giovedì 31 marzo 2011

LA COMUNITA' DEI CREDENTI (Umma)

All'epoca della sua nascita l'Islam operò una profonda rivoluzione nell'assetto sociale dell'Arabia, sostituendo alla complessa rete di relazioni tribali e di sangue l'idea di un gruppo umano legato da vincoli di fede a prescindere dall'origine familiare e dalla razza. I privilegi genealogici continuarono ad avere peso politico ma l'Islam insistette più sull'uguaglianza che sulle differenze degli uomini di fronte a Dio.
La comunità islamica deve infatti essere un corpo omogeneo nel quale tutti gli elementi concorrono alla perfezione e all'armonia. Non solo ogni credente è fratello ideale degli altri, ma la solidarietà e la mutua assistenza fra i membri della Umma sono un obbligo giuridico, un precetto cui nessuno può sottrarsi. Nelle parole del Profeta "I musulmani sono una sola mano e assomigliano a un muro compatto le cui parti si sorreggono a vicenda". Il dovere di combattere per la sicurezza collettiva, la protezione degli inabili, le elemosine e le tutele morali ed economiche a favore dei deboli sono tutti precetti che sottolineano la stretta dipendenza fra le diverse membra di un unico grande organismo. Il concetto di Umma non esprime solo la compattezza interna della comunità, ma ne implica la proiezione all'esterno, perché il suo compito primario è quello di promuovere il bene e  reprimere il male. "Voi siete la migliore nazione mai suscitata tra gli uomini; promuovete la giustizia, impedite l'ingiustizia e credete in Dio (Cor. II, 110).
Il capo effettivo di questa grande entità è Dio, legislatore, arbitro e giudice supremo. L'Islam non concepisce l'idea di uno o più intermediari di Dio che possano di propria volontà dirigere le sorti della Umma: nessuna chiesa e nessun clero, perché ogni credente è sacerdote di se stesso e la comunità obbedisce e risponde direttamente a Dio. L'Islam avverte tuttavia l'esigenza di un'autorità che garantisca l'applicazione e il rispetto della legge, pur senza essere dotata di alcun potere legislativo e religioso. Questo ufficio direttivo venne assolto durante la sua vita dal Profeta. Alla sua morte il capo della comunità poté solo limitarsi a tutelare e a garantire la legge come essa è, sottomettendovisi per primo e usando la propria discrezionalità solo in una sfera molto limitata. Egli non deteneva alcun potere assoluto ma era titolare di un mandato pubblico per applicare e difendere la Shari'a.
Questi principi di dottrina politica non vennero accettati da tutti e ciò portò al grande scisma dell'Islam (Fitna). La maggioranza dei musulmani rimase tuttavia fedele a questa impostazione di fondo e costituì una delle principali ossature dell'Islam sunnita e del suo concetto di sovranità. Le varie componenti della Sunna trattarono nel corso dei secoli la materia in modo differente, ma la maggior parte concordò su alcuni elementi essenziali che possono considerarsi patrimonio comune del pensiero sunnita:
I - La comunità deve avere una guida e tale necessità viene indicata come un vero e proprio obbligo religioso.
La guida deve essere unica, perché unica è la legge che essa deve far osservare;
II - Per quanto riguarda le modalità con cui individuare la guida, il Corano (Cor. IV, 59) invita i credenti ad obbedire a Dio, al suo messaggero e a quelli di voi che detengono l'autorità;
III - Il capo della comunità deve essere un musulmano ma la sua autorità deve in ultima analisi provenire dal popolo. In linea di principio l'Islam propone per l'individuazione del capo l'idea della libera scelta, principio sostanzialmente democratico che viene corretto in vario modo: la libera scelta deve essere una scelta oculata e non può quindi essere affidata a tutti indistintamente, ma va riservata a coloro che, per affidabilità morale, cultura religiosa e dignità sociale sono maggiormente in grado di interpretare le esigenze complessive della Umma;
IV - L'investitura del potere è un vero e proprio contratto legale con il quale le persone più autorevoli della comunità prestavano all'eletto un giuramento di obbedienza a nome di tutto il popolo, ma la persona investita si impegnava a sua volta ad osservare e a far osservare la legge, ad amministrare correttamente la giustizia e a promuovere il benessere generale. Più volte tale principio venne sostituito dai fatti da una designazione ereditaria operata dal sovrano in carica, ma il giuramento di obbedienza rimase l'elemento essenziale di ogni successione.
La titolatura spettante al sovrano rivela particolari importanti sulle dimensioni religiosi e civili della funzione politica. I sunniti hanno utilizzato a tale proposito 3 espressioni distinte: Khalifa, Imam e Amir Al-Mu'Minin:
A - La prima trae origine dal Corano (sura II, 30) che a proposito dei Profeti Adamo e Davide utilizza il termine per indicare il fatto che essi vengono istituiti come vicari di Dio sulla Terra. Il califfo è dunque in origine un rappresentante di Dio;
B - La parola Imam (guida, preposto) è tratta dall'uso rituale in cui l'Imam è colui che guida la preghiera collettiva e tende ad evocare i compiti più strettamente religiosi del capo. Da notare che la prima guida della preghiera fu Abu Bakr nominato dal Profeta;
C - Il titolo di Amir Al-Mu'Minin (capo o principe dei credenti) era inizialmente il preposto alla conduzione militare della comunità e designò infine colui al quale erano assegnate le funzioni prettamente civili dell'autorità (potere amministrativo).

NOTA: l'impero ottomano introdusse due termini ulteriori per designare le posizioni di potere: il titolo di Dei designava i sovrani di stati vassalli dell'impero; il Pascià era in genere il governatore di una provincia o un alto grado militare. Il termine sceicco designa in genere colui che è preposto a una comunità per la sua cultura e per la sua anzianità.

mercoledì 30 marzo 2011

LA SOVRANITA' DEL PANICO

Articolo di Barbara Spinelli, La Repubblica, 30/03/2011


"La sovranità del Panico"

Sono settimane che in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla guerra che stiamo conducendo attraverso un'unica lente: nient'altro è per noi visibile se non quello che potremmo patire noi, se i fuggitivi arabi e africani continueranno a imbarcarsi verso le nostre coste. Non si discute che di Lampedusa assediata, di città italiane più o meno restie all'accoglienza. Per la verità non si parla di rifugiati ma di invasori, come se la vera guerra fosse contro di noi. Il trauma è nostro monopolio, il mondo è un altrove che impaura e minaccia: da un momento all'altro, il favore di cui gode l'operazione in Libia potrebbe precipitare. Sembriamo molto lucidi e pratici, ma questo restringersi della visuale ci rende completamente ciechi: l'altrove mediterraneo resta altrove, solo la nostra quiete di nazione arroccata e aggredita ci interessa. Già alcuni parlano di tsunami, ed ecco paesi e persone degradati ad acqua che irrompe. Non ci interessa quel che fa Gheddafi (vagamente parliamo di massacri, in parte avvenuti in parte potenziali). Non ci interessano neanche gli insorti, le loro intenzioni. Il mondo è in mutazione ma noi siamo lì, chiusi in un recinto fatto di ignoranza volontaria: come se esistesse, oltre alla guerra preventiva, un non-voler sapere preventivo. Credevamo di aver spostato le nostre frontiere più in là, lungo le coste libiche, ben felici che a gestire l'immigrazione fosse il colonnello coi suoi Lager, invece nulla da fare. Il muro libico crolla e i detriti son tutti a Lampedusa e la maggioranza stessa degenera in detrito: con Bossi che offre come soluzione lo slogan "föra di ball", con il Consiglio dei ministri che salta, con Berlusconi che di persona andrà nell'isola campeggiando - ancora una volta - come re taumaturgo. Lampedusa è divenuta l'emblema della nostra condizione di vittime, il grido che lanciamo all'universo. Dice il governo che oggi arriveranno 4 navi per 10.000 posti, ma per tanti giorni non abbiamo visto che l'isolotto sommerso da grumi informi a malapena identificati con persone. Il fermo immagine sull'isola - il fotogramma che sospende il tempo creando stasi, ristagno - è l'arma di un governo che scientemente arresta la pellicola su questo dramma abbacinante. Lampedusa è agnello sacrificale, ha scritto su Repubblica Eugenio Scalfari. Tutte le colpe s'addensano nell'icona espiatoria, e non stupisce il vocabolario sacrificale che l'accompagna: esodo biblico, inferno, apocalisse. Sguainare la parola apocalisse è profittevole al capo politico, che pare più forte. Diventa il kathekon del mondo: trattiene i poveri mortali dal disastro. Così Lampedusa si tramuta in podio politico: Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, già ci è andata, il 14 marzo, ben cosciente che l'Italia è oggi laboratorio delle destre estreme. Giustamente il cardinale Martini mette in guardia contro l'uso dello spauracchio apocalittico: non ha detto, Gesù, che "fatti terrificanti" verranno ma "nemmeno un capello del vostro capo perirà"? La paura è comprensibile ma va affrontata, secondo Martini, con quattro virtù: resistenza, calma, serietà, dignità. È proprio quello che manca in Italia. Che manca, nonostante l'attività della Caritas, anche alla Chiesa: con gli innumerevoli alloggi che possiede, non pare sia decisa a offrirli per i fuggiaschi, stipati in condizioni non vivibili, privati ora anche di cibo. Chiara Saraceno ha spiegato bene il paradosso, domenica su Repubblica: questi alloggi, trasformati in alberghi, godono di sconti fiscali perché destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali". Perché non sono messi subito a disposizione? Quando non c'è serietà le bugie dilagano, le immagini s'adeguano. Si adeguano nel caso della guerra libica, che non essendo chiamata guerra non può nemmeno esser pensata a fondo, con conoscenza di causa. Si adeguano nel descrivere l'Unione europea, su cui piovono accuse talvolta giuste ma nella sostanza menzognere, da parte di governanti che di tutto son capaci tranne di pedagogia delle crisi. Se non c'è una politica europea sull'emigrazione, è perché gli Stati vogliono mantenere per sé competenze che non sanno esercitare. È contro il proprio panico sovrano che dovrebbero inveire, non contro Bruxelles: contro l'ideologia del fare da sé, del "ghe pensi mi", che angustia l'Italia da quasi cent'anni. In teoria dovrebbe valere il principio di sussidiarietà (l'Unione decide sulle questioni di sua competenza che gli Stati non sanno risolvere), ma si esita ad applicarlo. Quanto all'immigrazione, il trattato di Lisbona prevede che l'Unione decida all'unanimità tra governi, senza la codecisione del Parlamento europeo, con l'eccezione di alcune materie in cui il trattato stesso prevede la procedura legislativa ordinaria: solo in queste materie (non sono le più importanti) si decide a maggioranza qualificata e dunque si agisce. Ma la menzogna decisiva riguarda quel che l'Italia pensa di sé. Alla radice della cecità, c'è l'illusione di essere una nazione che ancora può scegliere tra essere multietnica o no. Che non deve nemmeno chiedersi se stia divenendo xenofoba. In realtà sono 30 anni che siamo un paese d'immigrazione, con punte massime negli ultimi dieci, e quando Berlusconi nel 2009 disse che "non saremo un paese multietnico", mentiva per evitare il ruolo di pedagogo delle crisi. Per negare che la convivenza col diverso si apprende faticosamente ma la si deve apprendere: attraverso una cultura della legalità, dello Stato, del rispetto. Il politico-pedagogo non finge patrie omogenee che rimpatriano alla svelta bestiame umano, ma governa una civiltà multietnica che da tempo non è più un'opzione ma un fatto.
Per capire il nostro vero stato di salute conviene leggere il rapporto, assai allarmato, che Human Rights Watch 1 ha pubblicato il 21 marzo sull'espandersi del razzismo in Italia. Condotta fra il dicembre 2009 e il dicembre 2010, l'inchiesta raccoglie una mole di testimonianze e mette in luce cose che sappiamo, ma dimentichiamo. Raramente il crimine razzista è denunciato come tale, nonostante la legge Mancino del '93 (articolo 3) lo consideri un'aggravante nei reati: la disposizione non è però inserita nel Codice penale. Raramente sono applicate leggi europee e internazionali per noi vincolanti. Infine, né polizia né magistratura sono formate per affrontare reati simili, e numerosissimi casi vengono archiviati, specie quando le violenze sono commesse da forze dell'ordine. È la retorica che vince sui fatti, scrive ancora il rapporto, e la colpa è dei politici come dei media. Dei politici, che per primi "stigmatizzano le persone con stereotipi". Dei media, "a causa della monopolizzazione dell'editoria radio-televisiva esercitata da Berlusconi". Il rapporto non risparmia la sinistra, spesso tentata di equiparare immigrati e criminali. Continuamente i politici chiedono che immigrati o fuggitivi si integrino nella nostra cultura, ma è ipocrisia. Primo perché ai fuggiaschi non vengono dati gli strumenti per interiorizzare la nostra civiltà, i suoi diritti e doveri. Secondo perché gli italiani stessi - mal informati, mal governati - ignorano la civiltà sbandierata. Basti un esempio. Il migrante privo di documento che è vittima di un reato può richiedere il rilascio di un permesso temporaneo, e rimanere nel paese per la durata del processo. L'autorizzazione è concessa per periodi rinnovabili di tre mesi, e revocata a processo finito se il caso è archiviato. Ma la regola di solito è ignorata, con effetti gravi: il reato non è denunciato per paura, la fiducia del migrante nello Stato frana, le mafie diventano rifugi. Se questa è la cultura politica imperante non sorprende che la nostra politica estera sia così debole, anche in Libia. Non dimentichiamo che gli aiuti pubblici allo sviluppo, in Italia, sono crollati. Ristabiliti dal governo Prodi, da due anni scendono sempre più. In uno studio per l'Istituto affari internazionali, Iacopo Viciani fornisce dati probanti: nel bilancio di previsione per il 2011, la cooperazione allo sviluppo è tra le spese più decurtate, riducendo al minimo il peso italiano nel mondo. Gli stanziamenti per la cooperazione raggiungeranno nel 2011 il livello più basso, con una riduzione del 61% rispetto al minimo del '97. Si dirà che ciascuno taglia, in Europa. È falso: Londra, Stoccolma e Parigi aumentano gli aiuti malgrado la crisi. Inutile andare a una guerra quando si conta così poco nella scelta delle sue già confuse finalità. I governi italiani non sono gli unici ad aver negoziato con Gheddafi, ma il patto stretto da Berlusconi ha qualcosa di scellerato. È grazie a esso che dal 2009 sono stati rimpatriati centinaia di africani giunti in Libia per arrivare in Europa. Senza distinguere tra profughi e migranti, i fuggitivi sono stati respinti in Libia ben sapendo cosa li aspettava: autentici campi di concentramento, dove regnavano tortura, stupri, fame. Forse è il motivo per cui fatichiamo, non solo in Italia, ad analizzare questa guerra libica così opaca. A vedere le insidie di un movimento di insorti che non ha esitato, pare, a uccidere prigionieri africani sospettati di lavorare per Gheddafi. Molti libici fuggiranno anche dai successori del colonnello: dai ribelli che stiamo aiutando perché abbattano il Rais. Forse siamo semplicemente alla ricerca di nuovi carcerieri per gli immigrati che respingeremo.

