente assoggettato con la dinastia dei Selgiuchidi.
Per amministrare il Tesoro il potere esecutivo istituì il Diwan che inizialmente, al tempo del califfo Omar era un semplice registro per la distribuzione del bottino di guerra e al tempo degli Omayyadi diventò la cancelleria che si occupava delle finanze dello stato.
Apparato essenziale del potere fu sempre l'esercito, inizialmente composto da volontari votati al Jihad, mentre divenne in seguito un esercito di professione, da prima formato di soli arabi, quindi anche di persiani e infine a composizione internazionale.

B - Le Strutture del Potere Giudiziario.
Il fine dello stato islamico non era tanto quello di garantire i diritti e le libertà individuali ma la giustizia ('Adl).
Il califfo era il garante della giustizia per la Umma e giudice unico; ma ben presto delegò l'amministrazione della giustizia al Qadi che l'amministrava in sua vece e aveva il compito di far rispettare la Shari'a elaborata dalle varie scuole giuridiche. Nella stessa città potevano esercitare Qadi di diverse scuole. Sotto il califfo Harum Al-Rashid  nacque la carica di giudice supremo (Qadi Al-Qudat, che nominava, controllava e destituiva i vari Qadi).
Il Qadi esercitava le ricerche degli esperti di diritto, i giuristi (Fuqaha), e in giudizio si serviva di testimoni professionali ('Udul) che godevano di chiara fama di equità ('Adala), perché il regime della prova si basava sulla testimonianza orale. Con il tempo i testimoni professionali si trasformavano nella corporazione dei notai. Per presentare le loro istanze i sudditi si facevano rappresentare dal "Wakil", una specie di avvocato ante litteran. Alla giurisdizione del Qadi si affiancò quella del prefetto di polizia, che aveva il compito di reprimere disordini e brigantaggio e acquisì il potere di giudicare i crimini che incorrevano nelle pene previste dal Corano e dell'applicazione del "taglione".
Nacque in seguito il "Mazalim", una specie di corte d'appello per sanare i torti che col tempo si trasformò in una e propria struttura giudiziaria parallela, in cui la giustizia era amministrata direttamente dal governatore; nacque anche una corte suprema per dirimere gli affari di stato eccezionali come la messa in stato di accusa di capi militari, funzionari e agitatori politici. Tale corte fu usata anche contro mistici giudicati eretici, come
Al-Hallaj, condannato a morte nel 922.
Una funziona specifica del ramo giudiziario fu la Hisba esercitata dal Muhtasib, un magistrato incaricato dell'ordine morale della civiltà, che svolgeva tra l'altro il compito di pulizia dei mercati, reprimendo le frodi, sorvegliando il commercio, i pesi e le misure e le piccole imprese imponendo l'osservanza delle prescrizioni islamiche (proibiva il vino, verificava la partecipazione alla preghiera del venerdì e il modo di vestire).

C - Caratteristiche dello Stato Islamico.
Le strutture dello stato islamico rispondevano alle esigenze della comunità di fede, i cui membri erano uniti non dallo Ius Sanguinis ne dallo Ius Soli ma dallo Ius Religionis.
L'individuo andava verso Dio attraverso la Umma che gli era guida lungo la via che conduce al bene e deve incarnarsi sul piano sociale. Nella concessione classica del diritto islamico la Umma si materializzava in un territorio, sottomesso all'autorità di uno stato che ne realizzava i fini. Lo stato era perciò la casa della giustizia
(Dar Al-'Adl) in opposizione ad altre forme di governo che non erano guidate dalla luce divina. Nello stato islamico il potere assoluto poteva appartenere solo a Dio. L'uomo è il vicario di Dio sulla terra, ha diritto alla proprietà della terra ma ha anche il dovere di farne buon uso. L'elemosina legale (Zakat) era l'imposta di solidarietà comunitaria della Umma ed era un atto di giustizia che purificava la ricchezza e un diritto dei poveri della comunità. Lo stato islamico non comprendeva solo la Umma islamica ma, come abbiamo già visto anche altre comunità religiose che pagavano la tassa di protezione e i cui membri erano detti Dhimmi. Ciò in applicazione del principio coranico non può esserci costrizione nella religione.
 (La Ikraha Fi L-Din. Cor. II, 256)

