mercoledì 25 aprile 2012

DUE ARTICOLI CHE POSSONO FORNIRE UN'INTERPRETAZIONE ALLA NON OSCURABILE PAURA CHE L'ISLAM SUSCITA NEI PAESI DI RELIGIONE CRISTIANA, IN PARTICOLARE CATTOLICA

Sull'ultimo numero del settimanale Sette, allegato al Corriere della Sera è stato pubblicato un accurato studio che, senza mai nominare l'Islam, contiene un accurato resoconto della crisi che attraversa la religione cattolica, al punto che il titolo è "Possiamo ancora dirci cattolici?".




Pochi giorni dopo il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un servizio, articolato in due parti che ascrive la crisi del Cristianesimo prevalentemente al fatto che nel mondo vi sarebbero:

"Meno credenti, più atei convinti così il mondo volta le spalle a Dio"
CARATTERI maiuscoli rossi su copertina nera. "Dio è morto?" si chiedeva la rivista americana Time l' 8 aprile 1966. Solo per ribaltare l' argomento, tre anni più tardi, con una copertina bianca solcata dai raggi del Sole: "Dio è resuscitato?". Tom Smith, sociologo dell' università di Chicago, ricorda quella confusione di impulsi nell' America dei tardi anni ' 60 come il punto di partenza della più lunga ed estesa analisi sociale sulla salute di Dio nel mondo. Dopo le prime due tappe del 1991 e del 1998, il rapporto "Religion" dell' International Social Survey Programme sulla "Fede in Dio nel mondo attraverso gli anni e le nazioni" è arrivato oggi alla sua terza edizione. Sessantamila persone in 42 paesi dal Cile al Giappone hanno raccontato ai ricercatori il loro rapporto con la spiritualità. In una mappa che pure si presenta con colori distinti e contrastanti, contraddizioni e inversioni di rotta, la conclusione generale è che il declino della religiosità nel mondo è lento ma costante. LA FEDE IN CALO I numeri dello stillicidio parlano chiaro: i credenti tra il 1991 e il 2008 sono calati in 14 dei 18 paesi che hanno partecipato a entrambe le indagini. La percentuale degli atei viceversa è cresciuta in 15 nazioni. Per quanto riguarda l' Italia, nel corso dei vent' anni gli atei sono cresciuti del 3,5% e i credenti hanno registrato un declino della fede per nulla trascurabile: il 10,5%. Come se stesse progressivamente prendendo forma l' immagine di Pasolini che nel 1973 vedeva la parola "Jesus" una volta per tutte legata a una marca di jeans. Il bastione della terza età Il bastione della fede resta la fascia degli over 68. In Italia ad esempio dichiara di credere in Dio il 66,7% delle persone con più di 68 anni contro il 35,9% dei giovani al di sotto dei 28 anni. Basta dunque saltare due generazioni per tagliare a metà il bacino della fede degli italiani.E il fenomeno è ancora più netto nella cattolicissima Spagna, dove la religiosità balza dal 65,4% degli anziani al 21,8% dei giovani. In maniera del tutto speculare viaggia il numero di coloro che dichiarano di "Non credere e non aver mai creduto". In Italia sono il 12% tra gli under 28 contro un misero 0,5% tra gli over 65. «La fede in Dio - spiega Smith cresce molto probabilmente tra i più anziani per via dell' approssimarsi della morte». GLI EFFETTI DEL COMUNISMO Il comunismo avrà fallito dal punto di vista economico ma il lavoro di spugna sulla spiritualità degli individui sembra aver funzionato bene nei paesi del blocco socialista. Pur con due importanti eccezioni (la Polonia e la Russia), le nazioni dell' Europa dell' est si ammassano in fondo alla classifica dei credenti. L' ex Germania dell' est ha anche il record di atei convinti (52,1%), seguita dalla Repubblica Ceca (39,9%). E sempre fra i tedeschi orientali la religiosità raggiunge uno striminzito 12,7% tra gli over 68 edè addirittura ferma allo zero tra i giovani con meno di 28 anni. FEDE E CONFLITTI C' è un aspetto che impressiona tra i dati del rapporto. I paesi in cui la religiosità è in aumento sono spesso quelli in cui per la fede si combatte e si muore. Israele ad esempio è secondo solo alle Filippine per il numero di persone che dichiarano di "credere fermamente in Dio" e i credenti sono aumentati del 23% tra il ' 91 e il 2008. Cipro è al quarto posto. Scendendo di poco si incontra l' Irlanda del Nord. Nella classifica dei paesi più vicini alla religione ci sono ovviamente gli Stati Uniti. Paese che è forse azzardato definire in guerra per la propria fede. Ma in cui sicuramente - fanno notare i ricercatori dell' università di Chicago - «c' è un' intensa competizione tra le religioni principali e tra le varie confessioni cristiane». LA FORMA DI DIO Il Dio in cui credono gli intervistati (in maggioranza, ma non esclusivamente cristiani) è soprattutto u n Dio-persona, che si preoccupa per le sorti dell' umanità. Per tre italiani su quattro è in grado di compiere miracoli. E quando nel 2008 Tom Smith ha provato a domandare a un campione di americani a quale figura familiare si sentirebbero di associare Dio, la maggioranza ha scelto "padre" a "madre", "padrone" a "sposo", "giudice" piuttosto che "amante" e "re" piuttosto che "amico". IL PARADOSSO ITALIANO La parte italiana dei datiè stata raccolta da Cinzia Meraviglia dell' Istituto di Ricerca Sociale dell' università del Piemonte Orientale, mentre il rapporto sul nostro paese è stato curato da Deborah De Luca dell' università di Milano. «In Italia - spiegano le due ricercatrici - il 41% delle persone dichiara di seguire la religione cattolica ma di non considerarsi una persona spirituale. Come se la fede fosse un valore culturale, le cui radici vanno cercate nella tradizione e nell' abitudine». Si spiega così come mai il 76% degli italiani abbia un crocefisso o un altro simbolo religioso in casa, ma solo il 23% vada a messa regolarmente. Nel nostro paese la Chiesa è anche l' istituzione di cui ci si fida di più accanto alla scuola (anche se l' 80% degli intervistati ritiene che il Vaticano non debba dare indicazioni di voto o fare pressioni sui governi). Ma allo stesso tempo il 61% degli italiani dichiara di avere un proprio modo personale di comunicare con Dio, senza passare per Chiesa e riti religiosi.


