lunedì 31 gennaio 2011

UN'OCCASIONE CHE PERDEREMO

Pubblichiamo un articolo pubblicato in data odierna (31 Gennaio) sulla Repubblica e a firma di Lucio Caraciolo. Lo proponiamo in particolare alla lettura di quei cialtroni che sognano di edificare al centro del Mediterraneo una invalicabile barriera all'influenza e alle genti che abitano sull'altra sponda del "mare nostrum".

L'occasione che perderemo
di LUCIO CARACCIOLO

  L'Egitto è un'occasione che perderemo. L'occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo  -  spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall'Occidente  -  che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto "normale", con un potere politico legittimato dal popolo.

Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l'avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.
L'Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del "nostro mare"? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo 
-  anzi, la condizione perché non si arresti?

Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato  -  via Frattini  -  nessuno se n'è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote". Stiamo perdendo l'occasione di incidere in una svolta storica  -  stavolta l'aggettivo è pertinente  -  che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.

Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L'ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.

Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo. Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l'Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia. Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.

Così abbiamo dimenticato che per secoli l'Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l'intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici.

Nell'Egitto khedivale l'italiano era lingua franca, usata nell'amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d'intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.

Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. E' storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie. Basterebbe poco per ravvivarle. Nell'immediato, anche un gesto simbolico.

A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: "La strada per Menfi e Tebe passa da Torino". Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell'identità egiziana. Quell'identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.

Eppure nell'immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l'Egitto sia un qualsiasi pezzo d'Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook  -  già ribattezzato Sawrabook, "libro della rivoluzione"  -  e rischiano la vita per la libertà?

Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della "repubblica ereditaria". Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. E' quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.
Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c'è più. L'Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.

STORIA DELL'ISLAM - L'IMPERO MOGHUL


Già nell'VIII si erano verificate invasioni islamiche in India, per lo più provenienti dall'Afghanistan; dall'inizio del XIII secolo prevalse tra gli altri il sultanato di Delhi (1206-1526), governato da una dinastia militare afghano-turca. L'Islam in India si distinse comunque fin dall'inizio per una grande varietà di comunità e gruppi legata agli insegnamenti, alle scuole, alle confraternite sufi e a singoli sceicchi.
Naturalmente l'Islam mostrò anche in India i tratti essenziali del modello degli ulema e dei sufi, pur non possedendo una classe dirigente musulmana compatta ne una comunità musulmana uniforme perchè qui i musulmani affrontarono la nuova esperienza di essere e di restare una minoranza, che dominava su una popolazione mai interamente convertita o tenacemente legata alle antiche religioni induiste. 
I sufi diventarono con il tempo l'elemento dominante, sia perchè erano sostenuti dall'autorità statale sia perchè in essi gli indù riuscivano a riconoscere i propri uomini santi o guru. La filosofia mistica di Ibn Arabi (1165-1240) corrispondeva molto alla mentalità indiana che insegnava infatti l'unità di tutto l'essere. Furono i sufi a impegnarsi più a fondo nell'integrazione nella vita islamica della lingua hindi, della musica e della poesia, a differenza degli ulema vincolati all'uso dell'arabo. L'hindi diventò la loro lingua corrente; essi ispirarono anche la nascita della lingua urdu, una versione dell'hindi che diventò la lingua musulmana in India ed è oggi la lingua ufficiale del Pakistan. I sufi mantennero anche una spiccata distanza critica nei confronti del potere, mentre gli ulema lo seguirono spesso in qualità di giudici, funzionari e insegnanti.
Nel XIV e nel XV secolo si diffuse in India una forma spiritualizzata di monoteismo, da cui provenne il guru Mamak, fondatore della religione dei Sikh. La sua grande visione portò al tentativo di unificare indù e musulmani sulla base di un monoteismo libero da immagini e legato alla dottrina della rinascita (Dio al di là di tutte le forme); il progetto ebbe successo solo in alcune regioni del paese ed infatti la corrente Sikh si diffuse soprattutto in Tunjab. Il tempio dorato di Amritsar divenne il suo santuario principale e la l'Abi Granth (primo libro), costituito per lo più da poesie e inni dei guru, si affermò come sacra scrittura.
Il regno indiano dei Moghul venne fondato all'inizio del XVI secolo durante le lotte per il dominio del sultanato di Delhi da Zahir Al-Din Muhammad Babur, un turco discendente in linea paterna da Tamerlano e per parte di madre da Gengis Khan, conquistatore insaziabile ma anche letterato molto sensibile: le sue memorie "Il libro di Babur" entreranno nella letteratura mondiale come una delle opere in prosa più belle e più ricche di contenuto. Nel 1504 Babur conquistò Kabul, nel 1506 Kandahar e nel 1526 l'intera India del nord, grazie a una cavalleria e una tecnica militare di qualità superiore. Dopo la caduta di Agra egli si fece proclamare imperatore dell'Hindustan nella mosche di Delhi, ma morì dopo soli quattro anni.
L'imperatore Moghul più significativo nell'India diventò dopo un periodo di disordini suo nipote Akbar il Grande (1542-1605). Egli spinse l'espansione territoriale a sud e a est con incalcolabile spargimento di sangue, e già a 34 anni si trovò a controllare un regno comprendente tutta l'India del nord fino a metà della penisola del Deccan. Akbar non fu solo un grande condottiere ma seppur fosse analfabeta fu anche molto efficiente nella rigida organizzazione dell'amministrazione, delle finanze, del sistema fiscale e dell'esercito che rimase sotto il suo diretto comando; anche l'arte e la scienza godettero del suo sostegno.
Akbar era stato educato da un guru, sposò a 19 anni una principessa indù durante un pellegrinaggio a Jaitur; la moglie poté continuare a praticare il proprio credo religioso e Akbar l'accompagnò addirittura a pregare nel tempio induista. Presto Akbar, grazie a una ineguagliata tolleranza nella sua politica religiosa, tentò un compromesso tra la piccola minoranza dominante dei musulmani e la grande maggioranza degli indù, vietò di ridurre in schiavitù i prigionieri di guerra, abolì le imposte pro capite, ammise gli indù alle cariche pubbliche. Per i molti popoli dell'India tra loro diversi non fu istituita una cultura esclusivamente islamica, ma una cultura cosmopolita che sviluppò uno stile indo-islamico anche nella pittura, nella musica, nella letteratura e nell'architettura. In breve la politica religiosa di Akbar fu "Pace per Tutti": le religioni del regno dovevano seriamente considerarsi tra loro come partner di egual valore che aspiravano alla loro conciliazione comune. Akbar espresse tutto ciò dando spazio a diversi simboli religiosi nella sua città palazzo a Ferehpur Sicri ad ovest di Agra. Dal 1575, nella "Casa del servizio divino" maestri delle varie religioni ebbero la possibilità di spiegare le proprie fedi e di discutere tra loro.
Questa politica tollerante venne criticata dai circoli degli ulema che uscirono spesso sconfitti nelle discussioni su questioni teologiche e pratiche. Akbar voleva essere un musulmano fedele al Corano: rafforzato da una profonda esperienza spirituale egli credeva in un unico Dio che può manifestarsi anche in altre religioni. Alle discussioni dei saggi musulmani, indù, giainisti e parsi presero parte anche missionari gesuiti di grande spessore intellettuale, che eressero presso la corte una propria cappella in cui potevano predicare e fare apostolato.
Sempre più pressato da esperti di religioni tradizionali in occasione di una disputa giuridica riguardante una controversa condanna a morte, Akbar si fece rilasciare dai sapienti un certificato che gli dava il diritto di decidere nelle dispute in qualità di ispettore della comunità dei credenti. Sicuro di sé, già da tempo legato a un ordine sufi, egli fondò a 40 anni un ordine mistico proprio ("Essere Uno Divino") al servizio di un'unica religione formata da elementi dalle religioni da lui conosciute. Gli ultimi anni dell'imperatore furono oscurati dalla ribellione del proprio figlio Salim. Akbar morì il 25 Ottobre 1605 dopo una grave malattia durata poche settimane. Egli aveva regnato quasi 50 anni e la sua influenza continua ancora oggi nell'ambito dei dialoghi inter-religiosi. La storia dell'umanità lo chiama a ragione "il Grande".
Akbar non si interessò mai a una legge che regolasse l'intera vita. La sua élite politico-militare era formata da Afghani, Iranici, Turchi, Arabi e Indù; non era determinante la religione, ma la lealtà. La sua religione di unità non doveva essere imposta e i membri degli ordini religiosi, grazie al loro legame con il sovrano, restarono un fattore importante per il mantenimento della dinastia Moghul. Nella sensibilità popolare indiana i confini tra i musulmani e indù restarono indefiniti; sembrava a molti che Dio fosse al di là della distinzione tra mosche e tempio e che si celasse in ogni forma. Sotto Akbar e i suoi discendenti Gahangir e Shah Jahan nacquero ad Agra e a Delhi le più costruzioni in assoluto dell'arte islamica, testimoni di un incantevole cultura di corte indo-persiana. Il nipote di Akbar, Shah Jahan, costruttore del Taj Mahal, sepoltura per la sua amata moglie e ancora oggi una meraviglia mondiale per l'architettura, inclinò più verso la legge islamica che verso il sufismo; tra la passione per le costruzioni e le enormi spese per la corte e l'esercito, oltre al disinteresse per i problemi dell'economia causarono presto serie difficoltà sociali. 