domenica 17 aprile 2011

A PROPOSITO DELL'ASSASSINIO DI VITTORIO ARRIGONI

Da musulmano ritengo di dover rispondere alla lettera che lo scrittore ebreo Etgar Keret ha pubblicato sul Corriere della Sera commentando l'assassinio del giovane Vittorio Arrigoni, commentando il rifiuto della madre di farne passare il feretro attraverso il territorio dello stato di Israele (titolo della lettera: "La madre ci ripensi. La nostra terra merita speranza.").
Voglio precisare che da musulmano considero l'ebreo Etgar Keret "fratello in Abramo, in Mosè, in Hismail, in Isacco, in Gesù e in Muhammad"; e anzi, colgo l'occasione per precisare all'amico Michele Serra che gli inqualificabili assassini del nostro fratello Vittorio non sono "fanatici di Allah": Allah è l'Unico Dio ed è solo la parola con cui in lingua araba si designa l'Altissimo allo stesso modo che si usa la parola God e in italiano la parola Dio. Voglio anche precisare a tutti quelli che, in assoluta malafede insistono nel chiamare islamici i musulmani e i terroristi senza cuore e senza cervello che i fedeli dell'Islam si chiamano "Muslimum" e cioè musulmani (testimoni di Dio). Mi sforzerò di elencare a Etgar Keret a quali condizioni la terra di Israele potrà meritare rispetto:
I - Quando, in concomitanza di feroci assassinii come quello che ha tolto al popolo palestinese l'entusiasmo e l'aiuto del caro Vittorio, metterà in galera i mascalzoni israeliani che hanno inneggiato alla sua morte con manifesti dal titolo: "Era ora! Ad uccidere un nemico come Arrigoni avrebbe dovuto pensarci il nostro esercito!".
Chissà, magari al gruppo Salafita qualche agente segreto ha fatto arrivare un appropriato suggerimento in tal senso: non è la prima volta che il Mossad si serve di tali metodi per eliminare i suoi "nemici";
II - Quando nessun giovane volontario sarà costretto come Vittorio Arrigoni a fare lo scudo umano per difendere qualche povero contadino palestinese dagli attacchi aerei israeliani mentre cerca di raccogliere nel suo campicello di Gaza un pò di prezzemolo e qualche ortaggio da vendere in un mercatino; o quando nessun volontario, indossando il berrettino da marinaio che usava Vittorio non dovrà rischiare la vita per fare da scudo umano a qualche misero peschereccio palestinese che cerca di pescare nel suo mare un pò di pesce per sfamare la famiglia;
III - Quando Israele si deciderà a dare applicazione alle innumerevoli deliberazioni dell'ONU, che lo richiamano all'obbligo di non frapporre più ostacoli alla nascita di uno stato palestinese, che abbia confini certi e non tracciati da un muro di cemento che serve come strumento per divorare boccone dietro boccone i territori della Cisgiordania con le cosiddette "colonie";
IV - Quando le suddette "colonie" smetteranno di crescere tagliando le piantagioni di limoni e di arance, gli alberi di ulivo e le coltivazioni di fiori dei palestinesi, tagliando alberi e fonti d'acqua per alimentare in una terra arida piscine per le loro ville;
V - Quando Israele la smetterà di recitare la parte di povero agnellino indifeso (due aerei e quattro carri armati a testa e qualche centinaio di bombe atomiche) circondato da "lupi assetati di sangue", desiderosi solo di sbranarlo. E' ora che Israele la smetta di usare come arma propagandistica la tragedia della Shoah di cui fu responsabile l'Europa e non certo i popoli arabi, presso i quali gli ebrei hanno nei secoli dei pogrom cristiani rifugio, rispetto e libertà religiosa;
VI - Quando abrogheranno nel loro sistema legislativo tutte le norme che in qualche misura discriminano i suoi cittadini arabi e riconoscano il diritto dei profughi di tornare nelle case da cui furono espulsi a colpi di bombe a mano e a raffiche di mitra dai terroristi dell'Irgun e della brigata Stern;
VII - Quando gli israeliani ricorderanno che i primi fondatori illuminati del movimento sionista auspicarono nel loro congresso di Basilea di costituire un "focolare ebraico" in Palestina, affianco dei popoli arabi che vi abitavano da millenni. Questo programma fu rinnegato di fatto quando Ben Gurion e Golda Meyr decisero che era l'intera Palestina che doveva diventare il "focolare ebraico", "Perché non esisteva nessun popolo arabo palestinese". Tale programma fu poi coerentemente perseguito dagli ex terroristi Begin, Shamir e Sharon; ma è testimoniato dalla stessa bandiera israeliana che reca la stella di David al centro di una striscia bianca delimitata da due strisce azzurre (lo sa Etgar Keret che le due strisce simboleggiano il Mar Mediterraneo e il Giordano?).
Prima di allora Israele rappresenterà per l'intero mondo arabo e per i musulmani di tutto il mondo una sanguinante ferita, destinata a riaprirsi più dolorosa che mai quando viene ucciso un giovane come Vittorio Arrigoni ed ogni volta che un'operazione denominata "Piombo fuso" ammazzerà con le bombe al fosforo migliaia di innocenti. I musulmani cercano di essere rispettosi di quanto detta il Corano a proposito di guerra:
"Combatti contro gli aggressori e cerca di distruggerli. Ma se essi preferiscono la pace, anche voi preferitela!". Questo dettato ci sembra quello più coerente con le parole che Vittorio usava per firmare i suoi articoli:
"Siamo umani".
A proposito dei suoi assassini che infangano il nome dell'Islam è bene che sappiano quali che siano i loro sedicenti "maestri" che l'Altissimo, in nome della giustizia e della misericordia offese, riserva ad essi una punizione umiliante e dolorosa. E Dio è il più Grande.