Per commentare l'articolo di Barbara Spinelli, come al solito puntuale ed esauriente, mi voglio permettere un piccolo "excursus" in una mia banale vicenda personale, che può tuttavia illuminare sulle ragioni profonde della "Sovranità del Panico". La settimana scorsa sono stato ospite di una tavola rotonda presso la stazione televisiva padovana TeleItalia sul tema "Moschea Si, Moschea No" i co-protagonisti dell'incontro erano con me, un avvocato di Venezia, il Presidente regionale dell'azione cattolica e il segretario provinciale della CSL di Padova: tutte persone fornite di un normale livello di civiltà e anche di un non comune livello culturale. Ma il vero interlocutore era il pubblico, cui un malizioso conduttore (o solo troppo ingenuo?) ha dato libero sfogo attraverso le chiamate telefoniche; e cosa ci fosse da aspettarsi da questo non conosciuto comprimario si poteva arguire dall'esito di un pre-sondaggio sull'argomento: il 96% si era pronunciato per il "NO alle moschee" e solo uno striminzito 4% aveva espresso parere favorevole all'esercizio della libertà di culto da parte dei musulmani. Il fatto che il conduttore mi avesse presentato come il rappresentante legale dell'Associazione Musulmani Italiani di Vicenza, oltre il mio aspetto fisico assolutamente europeo, non poteva generare dubbi sul fatto della mia "italianità" o, se si preferisce sul mio essere a tutti gli effetti un europeo per nascita, formazione culturale, vita lavorativa, lingua e modo generale di espressione. Ma tutti questi elementi non sono bastati al mettermi al riparo dalle ripetute aggressioni verbali di quanti telefonavano, quasi tutte espresse in volgarissimo gergo veneto da campagna, molto diverso dal nobile e musicale dialetto veneziano:    
"E' lu, co quea barba, non se vergogna mia de esse musulman?!"; "Eco un amico dei teroristi che se veniù in Italia per far distruggere la nostra religion!" e piacevolezze consimili....Una signora di Roma mi ha così interpellato: "Che lo sappia quel signore dei Castelli Romani che io da romana la moschea de Roma la distruggerei come fanno in Arabia Saudita!". Solo un ascoltatore che telefonava da Parigi ci ha tenuto a dire che lui vive in quartiere dove c'è di tutto e che si trova benissimo. 
Nel tono degli interlocutori non ho mai avvertito paura, panico, timore per il diverso, ma odio: quella particolare forma di odio che mette insieme ignoranza, fanatismo religioso e intolleranza verso chi si permette di essere diverso. Tutti i miei interlocutori erano chiaramente cattolici, anche se il rappresentante dell'azione cattolica ha ripetutamente sottolineato che lo spirito di Gesù e del Cristianesimo aveva poco a che vedere coi loro discorsi. Mi è così venuto in mente di usare nei confronti di quella parte di veneti in grande maggioranza leghisti nel voto e nelle budella, il termine di "catto-nazisti": un esemplare tipico anche dal punto di vista visivo è l'Onorevole Borghezio ma non mi sento di trascurare l'onorevole Stefani da dieci anni parlamentare, ma conosciuto in tutta Vicenza per il sistematico uso degli insulti contro le sue operaie e delle bestemmie usate come punteggiatura. In breve ho avuto un contatto diverso ,dalle solite telefonate piene di insulti che ogni tanto ricevo a domicilio, con quella che non esito a definire la crescente barbarie europea e in particolare italiana, maggiormente radicata nelle regioni più ricche che, come tutti i ricchi, odiano quelli che sono più poveri: l'odio feroce del possidente che ha tutto, o quasi tutto verso chi non possiede nulla o quasi nulla. Sottolineo i due "quasi". Il ricco possiede quasi tutto ma molto spesso non ha più il dono della giovinezza e magari deve accontentarsi per motivi di logica ereditario-patrimoniale di un solo figlio, al massimo di due, a cui trasmettere l'azienda, lo studio professionale, le rendite. Quanto al povero, in genere, non ha quasi nulla oltre alla giovane età, al fulgore fisico e a figli più numerosi del ricco. Provo a immaginare quale possa essere il sentimento dei ricchi reazionari d'Italia e d'Europa, età media 50 anni, numero di figli 1,2 di fronte a ciò che sta avvenendo nella sponda sud del Mediterraneo dove vivono 350 milioni di esseri umani con un'età media di 27-30 anni e un numero medio di 3 figli. Fino a ieri i nostri catto-nazisti di sentivano sicuri per l'analfabetismo, la mancanza di strumenti di comunicazione, l'esistenza di governi tirannici e corrotti messi a far la guardia di masse incontrollabili. Ora sembra cambiare tutto: i dittatori sanguisuga messi a governare per conto dei catto-nazisti stanno saltando uno dopo l'altro; le decine di milioni di giovani algerini, tunisini, egiziani, libici, siriani scendono in piazza armati di coraggio, di fede in Dio, di internet, di telefonini e si scuotono il giogo secolare che gli ha resi subalterni rispetto a una pseudo cultura occidentale fatta di predoni cinici e senza scrupoli.
Allah è il più Grande: ed è nei suoi possibili disegni e nella sua infinita misericordia e clemenza volere per un prossimo futuro che quei milioni di giovani, riconquistato il bene supremo della libertà, si riversino sull'Europa imbarbarita ed egoista per tornare a riaprirla ai valori dell'Umanesimo, della Giustizia e della Fraternità: e quello sarà un bel giorno per la civiltà umana e un brutto giorno per la barbarie catto-nazista.  


lunedì 28 marzo 2011

TRIPLA VERGOGNA PER IL GOVERNO ITALIANO

Articolo di Lucio Caracciolo, La Repubblica, 28/03/2011

Libia. “Interventismo all’italiana”

ROMA – Per Lucio Caraccio la Libia rivela l’Italia e gli italiani. Così comincia un articolo su Repubblica a  firma del giornalista dal titolo “Interventismo all’italiana”.
Mentre il regime di Muammar Gheddafi è messo a dura prova dalle forze alleate che lo stanno bombardando, Roma si scopre e mostra le sue debolezze sulla gestione della missione Tripoli.
Secondo quanto spiega Caracciolo i rapporti con la Libia sono frutto di un esperimento coloniale lungo 30 anni. “Laprima volta fu cent’anni fa, quando la “Grande Proletaria” volse alla conquista di Tripolitania e Cirenaica”, ricostruisce.
Poi ancora: “L’IItalia del “Sacro Cinquantenario” – ancor più quella del Duce -si pensava portatrice di civiltà in unpaese di barbari indolenti e fraudolenti. Andammo per inventarci un impero proprio mentre si avvicinava il crollo dei gran di imperi europei, al cui rango pretendevamo di elevarci. Non sapevamo quasi nulla delle terre e delle genti da redimere. Solo che ci erano inferiori. Sicché quando i libici, in specie le tribù della Cirenaica, si ribellarono alpadrone, ne sterminammo a man salva alcune decine di migliaia (almeno), e ancor più ne deportammo. In perfetto stile razzista. Tutto finì con la disfatta nella seconda guerra mondiale, prologo della perdita delle colonie. Gli ultimi italiani pensò Gheddafi a cacciarli, nel 1970″.
La riflessione di Caracciolo continua fino ai giorni d’oggi: “Ma sia l’Italia democristiana che l’attuale mantennero con il colonnello un rapporto di utilità (energia) e protezione (rispetto al terrorismo islamico e ai flussi migratori), coltivato spesso in barba agli alleati occidentali – quando erano davvero tali. Oggi l`Italia del Centocinquantenario riscopre se stessa intervenendo in Libia nella “guerra umanitaria” fermissimamente voluta da Sarkozy per ragioni di prestigio, d’influenza, ma soprattutto per restare all`Eliseo. Infatti interveniamo all`italiana: malvolentieri, senza impegnarci a fondo né credere in quel poco che diciamo, nella certezza di contribuire a minare i nostri interessi economici e di sicurezza”.