Il sistema classico del regno Moghul riuscì comunque a mantenersi fino all'oscuro regno di Aurangzeb (1658-1707). Sotto di lui il regno Moghul raggiunse la sua massima espansione ma andò anche incontro a una grave crisi economica. Aurangzeb intravide la salvezza nella rigida adesione ad una disciplina regolata dalla Sharia. Al posto di un'equiparazione dei diritti degli indù stabilì un esplicito dominio islamico, ma la sua crescita fu parallela a quella del regno indù sempre più potente dei Maratha, che prestò sarà un suo degno rivale. Aurangzeb odiava eretici e infedeli, evitava più possibile le feste indù ed escluse di nuovo gli indù dalle funzioni pubbliche combattendo sia gli sciiti che i sikh, i cui capi furono addirittura giustiziati. Egli vietò l'alcol, i giochi, la prostituzione e persino la musica a corte, ma soprattutto ordinò la distruzione di tutti i templi indù della regione. In questo modo il regno Moghul rimase prigioniero dal punto di vista religioso del più rigido schema medievale degli Ulema e dei Sufi, nonostante le sue paradossali pretese di modernità. Naturalmente si giunse presto alle rivolte degli indù e dei guerriglieri sikh che nel Punjab aspiravano ad un proprio stato e che per mezzo secolo riuscirono anche a ottenerlo con Lahore. Sul letto di morte il sovrano ammise il suo fallimento. Il superbo regno Moghul si trovava ormai in una condizione deplorevole e presto si sbriciolò in numerosi regni feudali.
Le forze coloniali europee si stavano preparando a sottomettere l'India. Dopo i portoghesi nel XVI secolo e gli olandesi nel XVII secolo, arrivarono i francesi e soprattutto gli inglesi. La compagnia delle indie orientali arrivò in India dal 1600 come organizzazione commerciale e riuscì ad accelerare la colonizzazione britannica nel XVIII secolo. Il primo metodo seguito dagli inglesi fu quello di tentare una pacifica convivenza con le popolazioni dell'India, non si opposero mai ai matrimoni misti, non operarono tentativi di conversione al cristianesimo ne adottarono comportamenti di razzistico aparteid, arrivando addirittura ad adottare il vestiario, gli arredi domestici e perfino le forme architettoniche dell'India contemporanea.
Tutto cambiò con la salita al trono britannico della regina Vittoria: l'India venne letteralmente invasa da una folla di missionari anglicani e calvinisti; i servizi segreti britannici non mancarono di costruire una "leggenda nera" sulla barbarie dei costumi indiani, letteralmente costruendo la leggenda degli strangolatori Thugs, terroristi seguaci della dea Kalì che in realtà ebbero esistenza solo nei romanzi di avventure, fornendo tuttavia il pretesto per spietate repressioni. Nel 1857 la misura era colma e la pazienza degli indiani di ogni fede religiosa aveva superato il limite estremo. Nei primi mesi dell'anno esplose all'improvviso una generalizzata rivolta che in pochi giorni eliminò tutti gli inglesi residenti in India. L'evento venne registrato nei libri di storia inglese con l'espressione "indian mutini" (ammutinamento indiano). A ribellarsi furono i Cipays e cioè i soldati musulmani indù che servivano nelle forze armate della compagnia delle indie. La rivolta venne repressa dai britannici con inimmaginabile ferocia (il comandante delle forze militari inglesi disse che per ogni inglese ucciso durante la rivolta almeno 1000 indiani dovevano essere giustiziati). L'India ritrovò una sua momentanea disperata ed eroica unità: richiamato sul trono l'ultimo imperatore Moghul, un mite guru che da anni si era ritirato in meditazione sulle montagne dell'Himalaya, organizzarono una resistenza accanita in ogni singola città e in ogni più piccolo villaggio. La capitale Delhi resistette con eroismo a un prolungato assedio e ad un massiccio bombardamento di artiglieria, ma per conquistarla i britannici dovettero praticamente raderla al suolo. La repressione provocò circa un milione di morti (solo a Delhi vennero passate per le armi 200.000 persone), decine di migliaia di prigionieri vennero uccisi legandogli a grappoli alle bocche dei cannoni. L'imperatore Moghul venne deposto e chiuso in prigione; e furono puniti con maggiore ferocia i musulmani, ingiustamente considerati responsabili della insurrezione.
Questi eventi furono decisivi per il ruolo del riformatore musulmano Ahmad Khan, che scrisse molti libri e articoli nel tentativo di convincere i britannici che i musulmani non erano stati i fautori principali della rivolta, provocata invece dai soprusi religiosi dei conquistatori. Egli intendeva educare i suoi compagni di fede a una comprensione tollerante e illuminata dell'Islam. Nel 1878 egli riuscì a fondare ad Aligarh il Muhammad College, organizzato secondo i modelli di Oxford e Cambridge. Egli comprese chiaramente, prima di ogni altro musulmano, la necessità di una rivalutazione radicale del pensiero religioso islamico per il progresso della scienza moderna e della filosofia. Il modernismo islamico diventò una possibilità aperta a molti proprio in India, prima ancora che in Egitto e nell'impero ottomano e non mancò di influenzare la predicazione non violenta del Mahatma Gandhi. 


sabato 29 gennaio 2011

E' NATA L'ASSOCIAZIONE MUSULMANI ITALIANI DI VICENZA DENOMINATA "ARTICOLO 19 - IN DIFESA DEI DIRITTI CIVILI"

In una affollata assemblea di quanti hanno sottoscritto la richiesta di adesione è stato approvato all'unanimità  lo statuto dell'associazione art. 19 -  In difesa dei diritti civili.
Ad essa possono aderire tutti i cittadini italiani di religione islamica nati in Italia o naturalizzati ai sensi delle vigenti disposizioni di legge.
L'associazione si propone di svolgere tutte le attività necessarie a dare ai cittadini musulmani il pieno godimento dei diritti garantiti dalla costituzione e in particolare dall'articolo 18, 19 e 20. L'associazione, inoltre ai fini di una totale integrazione dei cittadini di origine straniera, si propone di organizzare corsi di formazione storica e giuridica e, inoltre di rivendicare la pronta attivazione di servizi pubblici garantiti dalle leggi: in particolare la disponibilità di spazi cimiteriali acattolici e la possibilità di godere dell'insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche come alternativo all'insegnamento della religione cattolica. L'associazione è impegnata anche a formare persone, soprattutto giovani in grado di ricoprire con decoro e competenza cariche pubbliche elettive nei vari livelli delle istituzioni democratiche.
L'associazione disporrà a partire dal mese di Febbraio di una propria sede, dove, in relazione al suo carattere laico, non avranno luogo attività di culto religioso. La lingua ufficiale dell'associazione è la lingua italiana. L'assemblea ha eletto all'unanimità un organismo di direzione formato da tre fratelli:
- Domenico Buffarini, responsabile giuridico e portavoce
- Stefano Akran, segretario
- Hamou Feddag, responsabile iniziative culturali
Tale organismo ha carattere provvisorio e verrà successivamente allargato ed integrato fino a comprendere un responsabile giovani e un responsabile femminile.

venerdì 28 gennaio 2011

PARLIAMO ANCORA DELLA NASCENTE RIVOLUZIONE ARABA

Nel post pubblicato ieri abbiamo citato Mohamed El-Baradei già premio Nobel per la pace nel 1964 per l'onestà e la fermezza con cui, nonostante le pressioni e le minacce americane, diresse alla commissione dell'ONU che doveva indagare sul possesso "di armi di distruzione di massa" da parte dell'Iraq di Saddam e successivamente sul preteso "riarmo atomico" dell'Iran.

"Gli Usa e l'Europa abbandonino i regimi che hanno sostenuto"


"Due mesi fa in Egitto si sono svolte elezioni parlamentari truccate. Il partito del presidente Hosni Mubarak ha concesso all'opposizione soltanto il 3% dei seggi. La Casa Bianca si è detta "costernata". Beh, trovo stupefacente che l'America si limiti a esprimere "costernazione": un termine del tutto inadeguato a descrivere i sentimenti del popolo egiziano".
"Poi, mentre le proteste si ingrossavano ricalcando quelle tunisine, ho sentito il segretario di stato Hillary Clinton dichiarare che il governo in Egitto è "stabile e impegnato nella ricerca di una via per rispondere alle legittime necessità e agli interessi del popolo egiziano". Sono sbigottito e perplesso. Cosa intende la Signora Clinton per "stabile"? E a che prezzo? Si riferisce forse alla stabilità di 29 anni di legge di "emergenza", a un presidente con un potere imperiale da 30 anni, a un parlamento che è quasi una barzelletta, a un sistema giudiziario privo di ogni indipendenza? Tutto questo si chiama stabilità? No davvero!"
"Per chi cerca di capire perché gli Stati Uniti non godano di alcuna credibilità in Medio Oriente, questa è la risposta. La gente è rimasta profondamente delusa da come la Casa Bianca ha reagito alle ultime elezioni egiziane. Una volta di più, infatti, ha ribadito che usa due pesi e due misure con i propri "amici", e si schiera con un regime a dir poco autoritario solo perché crede che rappresenti i propri interessi. Assistiamo alla disintegrazione sociale, alla stagnazione economica, alla repressione politica; però ne americani ne europei pronunciano una sola parola".
"Perciò quando sento dire dalla Clinton che il governo egiziano sta cercando un modo per rispondere alle richieste della popolazione, io ribatto: "E' troppo tardi". Non è nemmeno una buona Realpolitik. Abbiamo visto la Tunisia, e prima ancora l'Iran. Ci fanno capire che non può esistere stabilità se non è il popolo stesso a scegliere liberamente il proprio governo".
"Ma certo, l'Occidente crede ciecamente che il mondo arabo non abbia altra opzione che quella dei regimi autoritari da contrapporre ai regimi "Jihadisti". Ciò è falso. Se parliamo di Egitto, c'è un arcobaleno di personaggi laici, liberali, fautori del libero mercato: se solo potessero organizzarsi, eleggerebbero un governo moderno, moderato e democratico".
"Invece di equiparare sempre l'Islam politico ad Al Qaeda, guardate meglio: l'Islam è stato snaturato pochi decenni dopo la morte del Profeta e interpretato affinché chiunque regni goda di un potere assoluto, e che risponda soltanto a Dio; e per la verità, in questo il mondo islamico non è stato molto diverso dal mondo cristiano europeo, se non per il fatto di avere una ben maggiore tolleranza religiosa. Ma in Europa occidentale e negli Stati Uniti la democrazia è stato un frutto che ha tardato molto a nascere ed è costato immensi sacrifici, guerre rovinose e grandi lotte popolari".
"Un gruppo di musulmani egiziani ultra conservatori ha emesso una fatwa, un editto contro di me, esortandomi al pentimento per aver fomentato l'opposizione a Mubarak e dando licenza al governo di uccidermi. in questo modo ripiombiamo nel più profondo Medioevo. Che nessuna parola si sia levata dal governo egiziano non deve meravigliare; ma nemmeno una voce si è levata tra gli "appassionati" difensori dei diritti umani in Occidente".
"Eppure speravo in un cambiamento con metodi pacifici. Abbiamo raccolto un milione di firme per una petizione a favore di riforme democratiche. Il regime ci ha ignorato. Ora i giovani hanno esaurito la pazienza quel che oggi accade in Egitto è stato organizzato da loro soltanto con le proprie forze. Io sono rimasto fuori dal paese perché ho ritenuto che fosse l'unico modo per essere ascoltato. Ma ora torno, e scendo anche io in piazza. Non vi sono alternative. Per la gente non è più possibile collaborare col governo di Mubarak che ha 82 anni ed è al potere da 30. E' giunta l'ora di cambiare. Gli egiziani hanno abbattuto il muro della paura e nulla potrà più fermarli".
                                                                                                              
                                                                                                                              Mohamed El-Baradei

Le parole di Baradei non hanno bisogno di un lungo commento. E' stata una regola non scritta ma inossidabile ad orientare da sempre le politiche occidentali verso i regimi post coloniali in Africa e in Medio Oriente: "Meglio un dittatore amico che il caos fondamentalista". Quel che l'Occidente non ha mai avuto il coraggio di confessare è tuttavia un'altra regola: "Meglio un dittatore che un governo democratico non amico". Seguendo questa regola non scritta e nascosta dalla sua ipocrisia l'Occidente ha regalato ai paesi arabi tiranni della peggiore specie, gli ha vezzeggiati e sostenuti in ogni modo evocando sempre lo spettro del fondamentalismo islamista (fingendo oltretutto di dimenticare che quest'ultimo è nato e cresciuto con il suo appoggio per combattere il "comunismo".
Che siano capi di governo o grandi aziende a volte più influenti dei governi, i leader americani ed europei distinguono accuratamente tra principi ideali e prassi reale. Pur proclamando ideali eterni e universali, gli ignorano qui e ora, in nome della "sicurezza nazionale". Contro il terrorismo e contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa, per aver garantiti gli approvvigionamenti energetici, l'importante non è la qualità del regime cui ci si appoggia, ma il risultato immediato conseguito. Non credo che i governanti dell'Occidente abbiano cambiato idea; ma forse cominciano a dubitare della fondatezza delle verità sostenute, perché sono i fatti che stanno cambiando in modo tale e tanto rapido da mettere in discussione decenni di doppiezza ed ipocrisia. Forse debbono cominciare a pensare che non è davvero utile aggrapparsi a regimi che rischiano di essere spazzati via dalla lotta popolare. I governi occidentali hanno ancora la possibilità di influenzare gli eventi: o mantenere lo status quo o, peggio sostenerlo, magari alimentando lo spettro che più dicono di tenere.
Quasi nessuno si aspettava il rapido crollo del regime di Ben Alì. Fino a un minuto dopo la sua fuga il governo francese e quello italiano sembravano paralizzati all'idea che lo scenario introiettato per decenni in un'area relativamente minore della sfera di influenza nord africana non vigesse più. Ma la scintilla tunisina rischia ormai di incendiare l'intera regione. Nessun regime autocratico arabo si sente più al sicuro, a cominciare da quello più strategico, l'Egitto: uno stato autoritario con una sottile vernice pseudo democratica, con 80 milioni di abitanti di cui milioni di giovani senza lavoro e senza futuro, ostaggi del trentennale regime di Mubarak. Garante ben remunerato degli Stati Uniti e di Israele contro la pericolosa "deriva islamista" incarnata dai "fratelli musulmani". Mubarak poteva credere con fondamento fino a ieri di poter trasmettere il suo scettro al figlio Gamal, in omaggio al principio della successione dinastica. Come un faraone di altri tempi. Questa prospettiva è oggi del tutto improponibile. E le rivolte di piazza che hanno rovesciato Ben Alì in Tunisia e oggi scuotono dalle fondamenta il regime egiziano dilagano in tutto il Mediterraneo: dall'Algeria alla Mauritania, dal Libano all'Albania; ma non mancheranno di scuotere il potere quarantennale di quel colonnello da burla a nome Gheddafi in Libia, fidato partner di Berlusconi e complice della criminale politica contro gli immigrati voluta dalla Lega di Bossi.

giovedì 27 gennaio 2011

FRATELLI E SORELLE! DIO SIA CON VOI! DIO SIA CON VOI!