sabato 16 aprile 2011

STORIA DELL'ISLAM - LA DECADENZA ARABA

Secondo lo storico italiano del mondo arabo Francesco Gabrielli la nascita del movimeto Wahhabita ed dell'emirato saudita nella penisola arabica, furono l'unico significativo evento storico politico religioso nella storia del mondo arabofono. Vi è in questa affermazione un notevole sapore paradossale ma è certo che il dominio turco, durato per gli arabi di oriente dal Cinque al Novecento e sostituito per quelli d'occidente dal regime coloniale europeo, segnò la massima decadenza dei popoli arabi. Questi vi si piegarono da prima senza molta riluttanza, come se fossero consapevoli della fatale conclusione di un processo già in corso da secoli, che aveva lentamente sostituito la loro egemonia nel mondo musulmano con quella dei Turchi: una gente ad essi estranea per stirpe e lingua, anche se accomunata dalla fede religiosa e che aveva in parte assorbito la loro cultura. A questa apatica rassegnazione corrispose una generale decadenza degli arabi sia in campo spirituale e culturale sia nel campo sociale, comportando addirittura un oscuramento del senso dell'appartenenza nazionale. Alla classe dirigente turca, efficiente sotto il profilo dell'organizzazione burocratica e dilagante dal punto di vista militare, che teneva i posti di comando in nome del sultano di Costantinopoli, si affiancò spesso un'aristocrazia locale in Egitto, nell' Higaz, nel Libano e negli stati barbareschi del Maghreb, ma anche questo elemento locale era il più delle volte turco o turchizzato (i Cologhli in Tripolitania, i Giannizzeri a Tunisi e ad Algeri) ma anche se arabo, esso esprimeva in modo del tutto istintivo e particolaristico l'aspirazione all'autonomia che poco aveva a che vedere con la precedente storia dei grandi califfati arabi.
Vi furono per altro dal 600' all'800' casi di ribellione aperta all'autorità centrale ottomana. Tali:
I - Quello dell'emiro druso di Siria, Fakhr Al-Din, che nella prima metà del seicento cercò di svincolarsi dal vassallaggio al sultano di Costantinopoli, stringendo rapporti di alleanza perfino con la corte Medicea di Toscana, ma finì vinto e giustiziato a Costantinopoli;
II - Sulla fine del 700' il mamelucco Alì Bey sfortunato precursore in Egitto di Muhammad Alì;
III - Nel primo 800', ancora nel Libano, l'emiro Bashir Ash-Shihavi.
Tutti questi tentativi alla lunga fallirono ma anche e soprattutto perché rispecchiavano tutti avventure individuali, mosse da ambizioni e risentimenti personali e non da un cosciente impulso di fierezza nazionale. In generale gli arabi piegarono il capo sotto il regime feudale ottomano che, pur continuando il regime Selgiuchide e mamelucco ne attenuava l'originario carattere militare. Equiparati ai dominatori nell'uguaglianza dell'Islam, gli arabi avevano teorico accesso anche alle alte cariche dell'impero ottomano, ma sono pochi i nomi di arabi che compaiono nei fasti della Sublime Porta che pure si giovò dell'opera di oriundi greci (Fanarioti), albanesi e slavi. Per intraprendenza e fecondità l'elemento arabo sembrò spezzato.
I seguaci dei Wahhabiti, fedeli ai loro principi di avversione al culto dei santi e del Profeta e rigidamente ancorati al loro rigorismo intollerante che gli spinse a demolire santuari e mausolei, furono espulsi dalla penisola arabica in una guerra di 7 anni (1811-1818) condotta da forze egiziane per ordine di Costantinopoli, e dopo la sconfitta tornarono a vegetare in oscure lotte dinastiche nelle aree più desolate dell'Arabia; e solo ai primi del 900' iniziarono sotto la guida di un nuovo emiro Saudiano, Abd Al-Aziz Ibn Saud, un secondo ciclo di conquiste che lo condusse alla fondazione dell'attuale monarchia saudita.