Gli pseudo governanti italiani stanno da circa un mese utilizzando il vergognoso caos di Lampedusa come un manifesto di propaganda leghista per mostrare al popolo le orde di clandestini, terroristi, fondamentalisti, criminali comuni come invasori barbarici del nostro paese. Naturalmente di usare il buon senso e un minimo di organizzazione per risolvere un problema che tutti gli altri paesi europei neppure se ne parla. Nel precedente articolo i giovani libici che combattono contro i mercenari di Gheddafi sono correttamente definiti "Giganti". Il clandestino Berlusconi, Maroni, Frattini, La Russa, Tremonti ecc.ecc.ecc. sono degli squallidi nanerottoli.

domenica 27 marzo 2011

IL PERICOLO SIRIANO

Articolo tratto da Roberto Tottoli, con aggiunte e osservazione

Uno Stato-Mosaico che rischia il crac


Nell'onda di rivolte che sta sconvolgendo il medio oriente, nessuno poteva immaginare che persino la famiglia Assad in Siria iniziasse a traballare. Il padre Hafez Al-Assad prima, e poi in forma più edulcorata il figlio Bashar avevano creato e mantenuto in vita una dittatura quasi perfetta e per molti aspetti quasi obbligata.
Al potere dal 1971 essi hanno infatti plasmato nel tempo e con fredda inflessibile ferocia un dominio tra terrore e auto controllo generato dallo stesso terrore. Sono stati 40 anni in cui è stata cancellata nel sangue ogni espressione politica ed è stato cancellato ogni spirito critico. Gli Assad hanno forgiato una stabilità senza tempo e nel silenzio delle carceri hanno saputo nascondere agli occhi del mondo torture, imprigionamenti e sparizioni.
Si contano a migliaia le vittime di una repressione che solo gli ultimi anni hanno in parte attenuato. Le incognite hanno iniziato a prendere il posto delle certezze e riguardano tutte le realtà della società siriana in cui non mancano nodi da sciogliere. Più di ogni altro paese che la circonda, più della stesso Libano e dell'Iraq, la Siria è un mosaico di fedi religiose e di intricati rapporti inter confessionali e inter etnici, sopiti e tenuti in equilibrio sotto una mano governativa forte e intransigente. La tolleranza e convivenza tra la maggioranza sunnita, le varie correnti sciite e le numerose confessioni cristiane (cattolici, ortodossi, armeni, assiri, caldei ecc.ecc.) è stata una difesa interessata più che un percorso virtuoso. La minoranza sciita alauita a cui appartengono gli Assad, è da sempre vista dagli altri musulmani come un'eresia da combattere con ogni forza: solo un potere forte e inflessibile ha potuto superare le resistenze e far accettare a una maggioranza musulmana una visione tanto avversa.
Prima di procedere oltre è il caso di far presente che i sunniti rappresentano il 74% della popolazione, gli sciiti il 16%, di cui solo la metà sono alauiti, i cristiani di varie confessioni sono il 10%. Gli alauiti sono perciò una minoranza di una minoranza ma costituiscono la rete potentissima su cui poggia il potere degli Assad. In breve essi sono un gruppo minoritario della galassia sciita e cioè di quella parte dell'Islam che si collega alla eresia di Alì, cugino e genero del Profeta Muhammad; la loro fede si basa su una dottrina basata sullo sciismo, ma ricca di influssi cristiani, zoroastriani e persino pagani.
Nel 1982, quando si trattò di stroncare l'opposizione dei Fratelli Musulmani che rappresentavano la componente più organizzata e numerosa dei sunniti, Hafez Al-Assad mandò il suo esercito Alauita all'assalto della roccaforte dell'opposizione nella città di Hama e così dimostrò come sapeva superare ogni dubbio di legittimità democratica e di ostilità confessionale. Le sue truppe circondarono la città con un terribile anello di artiglieria pesante e, con un bombardamento che si protrasse per una settimana, vennero trucidate almeno 20 mila persone. Da allora non si sentì più parlare i Fratelli Musulmani e di opposizioni politico-religiose in Siria.
Gli sciiti non alauiti sono in aumento grazie al fatto di essere alleati con gli Hezbollah della realtà libanese e per il rapporto privilegiato che hanno con l'Iran. Essi non si faranno certo coinvolgere nell'eventuale crollo del regime retto dal potere alauita, ma sicuramente reclameranno più spazio, suscitando il panico nell'opinione pubblica di Israele che, magari ne approfitterà per intervenire immediatamente nella situazione.
Le confessioni cristiane non hanno patito erosioni come in altri contesti, ma sono con il fiato sospeso davanti a rivolgimenti che difficilmente potranno relegare il fattore religioso a un ruolo secondario; e se i nuovi assetti saranno fatti a colpi di maggioranza, o magari grazie a interventi esterni, essi rischiano di ritrovarsi come in Iraq in una situazione scoperta e senza futuro politico. Ne le complicazioni sono finite. Esiste in Siria una consistente minoranza curda (un milione e duecento mila sunniti) alla quale si potrebbero aprire nuove possibilità, compresa quella di aggregarsi ai curdi iraqeni, ormai di fatto indipendenti dal governo centrale di Baghdad.
Fattore destabilizzante è anche la presenza di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, cittadini fantasma, appena tollerati e abbandonati nei campi profughi: elemento questo che, insieme ad altri dimostra come il fattore storico religioso è come in altri paesi arabi complicato dai residui di confini nazionali tracciati a casaccio dalle potenze coloniali e dalle ferite più recenti della regione: a cominciare dal conflitto israelo-palestinese che è costato alla Siria il possesso delle colline del Golan che Israele si è tranquillamente annesso in violazione di tutte le raccomandazioni e le votazioni dell'ONU.
Se le vistose crepe di questi giorni dovessero portare a un crollo del regime si aprirebbe una fase di instabilità estremamente pericolosa per tutta la regione e non solo per la Siria. In particolare rischia di polverizzarsi una realtà complessa e più intricata di Iraq e Libano, cui la compattezza fittizia e imposta della Siria faceva da contr'altare o da appoggio concreto. Nessuno può dire allora che direzione prenderanno gli eventi ma si può scommettere che tanti cercheranno di alzare una voce sopita da molto tempo e con troppa violenza.
I giovani delle rivolte arabe, fatti anche da siriani cresciuti in esilio, punteranno a rilanciare gli slogan liberali e anti regime di queste settimane. La maggioranza sunnita non mancherà di far sentire la sua voce e forse la fratellanza musulmana cercherà di vendicarsi di Hama e di una esclusione che ne ha cancellato la presenza da troppo tempo. E forse, insieme a cavallo di tutto ciò non mancheranno rivendicazioni di minoranze di qualsiasi tipo, in grado forse di mettere in discussione la stessa unità della Siria.
Tutti cercheranno di giocare la loro partita se ne avranno davvero la possibilità e la forza in una realtà politica praticamente sconosciuta e frustata nelle sue espressioni più vive. Nessuno conosce i molti attori che si contenderanno la scena, se la crisi si aggraverà e gli Assad usciranno dal palcoscenico. Il quadro politico che si potrebbe aprire appare ora terribilmente vuoto, più ancora che in Libia e per di più a stretto contato con Iraq, Libano e Israele.
C'è da sperare che il giovane Assad raccolga fino in fondo le "paterne" raccomandazioni che gli rivolge il leader turco Erdogan. Del resto è auspicabile che l'intero medio oriente possa tornare ad usufruire del ruolo pacificatore ed equilibratore che per secoli ha esercitato l'impero ottomano, il cui crollo e la cui indecorosa spartizione è a ben vedere la causa prima dei mali che affliggono una regione vitale per le sorti del pianeta.
Qualcosa di simile, d'altra parte è già avvenuta in Europa in seguito alla dissoluzione del vecchio austro-ungarico che portò dritti dritti alla Seconda Guerra Mondiale.

venerdì 25 marzo 2011

GLI IMPRENDITORI DELLA PAURA

Articolo di Gad Lerner, La Repubblica, 25/03/2011

"Turbati da una rivoluzione araba che sovverte la loro visione del mondo, alcuni ministri italiani si sono trasformati in profeti di sventura. E subito i giornali governativi hanno cominciato a suonare le campane a morto. Mentre Frattini sparava cifre a casaccio su «un´invasione di 300 mila profughi», La Russa e Maroni abusavano dei sacri testi per evocare un “Esodo biblico”, giungendo martedì scorso a fantasticare di “Tsunami umano”.
Rileggere in sequenza i titoloni di prima pagina de La Padania aiuta a comprendere lo stato d´animo di costernazione con cui i nostri governanti vivono questi cambiamenti storici, percepiti nel resto d´Europa come rischiosi, certo, ma potenzialmente benefici. “Maroni: stop all´invasione” (11 febbraio). “Travolti dall´orda. E l´Ue dorme. Crisi senza precedenti, un altro Muro di Berlino. Respingimenti impossibili senza la collaborazione della Tunisia. Sempre più elevato il rischio infiltrazioni di Al Qaeda” (15 febbraio). “Maroni: Libia, pericolo Al Qaeda” (25 febbraio). “Maroni: l´argine sta crollando” (8 marzo).
Mai in passato un responsabile dell´ordine pubblico si era così prodigato nel seminare il panico; sposando acriticamente la propaganda di Gheddafi: sia quando accusa gli insorti di essere terroristi, sia quando minaccia l´assalto dei profughi alle coste europee.
Ma è il governo nel suo insieme a incaricarsi di una mera funzione di contenimento, ignorando le opportunità storiche che i rivolgimenti in corso sulla sponda sud del Mediterraneo potrebbero riservare a un paese come il nostro, afflitto da invecchiamento demografico e crescita rallentata. Nei secoli l´Italia ha sempre conosciuto la prosperità collegandosi allo sviluppo armonico del Nordafrica e del Levante. Mentre ha patito i contraccolpi delle fasi storiche in cui i nostri vicini meridionali sono arretrati.
Dare per scontato che la rivolta giovanile in corso nel mondo arabo debba sfociare necessariamente in oscurantismo e spinta migratoria, alimenta nella nostra sfiduciata classe dirigente una coazione a ripetere. Eccola, allora, protesa nervosamente nel vano tentativo di ricostruire in fretta e furia un´altra diga. Non a caso Berlusconi ancora oggi rivendica come “capolavoro politico” il Trattato d´amicizia italo-libico firmato a Bengasi il 10 agosto 2008 e già miseramente fallito.
L´esito inglorioso della partnership con Gheddafi, costosa e moralmente discutibile, sembra non averci insegnato nulla. Davvero pensiamo che in futuro potremo cavarcela finanziando profumatamente altri gendarmi che sorveglino le coste e garantiscano l´approvvigionamento energetico?
L´ideologia leghista evidenzia oggi tutto il suo anacronismo. Pare quasi che Maroni viva con dispetto le aspirazioni di libertà diffuse nel mondo arabo e attenda che la “rivoluzione dei gelsomini” ceda il passo ai kamikaze, più congeniali alla sua politica allarmista. Come un disco rotto, sa ripetere soltanto le solite parole magiche, “clandestini” e “terroristi”, per mantenere l´opinione pubblica italiana prigioniera della paura. E se invece l´Eurabia preconizzata come un incubo da Oriana Fallaci si rivelasse in futuro un amalgama ben diverso, fondato su società aperte? Se l´”infelicità araba” narrata dal martire della democrazia libanese Samir Kassir come compiacimento vittimistico egemonizzato dall´integralismo, cedesse spazio alla speranza di una nuova, amichevole “felicità araba”?
Tale eventualità viene liquidata con sarcasmo dal nuovo pacifismo di destra all´italiana, animato peraltro dagli ex guerrafondai nostalgici di Bush. Le sue connotazioni prevalenti sono l´isolazionismo e il vittimismo. Nega la potenzialità di un´azione internazionale concertata a sostegno delle rivolte popolari. E s´inviperisce contro il protagonismo di Sarkozy accusandolo di volerci sottrarre zone d´influenza neocoloniali. “A loro il petrolio, a noi i clandestini” è il titolo demagogico di Libero che meglio sintetizza questo istinto di autocommiserazione.
L´unico impegno con cui il governo di centrodestra si presenta di fronte ai cittadini italiani è quello a sollecitare l´Unione europea nel respingimento dei profughi e nella loro ripartizione fra gli Stati membri. Peccato che il famoso “Esodo biblico”, lo “Tsunami umano”, finora abbia provocato l´intasamento della sola minuscola isola di Lampedusa, senza assumere le proporzioni di un´emergenza paragonabile agli effetti delle guerre balcaniche. Ma non importa: gli imprenditori politici della paura riuscirono a moltiplicare per dieci o per cento anche il “pericolo rom”, figuriamoci se non approfitteranno dell´esigua minoranza di fuggiaschi che anziché espatriare in Tunisia e in Egitto (dove ne arrivano davvero molti) raggiungono le coste italiane. Per loro già si prepara il trattamento di sempre: “A casa i finti profughi” (Il Giornale). Condito con quel di più di cinismo in cui per primo si distingue il governatore veneto Luca Zaia: «Questi non sono disperati, hanno soldi e abiti griffati».
È chiaro che questo governo anacronistico, trascinato controvoglia in un conflitto dal cui esito felice si sentirebbe minacciato, confida sulla repressione della rivolta araba. Ma l´interesse nazionale dell´Italia va in direzione opposta. I reazionari, orfani dei dittatori-amici, stavolta sono asserragliati sulla sponda nord."