La numerosa pletora di cialtroni, reazionari, guerrafondai e cripto criminali che in tutti questi anni, partendo dalla tragedia dell'11 Settembre hanno prima teorizzato e poi tentato di praticare uno scontro tra civiltà e una guerra reale contro i paesi musulmani sono in gravi ambage. Le rivolte che scuotono il mondo arabo, dalla Mauritania fino al Libano (ma coinvolgono in notevole misura anche un paese europeo come l'Albania) sono con ogni evidenza una variante imprevista della storia che, non potendo sfuggire all'attenzione del Creatore, il Clemente e Misericordioso non possono che finire con il confluire nell'affermazione di valori positivi universali come quelli che mobilitano milioni di giovani musulmani in Algeria, Tunisia, Mauritania, Egitto, Libano e Yemen: democrazia, giustizia, onestà in chi governa, diritti, lavoro. Provo a immaginare lo sconcerto dei vari "teocom", che a suo tempo furono lo scomposto coro che incitò Bush ad intraprendere la disastrosa guerra in Iraq con il pretesto di combattere il terrorismo fondamentalista islamico e di distruggere le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, che come è noto non esistevano, devono considerare con estrema vergogna il fatto che è ormai accertato come l'uomo politico emergente che è il riferimento di fatto dei moti anti Mubarak egiziani è quel signore, Al-Baradei, che per anni è stato incaricato di scoprire quelle armi che non esistevano e che ha sempre ribadito con grande tranquillità, nonostante le minacce ricattatorie e qualche velata minaccia di morte, che sarebbe stato un atto di irresponsabile violazione dei deliberati dell'ONU condurre una guerra di aggressione contro l'Iraq. Al-Baradei ha sempre dimostrato nello svolgimento di una funzione affidatagli dall'ONU di essere un uomo moderato e capace di sereni giudizi. Egli rifiutò di avallare la menzogna sulle armi di Saddam, ma nello stesso tempo non ha neppure accettato di esagerare oltre il reale il pericolo atomico rappresentato dall'Iran. Il fatto che quest'uomo sia oggi il punto di riferimento della prima grande rivoluzione democratica che scuote il più grande paese del mondo arabo crea qualche problema. Come si fa a dire che i milioni di giovani che chiedono democrazia, lavoro e giustizia e si battono per cacciare dal potere governanti autoritari, corrotti, ladri, liberticidi, abbiano alle spalle i sostenitori di Al Qaeda? Forse è l'impossibilità di sostenere una tesi che susciterebbe il riso anche nei polli che costringe il governo italiano prima ad esprimere l'auspicio che in Tunisia resti al potere un personaggio come Ben Alì, socio in affari dell'ineffabile presidente del consiglio italiano (la televisione di stato tunisina è gestita da mediaset e non citiamo qui quell'ormai noto uomo d'affari tunisino che fa da intermediario negli affari intercorsi tra il dittatore tunisino e il nostro premier), e poi a chiudersi in un pudico silenzio. E forse è lo stesso motivo che induce al silenzio il nostro presidente del consiglio e il ministro degli esteri Frattini a tacere di fronte alla rivolta del popolo albanese contro quel Sadi Belisha diventato presidente dell'Albania grazie ai brogli elettorali e grazie al massiccio sostegno propagandistico delle reti televisive "berlusconiane". Fortunatamente gli albanesi hanno una memoria più lunga di gran parte degli italiani e non hanno dimenticato che il pupillo albanese del monarca di Arcore fu il primo presidente dell'Albania liberata dalla dittatura di Ender Oxa e utilizzò la carica per costruire una gigantesca truffa finanziaria che ridusse alla miseria centinaia di migliaia di famiglie albanesi. E veniamo all'Egitto travagliato da troppi decenni da una crisi economica e sociale che ha provocato milioni di disoccupati, ha ridotto alla fame milioni di egiziani e altri milioni ne ha costretti all'emigrazione. Osni Mubarak è il dittatore di fatto del più grande paese di lingua araba: oggi è incerto tra il ripresentarsi alle elezioni in un contesto di capillare vigilanza repressiva poliziesca per ottenere un ennesimo mandato oppure passare il testimone da faraone al proprio figliolo primogenito. Ma non sembra che i giovani e i meno giovani egiziani siano disposti a subire l'inganno. E non è da escludere che non pochi di essi non abbiano potuto dimenticare che nei giorni in cui Israele bombardava con le bombe al fosforo gli abitanti di Gaza e gli affamava con un blocco totale esteso anche alle acque del mare, Mubarak ordinava che un blocco altrettanto severo venisse posto alla frontiera con la striscia, con ciò rendendosi di fatto complice attivo di uno dei più criminali atti di guerra compiuti dallo stato sionista. Ma Dio, oltre che Clemente e Misericordioso è anche giusto. E le ingiustizie prima o poi si pagano. Come dice il Corano "Dio presenta sempre i suoi conti".
La rivolta sta investendo anche un altro dittatore caro all'occidente, Saleh, pseudo presidente da oltre 20 anni dello Yemen, dedito anch'egli al saccheggio del suo popolo poverissimo, ma sistematicamente appoggiato dall'occidente e in particolare dagli americani, perchè viene considerato un baluardo contro il fondamentalismo islamico. E finiamo il giro parlando dell'Algeria. Data la mia non più tenera età servo il ricordo entusiasmante di una visita che uno dei leader della rivoluzione anti coloniale algerina, combattuta per decenni dal popolo algerino con un eroismo e una tenacia che trovano scarsi riscontri nella storia (oltre un milione di morti su una popolazione di dieci milioni), ci fece l'onore di fare all'università di Roma nell'aula magna della facoltà di giurisprudenza. Quel leader si chiamava Ferhat Abbas: egli ci ringraziò con semplici parole, dicendo che le speranze di vittoria del suo popolo poggiavano sul sostegno dei giovani europei, e in particolare degli italiani che avevano combattuto lungamente nel loro risorgimento per liberarsi dai dominatori stranieri. A nome di tutti noi rispose quel grande uomo della sinistra italiana che è stato Vittorio Foa, a quei tempi segretario aggiunto della Cgl: "Caro fratello Abbas non sei tu, che devi ringraziare noi. Ma siamo noi italiani ed europei che dobbiamo ringraziare te e il tuo popolo, perchè la vostra lotta è un ineguagliabile e insostituibile sostegno alle lotte dei lavoratori, dei giovani, dei democratici perchè anche in Europa si affermino fino in fondo i valori per i quali combattete: libertà, autodeterminazione dei popoli, giustizia e dignità". Quel ricordo mi torna prepotente alla mente oggi; perchè nonostante la rivoluzione algerina sia stata vittoriosa e si sia conclusa con indipendenza  proclamata il 4 Giugno 1962, una dittatura di fatto di una classe politica corrotta mantiene in uno stato di intollerabile povertà un paese ricchissimo di risorse, gestite in maniera a dir poco irresponsabile da un gruppo ristretto di potere dimentico degli immani sacrifici che un eroico popolo ha dovuto affrontare nel secolo scorso. Ma noi siamo certi che quella gloriosa eredità finirà per vincere di nuovo e anche per gli Algerini vi sarà libertà, democrazia e lavoro.
Naturalmente ci aspettiamo che i soliti "gufi" portatori di sfortuna presto grideranno "Al lupo! Al lupo!" e si inventeranno l'influenza della "longa manus" del fondamentalismo islamico.
Non si rendono conto questi imbecilli, che ad alimentare l'estremismo pseudo islamista sono proprio le "democrature" sostenute da sempre dall'occidente democratico. Ma in nome di Dio Clemente e Misericordioso la vittoria della giustizia verrà.

mercoledì 26 gennaio 2011

STORIA DELL'ISLAM: L'impero Ottomano "II"

Dopo la presa di Costantinopoli da parte di Mehmed II, che si considerava anche successore dell'imperatore bizantino, di cui adotto numerosi costumi, la forza espansiva degli ottomani non ebbe più limiti. Il XVI secolo conobbe una nuova espansione molto aggressiva. Il sultano venne glorificato come principe della guerra, califfo e conquistatore imperiale. Sotto la consolidata dinastia del sultano nacque uno stato militare amministrativo organizzato razionalmente e in modo centralizzato, in tutto simile ai grandi stati europei del momento (Spagna, Francia e Inghilterra). Al vertice del potere esecutivo (governo del sultano) vi era un gran Visir e i singoli ministri cioè i Visir. Il regno degli ottomani diventò una potenza in grado di contendere alla pari con le grandi potenze europee: il suo nucleo era un esercito dotato di una artiglieria modernizzata e della fanteria scelta dei Giannizzeri mentre l'Islam sunnita era religione di stato.
Il sultano Serin I (1512-1520) fu il vero fondatore dell'impero che conquistò il dominio marittimo sul mediterraneo orientale, l'Azerbaijan, la Mesopotamia del nord, la Siria e l'Egitto. I Mamelucchi, dominatori militari della Siria e dell'Egitto e allungo baluardo politico religioso e culturale contro i mongoli dovettero cedere di fronte agli ottomani perchè privi di artiglieria. Nei decenni successivi la supremazia ottomana si estese anche in Arabia, nelle città sante della Mecca e di Medina, nello Yemen e negli stati del nord Africa fino al Marocco: un potente regno esteso dall'Iran al mediterraneo occidentale e dall'Ucraina allo Yemen. Dopo la caduta dell'ultimo califfo mamelucco al Cairo nel 1517 il titolo di califfo per il sultano ottomano, già rivendicato in precedenza, non fu più contestato. Ora il sultano incarnava non solo l'autorità patrimoniale ottomana e quella islamica come protettore dei luoghi santi, ma anche l'autorità imperiale, che si fondava su una cultura cosmopolita formata da elementi arabi, persiani, bizantini ed europei. I Turchi con i loro governatori e le loro truppe presenti ovunque erano subentrati agli arabi come popolo privilegiato dell'Islam, mentre i popoli dei Balcani non ebbero più alcuna possibilità di ricoprire ruoli politici autonomi nei secoli successivi.
L'unico figlio del sultano Serin, Suleyman il Magnifico (1520-1566) consolidò lo stato al suo interno, riorganizzò l'esercito e costruì sontuose moschee: una di esse, costruita a Istanbul, viene considerata la più bella opera architettonica di tutti i tempi, con la sua cupola traforata da grandi vetrate luminose che lasciano piovere il Sole nell'ordine geometricamente perfetto delle colonne, quasi a simboleggiare l'essenza dell'Islam, che è insieme Luce di Dio e Forza della Ragione.Suleyman estese il regno verso Baghdad, Bassora e il   Bahrein alleatosi con la Francia cristiana, marciò contro l'imperatore cristiano Carlo V, giungendo persino, dopo l'occupazione del regno di Ungheria in seguito alla battaglia di Mohacs del 1526, ad assediare Vienna,capitale del ragno Asburgico, nel 1529. Suleyman morì nel 1566 durante l'ennesima campagna per conquistare l'intera Ungheria; pochi anni prima di morire adottò come legge regolatrice del diritto civile il Codex Iustinianeus, e cioè il diritto romano. Il suo successore, Murad III non fu all'altezza del padre, anche se riuscì a conquistare l'isola di Cipro, sottraendola al dominio dei veneziani. Nel 1571, la flotta ottomana fu sconfitta nella battaglia di Lepanto contro un'alleanza cristiana formata da Venezia, Asburgo e Papato; ma il sultano commentò beffardo: "A Lepanto i cristiani mi hanno tagliato qualche pelo di barba, ora io gli taglierò qualche mano e procedette così alla conquista del Peloponneso e della Grecia fino al confine albanese. Gli fallì invece il tentativo di conquistare l'isola di Malta eroicamente difesa dai cavalieri che da essa prendevano il nome.
Se il XVI secolo era stato il secolo dell'espansione, il XVII fu quello della difesa. Un secondo assedio di Vienna nel 1683 terminò di nuovo con un fallimento, e cioè con la sconfitta di Kahlenberg. L'avanzata dei Turchi era stata definitivamente arrestata: l'impero ottomano aveva esteso eccessivamente la propria forza, commettendo così un errore comune a tutti gli imperi di dimensione mondiale. Il sultano riuscì sempre meno a mantenere la disciplina nel suo grande esercito e soprattutto trovò sempre più difficile finanziarlo. In tal modo il XVIII secolo fu il secolo dei "contraccolpi" anche perchè al posto degli imperatori romano-germanici ora era lo zar russo il nemico principale degli ottomani. Maometto IV dovette piegarsi a Vienna con la pace di Carlowiz (1699). Dopo alcuni tentativi di riconquistare le posizioni perdute, la pace di Passarowitz costrinse gli ottomani a cedere parte della Serbia e della Moldavia. Nel corso del XIX secolo l'impero ottomano dovette lottare contro le tendenze autonomiste e indipendentiste sorte nel suo ambito che portarono all'indipendenza della Grecia, della Serbia, della Romania e della Bulgaria e da massima potenza mondiale si ridusse ad essere considerato "Il Grande Malato" di cui le potenze europee erano ben ansiose di spartirsi le spoglie. Nel 1842 i francesi partirono alla conquista dell'Algeria e più tardi della Tunisia; persino l'Italia gli dichiarò guerra nel 1911 e gli sottrasse il dominio di Libia e le isole greche del Dodecanneso. Estremamente disastrose furono le guerre contro i popoli balcanici (1912-1913) e, infine la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale al fianco degli imperi centrali da cui uscì duramente sconfitto. Nel 1923 il movimento nazionalista guidato da Mustafà Kemal Ataturk dichiarò decaduto il sultanato e proclamò la Repubblica.