Elena Dusi




Non occorre molta intelligenza per capire che un articolo che da un resoconto della percentuale dei cattolici e dei cristiani facendo riferimento a meno di un terzo della popolazione mondiale ed escludendo dal conteggio l'Asia (con l'eccezione del Giappone, l'intera America Latina, Australia, Oceania e Canada e non tenendo conto di grandi paesi come la Cina, l'India, l'Indonesia, tutti i paesi islamici) non è un credibile fondamento per parlare di un mondo che volta le spalle a Dio. Ci sembra che sia più convincente l'ipotesi secondo la quale "sono i dogmi della Chiesa Cattolica che non convincono più"; e a questo riguardo ci sembra molto più equilibrato l'articolo del teologo Vito Mancuso (pubblicato anch'esso da La Repubblica):





“Il Dio personale del secondo millennio”

Un ampio studio dell´Università di Chicago spiega che la fede in Occidente va lentamente ma progressivamente diminuendo; che interessa soprattutto gli anziani e ben poco i giovani; che avanza sempre più in chi crede la figura di un Dio personale e su misura; e infine che la presenza della fede non è comunque trascurabile perché rimane ancora largamente maggioritaria, visto che i credenti sono maggioranza in 22 paesi su 30, e in 7, tra cui gli Usa, sono al di sopra del 50 per cento. Sono dati che confermano tendenze note agli studiosi e che sarebbero diversi se la ricerca non avesse preso in esame solo una parte di mondo, in gran parte occidentale: la presenza del Sudamerica è ridotta al Cile, quella dell´Asia al Giappone e alle Filippine con la macroscopica assenza di Cina, India e di tutti i paesi delle aree buddista e islamica, mentre l´Africa non esiste nemmeno. Se lo studio avesse considerato l´andamento della fede su scala mondiale, le conclusioni sarebbero non dissimili da quelle di due giornalisti dell´Economist, Micklethwait e Wooldridge, uno cattolico e l´altro ateo, che nel 2009 pubblicarono a New York un volume la cui tesi è già nel titolo: God is Back, Dio è tornato. Non a caso le religioni costituiscono oggi nel mondo un fattore geopolitico di importanza imprescindibile per la lettura del presente, nel bene e purtroppo anche nel male, poiché è innegabile che dalle religioni derivano sia beni sia mali (e per questo spesso è così difficile ragionarne con pacatezza e senza passionalità). Ma soprattutto uno il dato che a mio avviso va sottolineato: cioè il fatto che in tutti i principali paesi europei se si sommano i credenti convinti agli atei altrettanto convinti non si raggiunge la metà della popolazione. È il caso di Germania (ovest), Austria, Olanda, Svizzera, Spagna, Russia, Italia, paesi in cui ci sono più credenti che atei; e di Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi dove la situazione è opposta. Il paese simbolo di questa tendenza a evitare gli estremi è il Giappone, dove solo il 4,3 crede fermamente in Dio ma solo l´8,7 è ateo. tutti gli altri vivono nell´incertezza di chi non sa, nel limbo di chi non prende posizione. Forse anche l´Europa è destinata con il passare del tempo a diventare teologicamente “giapponese”?
Di sicuro la mente occidentale, uscita da poco da quel secolo di ferro e di sangue che è stato il ‘900, è abitata da una forte perplessità e intravede motivi per continuare a credere in Dio e altri per non credervi più: il suo simbolo più adeguato è forse il labirinto, oppure una bilancia i cui piatti non sanno trovare il punto di equilibrio. Se la fede tradizionale a poco a poco viene meno, non per questo i più si rassegnano al materialismo e al nichilismo di chi ritiene che l´uomo sia solo “ciò che mangia”, con il risultato che la fede in una dimensione dell´essere chiamata “spirito” nonostante tutto persiste, anche se non si capisce bene che cosa si dice quando si pronuncia il termine “spirito” e quindi neppure quando si nomina “Dio”.
Per questo non sorprende il dato a mio avviso più significativo offerto dallo studio americano, cioè che a fare le spese di questa crescente perplessità è soprattutto la fede cattolica nella sua configurazione dogmatica e teista. Infatti la perdita della fede in Dio durante il decennio 1998-2008 risulta più alta proprio nei paesi tradizionalmente cattolici, come Austria (-10,6), Portogallo (-9,4), Spagna (-7), Italia (-6,7), Francia (-5,8), persino Polonia (-5,5). Se poi si calcola quello che è successo dal 2008 a oggi nella Chiesa tra scandali legati alla pedofilia e restaurazione di messe in latino con connessa riabilitazione dei gruppi cattolici più reazionari e spesso antisemiti, possiamo essere sicuri che i dati nel frattempo non sono certo migliorati. Ormai è da tempo che a causa della scarsità di vocazioni locali nei nostri paesi vi sono preti e suore extraeuropei in numero sempre crescente, ma se continua così anche le nostre antiche chiese saranno prive dei discendenti di coloro che le hanno costruite.
E il Vaticano cosa fa? Invece di guardare in faccia la situazione e correre ai ripari abolendo la legge ecclesiastica e non biblica del celibato sacerdotale, aprendo al diaconato e al cardinalato femminile, rivedendo le leggi anacronistiche in tema di morale sessuale e di disciplina dei sacramenti, non ha saputo fare altro che istituire un altro centro di potere, un altro ministero clericale, il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, i cui frutti inesistenti sono e continueranno a essere sotto gli occhi di tutti. Io mi chiedo come si faccia a non voler considerare la drammaticità della situazione lasciando sistematicamente ignorati tutti i numerosi appelli alla riforma che regolarmente giungono a Roma da tutte le parti, me lo chiedo, ma non so rispondere. Se si avesse veramente a cuore la fede di quello che un tempo si chiamava “popolo” di Dio oggi destinato a diventare un circolo per pochi, non si dovrebbe agire in modo diverso?