Non ho mai avuto eccessiva simpatia per Gad Lerner come conduttore di trasmissioni televisive, non tanto per le sue posizioni politiche, religiose e filosofiche (è uno di quelli ebrei nei quali riconosco un "Fratello in Abramo": cosa che non riesco a provare quando compare l'immagine di Borghezio, di Bossi, di Calderoli e compagnia brutta); non mi esprimo per non cadere in espressioni configurabili come ingiurie o diffamazione nei confronti di quello spregevole personaggio che si è, mi pare qualificato come presidente dell'Associazione "Cristo Re" di Verona il quale, dopo aver esaltato il rogo in immagine di Garibaldi di cui si sono resi responsabili gli anonimi imbecilli di Schio, ha avuto la brillante idea di presentare in consiglio comunale la proposta di rimuovere il monumento a Garibaldi per sostituirlo con quello di un Papa assassino come Pio IX (152 condanne a morte eseguite durante il suo pontificato; senza contare le centinaia di vittime della repressione franco-papalina condotta durante il suo pontificato, che ebbe fra le sue vittime una coraggiosa donna di Trastevere, Giuditta Arquati, ammazzata con il figlioletto in braccio e con un altro in grembo dalla sbirraglia franco-zuava del nominato Papa). Ciò che non condivido di Gad Lerner è la non bella abitudine di essere un pò troppo invadente fino al punto di impedire con le sue continue interruzioni una completezza di esposizione da parte dei suoi interlocutori. 
Gad, italiano di origine libanese (il suo vero nome è Giad) è invece bravissimo quando prende carta e penna e scrive articoli del genere di quello che, per la sua chiarezza e per la sua puntualità ho ritenuto di pubblicare con l'odierno post. Per contrappunto mi viene da far menzione dell'ultima trasmissione di "Anno Zero", dove l'abitudine di Santoro di invadere oltre ogni misura lo schermo televisivo, si è declinata questa volta con la spocchiosa aria di superiorità morale dell'ultra pacifista Gino Strada a proposito degli avvenimenti libici. Questo signore si è profuso in una retorica intermedia tra il comizio di paese e il sermone parrocchiale per condannare senza appello l'intervento "imperialista" contro il criminale Gheddafi (criminale comune, che in forza di un voto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU può essere raggiunto da un mandato di cattura internazionale se per caso dovesse mettere il naso fuori dei confini del suo regno). Le mielose estrinsecazioni di pensiero di Gino Strada sono riuscite a farmi essere simpatico, e questa è la prima volta che mi capita nel corso della mia non breve esistenza persino Edward Lutwak, il noto stratega guerrafondaio tanto caro alla destra americana. Ho trovato infatti i suoi argomenti talmente convincenti che, dopo averli registrati, ritengo opportuno riportare più o meno alla lettera (preciso che non nutro nessuna simpatia per il presidente francese Sarkozy, ma credo che anche a lui vada applicata la regola latina "a ciascuno il suo"): 
I - "Sarkozy ha ordinato all'aviazione francese di intervenire per distruggere una cinquantina di carri armati inviati da Gheddafi a distruggere la città di Bengasi, "...A dare la caccia ai "ratti", a stanarli e ad ammazzarli casa per casa...". Grazie a tale tempestivo intervento Gheddafi non è riuscito ad attuare i suoi disegni da benefattore dell'umanità. e tuttavia Gino Strada seguita a sostenere che l'atto di guerra dei francesi non è meno criminale di quelli compiuti o programmati da Gheddafi, perché la guerra, comunque la si presenti o la si descriva, è sempre un crimine contro l'umanità...Gino Strada mi suscita commozione perché mi ricorda i poeti ultra romantici che leggevo da ragazzo. Quelli come lui, alla vigilia dell'attacco di Hitler alla Polonia, con i campi di sterminio già in attività, predicavano la pace a ogni costo stando comodamente seduti in un elegante "bistrò" di Parigi. Poi Hitler ha attaccato la Polonia, ha invaso la Francia e quelli come Gino Strada si sono messi al sicuro in qualche paese neutrale. Tanto a liberare l'Europa dal nazismo ci hanno dovuto pensare poi i ragazzi americani e inglesi mandati dai guerrafondai Roosevelt e Churchill".
Da musulmano credo che sull'argomento sono esaustive le parole del Corano: "Fate la guerra per la causa di Dio, ma non siate aggressori. Dio non può amare gli aggressori perché Egli è Misericordioso e Clemente. Ma se invadono la vostra terra, se vi impediscono di praticare la fede o insultano gli insegnamenti dei Profeti, allora prendete le armi e combattete contro gli aggressori e uccideteli". 

giovedì 24 marzo 2011

ANCORA A PROPOSITO DELLA LIBIA

I - Kosovo, Iraq, Libia

Articolo di Massimo Nava, Corriere della Sera, 24/03/2011


Oggi la Libia, ieri il Kosovo e l'Iraq Perché questa guerra è giustificabile di MASSIMO NAVA _N on è necessario essere pacifisti militanti per sostenere che la guerra sia una cosa orribile e ingiusta. Almeno sul piano etico, è difficile accettare che qualcuno possa decidere di bombardare e uccidere, anche quando i bersagli siano terroristi o dittatori. La guerra giusta è come il rischio zero nel nucleare: più grande è la falla nel sistema, più spazio c'è per polemiche e avvertenze prima dell'uso. Ma l'orrore per la guerra non può tramutarsi in indifferenza verso massacri e impotenza della comunità internazionale di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Il mondo è lontano dall'ideale della pace universale di Kant: occorre quindi l'accettazione (anch'essa morale) di guerre giustificabili, se non giuste. E uno dei criteri fondanti delle Nazioni Unite: i diritti dei popoli sono più importanti della sovranità degli Stati. Le polemiche sull'intervento in Libia e il rinfacciarsi fra destra e sinistra il sostegno a questa guerra o la condanna di guerre precedenti (dal Kosovo all'Iraq) avrebbero meno senso se alcuni punti fossero condivisi. In primo luogo il fatto che pochi interventi militari internazionali abbiano avuto un sostegno e una legittimazione così ampi quanto l'operazione «Odissea» in Libia, decisa dopo una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, con il sostegno della Lega araba e di molti Paesi europei. Si può argomentare sul «gallismo» dei francesi, sugli eccessi di protagonismo elettorale di Sarkozy, sulle divisioni non sorprendenti dell'Europa, sul recalcitrare della Lega araba dopo i primi missili, sull'opportunità o meno del comando Nato — necessario per il coordinamento delle operazioni, meno utile per le sensibilità dei Paesi arabi — ma sono appunti che non stravolgono la sostanza giuridica della decisione di bombardare la Libia. Tra l'altro, si tratta di un intervento multilaterale: non più soltanto occidentale, non più a guida americana. La Francia ha capito la posta in gioco e ha scommesso, con un occhio ai propri interessi, sul futuro della regione. Che potrà essere incerto, però sarà probabilmente senza alcuni dei dittatori di oggi. Non è stato così per l'intervento in Iraq, deciso unilateralmente dagli Stati Uniti, con il falso pretesto delle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam. Non è stato così nemmeno in Kosovo, poiché il bombardamento della Serbia di Milosevic fu deciso in ambito Nato, adottando la tesi di un intervento «difensivo». Solo successivamente intervennero le Nazioni Unite, con una risoluzione che fra l'altro rispettava l'integrità della Federazione jugoslava (così si chiamava ancora il Paese di Milosevic) e non prevedeva l'indipendenza del Kosovo. L'intervento in Afghanistan fu legittimato dalle Nazioni Unite che dopo l'attentato alle Torri Gemelle affermarono la necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Valse per gli Usa il diritto all'autodifesa. Nella caduta di Kabul fu determinante l'Alleanza del Nord, la parte del popolo afghano che si opponeva ai talebani e che era doveroso aiutare. Fi:rono sostenute dal consenso della comunità internazionale le operazioni in Somalia e a Timor Est. Purtroppo non si trovarono Paesi «volenterosi» per arrestare i genocidi in Ruanda e Cambogia. Agli argomenti giuricici, si possono muovere obiezioni sul piano morale. Milosevic e Saddam erano meno rispettabili di Gheddafi? E nei confronti di Milosevic e di Saddam l'Occidente non aveva intrattenuto quel genere di rapporti ambigui (affari, forniture di armi, rispettabilità e riabilitazione politica) cre oggi vengono ricordati a proposito del rais libico? Le vit *** time della pulizia etnica nella ex Jugoslavia o della dittatura di Saidam erano più innocenti dei cittadini di Bengasi? La risposta, per quanto insoddisfacente, non può che essere politica. Se motivazioni morali e legittimazione giuridica dovrebbero essere argomenti condivisi, è la politica che stabilisce ura gerarchia che offre il fianco alla polemica. Ed è la politica che — sempre a posteriori — stabilisce in base ai risultati la «convenienza» di un intervento. Nel caso dell'Iraq, è arduo negare le conseguenze dei bombardamenti sulla popolazione civile, lo stillicidio di attentati seguito all'occupazione militare, l'instabilità, il prezzo pagato dall'America e dall'Occidente in termini d'immagine ed esposizione al terrorismo. Per fare la guerra a Saddam si è scoperto il fronte afghano, si è permesso che il terrorismo accentuasse la presenza nel Paese, si sono forniti argomenti al fonda-mentalismo islamico. Nel caso del Kosovo, le durissime operazioni della polizia serba avrebbero portato Milosevic al Tribunale dell'Aia per crimini di guerra. Si decise di appoggiare la secessione organizzata dai guerriglieri kosovari. II distacco del Kosovo completò il processo di disgregazione della Jugoslavia. Chi scrive fu critico nei confronti di un intervento giuridicamente approssimativo, ma occorre riconoscere la preoccupazione morale di non veder ripetersi i massacri della Bosnia e l'obiettivo politico — non scritto in nessuna risoluzione, esattamente come oggi per Gheddafi — di sbarazzarsi di Milosevic, considerato un pericoloso e permanente fattore d'instabilità. Anche se poi fu la democratica rivoluzione dei serbi a cacciarlo. Nel caso della Libia, molte condizioni giuridiche, politiche e morali sembrano rispettate. Senza contare che in Libia, come in larga parte del mondo arabo, è in atto una rivoluzione per affermare libertà e diritti.