Se ci siamo soffermati sulle vicende dell'impero ottomano è perchè esse ci permettono di demolire alcuni dei pregiudizi e dei luoghi comuni sistematicamente usati contro l'Islam:
A - La grandezza e la potenza dell'impero ottomano, che è stato per 2 secoli la massima potenza politica, militare ed economica delle terre ad ovest dei monti Urali, dimostra che l'Islam è perfettamente compatibile con il cosiddetto paradigma statuale dell'Europa occidentale; non vi è alcuna incompatibilità tra religione musulmana ed esistenza di uno stato modernamente amministrato e governato che, oltretutto è in grado di assimilare il meglio delle civiltà con cui viene a contatto;
B - L'impero ottomano, nonostante il suo nucleo di potenza militare, è stato sostanzialmente rispettoso della religione dei popoli conquistati, gran parte dei quali, dai Greci ai Bulgari, dai Rumeni ai Serbi sono rimasti fedeli alla religione cristiana ortodossa. Persino a Costantinopoli la minoranza greca ha goduto di grande potere economico di cui era espressione il leggendario quartiere del Fanar. Quando i Turchi conquistarono quella che è oggi la Bosnia trovarono fra le montagne folle di miserabili straccioni che cercavano rifugio negli anfratti e nelle grotte. Si trattava dei Bogomili, un'eresia cristiana simile a quella dei Catari e degli Albigesi di Provenza, dei Valdesi del Piemonte e degli Hussiti di Boemia, ferocemente perseguitati e quasi sterminati dai cattolici. I Pascia Turchi chiesero ai derelitti perchè vivessero in quelle condizioni quasi animalesche, e il Bogomili risposero che erano costretti a vivere nelle foreste perchè se scendevano a valle cattolici e ortodossi avrebbero fatto a gara per massacrarli come eretici. I Pascia e gli Ulema musulmani dissero che se essi erano seguaci del grande Profeta Gesù figlio di Maria non avevano nulla da temere dai fedeli della Mezzaluna. Ecco perchè oggi in Bosnia vi sono 2 milioni di musulmani;
C - Leggende prive di fondamento cercano di accreditare ancora oggi la tesi che la Turchia non può entrare nella comunità europea perchè il modo di sentire dei Turchi è troppo lontano dalle radici della civiltà d'Europa. Riportiamo allora a mò di conclusione la testimonianza tratta dal poeta greco Giorgio Seferis dal diario di viaggio di un commerciante turco nella Grecia del XVI secolo: "Ho visitato tra le altre meraviglie Atene, che un tempo era una grande e meravigliosa città molto popolosa e piena di marmi pregiati e di insigni monumenti. Oggi essa è ridotta a un piccolo villaggio popolato da poveri contadini e miseri pastori; e tuttavia tra le sue rovine, è possibile vedere meravigliose statue scolpite nel modo dei Franchi. La loro bellezza è tale che nel contemplarla il cuore batte più forte, le gambe tremano e gli occhi si riempiono di lacrime...". Lo voglia o no il barbaro Borghezio e gli altri barbari come lui, la Turchia islamica è a tutti gli effetti una componente essenziale dell'Europa.

martedì 25 gennaio 2011

STORIA DELL'ISLAM - L'IMPERO OTTOMANO

Il crollo di Bisanzio, seguito al saccheggio di Costantinopoli ad opera della IV Crociata cristiana nel 1204, favorì già dai primi decenni del secolo l'affermazione della potenza turca in Asia minore. La frammentazione dell'autorità bizantina rese possibile la costituzione del regno Selgiuchide di Rum nell'Anatolia occidentale e lo stabile insediamento di popolazioni turche e turcomanne, spinte dalle conquiste mongole nella regioni persiane e siriane.
Queste popolazioni, organizzate in tribù, tendenzialmente nomadi e di forte impronta guerriera, sottrassero a Bisanzio vasti territori, così contribuendo alla rapida ascesa del regno Selgiuchide. Quando le ripetute incursioni mongole del 1240 ridussero progressivamente il regno di Rum a un protettorato dei Mongoli, le popolazioni turche dell'Anatolia si organizzarono in un sistema di confraternite religiose, noto come "Akbis", ispirate alla comune fede nell'Islam e a particolari devozioni mistiche e ascetiche. Le confraternite sopperirono all'assenza dei governi municipali seguita alla disgregazione del potere Selgiuchide e all'indifferenza dell'autorità mongola, e assunsero direttamente funzioni sociali, amministrative e di controllo del territorio. A partire della seconda metà del XIII secolo da questa esperienza nacquero ben presto piccoli principati, la cui struttura era saldamente fondata sulla potenza militare delle confraternite. A una di queste, la confraternita "Ghazi" appartenevano anche i fondatori del principato ottomano, che prese il nome dal secondo sovrano del regno, Osman, succeduto nel 1281 al padre Ertoghrul, al qualche i Selgiuchidi avevano affidato dal 1260 il governo della regione di Suyut perchè la difendesse dai bizantini e ne estendesse il territorio.
Il regno ottomano si distinse dagli altri principati turchi dell'Anatolia occidentale per la sua posizione di frontiera, a stretto contatto con i territori di Bisanzio. Le mire espansioniste del regno verso occidente, ben presto assecondate da Osman, rispondevano al fervore spirituale della confraternita Ghazi, tesa alla diffusione dell'Islam e alla lotta contro gli "infedeli".
Nei primi decenni del IV secolo il regno si estese fino alle coste del Mar Nero e dal Mar di Marmara, determinando l'accerchiamento da oriente di Costantinopoli. Il successore al trono, Orkhan, allargò i confini del principato, conquistò la città di Bursa nel 1326, facendone la nuova capitale del regno e avanzò verso Bisanzio conquistando Nicea e Nicomedia nel 1337.
Orkhan predispose quindi una riforma strutturale delle proprie milizie, fino ad allora composte da guerrieri nomadi; formò un esercito regolare, in parte mercenario che mise sotto la guida dell'aristocrazia turca e sviluppo un'amministrazione dello stato fondata sul carattere militare e religioso del potere, in linea con la tradizione Selgiuchide. Il sovrano, infatti era ancora sostanzialmente un capo tribale, la cui autorità dipendeva dai successi militari ottenuti; ma nell'organizzazione del principato la sua centralità era indiscussa. Lo stato era considerato proprietà della famiglia regnante; l'amministrazione dei territori del regno era affidata ai figli del sovrano, i quali legavano a se le gerarchie militari ricompensandole dei propri servizi con parte dei territori da essi controllati. A capo di questa articolazione accentrata il principato incorporò pacificamente l'emirato turco di Karasi nel 1345, che disponeva di un'equipaggiata flotta marittima. Nel 1353 Orkhan attraversò finalmente lo Stretto dei Dardanelli e l'anno successivo occupò Gallipoli facendone la base per le successive spedizioni militari nel continente europeo.

La formidabile crescita della potenza ottomana a partire dalla seconda metà del secolo è dovuta alla grandezza politica e militare del successore al trono del principato, Murad I, primo sovrano ottomano al quale nelle iscrizioni venne attribuito il titolo di sultano. Murad proseguì rigorosamente la guerra contro gli "infedeli" conquistando tutti i territori bizantini situati ad ovest di Costantinopoli. Adrianopoli, seconda città bizantina cadde nelle mani del sultano nel 1361. 10 anni più tardi, l'esercito guidato da Murad sconfisse Bulgari e Serbi sul fiume Marizza nella Tracia centrale, aprendo la via all'avanzata ottomana nell'Europa sud-orientale, dove le armate turche sbaragliarono definitivamente la tenace resistenza balcanica nella celebre battaglia di Kosovo Poljie del 1389, in cui il sultano perse la vita nonostante la vittoria, ma l'aristocrazie serba venne praticamente sterminata.
Bisanzio venne risparmiata per l'insufficienza dell'equipaggiamento dell'esercito turco, che non disponeva ancora di un adeguato arsenale per organizzare un assedio della città. Il sultano si rivolse anche verso oriente, consolidò il potere ottomano in Anatolia e perseverò nella politica conciliante inaugurata da Orkhan. Con una avvenuta strategia diplomatica l'impero incorporò la città di Ankara, sottratta all'autorità della confraternita Akhis e ottenne il controllo del porto mediterraneo di Antaliya.
L'espansione territoriale del principato e la distanza dei nuovi confini dalla capitale Bursa rese presto necessaria una più struttura organizzazione dello stato, che risentì pesantemente dell'influsso bizantino. L'amministrazione centralizzata dell'impero perse il carattere tribale delle origini, sostituito da un'articolazione complessa delle competenza e delle funzioni governative, al cui vertice vi era il "consiglio del governo" (Divan), cui concorrevano i diversi dipartimenti delle amministrazioni, coordinati da un Gran Vizir, nominato direttamente dal sultano. Venne inoltre costituito un capillare sistema di imposizione fiscale, la cui efficienza era radicata nell'istituto feudale del "Timar", mediante il quale lo stato conteneva le onerose spese derivanti dal mantenimento di un esercito formato in gran parte da mercenari. Per contrastare il potere dell'aristocrazia turca Murad affiancò alle milizie regolari un corpo militare, i Giannizzeri, formato in parte da prigionieri di guerra liberati e in parte da giovani cristiani dei Balcani, convertiti all'Islam, ai quali il sultano affidò la riscossione delle tasse nei territori dell'impero. In tal modo si costruì un ramificato sistema amministrativo nel quale i territori sottomessi all'autorità ottomana divennero vassalli del sultano, obbligati a versare un tributo annuale e a prestare assistenza militare all'esercito imperiale. Il governo delle provincie dell'impero rimase in gran parte nelle mani delle autorità amministrative originarie che godevano di ampia autonomia nella gestione del territorio e delle popolazioni poste sotto la loro guida. Questo decentramento del governo dei territori imperiali scongiurò la rivolta dei popoli sottomessi e consentì agli Ottomani di imporre la propria autorità senza edificare nuovi sistemi amministrativi e senza gravosi oneri delle casse imperiali.