SPUNTANO LE CELLULE ISLAMICHE ITALIANE LEGATE AD AL QAEDA

All'indomani di una intensa campagna di stampa dedicata alla crisi della religione cristiana e alla quale i due principali quotidiani italiani, Corriere della Sera e La Repubblica hanno dedicato articoli di più pagine, spunta il fantasma del possibile terrorismo islamico anche nel nostro paese. La circostanza ci insospettisce, anche perché, vivo Bin Laden, le notizie sulla presenza del terrorismo islamico in Italia si erano quasi tutte rivelate prive di fondamento: a Vicenza una cellula di 7 potenziali terroristi, arrestata e sottoposta al processo, erano stati tutti quanti assolti con formula piena. Tra i sospettati di terrorismo il Giornale di Vicenza aveva fatto riferimento a un fantomatico imam yemenita che si spostava di moschea in moschea per organizzare chissà quali diavolerie. Cessata la fase virulenta della psicosi anti islamica, anche perché la Lega Nord da qualche settimane ha altre grane a cui pensare, si è scoperto che il fantomatico imam yemenita nomade, una volta che ha trovato casa si è stabilito a Vicenza è l'attuale imam della moschea di Ponte Alto.
Tuttavia ci sembra opportuno dedicare al tema una approfondita attenzione: anche perché, in parallelo con le scoperte delle cellule potenzialmente terroriste, questa volta formate da italiani convertiti, in numerosissime trasmissioni culturali televisive personaggi famosissimi come protagonisti del dibattito culturale sull'Islam, diventano sempre più numerosi e, pur non prendendosela direttamente con l'Islam, insistono molto sul tema dell'esistenza di Dio: tanto per fare qualche nome citiamo Corrado Augias, Margherita Hack e il simpaticissimo Odi Freddi, tutti atei convinti (è un loro diritto esserlo) sulla base del solito argomento che non vi è nessuna prova che Dio esista. Per affrontare l'argomento delle diverse forme che assume l'islamofobia, mentre aspettiamo  che la notizia della cellula italo-islamica abbia un qualche seguito, ci dedichiamo alla campagna allarmistica scatenata sul tema della "Fine del Sacro", della presunta morte di Dio o della sua inesistenza, non senza aver dato conto del bollettino sulla cellula terroristica annidata con la sua rete nella nostra penisola