II - L'EUROPA CHE NON C'E'


Articolo di Timothy Garton Ash, La Repubblica, 24/03/2011


Così gli europei vengono da Marte e gli americani da Venere. I francesi, quegli smidollati mangia formaggio, hanno guidato la carica in Libia. I crociati mastica hamburger sono rimasti esitanti nelle retrovie.
olo che stereotipi così grossolani sono fuorvianti oggi quanto lo erano ai tempi della Guerra in Iraq. Ora come allora gli americani sono divisi, e gli europei ancor di più. La Francia e la Gran Bretagna hanno guidato la campagna per la no-fly zone e per "tutte le misure necessarie a proteggere i civili in Libia". La Germania si è apertamente dissociata. L'amministrazione Obama inizialmente si è mostrata riluttante quasi quanto la Germania a farsi coinvolgere in una qualche forma di intervento militare, ma ha cambiato posizione in reazione alla brutale campagna lanciata da Gheddafi per recuperare il potere, a seguito dell'atteggiamento decisamente interventista della Lega araba e delle numerose pressioni interne. Tra le voci americane levatesi a favore dell'intervento c'è quella di Robert Kagan, il neo-con autore dell'aforisma"Gli americanivengono da Marte, gli europei da Venere".
Quanto alla Francia non dobbiamo farci illusioni sui motivi personali di Nicolas Sarkozy. Senza dubbio si augura che il fare bella figura in campo internazionale gli faccia guadagnare punti accrescendo le sue possibilità di essere rieletto l'anno prossimo. Il deciso intervento a tutela dei diritti umani degl i arati i d ovreb be coprire una esecrabile tradizione di mezzucci per ingraziarsi i leader arabi che calpestavano quei diritti, tra cui Hosni Mubarak,il tunisino Zine El Abidine ben-Ali, che fino apoco tempo fa presiedeva assieme a Sarkozy l'Unione per il Mediterraneo e, ebbene si, MuammarGheddafi. Il premier britannico David Cameron, benché in posizione del tutto diversa. è giunto a una conclusione simile. Lé motivazioni delle persone sono sempre miste. Quel che conta sono i pro e i contro del caso e la realtà sul campo. Non sono statele illusioni di gran-dezza diSarkozyapersuaderelalega araba ad appoggiare l'intervento e tanto meno aconvincere il Consiglio di sicurezza dell'Onu ad autorizzarlo. E' stato Gheddafi che ammazzala sua gente e minaccia di eliminare i 'ratti' che gli si oppongono, di casa in casa, senza mostrare "né pietà né clemenza" acambiareleopinioni. E' stato il dottor Saif al-Islam Gheddafi (Phd, LSE) che farnetica sopra un carro armatoacambiareopinioni. E' Bengasi che sembra sul punto di cadere in mano alle forze di Gheddafi a cambiarele opinioni. Ladecisione di intervenire, presa con serietà, senza farsi illusioni si fonda su un unico postulato: ben presto sarebbe stato peggio, letale per molti, se non fossimo intervenuti. E' questa la logica che ha convinto la maggioranzadel Consiglio di sicurezzadell'Onu avotare perla risoluzione 1973 (e, detto per inciso, ha portato il presidente del Rwanda ad appoggiarla). Una logica che non ha convinto però la Russia, la Cina, il Brasile e l'India; né la Germania. L'immagine che ben rappresenta questa crisi è per me quella dell'ambasciatore tedesco alle Nazioni Unite, Peter Wittig, seduto con le mani conserte e un'espressione addolorata in volto mentre al suo fianco l'ambasciatore del Gabon, Emma-nuel Issoze-Ngondet, alza il braccio pervotarelarisoluzione mirataasalvare civili innocenti da un dittatore mezzo pazzo con i baffi. Mi chiedo come si sentisse Witting, persona degnissima, in quel momento. Semplice imbarazzo? O qualcosa di più simile alla vergogna? AltrocheFranciaeGermaniacop-pia indissolubile al centro dell'Europa, in grado, assieme, di darle maggior voce nel mondo. Invece i ministri degli esteri francese e tedesco, Alain Juppé e Gu ido Westerwelle, sono in aperto disaccordo. "lo esprimo il mio pensiero, lui il suo", è stato il secco commento di Juppé dopo alcuni aspri scambi tra i due a Bruxelles lunedì scorso. ELeMonde riporta questo devastante giudizio, sempre di Juppé: "La politica di difesa sicurezza comune europea? E' morta". Il problema qui non 61a partecipazione diretta della Germania. Chiunque avrebbe capito se non fosse stata possibile. Ma come può la Germania non appoggiare una risoluzione Onu sostenuta dai suoi principali partner europei, dagli UsaedallaLegaAraba? Peggio ancora, Westerwelle recentemente per difendere l'astensione tedesca ha fatto cenno a dubbi espressi circa la portata dell'intervento militare da parte della Lega araba: "Abbiamo calcolato il rischio. Se, a tre giorni dall'intervento, vediamo che la Lega Araba già lo critica, credo che avessimo dei buoni motivi". Mentre i piloti britannici e francesi rischiano la vita in azione, il ministro degli esteri tedesco in pratica incoraggia la LegaArabaad essere ancora più critica. Una parola che mi sorge spontanea è Dokhstoss (pugnalata alle spalle).
Questo atteggiamento tedesco ha varie motivazioni. Westerwelle è uno dei ministri degli esteri più deboli che Ia Germania abbia avuto da tempo.In quanto leader dei Liberal democratici teme gli esiti di alcune importanti elezion i provinciali—al pari diAngela Merkel. Come molti politici europei contemporanei la Merkel e We *** sterwelleseguono I'opinionepubblica invece di esserne guida. Dopo qualche cauto passo per assumersi più ampie responsabilità intemazionali, incluse quelle militari, negli anni '90, l'opinione pubblica tedesca sembra nuovamente sprofondata in un atteggiamento all'insegna del lasciateci i n pace". Che la Germania sia una grande Svizzera! E il dinamismo della straordinaria crescita delle esportazioni tedesche è sempre più estraneo al vecchio occidente, negli scambi commerciali con paesi come il Brasile, la Russia, l'India e la Cina—proprio i paesi Bric con i quali la Germania è schierata all'Onu. Anche se pensate che l'approccio tedesco alla questione specifica della no-fly zone sia corretto e quello francese sbagliato, dovete ammettere che queste divisioni rendono ridicola la pretesa che l'Europa abbia una politica estera. Ricordate che questo avrebbe dovuto essere l'anno in cui l'UE finalmente l'avrebbe realizzata. «L'incontro di oggi», ha detto Catherine Ashton, l'Alto Rappresentante perlapoliticaesterae di sicurezzadellaUe dopo lazuffadi lunedì, «dimostra la determinazione della Ue a reagire con rapidità e decisione e all'unisono agli eventi in Libia». Merita un premio per essere riuscita a dirlo con la faccia seria. A fronte di divisioni così profonde tra i paesi più importanti anche il miglior Alto Rappresentante del mondo aveva ben poco da fare.
Non fraintendetemi: se critico l'atteggiamento tedesco non significa che io non abbia dubbi su questa operazione. Ho dei dubbi seri a riguardo, come quasi tutti quelli che conosco. Sono convinto che restare a guardare avrebbe significato terribili conseguenze per i civili attaccati dalle forzediGheddafi. Se non ci fossimo mossi sarebbe statopeggio. Ma ora dobbiamo dimostrare che le cose andranno meglio perché siamo intervenuti. Siamo presi in trappola tra i limiti ben precisi del mandato Onu—proteggere i civili — e la condizione necessaria per garantire quel fine con certezza: la caduta di Gheddafi. L'unico esito positivo di un'azione militare mirata autorizzata dall'Onu è consentire ai libici di sbarazzarsi di Gheddafi. Quindi il compromesso verso cui questa coalizione divolenterosi sembra orientarsi — esperienza di comando e controllo Nato in un involucro politicopiù ampio—è probabilmente la via migliore. Poi tutto dipenderà da chi è sul campo. Ma molti esiti peggiori sono del tuttopossibili, nondaultimounaorribile protratta spartizione del paese, con la metà occidentale ancora sotto il controllo di Gheddafi. Un'Europadivisaaumentala probabilità di una Libia divisa.


Mi è venuto spontaneo confrontare la puntuale intelligenza dei due articoli riportati con il caotico insieme di sciocchezze pronunciato da una deputata del PDL, sedicente rappresentante delle donne marocchine in Italia nella trasmissione diretta da Lilly Gruber (8 e mezzo) la sera del 23/03/2011. In mezzo alle altre inconsulte sciocchezze la signora onorevole si è manifestata come un'accanita sostenitrice del dittatore Gheddafi. Non c'è che dire. Mi chiedo: "Perché per due persone intelligenti debbono esistere valanghe di imbecilli?".