Bayazid I, uno dei due figli di Murad, salì al trono imperiale alla morte del padre dopo aver eliminato il fratello e inaugurò la rigida prassi della indivisibilità della eredità ottomana. Il nuovo sultano, ancora più sensibile, all'influenza della cultura bizantina, introdusse un regolamento di etichetta per la corte imperiale inimicandosi in tal modo la confraternita Ghazi, fedele a un rigore spirituale molto lontano dal lusso e dalle raffinatezze delle corti occidentali.
Bayazid intraprese una politica militare ancora più aggressiva di quella del predecessore, il cui esito fu la completa affermazione della supremazia ottomana sugli stati cristiani dell'Europa orientale. Nel 1393 il sultano conquistò Tarmolo, capitale del regno Bulgaro, e vi installò la prima amministrazione guidata da funzionari ottomani. Egli estese poi l'autorità imperiale in Anatolia annettendo il principato turco di Karaman tra il 1391 e il 1397, interrompendo la politica diplomatica fino allora perseguita dagli ottomani verso i regni musulmani, in favore di una strategia espansionista indifferente all'etnia o alla religione degli avversari.
Nel 1395 il sultano attaccò il regno di Ungheria. Nello stesso anno iniziò l'assedio di Costantinopoli che Bayazid fu costretto ad interrompere per la reazione dei regni cristiani di occidente schieratisi a fianco del re di Ungheria, Sigismondo. Dinanzi alle ambizioni del sultano, il mondo occidentale organizzò un imponente impresa crociata, alla quale parteciparono tutte le nazioni cristiane, ma nella notevole potenza militare, ne la determinazione dei crociati riuscirono a fermare l'avanzata turca. Il 22 Settembre 1396, a Nicopoli sul Danubio, l'esercito cristiano subì una disfatta senza precedenti che confermò ancora una volta la straordinaria fama d'invincibilità della potenza ottomana.
L'avanzata della potenza ottomana verso occidente e in Asia minore, furono sconvolte all'inizio del nuovo secolo dall'intervento delle armate mongole guidate da Tamerlano, che regnava nella vicina regione persiana sin dal 1380 e che nei primi mesi del 1400 conquistò Baghdad. Quanto già avvenuto al regno Selgiuchide di Rum, crollato di fronte alle devastazioni provocate dalle incursioni mongole in Anatolia, nella seconda metà del 200, sembrò inizialmente ripetersi per l'impero ottomano. Le ambizioni espansionistiche di Bayazid I destarono l'attenzione della potenza mongola, infastidita dall'ingombrante presenza ottomana in regioni appartenuta all'Illkhan. Tamerlano sollecitato dai principi turchi che si erano arresi all'autorità del sultano, entrò in Anatolia e occupò Sivas, sbaragliando facilmente gli ottomani indeboliti dalla defezione dei guerrieri della confraternita Ghazi che detestavano il sultano per i suoi comportamenti "europei" e per uno stile di vita molto distante dal vigore dell'Islam. Ben più grave fu la sconfitta subita dagli ottomani ad Ankara dove Bayazid fu fatti prigioniero; nello stesso anno la capitale dell'impero Bursa, fu sottoposta a saccheggio e la popolazione massacrata. Il sultano si tolse la vita nelle carceri mongole con ciò sancendo la grave crisi della mezzaluna.
Nonostante il grande momento di difficoltà, molto presto la crisi dell'impero si rivelò solo parziale. La potenza ottomana uscì dalla disfatta subita molto ridimensionata in Asia minore dove i principi turchi riacquistarono la propria indipendenza; la mezzaluna conservò soltanto la regione di Bursa, corrispondente al territorio del principato ottomano delle origini. Al contrario le province occidentali dell'impero rimasero fedeli all'autorità del sultano probabilmente per un fondato timore del suo potente esercito. Il successivo decennio di stabilità, dovuto ai conflitti dinastici tra i figli del sultano, non provocò comunque alcun crollo dell'impero che anzi superò indenne il momento di debolezza, soprattutto per l'assoluta disorganizzazione dei regni cristiani, rimasti completamente passivi di fronte alla crisi della Mezzaluna.
Nel 1413 uno dei figli di Bayazid, Mehmed I riunì il potere dello stato nelle sue mani grazie al prezioso sostegno delle confraternite Ghazi spontaneamente offerte in ossequio alle sue usanze tradizionali e ortodosse. Il nuovo sultano, dopo aver ricondotto la Serbia e la Bulgaria a rapporto di vassallaggio, inaugurò una politica conciliante grazie alla quale l'impero riprese il controllo della maggior parte dei principati turchi dell'Anatolia.
I venti anni di reggenza del successore di Mehmed, Murad II, segnarono la piena rinascita della potenza ottomana a ciò concorsero i numerosi successi delle campagne militari e una politica orientata alla mediazione diplomatica e al compromesso. Murad portò ben presto a termine il processo di restaurazione della autorità ottomana in Anatolia incorporando tutti i principati turchi, ad eccezione dei regni di Karaman e di Candar che conservarono la propria autonomia dietro pagamento di onerosi tributi. Il sultano vinse anche le rivolte sollevatesi nella regione balcanica e nel 1424 stipulò un accordo capestro con Bisanzio che ridusse l'impero d'oriente soltanto alla sua capitale. Non soddisfatto dei termini dell'impresa Murad assediò Costantinopoli e ottenne in breve tempo il versamento di ulteriori tributi; nel 1432 stipulò inoltre un accordo di pace con Venezia con il quale la Serenissima si impegnava a versare tributi in cambio di privilegi commerciali, grazie ai quali Venezia diventò la prima potenza mercantile nei territori ottomani.
Nel decennio successivo il sultano avviò grandiose campagne militari soprattutto contro il regno di Ungheria che contendeva alla Mezzaluna il controllo delle ricche miniere della Serbia. Murad intervenne nei Balcani assoggettando in un primo momento l'intera area albanese e conducendo successivamente imponenti spedizioni direttamente in Ungheria. La tenace resistenza dei popoli balcanici, riunitisi attorno alle figure carismatiche dell'albanese Skanderbeg ed dell'ungherese Giovanni Hunyabi sembrò in grado di interrompere l'avanzata ottomana, ma nel giro di pochi anni l'impero dimostrò ancora una volta la sua invincibilità. Le milizie ungheresi, supportate dagli eserciti dei regni di occidente ma tradite dalla desistenza di Venezia e dei Serbi furono annientate nella battaglia di Parna nel 1444. La nuova disfatta cristiana pose fine agli sforzi contro gli ottomani. Nel 1448 la Mezzaluna sbaragliò la resistenza albanese a Kosovo, restaurando definitivamente l'autorità imperiale nella penisola balcanica.
Il momento d'oro dell'impero favorì la crescita del commercio interno, controllato dai mercanti veneziani e genovesi e dominato da Bursa che diventò la capitale del mercato della seta. L'aumento della ricchezza e il successo nelle campagne militari incoraggiarono l'ascesa sociale dei Giannizzeri e la progressiva esclusione dai ruoli dirigenti dello stato dell'antica nobiltà ottomana. Questa silenziosa rivoluzione sociale provocò una profonda riorganizzazione dello stato, nuovamente innervata di ninfa bizantina, che confermò ancora una volta la sostanziale indistinzione della società politica ottomana dalla civilizzazione europea. Murad intraprese un gigantesco lavoro di riarticolazione dell'impero raccogliendo in complessi codici di leggi (Kanun) una minuziosa argomentazione delle gerarchie e delle funzioni dello stato.
L'ascesa della potenza ottomana ebbe il suo momento culminante nella conquista di Costantinopoli realizzata nel 1453 dal nuovo sultano Mehmed II. Dopo un lungo assedio durato alcuni mesi, l'antica capitale d'oriente fu espugnata e sottoposta a massacri e a saccheggi per giorni. Il sultano espulse gli abitanti greci dalla città e gli sostituì con genti di etnia turca. La minoranza di origine greca, cui fu concesso di restare a Costantinopoli fu obbligata a versare cospicui tributi al sultano in cambio del riconoscimento dell'autonomia della comunità che conservò i propri costumi sociali e religiosi.
Rafforzato da questo strepitoso successo, Mehmed avviò una nuova serie di spedizioni militari nella penisola balcanica e nelle isole dell'Egeo entrando presto in conflitto con Venezia. La lunga guerra con la Serenissima si protrasse per quasi due decenni e si concluse con un accordo di pace che prevedeva il mantenimento dei privilegi commerciali della repubblica marinara nei territori dell'impero in cambio di un versamento di un tributo annuale e della cessione al sultano dei territori albanesi contesi da Venezia. L'espansione dell'impero conseguita con le campagne militari di Mehmed gettò le basi per una supremazia incontrastata della potenza ottomana nell'Europa orientale, che i sultani dominarono nei 4 secoli successivi.
Il commercio rimase un importante risorsa nelle casse dello stato, pur essendo controllato dai mercanti italiani insediatisi nella nuova capitale dell'impero, Istanbul che diventò un'immensa metropoli, crocevia di immensi traffici e centro culturale di riferimento per il mondo musulmano e per la civiltà occidentale.
Le ricchezze accumulate nelle casse imperiali, provenienti dallo sfruttamento delle miniere balcaniche la cui proprietà era concentrata nelle mani del sultano, e dalla forte pressione fiscale imposta ai sudditi e agli stati vassalli, consentirono a Mehmed di proseguire la costruzione di amministrazioni ottomane in tutte le province imperiali, che venne portata a compimento da Bayazid II. Questi pianificò un sistema fiscale più equo che prevedeva un'imposta uguale per tutti i sudditi, a copertura della spese militari, e gettò inoltre le basi per un forte incremento commerciale, incoraggiando l'insediamento degli ebrei sefarditi espulsi dai regni spagnoli cattolici nel 1492.

domenica 23 gennaio 2011

ULEMA E SUFI

Queste informazioni sono prese da Wikipedia:


Gli ulema (arabo: علماء, `Ulamā, singolare `Ālim) sono i dotti musulmani di "scienze religiose" (‘ulùm al-diniyya). In area iranofona il termine maggiormente usato è quello di mullā o mollā che deriva dal termine arabo "mawlā", da tradurre come 'signore' o 'maestro': termine con cui ci si rivolge ai dotti musulmani.
Letteralmente il termine significa "sapienti, dotti, saggi" ma la loro scienza non è quella delle cosiddette scienze esatte bensì quella, ritenuta dall'Islam più significante, della conoscenza della Volontà di Dio, il più delle volte difficile da penetrare.
Di conseguenza al termine non può riferirsi il filosofo (Faylasuf), che ama certamente indagare con le armi del raziocinio, nel convincimento che la ragione umana possa giungere a comprendere in tutto o in parte il Mistero divino: concezione contro la quale si esprime tuttavia la stragrande maggioranza dei musulmani che considera questo iter gnoseologico (conoscitivo) assai improbabile, se non addirittura impossibile, secondo lo stesso principio che guidò, prima della Tomistica, i teologi cristiani - tra cui Giovanni Scoto Eriugena - che affermavano l'inconoscibilità di Dio se non per Grazia ricevuta. Tale cammino gnoseologico può e deve invece avvenire (secondo i dotti) solo percorrendo e applicando alla lettera la Rivelazione, senza mai discostarsene in modo marcato, sia pure a livello d'interpretazione, aprendo le porte alle correnti "fondamentalistiche" e "letteralistiche" dell'Islam.
Studi del Corano e della Sunna (che insieme formano, sotto un profilo giuridico, la Sharì'a) sono quelli che formano la conoscenza della Via che Dio impone all'uomo di percorrere. Quanti si rifanno al misticismo - che, in ambito islamico, meglio sarebbe definire "esoterismo" (sufismo) - o, appunto, alla filosofia, non sarebbero quindi tecnicamente definibili ‘ulamā’.