La completa sottomissione dei paesi arabi nel nord Africa alla dominazione europea furono il primo indicatore della gravissima crisi e decadenza del mondo arabo; e di fronte alla pressoché totale paralisi del progresso culturale, sociale, politico e persino umano molti si sono interrogati su quali siano state le cause di un tale terribile collasso. Gli storici musulmani cercarono di ravvisarne la causa in fattori esterni, partendo dalle invasioni mongole e finendo alla dominazione turca, che era stata una espansione imperiale quasi esclusivamente incentrata sulla potenza militare ma praticamente sterile dal punto di vista culturale, filosofico e religioso (ma non si è mai tenuto conto dell'estrema dinamicità dell'apparato amministrativo ottomano, che unificò etnie diversissime tra loro con un apparato amministrativo pervaso da un profondo spirito di tolleranza religioso. Gli storici europei hanno voluto individuare la causa del collasso nell'immobilismo indotto dall'affermarsi di una sorta di monopolio del potere spirituale nelle mani degli Ulema e del loro integralismo religioso, che portò alla stagnazione e all'azzeramento di quelli che erano stati i fattori più importanti della grande cultura araba e musulmana dei califfati. Naturalmente si misero a cento anche sugli effetti nefasti dello sfruttamento colonialistico operato dalle nazioni europee. In realtà le cause del declino furono essenzialmente due:
I - La prima causa, i popoli del nord Africa la divisero con le cause della stupefacente decadenza della penisola italiana negli stessi secoli dopo gli splendori del Rinascimento, e cioè la scoperta delle Americhe che spostò l'asse portante del progresso storico dal Mar Mediterraneo, diventato ormai un mare chiuso ai grandi traffici commerciali e internazionali ormai proiettati sugli oceani. Pur in possesso di un'antica tradizione marinara le popolazioni arabe non seppero mai utilizzarla per intraprendere su larga scala le navigazioni trans oceaniche cui seppero dedicarsi portoghesi e spagnoli in una prima fase e successivamente francesi, olandesi e britannici;
II - La seconda fu l'incapacità degli apparati economici dei paesi musulmani di appropriarsi e condividere il grande progresso tecnologico, culminato nella grande rivoluzione industriale del XVIII secolo dell'Europa occidentale: si pensi solo che lo stesso impero turco cominciò da un certo momento in poi ad importare armi dai paesi europei;
III - La proiezione europea sugli oceani e lo sviluppo economico seguito alla rivoluzione industriale determinò in Europa la fine della tirannia sugli spiriti esercitata da sempre dalla Chiesa cattolica e culminata nelle rivoluzioni liberali e per i diritti, da quella inglese a quella francese che, non a caso avevano avuto una replica e un'anticipazione nella rivoluzione delle colonie americane. Nulla del genere avvenne nel mondo islamico, tal che nonostante le basi umanistiche e razionaliste della sua civiltà d'origine nessun processo illuministico portò sul piano politico alla trasformazione in cittadini dei "credenti" associati nella Umma.