mercoledì 23 marzo 2011

IL CRIMINE DELL'INDIFFERENZA E LA STUPIDITA' DEL NEUTRALISMO


Il crimine dell'indifferenza
di Spinelli Barbara

Non è mai cosa semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l'incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s'impantanain paesi lontani; nessunaguerra, infine, va chiamata guerra.
l governo italiano è specialista di quest'ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice«addo-lorato per Gheddafi» senza sentir dolore per le sue vittime non sala storia che fa, né perché la fa. A questi luoghi comuni sono affezionati sia gli avversari incondizionati delle guerre, sia i governi che le guerre le fanno senza pensarle, o pensandone i moventi (petrolio e gas libici) senza dirli. I luoghi comuni sempre rispondono al primo istinto, più facile. Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel '38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c'è solo la banalità del male. Esisteanchelabanalitàdell'indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Herman n Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell'indifferenza.
IL CRIMINE DELL'INDIFFERENZA L'Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1,7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica l'applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli consente (se l'aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni medianteforze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7). Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, mai peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel '94. Nonostante ciò l'Onu è l'unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l'Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell'Unione europea: l'assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. D'altronde l'Onu ha imparato qualcosa dal Ruanda. Nel 2005, su iniziativa dello stesso Kofi Annan, ha approvato il principio della «Responsabilità di proe:4 ere» le popolazioni minacciate dai propri regimi (Responsibility to Protect, detto anche RtoP), anche se è imperativa l'approvazione del Consiglio di sicurezza. È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia. A partire dal momento in cui questa responsabilitàviene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle guerre è la verità», e quest'antica saggezza va riscoperta Se l'Italia «non è in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch'essi per Gheddafi? Èquesto, ministro Frattini, quelchediceagli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un'intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l'ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri MichèleAlliot-Mane? Ma forse c'è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all'esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l'Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l'America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. In parte èl'Onu, prigioniera dei protagonismi nazionali, a evitare parole chiare. Di qui le tante ambiguità della risoluzione sulla Libia: un testo che vuol accontentare tutti e in realtà non sa quello che vuole, né quello che non vuole. Perfino sulla *** questione cruciale regna il buio: non si vuol spodestare Gheddafi, e però non pochi chiedono proprio questo. Il primo a tentennare è Obama: stavolta non vuole cambi di regime alla Bush, ma il risultato è che ciascuno nell'amministrazione dice la sua come in un giardino d'infanzia. 11 18 marzo il Presidente annuncia che «il cambiamento nella regione non sarà e non può esserimposto dagli Usa né da alcuna potenza straniera: in ultima istanza, sono i popoli del mondo arabo a doverlo compiere». Tre giorni dopo, i121 marzo in Cile, ripete che la missione è proteggere i civili ma aggiunge: «La politica degli Stati Uniti ritiene necessario che Gheddafi se ne vada: tale politica sarà sostenuta da mezzi aggiuntivi». Ben altro aveva detto domenica il capo di stato maggiore Michael Mullen: l'obiettivo è di «limitare o eliminare le capacità del dittatore di uccidere il proprio popolo e di sostenere lo sforzo umanitario», non di provocare un cambio di regime. Per lui, Gheddafi può anche restare al potere. Non è l'unica ambiguità: gli interventisti proclamano di nonvolere occupazioni né attacchi terrestri, ma nutrono parecchi dubbi in proposito. Anche perché con la sola aviazione e gli spazi aerei interdetti si ottiene poco, o peggio ancora: in Bosnia-Erzegovina, la no-fly zone fra il '93 e il '95 non impedì il massacro di 800010000 musulmani bosniaci a Srebrenica, città sotto tutela dell'Onu.
Non meno equivoco èil ritardo con cui l'Onu interviene. Il divieto di sorvolo poteva essere imposto prima, quando Gheddafi non avevaancorariconquistato cittàe creato una spartizione di fatto della Libia. Uno dei difetti dei cieli interdetti è la scelta dei tempi. Le no-fly zone in Iraq (1991-2002) furono istituite dopo che a Nord l'orrore era già avvenuto (3.0004.000 villaggi curdi distrutti da Saddam con armi chimiche, nell'88, più di 1 milione di morti), e nel Sud il divieto restò inascoltato. L'Europa non solo è inesistente, mapericolosanellasuafrantu-mazione: la scommessa fatta da Obama sulla sua autonomia èfallita, e non per sua colpa. Uno dei motivi per cui Lega araba è incollerita purvolendo l'intervento 61a fretta di Sarkozy, che ha fatto partire i propri aerei senza mai consultare gli arabi. Non basta qualche aereo del Qatar per riempire il vuoto, abissale, di politica. Sarkozy interventista pensa ai suoi casi elettorali non meno della Merkel anti-interventista: di qui il litigio sulla guida o non guida della Nato. Quanto all'Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: «La politica internazionale attuale dell'Italia non è che politica di rimorchio. L'Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d'iniziare un affare o un'impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. Eneppureosa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce». Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. La settimana scorsa, la Bbc ha diffuso un dibattito organizzato dalla Fondazione Qatar (il Doha Debate) in cui una platea di giovani arabi discuteva dell'Egitto. La maggioranza ha votato una mozione in cui si chiede di non indire subito le elezioni, perché la democrazia «non si esaurisce nelle urne»: è fatta di infrastrutture democratiche, di costituzioni garanti delle minoranze, di separazione dei poteri. Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici. Pensando all'Italia, ho avuto l'impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.




A puro titolo esemplificativo vorrei ricordare i nomi di alcuni illustri personaggi che da opposte sponde si faranno compagnia nel sostenere: "No a Gheddafi, No alla guerra!".
GIULIANO FERRARA, NIKY VENDOLA, VITTORIO FELTRI, GINO STRADA, ROBERTO SALLUSTI, DON CIOTTI, MARCELLO VENEZIANI (fascista), FERRERO (Rif. Comunista), ANGELA MERKEL, SILVIO BERLUSCONI (che però è "dispiaciuto" per il colonnello).
Sono invece schierati a favore dell'intervento nei termini stabiliti dalla deliberazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (l'ultimo, senza dimenticare il penultimo che deferisce Gheddafi al Tribunale Internazionale per crimini di guerra):
I - José Luis Zapatero, che appena eletto primo ministro spagnolo ritirò dall'Iraq il contingente militare inviato dal suo predecessore;
II - Joschka Fischer leader dei Verdi tedeschi e ministro degli esteri del governo tedesco Schroeder, che fu decisivo nell'impedire la partecipazione della Germania alla guerra in Iraq dichiarata da George W. Bush;
III - Daniel Cohn-Bendit, leader franco-tedesco delle lotte studentesche del 68', euro parlamentare che ha sostenuto come la neutralità tra Gheddafi e i ribelli libici assomiglia alla vigliaccheria di quanti per neutralismo abbandonarono il popolo e la repubblica di Spagna alla criminale aggressione nazi-fascista. 
Una particolare menzione vogliamo dedicare al capogruppo della Lega in Consiglio comunale a Milano, Matteo Salvini, che per la sua espressione arrogante fino alla spudoratezza meriterebbe il titolo di "Mister Simpatia". Costui ha ridotto il conflitto drammatico che ha portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia a una sorta di guerra condotta dai musulmani contro i cristiani. Gli eventi jugoslavi sono abbastanza recenti e tutti sono in grado di ricordare che la guerra Jugoslava è iniziata con i massacri reciproci tra croati cattolici e serbi cristiano ortodossi, e proseguita con i massacri congiunti dei cattolici croati e dei serbi ortodossi ai danni dei musulmani bosniaci: dai 7000 ai 9000 massacrati a Sebrenica ad opera del generale Mladic serbo ortodosso e dei circa 4000 musulmani massacrati a Mostar con i cannoni che i serbi ortodossi avevano amichevolmente prestato ai croati cattolici. A Sarajevo i cecchini serbo ortodossi hanno ammazzato circa 20.000 musulmani bosniaci. Il mattatoio si è concluso con le stragi dei musulmani kosovari ad opera delle milizie serbo ortodosse  cui le milizie kosovare musulmane hanno replicato ammazzando qualche migliaio di serbi ortodossi.
Durante la seconda guerra mondiale i croati cattolici hanno ammazzato circa 600.000 serbi ortodossi, 120.000 ebrei e 180.000 rom, un terzo dei quali musulmani. In coppia con l'ineffabile Magdi Cristiano Allam, il prode Salvini ha sostenuto che nelle recenti elezioni sulla nuova Costituzione egiziana, definite libere dagli osservatori internazionali, hanno vinto i Fratelli Musulmani e cioè un partito di fondamentalisti, terroristi, estremisti legato ad Al Qaida. Naturalmente è una balla.

martedì 22 marzo 2011

LA MADRE DEGLI SCIOCCHI E' SEMPRE INCINTA! (specialmente quando si tratta di sciocchi in malafede)

Articolo di Andrea Tarquini, La Repubblica, 22/03/2011

Il leader verde Cohn-Bendit duro contro gli anti-interventisti: perché non protestavano quando il rais massacrava la sua gente?

Cohn-Bendit: “Chi scende in piazza sta col dittatore. Vendola si ricordi della Spagna del ´36″

Intervista a Daniel Cohn-Bendit di Andrea Tarquini, la Repubblica, 22 marzo 2011
«Attenti, ragazzi, chi scende in piazza contro la missione internazionale cerca magari una terza via ma di fatto non è neutrale, bensì con Gheddafi. Perché niente cortei quando Gheddafi massacrava il suo popolo? Ricordate Francia e Gran Bretagna del ‘36, che lasciarono sola la Repubblica spagnola contro Franco, Hitler e Mussolini». Daniel Cohn-Bendit, leader verde europeo, è durissimo.

In piazza per la pace: solo in Italia o anche altrove?
«In Germania si va in piazza contro l'atomo. Vedo appelli anti-raid aerei solo in Italia, o in Grecia dai neostalinisti. Finiscono per schierarsi con la Cina, Putin e Chavez. Sono prigionieri delle categorie degli anni ‘50».

Insomma, la ricerca di una "terza via" non la convince?
«In Italia vedo appelli a protestare mossi dall'ossessione assoluta e accecante della mitica lotta contro l'imperialismo americano. Come fa Vendola a dire né con Gheddafi né con le bombe? Non faccio paragoni col triste slogan "né con lo Stato né con le Br", ma mi ricordo del 1936. Madrid democratica fu lasciata sola contro Franco, la Legion Condor di Hitler e i reparti di Mussolini. Risultato: stragi, 50 anni di franchismo, e nel ‘39 la seconda guerra mondiale».

Scusi, ma la voglia di pace, di un'altra via tra la guerra e il tiranno, non è importante?
«Arriva il momento in cui bisogna fare scelte. La Resistenza italiana, francese o jugoslava fu giusta, ma sanguinosa. Gli Alleati non la lasciarono sola. Che lo voglia o no, chi vuol lasciare soli i rivoluzionari libici è con Gheddafi, non è neutrale. E schiavo di miti come l'ossessione della pace a ogni costo che a Monaco 1938 portò Londra e Parigi a cedere a Hitler. O il mito del patto Molotov-Ribbentrop, giustificato dall'Urss perché anti-imperialista».

E la nonviolenza alla Gandhi?
«Gandhi vinse contro un imperialismo democratico, non contro un tiranno sanguinario pronto a sterminare il suo popolo. Gandhi poté trovare una terza via, per i rivoluzionari libici la terza via non esiste sul campo. È triste che non lo si capisca. Agire è giusto, come lo fu contro Milosevic e i suoi massacri in Bosnia e in Kosovo. La guerra è sanguinosa, lo fu anche la Resistenza nell'Europa occupata dall'Asse. Ma allora gli italiani dovrebbero rinnegare la Resistenza? I jet occidentali hanno fermato i Panzer di Gheddafi che puntavano su Bengasi per un bagno di sangue. E in Tunisia ed Egitto la rivoluzione ha vinto perché gli Usa, influenti sulle forze armate locali, le hanno convinte a non fare stragi. In Libia è diverso».

La voglia della "terza via" però è forte in una parte dell'opinione pubblica? Perché, secondo lei?«Per i precedenti della guerra in Iraq, dove non c'era un movimento rivoluzionario da appoggiare, e perché in Afghanistan la situazione è difficile. Ma ricordiamo che dopo la prima guerra alleata in Iraq (contro l'occupazione irachena del Kuwait-ndr), prima ci fu la no-fly zone, poi Saddam massacrò 500mila sciiti e sterminò col gas un'intera città curda. Spesso chi protesta nel mondo del benessere non s'immagina cosa sia vivere sotto dittatori come Gheddafi. Ciò ha a che fare con ideologie marxiste-leniniste: il mondo diviso in cattivi e buoni, l'imperialismo cattivo e tutti i suoi nemici buoni».