Il Sufismo o Tasawwuf (arabo: تصوّف‎ - taṣawwuf ) è la forma di ricerca mistica (da Mysticos, cioè "pertinente l'iniziazione") tipica della cultura islamica.
Il sufismo viene a volte definito come l'unione antica del Cristianesimo e del neoplatonismo, che diede vita ad una forma di ricerca interiore, il misticismo dell'Islam.
Il sufismo è la scienza della conoscenza diretta di Dio; le sue dottrine e i suoi metodi sono derivati dal Corano, anche se il sufismo utilizza concetti derivati da fonti tanto greche come persiane antiche e indù. Comunque, nonostante le idee prese in prestito da culture e religioni precedenti, si può affermare che l'essenza del sufismo sia prettamente islamica.
Il termine arabo "tasàwwuf" deriverebbe dalla lana (in arabo sùf) con cui erano intessuti gli umili panni dei primi mistici musulmani che per questo vennero chiamati "sufi", ma un'altra etimologia si rifà al vocabolo suffa, "portico" antistante la casa-moschea di Muhammad a Medina, sotto il quale si raccoglievano alcuni pii musulmani, ospitati volentieri dal Profeta per la loro povertà che s'accompagnava a un atteggiamento assai pio. Altri riconducono il termine all'arabo safà' (purezza) o si richiamano alla collocazione dei sufi 'in prima fila' ( saff al-àwwal ) al cospetto di Dio.
Il tasàwwuf - che ha in sé, forte, il concetto dell'esoterismo (da cui andranno però espunti i cascami ideologici che spesso al termine s'accompagnano) - è fenomeno trasversale e diffusissimo nell'Islam, per quanto poco avvertibile all'occhio laico a causa della grande riservatezza osservata dai praticanti. Il suo grande successo, come nell'Ebraismo, deriva in modo tutt'altro che secondario dalla particolare struttura fideistica delle due religioni semitiche, entrambe convinte della letterale Rivelazione ai Suoi profeti da parte di Dio della Sua precisa volontà.
Il tasawwuf è particolarmente diffuso nel sunnismo e assai meno nello sciismo, in cui sono attive infatti solo due confraternite islamiche, la Ni'matullāhiyya e la Dhahabiyya, a fronte delle decine di confraternite sunnite tuttora operanti. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che, per conoscere Allah e la Sua volontà, lo sciismo può stabilmente contare sull'attiva opera dei suoi dotti che, se non costituiscono un formale sacerdozio, come il resto dell'Islam, hanno acquistato però un incontestabile profilo di tipo clericale per il fatto che i loro ulema di maggior dottrina, e in particolar modo i marja' al-taqlid, sono ispirati in modo ineffabile dall'"imam "nascosto".
Nell'Islam sunnita la totale mancanza di sacerdozio e di una classe di tipo clericale che possa assolvere alla funzione intermediatrice fra Dio e le Sue creature comporta una ricerca di Dio e della Sua volontà assai più faticosa e rischiosa. È dunque perfettamente normale, legittimo e doveroso per il sufismo che il musulmano ricerchi personalmente quale sia la volontà di Dio, obbedire alla quale permette di evitare il peccato che, nell'Islam, altro non è se non la disubbidienza alle Sue disposizioni (tant'è vero che muslim, "musulmano", significa proprio "chi si assoggetta alla Volontà di Dio").
Un metodo che si può validamente affiancare al recepimento di quanto suggerito dagli ulema è perciò quello dell'indagine personale, da conseguire tramite una lunga disciplina spirituale e mentale che - senza far trascurare lo studio della dottrina esoterica ufficiale - possa aprire la Via esoterica verso Dio (il termine tarīqa ha questo significato, oltre a significare confraternita islamica), per imboccare e percorrere la quale sarà necessaria l'opera educativa di un Maestro che funga da "guida".
Il sufismo rappresenta l'atteggiamento più individualistico della pietas musulmana, la quale si è manifestata, oltre che in questa forma mistica, anche come protesta - con gli sciiti - e in forme più storicizzate, come nell'opposizione delle sette religiose contro i marwanidi, fedeli a Marwan ibn al-Hakam, califfo in Siria dal 684 al 685 imposto dalle tribù dei Kalb al posto di Abd Allah ibn al-Zubayr. Dato che quest'ultimo era il legittimo successore di Yazid I, Marwan fu da alcuni considerato un anti-califfo e pertanto contestato.
Il sufismo è la scienza della conoscenza diretta di Dio; la sua dottrina e i suoi metodi derivano dal Corano, ma il sufismo fa anche libero uso di concetti e paradigmi derivati da fonti greche e hindu.
Dalla shahada, uno dei pilastri dell'Islam, ovvero la percezione che solo la Realtà Assoluta è reale, principio informatore dell'Islam, discende la coincidenza di questa Realtà Assoluta con l'intera creazione e ciò dà ragione dell'essenza sostanzialmente islamica del sufismo, malgrado tutte le influenze provenienti da altre culture. È vero che certe scuole di pensiero, persiane in particolare, svolsero una funzione di catalizzatore delle potenzialità mistiche dell'Islam. Ma il sufismo resta il "vero" cuore dell'Islam e lo si ritrova in tutto il mondo islamico come la più pura dimensione interiore.
Il sufismo conservò il suo carattere di pietas individuale anche quando il pensiero filosofico fu integrato all'Islam. Comunque, per i sufi, il grande e unico maestro resta il Profeta Maometto, che trasmise ai suoi compagni la baraka (che significa 'benedizione') ricevuta da Dio; questi a loro volta la tramandarono alle generazioni successive, creando così la catena iniziatica, la cosiddetta silsila. Tutti gli autentici ordini sufi sono legati l'uno all'altro in questa catena.
Le riunioni spirituali sufi sono così descritte, con parole attribuite al Profeta: "Chiunque si riunisca con altri per invocare il nome di Dio, verrà circondato da angeli e dal furore divino, la pace scenderà su di loro e Dio ricorderà questa assemblea".
Nella silsila dei sufi, anche Ali, cugino e genero del Profeta Muhammad, ha un ruolo fondamentale, indipendentemente dalla sua importanza come primo Imam degli sciiti. Viene infatti considerato fonte di dottrina esoterica subito dopo il Profeta, ma soprattutto è portatore di una concezione particolarmente intensa della pietas musulmana, insieme alla nobiltà d'animo e alla profonda conoscenza che distinguono gli sciiti dai sunniti, almeno nella loro autopercezione.
Storicamente, i sufi si sono raggruppati in organizzazioni chiamate tawaʾif (pl. di taʾifah) e anche, con un termine più conosciuto, turuq (pl. di tarīqa, "via"). Il termine tarīqa è ormai un vero e proprio termine tecnico che sta ad indicare la via esoterica dell'Islam.
Turuq sono pertanto le congregazioni di discepoli o confraternite islamiche che si riuniscono intorno ad un maestro per prendere parte agli esercizi spirituali (majālis) nei cenobi, denominati secondo la posizione geografica ribat, zāwiya, khānaqa, o tekke.
Alcune delle congregazioni più famose risalgono ai secoli XII e XIII, ma ne esistono anche di moderne.
Da una prima fase in cui l'esperienza sufi restò caratterizzata da un forte individualismo (Rābiʿa al-ʿAdawiyya, Maʿrūf al-Kharkhī, al-Hārith al-Muhāsibī, Dhū l-Nūn al-Misrī, Sahl al-Tustarī, al-Junayd ibn Muhammad), si passò verso il XII secolo alla creazione di turuq, con un numero più o meno ampio di discepoli (murīd, pl. murīdūn ) radunati attorno a un Maestro (shaykh in arabo, pir in persiano - che significano entrambi "anziano" - e dede in turco, lett. "nonno").
Di esse si ricordano in particolare la Qādiriyya, fondata nel XII secolo da ʿAbd al-Qādir al-Gīlānī; la Suhrawardiyya, fondata nel medesimo secolo da [Omar Suhrawardi e suo zio paterno Abu l-Najib Suhrawardi, da non confondere con Shihabbodin Yahya Suhrawardi, Shaykh al-Ishraq, la cui posterità è rappresentata dall'ordine degli Ishraqiyun (benché la loro comunità non abbia un'organizzazione esteriore)]; la Rifa'iyya, fondata da Ahmad al-Rifāʿī ancora nel XII secolo come la Kubrawiyya, fondata da Najm al-Din Kubra, la Shadhiliyya, fondata da Abū l-Hasan al-Shādhilī nel XIII secolo, la Mawlawiyya, fondata nel XIII secolo da Jalāl al-Dīn Rūmī di Konya, nota per i suoi dervisci roteanti; la Cishtiyya fondata da Muʿīn al-Dīn Cishtī e, forse la più vivace negli ultimi tempi, la Naqshbandiyya, fondata da Bahā al-Dīn Naqshbandī, entrambe queste ultime attive dal XIII secolo. Altri rami si sono innestati su quelli principali, è il caso della "Jarrahiyya" fondata da Nur al-Dīn al-Jarrāhī (1678-1721) - riforma dell'ordine "Khalwatiyya" (da cui la denominazione Jerrahi Halveti) fondata da ʿUmar al-Khalwatī o, secondo altri, da Muhammad ibn Nūr al-Bālisī o, ancora, da Yahyā al-Shirwānī al-Bākūbī[1].
Il primo grande nome di sufi è quello di Hasan al-Basri (642-728). Di lui nulla ci è pervenuto, se non tramite le citazioni di altri autori. Nato a Medina, figlio di un mawla, si stabilì a Bassora, dove divenne famoso per la sua profonda preparazione culturale e attrasse a sé molti seguaci e studenti. Era l'epoca omayyade e la sua mente fu un crogiolo di intuizioni teologiche, mistiche e giuridiche che, più tardi, sarebbero confluite in discipline diverse. È una figura importantissima nella trasmissione dei vari hadith, perché aveva conosciuto personalmente il Profeta. Gran parte delle catene iniziatiche sufi passano per lui. È anche famoso per aver affermato che il mondo è un ponte sul quale si passa, ma su cui non conviene costruire nulla. Le prescrizioni da lui dettate ai discepoli erano particolarmente severe e improntate a una rinuncia quasi totale del mondo e dei beni terreni, al superamento delle passioni e alla ricerca di una vita moderata. Grande sostenitore del digiuno, si dice che si stupisse non di come la gente si perdeva, ma di come potesse essere salvata.
Altri nomi di sufi famosi sono al-Junayd (m. 910), al-Gilani (m.1166), Abu Madyan (m. 1198) e l'imam al-Shadhili (m. 1258). Quest'ultimo escogitò un approccio intellettuale al sufismo.
Altri grandi teorici furono Ibn Arabi, del secolo XIII, le cui capacità dialettiche non riuscirono a scalfire minimamente l'intensissima dimensione spirituale espressa dal Hasan al-Basri; Gialal al-Din al-Rumi, al-Jili, al-Ghazali, Ibn Ata Allah Iskandari: tutti costoro hanno lasciato abbondante materiale scritto accanto agli insegnamenti orali, da cui è possibile desumere la dottrina sufi nella sua interezza.
L'uomo di punta del sufismo fu comunque al-Ghazali (m. 1111), il grande teologo dell'Islam, al contempo giurista e sufi riconosciuto. Nella sua opera al-munqidh min al-dalal (il salvatore dall'errore) descrive il proprio interesse per il sufismo in questi termini: "Quando rivolsi il mio interesse verso il sufismo, sapevo che non avrei potuto percorrerlo tutto senza sperimentare sia la dottrina che la pratica e che il senso fondamentale di tale insegnamento consiste nel superare gli appetiti della carne, liberandosi da ogni cattiva disposizione e brutta qualità. Solo così, infatti, il cuore è libero di essere posseduto da Dio. Sapevo anche che il mezzo per liberare il cuore da ogni male è il dhikr Allah e la concentrazione di ogni pensiero su di Lui. Ciò che accadde fu che la dottrina mi risultò più semplice della pratica, cosicché cominciai ad imparare le regole dei loro libri e i detti degli sheikh, finché ne seppi a sufficienza e mi resi perfettamente conto che ciò che è veramente caratteristico di questa dottrina non può essere imparato, ma può solamente essere raggiunto per esperienza diretta e immediata, attraverso l'estasi e la trasformazione interiore. (...) non c'era modo di raggiungere la conoscenza vera del sufismo se non conducendo una vita mistica. Ma gli interessi mondani mi pressavano da ogni parte."
A questo punto della sua vita, al-Ghazali si confina per due anni in una stanza della moschea maggiore di Damasco, lasciando ogni cura del mondo: insegnamento, figli e amicizie. Il munqidh min ad-dalal descrive questa ricerca interiore, mentre la Ihyāʾ ʿulūm al-dīn (La rivivificazione delle scienze religiose) è la sua summa sulle religioni. Al-Ghazali giungerà alla conclusione che i sufi sono i veri eredi del Profeta, essendo gli unici che potevano raggiungere la conoscenza diretta di Dio, ma questa conoscenza era viabile solo attraverso la mediazione della teologia e della legge. Perciò egli ne divenne il più strenuo sostenitore. Grazie a lui, l'islam risolse la contraddizione intellettuale esistente tra mistica, teologia e questioni legislative.
La grande diffusione del sufismo non è tuttavia sempre vista di buon occhio dai musulmani ortodossi che ne sospettano talora una deriva antinomistica che porterebbe a trascurare il dispositivo formale della Legge religiosa in modo considerato arbitrario e peccaminoso.
Da qui l'ostilità di alcuni ambienti teologico-giuridici islamici ufficiali. Innanzi tutto di alcune propaggini del neo-hanbalismo che sottovalutano come Ahmad ibn Hanbal (m. 855), il fondatore della scuola giuridico-teologica che da lui prende il nome, fosse tutt'altro che ostile all'ambiente sufi, o che il hanbalita Ibn Taymiyya - vissuto in età mamelucca e considerato oggi come il massimo ispiratore dei movimenti "fondamentalistici" islamici - fosse anch'egli non sfavorevole a un'equilibrata pratica sufi, e che alcune sue dure prese di posizione contro il sufismo riguardavano essenzialmente chi maggiormente indulgeva a esagerazioni comportamentali (shatahāt) che scandalizzavano e scandalizzano ancor oggi il mondo sunnita ufficiale.
Il sufismo ha prodotto nei secoli una letteratura pressoché sterminata che si è espressa principalmente nell'ambito della letteratura araba e della letteratura persiana, ma ha trovato espressione anche in molte altre lingue (turche, indiane, maleo-indonesiane ecc.). Tra i generi coltivati si annoverano: i libri devozionali (preghiere, meditazione, esercizi spirituali ecc.); i testi agiografici, contenenti le biografie e le sentenze dei sufi più noti; i testi che illustrano le dimore o stazioni della via spirituale; infine, i trattati teorici di vario argomento, spesso di natura apologetica. Un'altra tipica espressione del sufismo è nella letteratura in versi che annovera poeti di prima grandezza sia di espressione araba (Ibn al-Farid, Ibn 'Arabi) che persiana (Farid al-Din al-Attar, Rumi, Hafez, Gohar Shahi).