giovedì 14 aprile 2011

STORIA DELL'ISLAM - L'ISLAM DELLA TRANSIZIONE (sec. XVI-XVII-XVIII)

Le periodizzazioni che si è soliti utilizzare per individuare l'evolversi della civiltà europea in Evo antico, medievale e moderno non sono ovviamente applicabili alla storia dell'Islam: non avrebbe alcun senso parlare di un medioevo musulmano coincidente con quello cristiano, così come l'età moderna dell'occidente non ha coincidenze profonde con una ipotizzata modernità dell'Islam.
Da un punto di vista storico-religioso quello che viene definito "Islam classico" è quello che si estende fino al XVII secolo e comprende il primo millennio della storia dell'Islam. Nel corso di questo periodo subì notevoli trasformazioni ma può essere trattato come un'unità omogenea nella quale i principi di fondo rimasero in definitiva gli stessi. La duttilità dello strumento culturale cardine del consenso (Igma) permise all'Islam dieci secoli di modificazioni e sviluppi che favorirono la coesistenza di molteplici punti di vista e un adattamento efficace alle esigenze nuove che i tempi e i luoghi di volta in volta proponevano.
Scaduto il millennio questo sistema mostrò i primi segni di logorio e i punti di vista che nell'Islam classico avevano convissuto con una notevole armonia, assunsero una natura sempre più esclusivista che li ridusse a scuole giuridiche chiuse, tese a tutelare i propri interessi particolari screditando le posizioni delle altre. Le scuole giuridiche si trovarono impegnate in una casistica legale formalistica, mentre i teologi non fecero che rielaborare stancamente i principi dei dogmi e lo stesso sufismo diventò una semplice palestra di atteggiamenti di maniera privi di sostanza.
L'esigenza di un risanamento si fece presto avvertire anche le situazioni locali ricorsero a rimedi frammentari e contraddittori. E' a proposito di questi limiti che fra gli storici si comincia a parlare di decadenza dell'Islam, anche se in realtà ci si trova di fronte a una mutazione significativa e irreversibile della storia. Occorrono qui alcune puntualizzazioni:
I - Il Millenarismo non ha assunto nell'Islam i caratteri con cui si era presentato nella civiltà cristiana medievale; non vi furono attese di rinnovamenti morali e spirituali della società, forse perché l'Islam non condivide la visione evolutiva della storia tipica della cultura occidentale. Il mutamento che si registra è in realtà il fenomeno già emerso nell'analizzare le conseguenze dirette o indirette delle invasioni mongole, delle crociate e della Reconquista spagnola, e cioè il fatto che i centri più vitali dell'Islam tendono a decentrarsi rispetto alla sua culla originaria (Orda d'oro, Impero Timuride, Impero Moghul, Impero Ottomano e il più tardivo Impero Safavide sciita). Del resto già il Corano e il Profeta avevano avvertito che l'Islam sarebbe finito esule (Gharib) e che le migliori generazioni immediatamente successive a quella del Profeta avrebbero lasciato il posto a comunità sempre più lontane dall'originario spirito della rivelazione. E non furono pochi i sapienti che avevano sottolineato come, in vista di una inarrestabile decadenza nei tempi ultimi sarebbe bastata per la salvezza l'osservanza di un solo decimo della legge;
II - Un altra tradizione del Profeta ricordava che Dio, ad ogni scadere di secolo avrebbe inviato alla comunità dei fedeli qualcuno in grado di rinnovarne la religione. Questo rinnovamento (Tagdid)  non poteva non essere più incisivo con l'avvio del secondo millennio che rappresentava una svolta ciclica di portata più cruciale dei passaggi secolari. Per questo, intorno all'anno Mille dell'Egira (Ottobre 1591) si registrò la diffusione sempre più ampia dell'idea del rinnovamento, non più rinviabile a fronte della disgregazione politica e morale in cui versava gran parte del mondo musulmano; ed è proprio a questa data che si può fare riferimento per vedere i segni di un ordine al tramonto e di un nuovo modo di vedere la realtà che comincia a sorgere e simboleggia l'ingresso dell'Islam nella sua età moderna;