Terrorismo, fermata una cellula tutta italiana

PESARO - Un professore di lettere del liceo, tre impiegati, due operai, due vigilantes e alcuni disoccupati. È composta così la cellula terroristica, tutta italiana, scoperta ieri dalla Polizia di Stato. Si tratta di persone, convertite all´estremismo islamico, che si stavano addestrando per compiere il "martirio" in nome della Jihad. Dalle loro case di Palermo, Como, Milano, Cagliari, Brescia, Pesaro, Salerno e Cuneo, quasi ogni giorno, i dodici si scambiavano informazioni su come fabbricare bombe (utilizzando semplice materiale da cucina) per «uccidere gli impuri e i miscredenti». Almeno fino a ieri, quando la divisione nazionale anti terrorismo della Polizia di Stato (Ucigos) ha arrestato uno del gruppo (che era sul punto di fuggire in Marocco) e perquisito le case degli altri undici, sequestrando computer e altro materiale. Sono tutti indagati con l´accusa di "addestramento con finalità terroristica", ma in carcere, per il momento, è finito solo Andrea Campione, 28 anni, operaio di Pesaro. 
Il ragazzo che da tempo si fa chiamare Abdul Wahid As Siquili - sposato con una donna di origine marocchina - si era licenziato dal lavoro (una fabbrica dell´indotto del settore del mobile) perché voleva partire per "compiere la sua missione". Gli inquirenti sostengono che Campione fosse in stretto contatto con un ragazzo - anch´egli di origine marocchina - arrestato a Brescia un mese fa e accusato di aver progettato un attentato alla sinagoga di Milano. Proprio l´arresto dell´amico avrebbe convinto l´operaio marchigiano a prenotare un biglietto di sola andata per il Marocco. «Sarebbe partito a giorni. A Rabat probabilmente avrebbe finito l´addestramento per poi andare in Afghanistan a combattere», rivela Claudio Galzerano, dirigente della divisione anti terrorismo. «Questo gruppo italiano», rimarca il dirigente dell´Ucigos «ha sostenuto la causa jihadista in diverse forme: c´è anche chi si è preoccupato di tradurre i testi di al Qaeda in italiano». Durante le perquisizioni nelle varie città è stato trovato anche un video di un attentato kamikaze. L´operazione è stata denominata «Niriya», dal nickname che Campione usava sul web per acquisire e diffondere testi di natura jahidista e quaedista, e per portare avanti il progetto di terrorismo islamico insieme - ritengono gli inquirenti - con un docente di origine sarda. L´insegnante indagato è un professore quarantenne (precario) che insegna al liceo Dettori di Cagliari. Questa mattina gli agenti hanno bussato alla porta di casa sua e acquisito materiale informatico che adesso verrà analizzato.

Giuseppe Caporale





venerdì 20 aprile 2012

AFGHANISTAN

In posa con i corpi mutilati dei kamikaze
bufera sui soldati Usa in Afghanistan

NEW YORK - Sorridendo, alcuni soldati americani appaiono accanto a corpi maciullati di insorti afghani, morti presumibilmente mentre preparavano ordigni esplosivi: sono le foto che il Los Angeles Times pubblica oggi e che con ogni probabilità inaspriranno ulteriormente i rapporti tra le forze Nato in Afghanistan e le autorità afghane. Sull'accaduto, ha detto Barack Obama, è stata già avviata un'inchiesta, mentre il segretario Usa alla Difesa Leon Panetta ha già espresso «con fermezza» la sua condanna. 
Le immagini. Il giornale, nonostante le pressioni che dice di aver avuto dalle autorità militari Usa, ha deciso di pubblicare due delle 18 foto di cui è entrato in possesso. La più scioccante mostra due soldati Usa accanto a due agenti della polizia afghana che tengono sollevate da terra per i piedi due gambe nude malamente amputate e sanguinolente. Nell'altra si vede un soldato in primo piano che sorride mentre alle sue spalle un suo compagno esamina il cadavere di un uomo che ha gli occhi sbarrati. Il Los Angeles Times scrive che nelle altre foto si possono vedere due soldati in posa che sostengono la mano di un cadavere con il dito medio sollevato, e anche una fascia con scritto Zombie Hunter (cacciatore di zombie). Il giornale scrive che si tratta di scatti del 2010 e di averli avuti da soldati della stessa 82esima divisione aviotrasportata a cui appartengono i militari ritratti nelle foto, che hanno affermato di voler così attirare l'attenzione sui problemi di sicurezza di due basi in Afghanistan. «Posare con cadaveri per fotografie per scopi diversi da quelli ufficiali rappresenta una violazione delle procedure militari», ha sottolineato un portavoce dell'esercito, George Wright.
La condanna Usa. Dura condanna da parte dell'ambasciatore Usa in Afghanistan, Ryan Crocker, e del comandante della Coalizione Nato, il generale John Allen. I militari ritratti nelle foto hanno mostrato «ignoranza e scarsa conoscenza» dei valori dell'esercito Usa, ha detto Allen. L'ambasciatore Crocker ha parlato di «azioni moralmente ripugnanti» da parte dei militari responsabili.


In genere sono i soldatacci pieni di terrore, per lo più mandati in guerra da governi tirannici che schiacciano paesi dove si muore di fame a macchiarsi delle peggiori atrocità in guerra.
Ora anche la crudeltà appiattisce la gente: non vi è più nessuna differenza tra le antiche mutilazioni che i popoli cosiddetti selvaggi infliggevano ai corpi dei nemici uccisi, e la totale mancanza di compassione nei confronti del nemico fatto prigioniero e i soldati iper-nutriti e iper-armati che mutilano, torturano, umiliano chiunque venga genericamente classificato come nemico. Una differenza c'è: le tribù cannibali che mangiavano il cervello di un nemico eliminato o infliggeva le più fantasiose torture ai prigionieri non sembra che si gloriasse dell'atrocità commessa. Persino i tedeschi della Wermacht  si lasciavano sfuggire un moto di compassione vedendo i prigionieri russi che in preda alla fame mangiavano gli elenchi telefonici trovati nelle stazioni o qualche compagno stramazzato al suolo per l'inedia. Il loro commento di fronte a spettacoli del genere era, come riporta Cursio Malaparte nel romanzo "Kaputt", "Povera gente..". Il progresso tecnologico ha creato una quantità enorme di strumenti fotografici e cinematografici, e ha fornito ai soldati dei paesi ultra-civilizzati tutti i mezzi con cui eternare le immagini delle peggiori efferatezze: pisciare sui cadaveri dei nemici caduti, fotografarne le gambe o le braccia maciullate, fare dettagliati reportage delle torture-interrogatorio.
Penso agli onori che gli Indiani d'America rendevano agli avversari più valorosi; e mi vengono in mente le parole che il Profeta in numerosi hadith pronunciava quando vedeva un guerriero dell'Islam comportarsi in maniera disumana con un nemico fatto prigioniero o caduto in battaglia. Così Muhammad si rivolse al suo luogotenente Abu-Bakr che stava legando le mani ad un prigioniero e si accingeva ad applicargli il collare che lo rendeva schiavo: "Sua madre lo ha generato senza segni che ne documentassero la schiavitù perché Allah lo ha creato libero. Chi sei tu che pensa di poter fare ciò che Allah non ha fatto?".
Saladino, dopo aver conquistato a prezzo di gravi perdite Gerusalemme, ordinò ai suoi medici di curare per primi i crociati feriti.