Come giudica la non partecipazione della Germania alla coalizione anti-Gheddafi?«Merkel e Westerwelle sono opportunisti, fiutano aria di pacifismo e temono per le elezioni di domenica. Potrei capirli solo se criticassero l'amicizia passata di Berlusconi e Sarkozy con Gheddafi, ma non lo fanno. In troppi amano solo le rivolte che vengono sconfitte, facile poi chiudere gli occhi davanti alla repressione, come con la Spagna lasciata a Franco».

Voglio rimanere al caso della Spagna del' 36 su cui Daniel Cohn-Bendit, vero leader dei verdi europei e delle persone autenticamente pacifiste di livello europeo, incentra le sue argomentazioni contro gli pseudo pacifisti e gli pseudo verdi pronti a scendere in piazza contro l'intervento anti Gheddafi, e quindi in sostanza a sostegno di costui, per fare talune considerazioni:
I - Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha dichiarato senza vergognarsi di essere sinceramente dispiaciuto per quanto sta capitando al suo amico colonnello Gheddafi. Il "Silvio nazionale" ha dichiarato più volte di sentirsi il leader del partito dell'amore: forse è per questo che manifesta il suo affetto nei confronti di un tiranno criminale che è stato oggetto di una condanna universale come criminale di guerra contro il suo popolo. Potremmo immaginare una triade di possibili candidati al Nobel per la pace: Berlusconi, Gheddafi, Putin. Da notare per chi non l'avesse notato che il Berlusca non ha mai finto una lacrimuccia per quelle migliaia di giovani massacrati dal criminale tripolino; ora il Nostro sta dimenandosi in compagnia del suo domestico Frattini per cercare il pretesto che lo aiuti ad uscire dalla "coalizione dei volenterosi" impegnati a dare applicazione a una delibera del consiglio di sicurezza dell'ONU. Possiamo immaginare che se ci riesce volerà di corsa a Berlino dove, appollaiandosi dietro una colonna, troverà il modo di fare un affettuoso "Cucù" alla sua piacente comare Angela Merkel;
II - Maroni e gli altri leghisti seguitano a invadere i teleschermi con lo spettacolo vergognoso dei circa 6000 profughi tunisini ammassati in condizioni disumane su quel lembo di terra che è l'isola di Lampedusa. Ci si chiede: "Ma l'Italia è priva di natanti e di aerei da utilizzare per smistare sull'intero territorio nazionale nelle decine di caserme in disuso 5-6000 persone?" Sarebbe la soluzione più ovvia e ragionevole, ma i leghisti, contando di fare leva sui "terrori di pancia" di imbecilli come loro preferiscono trasformare quelle 6000 persone in un perenne manifesto elettorale da utilizzare con note di colore tipo: "Potrebbero essere un covo di terroristi islamici!".
III - Che Berlusconi e i leghisti si comportino come ci si aspetta da Berlusconi e dai leghisti non può suscitare meraviglia così come non stupiscono le giaculatorie pacifiste e anti imperialiste di paleo comunisti risalenti all'epoca staliniana, che accusano di aggressione imperialista chi ha provvidenzialmente impedito a Gheddafi di trasformare Bengazi in un inferno con una caccia all'uomo casa-per-casa. Indigna invece che, schierandosi di fatto affianco della peggiore destra del nostro paese, persone come Vendola, Gino Strada e compagni vadano agitandosi lanciando una manifestazione il cui slogan dovrebbe essere: "No a Gheddafi! No alla Guerra!". Chissà quali argomenti pensano di poter usare questi profeti della pace per costringere un tiranno a seguire le vie diplomatiche? E' il solito enigma racchiuso in un mistero la strategia dei pacifisti nostrani, che, tra le altre disgrazie, l'Italia sembra avere in esclusiva.
Mi piace concludere facendo presente che non ho nessuna simpatia per il presidente francese Sarkozy che certamente non deve il suo interventismo a spirito umanitario e all'amore per i giovani arabi in rivolta; ma sarebbe da sciocchi negare che i missili che i suoi aerei hanno lanciato contro la colonna di mezzi corazzati e di blindati del dittatore libico nel momento in cui essa entrava in Bengazi, hanno OGGETTIVAMENTE e di fatto impedito un ennesimo caso Ruanda o Sebreniza. I veri pacifisti del 1936 si arruolavano nelle brigate internazionali e andavano a combattere contro le ciurme franchiste a fianco dei patrioti repubblicani. Un nome fra tutti? Woody Gouthrie, il grande cantautore folk americano, arruolatosi nella brigata Lincoln.

lunedì 21 marzo 2011

LA MORALE SESSUALE NELL'ISLAM

La sessualità rientra in una codificazione assestante che implica tuttavia gran parte delle norme della Shari'a. Essa è considerata un bene fondamentale dell'uomo e della donna ma è contemporaneamente un potenziale pericolo per questo è sempre stata oggetto di grande attenzione da parte dei teologi e dei giuristi: qualsiasi aspetto della sessualità, rapporto fisico fra persone di sesso diverso è lecito solo all'interno del matrimonio (Nikah). Per questo comportamenti come l'adulterio, la fornicazione in genere, l'omosessualità, la pederastia e la pedofilia sono considerate colpe gravi.
Vi sono poi altri temi che direttamente e indirettamente che toccano la sfera sessuale dell'uomo e della donna e che, oggi sfiorano talvolta anche la bioetica:
I - L'ABORTO.
Nell'Islam la vita ha un valore sacro in quanto dono di Dio, ma si è sempre fatta una distinzione tra il momento della fecondazione dell'ovulo e quello dell'intervento divino per dare al "grumo di sangue" lo spirito vitale
(Cor. XII, 14). In un hadith si legge: "Ciascuno di voi viene creato nel ventre della madre in un periodo di 40 giorni, in altri 40 diventa un grumo di sangue e in altri 40 un pezzo di carne...E' allora che Dio soffia in lui lo spirito". Si ritiene dunque che la nuova creatura diventi veramente umana al quarto mese di gravidanza e così, accanto a una difesa unanime alla vita del feto, coesiste la leicità dell'aborto entro i 120 giorni dall'ultimo ciclo mestruale della donna. Sull'argomento vi è tuttavia un notevole dibattito nelle varie storie giuridiche. Mentre l'aborto per salvare la vita della donna è unanimamente consentito, per la scuola hanafita l'aborto è lecito, anche se biasimato entro i 120 giorni e anche senza il consenso del marito. Per gli shafi' Iti esso è lecito entro 40 giorni con il consenso di entrambi gli sposi, ma resta comunque un atto deprorevole. Gli hambaliti permettono l'aborto entro i 40 giorni ma aggiungono che quando l'embrione è formato l'aborto diventa illecito. La scuola malikita lo proibisce entro anche il termine dei 40 giorni, ma da alla nozione di aborto terapeutico un significato estremamente vasto, estendendo la nozione di pericolo per la donna anche quello di salute e di equilibrio psicologico.

II - La CONTRACCEZIONE.
La pratica del coito interrotto, era largamente diffusa in epoca pre-islamica anche se era condannata dalle comunità ebraiche e cristiane. Nel Corano non ci sono cenni in proposito, ma secondo la tradizione Muhammad avrebbe consentito tale pratica in quanto convinto che se Dio vuole far sorgere una nuova vita nessun accorgimento umano lo può impedire. Nei secoli successivi, anche se l'assenza di un divieto esplicito ha determinato una notevole tolleranza verso quasi tutte le pratiche contraccettive per analogia con il coito interrotto. Vi è dibattito per stabilire se la contraccezione sia lecita, permessa, o biasimevole. Le varie scuole divergono inoltre sulla necessità dell'approvazione di entrambi i coniugi: gli hanafiti e gli ambaliti ritengono necessario il consenso della moglie, mentre i malikiti ritengono doveroso versare un compenso monetario nell'ipotesi che accetti di non avere figli; gli shafi'iti ritengono la contraccezione lecita anche se la moglie non lo vuole. Nel 1987 il Council Of Islamic Fiqh della Mecca ha dichiarato lecita la contraccezione solo nel caso in cui via sia un rischio di gravi patologie per il feto e per la madre. All'interno dello stesso dibattito vi è un invito alla procreazione programmata tanto che si fa riferimento all'indicazione del Corano che prevede un allattamento di 2 anni durante i quali una nuova gravidanza è sconsigliata il che, sommata al periodo di gravidanza, determina un intervallo di circa 3 anni tra un figlio e l'altro.

III - La STERILIZZAZIONE di uno o entrambi i coniugi.
Nel 1936 l'egiziano Achmad Ibrahim riteneva lecita la sterilizzazione permanente, in quanto non esplicitamente vietata dal Corano, nei decenni successivi essa è stata giudicata illecita, mentre alcuni la considerano lecita se temporanea e altri la ritengono doverosa di fronte al pericolo della trasmissione di malattie mentali o incurabili alla prole.

IV - La PROCREAZIONE ASSISTITA.
Tale pratica era vietata fino agli anni 80' del secolo scorso. Resta assolutamente vietata qualsiasi tecnica di fecondazione eterologa, mentre è consentita la procreazione omologa sia in vitro sia in vivo.

V - Le MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI (Circoncisione, clitoridoctomia, infibulazione).
Trattasi di pratiche generalmente proibite in quanto lesive del diritto della donna al piacere naturale. Un hadith del Profeta sembra manifestare una generica tolleranza verso la semplice circoncisione, purché non incisa troppo in profondità; la clitoridoctomia e l'infibulazione sono invece considerate lesioni gravi in numerosi legislazioni islamiche.

Per quanto non espressamente disciplinato si può fare riferimento ad alcune regole fondamentali su cui basare il dibattito etico relativo alla sessualità:
I - Tutto viene da Dio: l'essere umano è solo un beneficiario che può utilizzare il suo corpo nei limiti di quanto è permesso nella legge coranica (Cor. XVII, 70).
II - L'interesse collettivo (Maslaha) ha la precedenza su quello del singolo; il principio dell'utilità comune è imprescindibile e talora rende lecito anche quanto diversamente sarebbe illecito.
III - La giustizia e l'equità deve essere applicata in tutti i rapporti (uomo-Dio; uomo-Natura; uomo-uomini), perché questo è l'unico modo sicuro per perseguire il bene ed evitare il male (Istihsan: Cor. Ver. 104 e Cor. XVI, 90).