III - In quest'epoca in effetti diventano più frequenti e severe le denunce contro certe categorie del sapere religioso, sempre più chiuse in se stesse nella difesa dei propri privilegi e si pone la necessità di un'opera che dia luogo a nuove interpretazioni della fede. Da una parte vi fu chi di fronte alla crisi propose un ritorno meccanico al passato e alla lettera delle fonti primarie del Corano e della Sunna; sul fronte opposto vi furono coloro che non consideravano gli sviluppi dell'Islam storico devianze abusive rispetto al messaggio del Profeta e che cercavano perciò dottrine e istituzioni che eliminassero gli eccessi e le distorsioni e i determinati sviluppi che avevano generato. I primi ebbero dalla loro parte il peso determinante della parola coranica; i secondi, senza trascurare le fonti primarie del Corano e della Sunna, ribadirono il ruolo decisivo quel "consenso" che l'Islam classico aveva considerato base di ogni sua evoluzione.
All'inizio del suo periodo moderno l'Islam sunnita sperimentò per la prima volta il diffondersi di un
"proto fondamentalismo". E' significativo che proprio la scuola Hanbalita, sicuramente più attenta di altre alla lettera delle fonti primarie finì per diventare il punto di riferimento di quanto si sviluppa a partire dal XVIII secolo.
Il vero ispiratore del cosiddetto "Neo-Hanbalismo" fu il teologo Ahmad Ibn Taymiyya, il cui nome è rimasto legato all'accentuazione degli aspetti più rigoristici della scuola Hanbalita. Nato nel 1263 egli combatté energicamente contro ogni atteggiamento accomodante, richiamando di continuo le autorità e i dottori di diritto a un'interpretazione letterale inflessibile della legge. Nemico implacabile di sciiti e cristiani, la sua totale avversione per il Sufismo gli procurò l'ostilità popolare e il sospetto dei governanti. Più volte imprigionato in Siria e in Egitto Ibn Taymiyya riuscì a guadagnarsi un crescente numero di ammiratori e simpatizzanti; ciò nonostante Ibn Taymiyya morì nel carcere di Damasco dopo un certo numero di anni di prigione.
Solo all'alba del XVIII secolo il suo pensiero fu riproposto organicamente e questa volta poté riscuotere il successo negatogli dai contemporanei. E' così che nacque il movimento Wahhabita, che deve il suo nome al teologo Muhammad Ibn Abd Al-Wahhab, nato nel 1703 in un piccolo villaggio dell'Arabia.
Al-Wahhab, dopo un lungo periodo di studi religiosi si convinse che il mondo sunnita doveva tornare radicalmente alle proprie origini per affrontare una crisi che appariva incombente. L'impero ottomano gli sembrava incapace di contrastare le crescenti affermazioni Sawafito-sciite in Iran e le devianza dottrinali sempre più gravi nei territori a governo sunnita. Tornato in patria egli iniziò la sua opera pubblica promuovendo una severa politica di estremo rigore verso tutte le innovazioni che sapevano di superstizione idolatrica. Nel suo primo scritto "Kitad Al-Tawhid" richiamava l'esigenza di restaurare l'inflessibile monoteismo islamico: moltiplicò gli attacchi contro li sciiti e soprattutto ai Sufi, colpevoli di tollerare la devozione popolare e il culto dei santi. La reazione sunnita sembrò avere la meglio e Al-Wahhab venne esiliato; ma durante questo periodo trovò appoggio in Muhammad Ibn Saud, emiro di una piccola oasi del Majad. Con un celebre patto di alleanza i due si giurarono nel 1744 reciproca fedeltà per far trionfare i principi del Wahabismo sotto l'egida di uno stato teocratico retto dall'emiro e dalla sua famiglia.
Il nuovo emirato si espansa con alterne fortune per due secoli e unificò i due regni del Najab e del Higiaz, anche se dovette litigare per realismo politico gli eccessi rigoristi degli inizi, pur rivendicando a se la funzione di garante politico dell'Islam e della sua ortodossia: ecco perché la bandiera verde del regno saudita porta l'immagine della professione di fede protetta da due sciabole incrociate. Il successo politico e militare del nuovo stato fu progressivo e duraturo, anche se suscitò profonde reazioni negative nel resto del mondo islamico che ne vedeva il fanatismo e gli attribuiva eccessi di vario genere, tra cui la demolizione dei monumenti funebri dei grandi personaggi dell'Islam, l'avversione per il culto dei santi e l'eccessiva venerazione per il fondatore del movimento. La polemica contro il Wahabismo assunse toni talmente duri da parte dell'ortodossia classica, che ancora oggi molti musulmani considerano il Wahhabismo un movimento eretico e scismatico. E se esso è sopravvissuto come presenza nell'Islam moderno è per la crescente potenza finanziaria ed economica che ha assunto nel contesto internazionale la monarchia saudita. Un ulteriore motivo di successo del Wahhabismo fu la sua capacità di semplificare il complesso della dottrina islamica e di standardizzare la fede musulmana in modo da farla percepire in forma standardizzata come una dottrina religiosa sostanzialmente "pura".