ITALIA

ITALIANI BRAVA GENTE

Rimpatriati con la bocca tappata da scotch

Nastro adesivo da pacchi a tappare la bocca, fascette di plastica a bloccare i polsi. Così si viaggia sulla rotta Roma-Tunisi. Protagonisti due immigrati espulsi dall`Italia e scortati martedì scorso da quattro agenti a bordo di un volo Alitalia. A denunciarlo uno dei passeggeri, che scatta una foto e la pubblica su Facebook. Esplode così il caso politico: «Il governo riferisca con la massima urgenza» è l`invito del presidente della Camera, Gianfranco Fini. E il capo della polizia, Antonio Manganelli, chiede una relazione alla polizia di frontiera di Fiumicino.
Tutto comincia con la foto shock che il regista Francesco Sperandeo pubblica su Facebook (rilanciata da Repubblica.it): «Ero sul volo Alitalia Roma-Tunisi delle 9.20 di martedì scorso – racconta il testimone -negli ultimi posti c`erano due uomini scortati da quattro agenti. Avevano la bocca coperta da una mascherma d`ospedale. Quando a uno di loro è caduta, abbiamo visto che la sua bocca era tappata con scotch da pacchi. Nella totale indifferenza degli altri passeggeri, in due ci siamo alzati per protestare. Sia lo steward che gli agenti ci hanno detto che era una normale operazione di polizia».
Sulla vicenda il capo della polizia Manganelli chiede una prima relazione all`ufficio di frontiera dell`aeroporto di Fiumicino, da dove sono partiti i due immigrati. Qualche elemento, però, sembra già in possesso degli investigatori. I due uomini sarebbero algerini, avrebbero fatto scalo tecnico a Roma con un volo che da Tunisi doveva portarli in Turchia. Arrivati a Fiumicino la mattina del 15 aprile, avrebbero rifiutato per due volte di imbarcarsi sul volo diretto in Turchia. A quel punto le autorità italiane avrebbero fatto scattare la procedura di respingimento che prevede di riportarli nel luogo dal quale sono partiti e dunque a Tunisi. La decisione di mettergli una mascherina fermata con il nastro adesivo, sottolineano fonti della polizia, sarebbe stata presa per la sicurezza degli altri passeggeri: gli immigrati, infatti, tentavano di ferirsi la bocca mordendosi, per poi sputare il sangue addosso agli altri passeggeri ed evitare così l`imbarco.
Nella foto però si vede che lo scotch non è sulla mascherina ma sulla bocca dell`uomo. E non è affatto escluso che sulla vicenda anche la procura voglia fare chiarezza: secondo fonti giudiziarie della Cassazione nel caso sono infatti ipotizzabili due ipotesi di reato, l`abuso di autorità e la violenza privata. «Una cosa è certa – ricorda Riccardo Noury di Amnesty International – per scongiurare i rischi di asfissia posturale, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d`Europa raccomanda nelle espulsioni via aerea il divieto assoluto di mezzi che possano ostruire le vie respiratorie».
L`immagine del migrante con la bocca tappata rimbalza da Internet al Parlamento, dove esponenti di Pd, Fli e Idv chiedono al governo di riferire e spiegare perché queste procedure vengono definite «normali». Si tratta, dice invece il presidente del Pd Rosy Bindi, di un «trattamento inaccettabile». Per il vicepresidente del Senato, Emma Bonino, «quanto accaduto è sconcertante sia che si confermi come “normale procedura”, sia se frutto della libera valutazione degli agenti».
Secondo Stefano Pedica (Idv), «ciò che è avvenuto sul volo è indecente, neanche a Guantanamo abbiamo assistito a soprusi del genere». Il ministro Andrea Riccardi non risponde nel merito, ma si limita a ricordare che «le persone vanno trattate sempre bene». Alla fine è lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini, a invitare il governo a «riferire quanto prima» sulla vicenda.