STORIA DELL'ISLAM: I MONGOLI

Nell'epoca della dissoluzione del sultanato seggiucchide, gli ultimi abbasidi tentarono di fondare almeno un regno regionale. Nel corso degli scontri con i seggiucchidi un califfo venne giustiziato, il suo successore venne cacciato dal trono e il terzo assassinato. Tuttavia a un energico Wazir riuscì di erigere un piccolo regno grande all'incirca come l'attuale Iraq. Il califfo che vi regnò a lungo, An Nasir Li-Lin Allah (1180-1225) fu in grado, con l'aiuto delle leghe Fwtuwa ascetiche e combattenti, leghe maschili cittadine di cavalieri provenienti dagli strati sociali più bassi, dapprima di fondare una dinastia e poi di integrare nel suo regno anche dinastie locali, dall'Afghanistan fino all'Asia minore.
Prima della morte di An Nasir comparvero alle frontiere i mongoli, che sottomisero in pochi anni l'Iran dove provocarono oltre mezzo milione di vittime e nel 1258 furono alle porte di Baghdad. Quando il califfo Al-Mustasim non reagì all'intimazione di capitolare, il capo mongolo Hulago fece assaltare la città e entrò a cavallo del palazzo fin sotto il trono dell'ultimo califfo che venne ucciso avvolto dentro un tappeto. L'intera popolazione della città venne massacrata, dovunque l'onda mongola si dirigesse lasciava dietro di se innumerevoli morti, città distrutte e sistemi di irrigazione millenari, fondamentali per l'agricoltura, distrutti e abbandonati. Dovunque venne arrestato uno sviluppo economico, sociale, culturale e religioso che per molti secoli e per molte generazioni era stato incoraggiato. L'Iraq venne praticamente ridotto a un deserto. Una vera e propria catastrofe.
Per la prima volta vaste regioni centrali dell'Islam finirono sotto un dominio non islamico. Al tempo stesso l'invasione mongola sospinse avanti molte popolazioni turche verso l'Asia occidentale, fino all'Anatolia. Solo col tempo i mongoli dell'Iran, sotto la dinastia degli Ilkhanili adottarono la religione dei sudditi musulmani e diffusero l'Islam sunnita anche verso l'Asia centrale: l'Orda d'Oro che si estese fino a tutta la Russia si convertì da se all'Islam. Le missioni cristiane operanti nell'Asia centrale subirono un definitivo tracollo; ma col tempo le potenze europee e quelle islamiche concorrenti raggiunsero un risultato: dall'Europa fino all'estremo oriente si svilupparono fitti contatti commerciali e culturali, garantiti per due secoli dalla pax mongolica.
I modi e le strutture del potere subirono ovviamente delle profonde modifiche:

1 - Al posto delle precedenti classi della burocrazia e dei proprietari terrieri, che avevano controllato l'impero islamico si impadronirono del potere elite nomadi, schiavi militari e signori della guerra locali, poco interessati ad un lavoro comune con un governo centrale;

2 - La genealogia, tradizionalmente molto considerata e sulla cui base fino ad allora la maggior parte dei sovrani islamici aveva tentato di far risalire la propria origine al profeta Muhammad, perse importanza. I nuovi sultani erano perlopiù non arabi anche se cercavano comunque di legittimarsi sulla base della religione islamica;

3 - Al posto degli arabi e poi dei persiani, furono soprattutto i turchi ad influenzare come gruppo etnico la società islamica e la religione. Il centro della cultura islamica si spostò dall'Iraq in macerie verso occidente, da Baghdad a Damasco e al Cairo e in seguito a Instanbul;

4 - Al posto dell'unico regno islamico come istituzione politico rimase lo spazio culturale islamico: uno spazio immenso privo di un'autorità politica religiosa unitaria, anche se restarono caratteristiche alcune forme di religione o organizzazioni sacrali simili. Solo all'inizio del XVI secolo si formeranno tre grandi regni islamici: i Mogul in India, i Safawidi in Iran e gli Osmani o Ottomani in tutto il medio oriente;

5 - Al posto del precedente regime sacrale sotto un sostituto di Dio, determinante religiosamente e politicamente subentrò sempre di più una divisione tra stato ed elite o istituzioni religiose, gli Ulema e i Sufi.

Questo significa che chiunque fosse politicamente al potere e governasse lo stato, religiosamente, eticamente e giuridicamente i fedeli non guardavano più per orientarsi ai califfi e ai sultani ma piuttosto agli esperti di religione (Ulema) e ai mistici Sufi e alle loro comunità religiose.