Sul versante opposto al Wahhabismo si mossero personaggi e movimenti che avevano il Sufismo come punto di riferimento. Le confraternite Sufi si erano ormai radicate nel tessuto delle società islamiche incidendo sulle istituzioni pubbliche, sugli atteggiamenti politici, sull'etica comune e sulla devozione popolare. Tra il XVII e il XVIII secolo il mondo delle confraternite cominciò a manifestare pericolose devianze. L'eccessivo potere raggiunto da alcune di esse e la venerazione di cui godevano alcune loro guide spirituali ne fecero talvolta piccoli stati nello stato, gestita in maniera autocratica con trasmissione dinastica del potere in grado di reclutare eserciti e di controllare il consenso del popolo. Tutto ciò spinse alcune di esse a trasformarsi da organizzazioni di perfezionamento interiore in organismi di potere continuamente alla ricerca di espansione. Alle generazioni politiche si aggiunse poi un diffuso lassismo morale che agli occhi di molti era ancora più grave: spesso sedicenti maestri Sufi prendevano a pretesto la loro "saggezza" per farsi venerare dai seguaci quasi come divinità.
La condanna degli abusi fu pronunciata all'interno stesso del sufismo finché in tutto il mondo islamico i maestri Sufi si dedicarono al rinnovamento dei valori e al riordino degli ordini, sicché per tutto il XVIII secolo emersero con particolare evidenza i segni di una effettiva riforma. Vengono in particolare evidenza le figure del marocchino Al-Arabi Al-Darkawi fondatore della confraternita "Shadhiliia"; l'algerino Ahmad Altigani e, infine l'indiano Khwaga Mir Dard di Delhi. Quest'ultimo intese ribadire che il primato spirituale nell'Islam appartiene in ogni caso al Profeta Muhammad. Il segno distintivo del maestro Sufi indiano è la sua capacità di combinare alla rigorosa conformità alla legge islamica al profondo rispetto per le altre fedi religiose, sicché la sua opera spiega la pacifica e proficua convivenza fra musulmani, indiani e induisti. La sua opera fu proseguita da Mirza Ganganan e, dopo il suo assassinio per mano di un fanatico sciita, fu proseguita dal grande Shah Wali Allah, anch'egli si Delhi.
Spostandoci ad occidente meritano di essere menzionati i maestri Sufi Ahmad Ibn Iblis di Fez fondatore della confraternita che da lui prese il nome; Muhammad Uthman Al-Nirgani e Muhammad Ibn Alì Al-Sanusi, fondatore della potente confraternita Senussita che tanto filo da torcere diede alla dominazione italiana in
Libia .