Vladimiro Polchi


"VIOLATA ANCHE LA COSTITUZIONE COSÌ SVANISCE LA DIGNITÀ UMANA"

«Trattare le persone come merci da impacchettare è un pratica degradante che confligge con i diritti inviolabili dell'uomo». Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza di Roma, ha visto la foto shock del migrante con lo scotch sulla bocca: «Se tutto questo venisse confermato saremmo di fronte a una grave violazione dei principi fondamentali della Costituzione».
Ma motivi di ordine pubblico non giustificano talvolta misure straordinarie?
«Oggi si riducono tutti i problemi dell'immigrazione all'ordine pubblico. Ma assolutizzare il valore dell'ordine pubblico e imporre sempre una logica securitaria rischia di far svanire nel nulla la dignità dell'essere umano. A prescindere dai profili penali, in questo caso saremmo di fronte a un conflitto di valori e di sistema con l'intera nostra Costituzione, che si oppone a ogni atto degradante».
Quali articoli vede violati?
«I principi fondamentali, come l'articolo 2 che obbliga a garantire i diritti inviolabili di ogni essere umano, che sia ricco o povero, cittadino o immigrato. E l'articolo 3 che riconosce a tutti pari dignità sociale: non è dunque accettabile che i consociati non rispettino la dignità altrui. Ricordo che da Kant alla Costituzione il valore della dignità umana è assoluto. Oggi siamo invece di fronte al prodotto perverso di una disumanizzazione».
Ci spieghi meglio.
«Si guarda agli uomini come merci e le merci si impacchettano. Le persone invece andrebbero messe nella situazione di non ledere a se stesse e agli altri con modalità che rispettino sempre i diritti umani. Altrimenti, ripeto, si crea un conflitto di fondo con la nostra stessa tradizione costituzionale».
 
Vladimiro Polchi

LA COMPASSIONE E LE REGOLE
LA SICUREZZA innanzitutto. E poi le regole da rispettare e gli ordini da seguire. Ma fin dove? Dove comincia e dove finisce la "normalità"? Imbavagliare con nastro da pacchi due cittadini tunisini che vengono rimpatriati non dovrebbe essere qualcosa di "normale". Anche quando si ritiene "normale" metterli su un aereo per rispedirli nel loro paese. Perché, nonostante tutto, il viso di una persona ha sempre un valore simbolico. È attraverso il viso e la bocca che ognuno di noi esprime la propria soggettività. È attraverso il proprio sguardo che si entra in relazione con gli altri. E la soggettività di un essere umano, anche quando si è commesso un crimine o un delitto, non dovrebbe mai essere negata o cancellata come accade quando, per applicare le procedure ed evitare di creare scompiglio e confusione, si cede alla tentazione di far tacere a tutti i costi, anche con del nastro adesivo. Per garantire il buon funzionamento della società, ciascuno di noi è chiamato a fare il proprio dovere e ad assumersi le responsabilità che gli competono.
Non si tratta qui di negare l' importanza delle regole che, da sempre, rendono possibile il "vivere insieme". Dovere e responsabilità, però, non dovrebbero implicare né un' assenza di compassione, né l' indifferenza. Perché gli esseri umani non sono dei semplici automi, delle macchine che si limitano ad eseguire i programmi con cui sono state concepite. La compassione nei confronti di un' altra persona, però, è possibile solo quando si è capaci di immedesimarsi nell' altro. E, quindi, quando si riconosce l' altro come un essere umano simile a noi. Altrimenti si scivola, anche senza rendersene conto, in una forma di barbarie. Come ci insegna Hannah Arendt nel 1963, il problema del rapporto tra "dovere" e "umanità" è molto complesso. Perché talvolta accade che, proprio nel nome del dovere, ci si dimentica che chi ci sta accanto è anche lui una persona. È allora che si commette il "male". Paradossalmente nel nome del "bene". Anche banalmente. Non perché il male, in sé, sia banale. Ma perché può accadere a chiunque di "smettere di pensare" quando si tratta di applicare una regola, e di non sapere più fare la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Umiliare una persona non dovrebbe mai essere giusto, anche in nome della sicurezza e della giustizia. Eppure è proprio di umiliazione che si tratta quando si parla di nastro da pacchi sulla bocca. Questi due tunisini li si doveva, certo, rimpatriare. Si doveva probabilmente immobilizzarli. Ma c' era veramente bisogno di farli tacere imbavagliandoli? Non è solo una questione di "eccessi" o di "misura". È una questione simbolica. Gli esseri umani sono caratterizzati dal linguaggio e dalla parola, come spiega bene Lacan. Perché privarli allora di ciò che li rende umani?