ADULTERIO
Per quanto riguarda l'adulterio si precisa in premessa che non vi è nel Corano alcun accenno alla lapidazione come pena che colpisce la donna adultera (in realtà tale pratica era esistente soltanto tra gli ebrei e in alcune fasi dell'impero bizantino). Nel Corano si fa cenno alla punizione della donna adultera per la quale si prevede che spetta all'uomo tradito di chiuderla in casa fino a quando vorrà Dio. La pena prevista per gli adulteri e per i fornicatori è quella massima di 100 frustate da impartire in pubblico.
Secondo il giurista Muhammad ibn Adam  Darul Iftaa  Leicester:
"L'adulterio vale sia per l'uomo sia per la donna.
La punizione (rajm) però NON PUO' essere attuata in nessun Paese. Infatti quattro persone devono aver visto i "condannati" durante l'atto sessuale e quindi testimoniare. Dunque, si capisce che è perlopiù impossibile soddisfare queste condizioni. Inoltre a complicare ancor la cosa è il fatto che ci si deve trovare in un Paese dove non ci siano problemi: oscenità,decadenza e dove tutti siano devoti a Dio; quindi con quell'atto(adulterio) si verrebbe a spargere corruzione in quel Paese!
E poi se l'Islam permette il divorzio non c'è veramente motivo di "sporcarsi" di adulterio.
Quindi questa norma è perlopiù simbolica (come affermano vari teologhi) dato che è IMPOSSIBILE applicarla. Comunque la punizione legale è la seguente:
 "Se l'atto della fornicazione è eseguito da un individuo che è sano, maturo, musulmano e si sposa con una persona che è anche sana, matura, musulmana, e che il loro matrimonio è completato, poi la punizione legale sara che lui/lei sarà preso a sassate(rajm). L'Imam, testimoni e gli altri musulmani prenderebbero parte nella lapidazione. Se i testimoni si rifiutano di prendere parte nel prendere a sassate il condannato, la punizione sarà ritirata, dato che questo sarebbe considerato un segnale di ritiro della testimonianza.
Se l'atto della fornicazione è eseguito da un individuo che non si qualifica essere nella categoria sopra riportata, la punizione invece è che lui/lei subiranno 100 frustate. Queste frustate saranno sparse sul corpo, evitando la testa, faccia e le parti private. Una donna incinta non sarà frustata finché lei partorisce il suo bambino."".

Nella maggior parte dei codici moderni l'adulterio è punito con la reclusione più o meno lunga (in genere dai 3 mesi a un anno) salvo che non intervenga il perdono del coniuge offeso, che estingue la pena, ovvero se lo stesso coniuge non scelga di ricorrere al divorzio o al ripudio.

domenica 20 marzo 2011

GUERRA SULLA LIBIA DI GHEDDAFI

Riportiamo una parte dell'articolo di Eugenio Scalfari, La Repubblica, 20/03/2011


"Poche settimane fa, dopo la caduta di Mubarak, del dittatore tunisino Ali e delle insorgenze nello Yemen e negli Emirati, anche i giovani di Tripoli e soprattutto di Bengasi si ribellarono mettendo a mal partito la dittatura di Gheddafi che durava da oltre quarant´anni. L´Occidente non ebbe esitazioni: il caso libico appariva come un altro tassello della rivoluzione nord-africana; al Qaeda era scavalcata da un movimento che vedeva insieme uomini e donne, motivato da uno slogan formidabile: “pane e libertà”, al tempo stesso sociale e ideale. Sembrò e in gran parte rimane una svolta storica, un´innovazione profonda che scavalcava il terrorismo di Bin Laden, il fondamentalismo coranico e talebano, aprendo un capitolo inedito nella convivenza delle civiltà.
Questa fu la prima e unanime reazione dell´opinione pubblica ed anche delle cancellerie occidentali ma si pose subito il problema della gestione politica della fase successiva all´abbattimento delle dittature.
In Egitto l´esercito è sempre stato il perno dello Stato e non poteva che esser l´esercito a gestire la transizione. La storia della Turchia ne forniva l´esempio. In Tunisia mancava la “risorsa” dell´esercito e infatti la transizione si presenta ancora fragile e agitata. La Libia è un caso a sé, assai diverso dagli altri.
Il paese è geograficamente immenso, demograficamente assai poco popolato, non arriva a cinque milioni di abitanti. Ricco di petrolio solo parzialmente sfruttato. Da quasi mezzo secolo guidato da Gheddafi con mano di ferro, accortamente populista, spregiudicato, corrotto, avventuroso oltre ogni limite. L´esercito non è che una milizia ben pagata e ammaestrata, con reparti speciali mercenari, una sorta di “legione straniera” assai contundente e feroce. Convincerli alla resa è molto difficile. Alle brutte i mercenari si squaglieranno, la milizia tribale si difenderà fino alla fine.
Dopo l´inizio dell´operazione militare resta dunque la domanda: bombardare fino a che punto? Negoziare fino a che punto?
* * *
Si possono, anzi si debbono bombardare gli aeroporti, abbattere i caccia se si alzeranno o distruggerli a terra, smantellare gli impianti di comunicazione, colpire le truppe se non si ritireranno nelle caserme. Più in là non si può andare. Quanto alla negoziazione si può forse rilasciare un salvacondotto al raìs e ai suoi familiari. Se non ci sta, bisogna abbatterlo, ogni altra soluzione è impensabile, sarebbe fonte di trappole continue e di incontrollabili avventure.
A questa strategia vengono opposte due obiezioni. La prima sostiene che il mandato dell´Onu non può violare la sovranità di uno Stato che tra l´altro non ha invaso nessun altro paese. Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait però si ritirò subito dopo l´ingiunzione internazionale ma l´armata di Bush in nome dell´Onu lo inseguì fino a Baghdad, lo processò e lo giustiziò.
L´Onu di tanto in tanto assume le sembianze di uno Stato mondiale di fronte al quale le sovranità nazionali debbono cedere il passo. È avvenuto di rado ma alcune volte le sue risoluzioni hanno avuto questa valenza. In quante occasioni avremmo voluto l´esistenza di uno Stato mondiale nell´era della globalizzazione?
La seconda obiezione è: che cosa avverrà dopo? Una Libia senza un capo, senza una classe dirigente, sarà ancora governabile? Si dividerà in due, in tre, in cinque pezzi? Diventerà preda dei signori della guerra? E il suo petrolio? Le sue città? Le sue aziende? Gli investimenti esteri?
I pessimisti temono che la Libia senza Gheddafi sarà un´altra Somalia, nido di briganti e di pirati. È un destino che le ex colonie italiane facciano tutte questa fine?
* * *
Questa obiezione è più pertinente della prima. Non considera però che anche in Tripolitania e in Cirenaica esiste un ceto evoluto, esiste una rete di aziende produttive, un artigianato folto, una gioventù che aspira a cimentarsi con l´amministrazione e con la politica e una religione che fa da cemento sociale.
Bisogna accompagnare questa fase di rinnovamento, aiutarli a costruire uno Stato, un´amministrazione, una rete di commerci e di produzione. La Turchia può aiutare, l´Egitto può aiutare. L´Europa deve aiutare e l´Italia che ha responsabilità notevoli a causa di un antico e di un recentissimo passato con parecchi peccati da scontare.
Romano Prodi in una recente intervista ha tracciato una lucida visione del “che fare” nell´Africa mediterranea e in Libia in particolare. Parlava con la duplice esperienza di ex presidente del Consiglio e di ex presidente dell´Unione europea. Proponeva tra le altre cose trattati di associazione dei Paesi africani mediterranei all´Unione europea. Non ingresso nell´Unione per il quale non esistono le condizioni, ma associazione, amicizia istituzionalizzata a vari livelli secondo le condizioni politiche, sociali ed economiche di quei Paesi.
Queste proposte andrebbero riprese e messe con i piedi per terra. Il Mediterraneo è stato per millenni il centro del mondo atlantico. In tutte le sue sponde è un mare europeo e ancora di più lo è oggi con l´immigrazione che in questo Ventunesimo secolo cambierà la fisionomia etnica del continente. Flussi di persone e di famiglie, flussi di capitale e di investimenti, flussi culturali e religiosi, conquista di diritti, osservanza di doveri poiché ogni dovere suscita un diritto e ogni diritto comporta un dovere.
L´Italia ha una missione da adempiere e una grande occasione da cogliere. Noi ci auguriamo che ne sia    
all'altezza. Le esortazioni di Giorgio Napolitano ci siano, anche in questo, di insegnamento e di stimolo."


Chiosando l'articolo di Scalfari ci sembra importante aggiungere quanto segue:
I - Quanti insistono con l'agitare lo spettro di Al Qaida o sono degli imbecilli o sono in mala fede o entrambe le cose. Al Qaida e Osama Bin Laden hanno cessato di essere un'entità reale da parecchio tempo: agitarne l'influsso è già un improprio mezzo per dare giustificazione all'interminabile guerra in Afghanistan dove, in realtà, i cosiddetti terroristi sono un aspetto aggiornato del tradizionale spirito guerresco con cui gli Afghani di ogni etnia, generalmente impegnati a farsi la guerra tra loro, si uniscono compatti quando si tratta di cacciaredal loro paese un qualsiasi invasore. Di questo spirito fu vittima persino l'esercito macedone di Alessandro e, nel secolo XIX, l'esercito coloniale inglese che al Passo Kyber, riportò una delle più pesanti sconfitte degli eserciti coloniali europei (21 mila morti, un solo superstite). Anche gli strascichi della guerra americana in Iraq sono in realtà il retaggio degli antichi odi tra sunniti e sciiti e Al Qaida centra molto poco. Parlare di Al Qaida a proposito delle rivoluzioni arabe che si vanno allargando dall'Atlantico al Golfo Persico è ancora più demenziale. Certamente esistono componenti legate a una concezione integralistica dell'Islam, come ad esempio i Salafiti di Algeria; ma questi sono il retaggio di un carattere maggiormente oppressivo e sanguinario del colonialismo europeo: tipico il caso dell'Algeria dove, per altro le responsabilità maggiori delle sofferenze del popolo algerino vanno addebitate a una casta militare al potere che saccheggia senza pudore le grandi ricchezze di quel paese;
II - Giulietto Chiesa, giornalista per molti aspetti valoroso e documentato, compie un grave errore di valutazione nell'accusare gli americani di essere i registi occulti e via via sempre più manifesti dell'attacco internazionale al colonnello Gheddafi. In realtà il soggetto più attivo nel costruire il vasto fronte anti Gheddafi è 

stato il presidente francese Nicolas Sarkozy che ha fiutato con tempestività l'occasione per risalire l'impopolarità delle sue prudenze nei confronti delle rivolte contro Ben Alì in Tunisia e contro Mubarak in Egitto (oltre a quella, naturalmente taciuta di prendere il posto dell'Italia nel rapporto economico privilegiato con la Libia che verrà dopo Gheddafi). Giulietto Chiesa è prigioniero di un riflesso condizionato che gli deriva dai lunghi anni in cui si è distinto per il totale e pedissequo allineamento alle posizioni dell'Unione Sovietica: a quei tempi qualsiasi cosa capitasse nel mondo era colpa dell'America. In questo Chiesa ricorda l'atteggiamento di quegli ultra atlantisti che all'inverso addebitavano all'orso russo tutto il male che esplodeva nel pianeta. Questo riflesso condizionato anti russo sopravvive, al punto che quando l'irresponsabile governo georgiano ha bombardato un villaggio dell'Ossezia del Sud ammazzandovi 3000 persone di cui 500 con cittadinanza russa, scatenando l'ovvia e giustificata reazione delle forze armate russe che sono penetrate in profondità in territorio georgiano, in occidente non è mancato chi ha accusato i russi di aggressione;

III - Sono del pari raccontatori di favole per spaventare bimbi quanti paragonano i pericoli insiti nella situazione libica al caos che da decenni sconvolge la Somalia. In realtà, a differenza del Corno d'Africa, afflitto da miseria siccità, guerre intestine ed esterne e drammatica carenza di qualcosa che somigli alla classe dirigente di un'entità statale, la Libia è uno dei paesi arabi con il più alto reddito individuale annuo, non conosce disoccupazione ed emigrazione (ma, semmai assolve 2 milioni di immigrati con una popolazione di poco superiore ai 5 milioni) ma soprattutto dispone di una classe professionale e di livelli culturali di riconosciuto livello, in grado di svolgere funzioni manageriali nelle grosse entità multinazionali nelle quali il colonnello ha investito non piccola parte degli entroiti petroliferi della Libia.