Fu alla fine del XII secolo che il capo mongolo detto Gengis Khan (1167-1227), ossia "l'imperatore universale" unì sotto una sola bandiera i clan nomadi turchi e i mongoli delle regioni dell'Altai e del lago Baikal. Egli lanciò i suoi guerrieri alla conquista del mondo e cioè nella Cina del nord, dell'Asia e il nordest della Persia. Alla sua morte, nel 1227, l'impero di Gengis Khan si estendeva dal mar della Cina fino al mar Caspio. La storiografia ha spesso messo l'accento sugli aspetti devastatori delle campagne mongole; e tuttavia questa grande rottura è all'origine di mutazioni che cambiarono la carte politica dell'Asia nel XIII secolo e aprirono la strada a un Islam rinnovato, investito dalle nuove civiltà sbocciate sotto l'egida dei mongoli e dei turchi.
Tale elemento basta a togliere fondamento alla tesi tanto cara ai moderni islamofobi di un Islam praticamente immobile dall'anno 1000: in realtà anche dopo il predominio arabo sull'Islam, la realtà musulmana ha seguitato ad espandersi e a creare sempre nuovi contributi alla storia della civiltà.
Tra gli stati nati dalla conquista mongola, il Khanato dell'Orda d'Oro mostrò rapidamente la sua indipendenza. Situato tra il Danubio e l'Irtiysh esso distava circa 4000 km dal cuore dell'impero mongolo (Kharakorum) nella mongolia e in seguito a Pechino in Cina. Secondo la tradizione che imponeva che il figlio maggiore ricevesse le terre più lontane del patrimonio paterno, Gengis Khan concesse al primogenito Djoci l'appannaggio di tutti i territori conquistati ad est del fiume Irtiysh: quindi l'Orda d'Oro diventò l'ala occidentale dell'impero mongolo. La totalità dei suoi territori fu acquisita in due serie di campagne militari: la prima, durante l'epoca di Gengis Khan fu condotta dallo stesso Djoci (1185-1227); la seconda al tempo del suo successore Ogodai (1186-1241) da Batù figlio di Djoci.
Dal regno di Batù l'Orda d'Oro raggiunse la sua massima espansione, conquistando la Bulgaria, la Crimea, il Caucaso, i principati russi, la valle del Volga, la Siberia meridionale fino al Irtiysh e le steppe occidentali dal Khazakistan. All'epoca di Batù, inoltre, il cuore dello stato si trasferì definitivamente verso la valle del Volga, che divenne la terra prediletta della dinastia dominante, mentre i restanti territori vennero ripartiti tra gli uomini della famiglia regnante. Il sovrano, chiamato Khan, non era considerato detentore del potere assoluto ma piuttosto come un primus inter pares. Nonostante un autorità spezzettata e una presenza intermittente del rappresentante del potere in alcune regioni, l'influenza dei Khan continuò a pesare fino alla seconda metà del XV secolo. La Khoresmia e il Caucaso, inoltre, due regioni molto ambite per la loro strategica posizione commerciale, furono contese dagli stati mongoli vicini per essere definitivamente perdute agli inizi del XV secolo.
I Khan che si consideravano la'avanguardia europea dell'impero, imposero rapidamente le proprie mire politiche. Intorno al 1250 scelsero l'Islam, facendo dell'Orda d'Oro il primo stato musulmano dell'impero mongolo. L'organizzazione amministrativa si basò su una cancelleria di lingua turca, riprendendo pratiche molto antiche di origine Uiguri e acquisendo una posizione originale di fronte a tutti gli altri poteri del mondo musulmano, che prediligevano il persiano e l'arabo. Lo stato così formato conobbe una longevità considerevole (quasi tre secoli), soprattutto paragonandolo alle altre organizzazione statali dell'impero mongolo: i sovrani Ilkhanidi di Persia scomparvero nella prima metà del XIV secolo, i Gran Khan, fondatori della dinastia Yuan della Cina, furono allontanati dal trono nel 1368 e i Chagatai si sottomisero all'autorità di Tamerlano in Asia centrale all'inizio del XV secolo.
Nonostante periodi di gravi disordini politici, in particolare nella seconda metà del XIV secolo, quando la classe dirigente fu decimata dalla peste nera, i Khan dell'Orda d'Oro beneficiarono di una certa stabilità politica: il lignaggio discendente da Batù rimase al potere fino al 1360; un altro ramo dinastico, risalente a Tuqay Timur, figlio di Djoci, gli succedette alla fine del XIV secolo e restò al potere per più di cento anni. Questa relativa stabilità permise ai Khan di condurre progetti politici ed economici di lunga durata. Essi dimostrarono la stessa perseveranza negli affari esteri, nutrendo relazioni diplomatiche con i sultani malelucchi dell'Egitto e della Siria per più di 200 anni. I Khan furono particolarmente attenti allo sviluppo del commercio e dell'artigianato favorendo l'emergere di una cultura originale che associava l'arte e le competenze di artigiani slavi, persiani, turchi e persino italiani.
Benchè nomadi i Khan incoraggiarono l'insediamento dei sedentari e l'urbanizzazione della zona centrale dello stato. In quest'ottica presero accordi con i genovesi e i veneziani per la creazione di città mercantili in Crimea e con il sultananto dell'Egitto della Siria, cui l'Orda d'Oro fornì guerrieri d'elite, i famosi malelucchi. Infine favorirono la libera circolazione dei mercanti, dei corrieri di posta a cavallo e degli ambasciatori e si presentarono come protettori dei letterati e degli uomini di religione.
L'Orda d'Oro non fu un conglomerato di tribù, ne un'insieme di città e borghi, e neppure un complesso di territori sotto l'autorità di un capo. Fu uno stato che si sviluppò nel corso di tre secoli e di cui sono stati ritrovati alcuni atti ufficiali, testimonianza del suo ruolo attivo nel mondo e della sua capacità di padroneggiare le culture turco mongola e islamica. Tuttavia, anche se si evidenziano elementi di continuità nelle politiche dei Khan, lo stato conobbe durante i suoi tre secoli di storia cambiamenti notevoli.
L'Orda d'Oro nel XIII secolo, con la sua struttura amministrativa ereditata dal regno turco di Bulgar, situato a nord del Volga, e la sua elite ancora impregnata delle tradizioni nomadi mongole fu molto diversa dall'Orda d'Oro del XIV secolo, turchizzata e islamizzata, con un'economia prospera, sostenuta da una rete di città lungo la valle del Volga e sulle antiche vie della seta che attraversavano le steppe verso il Caspio, fino al mar Nero e ai suoi sbocchi bizantini, italiani ed egiziani: un'Orda d'Oro potente, indipendente dagli altri stati mongoli dove la corte dei Khan diventò un polo culturale per letterati, dotti e religiosi di tutto il mondo musulmano.
Questo stato dominatore fiorente è difficilmente comparabile all'Orda d'Oro del XV o XVI secolo, quando il potere dei sovrani si restrinse intorno a qualche città in Crimea e alle estremità della valle del Volga. Le relazioni con il sultanato malelucco non furono più attestate nelle fonti e l'attività diplomatica si limitò agli scambi con gli stati vicini (impero ottomano, principato di Mosca, gran ducato di Polonia e Lituania). L'elite militare, i letterati e i giuristi musulmani fuggirono definitivamente dalla corte dei Khan e i mercanti abbandonarono le vie tradizionali di scambio divenute impraticabili. Nelle fonti slave si trovano menzioni sparse di un'esistenza di un certo "Zar dell'Orda" fino al 1550, epoca durante la quale Ivan IV il terribile conquistò le due più importanti città del Volga, Khazan (1552) e Astrakan (1556). Da allora l'Orda d'Oro cesso di esistere.


sabato 22 gennaio 2011

NASCE FINALMENTE L'ASSOCIAZIONE DEI MUSULMANI ITALIANI DI VICENZA

Venerdì 28 gennaio alle ore 20:00, nella sala riunioni gentilmente concessa nella sede delle missioni dei padri salesiani in viale trento, si costituirà formalmente e sostanzialmente l'associazione "Art.19" dei musulmani italiani di Vicenza. Ad essa aderiscono sia i musulmani italiani per nascita e per origine, sia quelli che hanno acquisito la cittadinanza per naturalizzazione, e cioè per concessione con decreto del Presidente della Repubblica ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, sia i giovani che, nati da ex-extracomunitari diventati cittadini italiani, sono a loro volta nati in Italia, dove hanno svolto i loro studi e i non pochi casi acquisito diplomi e qualche laurea ("I nuovi italiani"). Da un calcolo approssimativo per difetto siamo in grado di fissare ad almeno 300 le persone che presentano le sopra elencate caratteristiche: contiamo di acquisirle alla nostra associazione che avrà finalità di prevalente carattere culturale e di assistenza giuridico amministrativa e non potrà quindi, per basse motivazioni di speculazione anti islamiche, essere etichettata come una entità "islamica" con connotazioni integralistiche, fondamentaliste, magari terroristiche. Per dirla in breve la nostra associazione nasce come un caso di legittimo esercizio del diritto di associazione che spetta a tutti i cittadini ai sensi dell'articolo 18 della Costituzione, anche se ovviamente e come dice la sua stessa denominazione la principale attività pratica che verrà svolta sarà quella di assicurare la piena attuazione nei confronti di cittadini come gli altri del disposto dell'articolo 19 del testo costituzionale: quello che definisce la libertà religiosa un diritto assoluto dell'uomo. Poichè tutti i suoi associati parlano perfettamente la lingua italiana, e non hanno perciò intenzione di sovraccaricarsi dei ridicoli corsi di dialetto veneto organizzati dall'amministrazione provinciale di Vicenza, la lingua che verrà usata dall'associazione Art.19 sarà l'ITALIANO.
Le donne che ne faranno parte non indosseranno il burqa, che del resto è un tipo di velatura non prevista dal Corano e non praticata nella quasi totalità dei paesi a maggioranza musulmana: cogliamo anzi l'occasione per informare gli ignoranti in mala fede tipo la Santanchè, che della battaglia contro il burqa ha fatto la sua bandiera, che questo tipo di copricapo o di velatura è un costume che si è diffuso nella parte dell'Afghanistan di etnia Pashtum a causa del dominio che per un certo periodo di tempo è stato esercitato dall'induismo; il burqa, infatti, era il copricapo delle mogli dei bramini e quindi veniva considerato una sorta di indumento che conferiva prestigio sociale, un pò come la "veletta" delle gentildonne europee dell'800, o il copricapo di pelle di castoro che amavano esibire i gentiluomini europei del '700.
Sarà cura dell'associazione organizzare corsi di storia per far conoscere le vicende del nostro paese, con particolare riferimento alla lunga lotta che gli italiani dovettero combattere contro le dominazioni straniere per almeno un secolo. Di tale lotta che si concluse 150 anni fa con l'Unità d'Italia, vogliamo rendere consapevoli i nuovi italiani: è necessario che essi ne conoscano i valori di libertà, di eguaglianza e di giustizia, ampiamente presenti nel Corano e nella storia dell'Islam. La consapevolezza di tali ideali e dei sacrifici che i patrioti italiani dovettero affrontare, renderà evidente come la forza politica che tali valori nega con il disprezzo per la nostra bandiera, per la nostra storia e per i suoi eroi è la stessa che non manca occasione per diffamare i musulmani e per inventarsi un Islam di comodo, in nome di un attaccamento ai valori cristiani che vengono in realtà palesemente negati dal razzismo, dalla xenofobia e dall'egoismo del ricco contro i poveri. L'associazione cercherà anche di attrezzare i nuovi italiani con la conoscenza dei fondamenti del nostro sistema giuridico: dal diritto privato a quello amministrativo, dal diritto penale al diritto costituzionale. Ci piacerebbe che ognuno degli associati acquisisse una consapevolezza del valore della cittadinanza fino ad essere in grado di imitare il comportamento di un nostro fratello, il quale fermato da un vigile urbano che chiedeva i documenti, esibiva la carta d'identità, (italiana); e al vigile che gli chiedeva anche di esibire il permesso di soggiorno rispondeva: "Lei ce l'ha?". Naturalmente l'associazione intende portare avanti anche concrete iniziative pratiche.
La prima, e più urgente è la richiesta di uno spazio cimiteriale nel quale i musulmani italiani possano seppellire i loro morti senza dover rinunciare ai loro principi religiosi. Su questa questione vogliamo dare fin d'ora essenziali chiarimenti:

I - I musulmani italiani non chiedono un cimitero islamico ma un cimitero acattolico, dove possono trovare ospitalità anche i defunti di altre religioni che non edifichino nei cimiteri chiese o pratiche di culto simili alla messa cattolica. Sotto questo profilo i musulmani italiani sono disponibili ad accordi con i cittadini di religione ebraica e di religione cristiane protestante che si caratterizzano per l'estrema sobrietà delle sepolture e non ne fanno occasione di inaccettabile ostentazione, con statue, marmi e altri elementi che annullano il principio che la morte rende tutti eguali;

II - Naturalmente i musulmani italiani si impegnano a rispettare tutte le norme che la legge italiana detta in materia cimiteriale comprese le modalità materiali di sepoltura; nel contempo ricordiamo alle autorità comunali che i servizi cimiteriali non sono un optional, sul quale possa esistere una qualche discrezionalità: essi sono servizi obbligatori come la distribuzione dell'acqua, della luce e del gas e la raccolta rifiuti solidi urbani che, con tutta evidenza, non possono essere negati a qualcuno a causa della sua religione;

III - La nostra prima iniziativa sarà quindi la domanda all'amministrazione comunale di poter utilizzare il cimitero acattolico esistente, che è chiuso per mai spiegati motivi dal 1956. C'è stato ufficiosamente comunicato che esisterebbero impraticabilità dovute a divieti della sovraintendenza ai monumenti e altre dipendenti dalla natura del terreno; ma in questo caso il Comune risponda negando la possibilità di utilizzazione con esplicite e dettagliate motivazioni per darci la possibilità di frapporre al diniego i ricorsi previsti dalla legge o di dare fondamento alla richiesta di uno spazio sostitutivo;

IV - Facciamo presente che altri Comuni capoluoghi del veneto e dell'intero Nord Italia hanno cimiteri acattolici (siamo disponibili a fornire agli uffici preposti del Comune qualche esempio in materia); e ci auguriamo che il Sindaco Variati dopo varie promesse e tergiversazioni non pensi di concludere con una lettera in cui dice di non conoscere la comunità islamica e le sue iniziative. Una risposta del genere sarebbe deplorevole se data ad extracomunitari non cittadini; ma fornita a cittadini a pieno titolo sarebbe un inaccettabile atto di insensibilità arrogante. Il Sindaco di una città deve conoscere tutti i suoi cittadini come suoi amministrati e come elettori che esprimono gli organi del Comune, compreso il Sindaco.


Aggiungiamo che tra i diritti che i musulmani italiani rivendicare e, anzi, praticare a pieno titolo, vi è anche quello di chiamare il luogo nel quale si riuniscono il venerdì per ascoltare i sermoni dell'Imam e per praticare la preghiera collettiva non più con accorgimenti lessicali del tipo: centro culturale o simili, ma col nome proprio di MOSCHEA.