Michela Marzano



lunedì 16 aprile 2012

Nucleare iraniano I mullah riaprono il tavolo dei negoziati

GERUSALEMME — Parlarsi, è già qualcosa. Vendere il tappeto, un'altra cosa. «Avete presente il suk?», racconta uno sherpa della diplomazia europea: «Il buon risultato è che il cliente sia finalmente entrato nella bottega. Si sia seduto. E abbia cominciato a guardarci in faccia...». Non per niente, ieri si sono trovati di nuovo al gran bazar d'Istanbul: quindici mesi dopo il disastroso vertice 2011, quando gl'iraniani rifiutarono quasi d'affrontare l'argomento, stavolta la delegazione di Teheran ha sfoderato i sorrisi. «Il loro negoziatore, Said Jalili, s'è presentato calmo e costruttivo ed è entrato subito in argomento — descriveva all'ora di pranzo il portavoce europeo, Michael Mann —. C'è stato qualche momento di confronto, anche teso. Ma è stato un buon mattino, con un'atmosfera positiva, completamente diversa. Nel pomeriggio, chissà, magari faranno un passo indietro...».
Non l'hanno fatto. Né indietro, né avanti. E così il primo round di colloqui sul nucleare ha portato all'unico risultato «utile e costruttivo» (aggettivi di Catherine Ashton, coordinatrice estera Ue) di fissarne un secondo: il 23 maggio, a Bagdad, perché Istanbul piace poco a Sarkozy — in maretta coi turchi dopo le polemiche sul genocidio armeno — e agl'israeliani, che non vogliono regalare la ribalta all'ex amico Erdogan. A un certo punto del pomeriggio, convinti gli ayatollah a entrare «nella bottega», le potenze del gruppo 5+1 hanno tentato il colpaccio storico: organizzare un faccia a faccia Usa-Iran, il primo dai tempi dello Scià. C'è stato fermento, quando un'agenzia persiana ha risposto con un mezzo sì e, subito dopo, altre due agenzie hanno troncato con un deciso no: parlarsi va bene, ma non sarà attraverso la delegata americana Wendy Sherman che s'aprirà una nuova pagina di relazioni col Grande Satana... «Un primo passo positivo» ha commentato in serata la Casa Bianca.
Eccitazioni diplomatiche a parte, i risultati veri stanno a zero. Nemmeno il secondo round iracheno ne darà, probabilmente. E un terzo potrebbe arrivare tardi, se è vero che gl'israeliani — scrive un analista militare di Tel Aviv — sono già pronti a un attacco militare in ottobre. La strategia iraniana, fra Khamenei che lancia fatwe contro la Bomba e Ahmadinejad che promette la «difesa dei nostri diritti nucleari», resta imperscrutabile. Nessuna disponibilità a fermare l'arricchimento d'uranio al 20%, accettando le ispezioni internazionali. Le «nuove iniziative» promesse alla vigilia s'esauriscono nei sorrisi e nella richiesta, ripetuta da Jalili, di «levare già dalla riunione di Bagdad le sanzioni internazionali»: sei risoluzioni Onu di condanna, l'embargo commerciale dal 2010 e quello finanziario d'un mese fa, il blocco petrolifero senza precedenti che partirà dal 1° luglio, tutto questo ha solo ammorbidito i toni di Teheran. Ma Israele è stato chiaro con Obama e i sei gendarmi nucleari mondiali: bisogna distruggere tutto l'uranio arricchito, sia al 20% che al 3,5 e ai livelli inferiori. Il premier Bibi Netanyahu è disposto a lasciarne a Teheran solo qualche kg, per uso civile. E in risposta a chi — lo scrittore Günter Grass — equipara l'atomica israeliana a quella iraniana, ha aperto a Gerusalemme un negoziato segreto per una possibile (clamorosa) adesione nel 2013 al Trattato di non proliferazione nucleare, dispiegando intanto nuove batterie di Patriot sul Carmelo. «Bibi ha capito che minacciare sempre l'attacco fa alzare il prezzo del petrolio, arricchire gli ayatollah e odiare Israele — analizza l'editorialista Nahum Barnea —. Ora si prepara in silenzio. E aspetta che questi colloqui portino al nulla che s'aspetta».

Francesco Battistini


Il Compromesso Difficile fra Khamenei e i Repubblicani

La strategia per l'Iran elaborata dall'amministrazione Obama finora ha dato buoni risultati. Se pressioni senza precedenti hanno costretto Teheran a sedersi al tavolo dei negoziati, tuttavia occorrerà dimostrare straordinarie doti diplomatiche per raggiungere un accordo nel corso dei colloqui, appena iniziati, tra l'Iran e il cosiddetto «club dei 5 + 1» — ovvero Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia e Germania. Nell'aria aleggia un certo pessimismo: un accordo concreto sarà possibile solo se, come in ogni trattativa riuscita, entrambe le parti avranno qualcosa da portare a casa.
Come potrebbe configurarsi un accordo? Da molto tempo gli Stati Uniti chiedono all'Iran di sospendere l'arricchimento dell'uranio, il procedimento che consente di produrre il combustibile necessario alla bomba atomica. L'Iran sostiene di avere il diritto all'arricchimento, perché lo definisce a scopi pacifici. Oggi è lecito sperare che si stia per raggiungere un compromesso intelligente. Washington ha proposto all'Iran di fermare l'arricchimento dell'uranio al 20 percento, il livello a partire dal quale il combustibile può essere facilmente destinato ad applicazioni militari. L'Iran ha fatto capire che potrebbe accettare questo limite e arricchire solo al 3,5 o al 5 percento, e affermare al tempo stesso di aver salvaguardato il suo diritto all'arricchimento.
Ma l'Iran avrebbe comunque ancora a disposizione riserve di uranio arricchito al 20 percento, prodotto negli ultimi due anni, forse sufficiente per costruire un ordigno nucleare. Teheran ha respinto la richiesta di Washington di trasferire e far custodire all'estero queste scorte di uranio, sostenendo di averne bisogno per la produzione di isotopi a uso ospedaliero. Ricordiamo tuttavia che l'Iran fu vicino a siglare un accordo su questo punto nel 2009, e ne propose un altro nel 2010, accettando di spostare all'estero questo uranio a basso arricchimento. Oggi le dichiarazioni dei negoziatori, da una parte e dall'altra, lasciano intravedere che si potrebbero adottare elementi di quelle vecchie proposte: spedire all'estero una parte delle scorte dell'uranio iraniano in cambio di piastre di combustibile completate, che vengono utilizzate nella produzione di isotopi in ambito medico.
È corsa voce che Washington vuole chiedere all'Iran di chiudere l'impianto nucleare di Fordo, dove l'arricchimento di alto livello viene eseguito in una centrale segreta, ricavata nel ventre di una montagna nei pressi di Qom. (Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha avanzato espressamente una richiesta in tal senso la scorsa settimana). L'Iran si è rifiutato, affermando di avere il diritto di posizionare i suoi impianti nucleari dove meglio crede, dato che il suo programma nucleare è per uso civile. Washington farebbe meglio ad ammorbidire la sua posizione su questo punto, a condizione che l'Iran accetti le visite accurate di ispettori indipendenti.
Il punto cruciale sul quale l'Iran dovrebbe fare importanti concessioni riguarda appunto le ispezioni. Il rapporto dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica, emanato nel 2011, elenca una serie di fattori che stanno a indicare la precisa volontà iraniana di puntare alla bomba atomica. I «5 + 1» dovrebbero far riferimento a questo documento per elencare quali sono le azioni che l'Iran si impegna a non intraprendere, e per insistere che l'Aiea ottenga pieno accesso a tutti i siti, in modo da poter controllare che il programma militare sia stato effettivamente accantonato. Se accettasse le ispezioni dell'Aiea, l'Iran sarebbe ricompensato con la revoca progressiva delle sanzioni, man mano che i controlli procedono senza ostruzionismi. 
Ma gli accordi funzionano se vengono accettati da entrambe le parti. Al momento attuale c'è motivo per credere che i vertici più intransigenti del paese, sotto la guida del leader supremo, l'ayatollah Ali Khamenei, potrebbero essere disposti a trattare. Khamenei ha rafforzato il suo potere, smantellando il Movimento verde; si è riconciliato con un temibile rivale, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani; e ne ha emarginato un altro, il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Khamenei si è inoltre ritagliato ampi spazi di manovra per fare concessioni sul programma nucleare. Rileggiamo la dichiarazione categorica emanata a febbraio: «La nazione iraniana non insegue e non inseguirà mai l'arma nucleare … perché la repubblica islamica, dal punto di vista logico, religioso e teorico, considera il possesso delle armi nucleari un grave peccato e ritiene insensata, oltre che distruttiva e pericolosa, la proliferazione di questi armamenti». Khamenei avrà voluto preparare il terreno, per spiegare le eventuali concessioni in patria. La strategia di Obama è quella di dire all'Iran: «Vi chiediamo soltanto di convalidare le vostre affermazioni con azioni concrete», un modo assai scaltro per formulare le sue richieste. Ma se l'Iran farà concessioni, gli Stati Uniti dovranno accettarle e sollevare in parte le sanzioni. Ma è proprio qui che lo schieramento repubblicano di Washington potrebbe creare ostacoli. Se i repubblicani interferiscono con i negoziati, o si rifiutano di ricambiare, accettando l'abolizione delle sanzioni, non ci sarà nessun accordo.
Il governo Obama ha sin qui negoziato abilmente con i suoi alleati, Russia, Cina, le Nazioni Unite e persino con Teheran. Per portare a casa l'accordo, tuttavia, Obama dovrà vedersela con il suo peggior avversario, che rischia di far fallire le trattative: il partito repubblicano.

Faared Zakaria

AFGHANISTAN

AFGHANISTAN: I TALEBANI ATTACCANO KABUL, QUASI 50 MORTI E DECINE DI FERITI

Sono durati per 17 ore i combattimenti che da ieri hanno coinvolto le forze di sicurezza afgane nel contrastare il più massiccio attacco lanciato dai talebani negli ultimi 10 anni e che, secondo un bilancio ufficiale diffuso oggi, hanno provocato la morte di 47 persone e il ferimento di altre 60. Secondo l’ultimo bilancio diffuso oggi dal ministero dell’Interno nelle violenze iniziate ieri sono morti 36 talebani (uccisi dalle bombe che avevano addosso negli attentati suicidi o in scontri con le forze dell’ordine) otto militari afgani e tre civili. Tra i feriti si contano una quarantina di militari e 25 civili. Sulla base delle ricostruzioni ufficiali sono stati almeno sei gli attacchi coordinate lanciati ieri: un contro il Parlamento, uno contro il vice-presidente, uno contro la Forze internazionale della Nato (Isaf) e gli altri contro rappresentanze diplomatiche occidentali. “Attacchi ben coordinati” nel pieno centro di Kabul, come riferisce l’agenzia di stampa afghana Pajhwok, dall’alto valore simbolico, con i talebani che hanno voluto (mentre si parla ancora di negoziati) affermare la loro presenza e la loro capacità d’urto, a oltre dieci anni dall’invasione statunitense che mise fine al regime degli “studenti” ma non alla loro presenza. Kabul a parte, le violenze hanno interessato anche Logar, Nangarhar e Paktia. A Paktia sono entrati in azione almeno quattro kamikaze, a Nangarhar erano invece in sette. Kamikaze sono stati quelli che hanno dato il via all’operazione architettata dai talebani: quando era da poco pomeriggio, alcuni di loro hanno infatti tentato di introdursi nel parlamento facendosi esplodere mentre altrove cominciavano a udirsi colpi di arma da fuoco. I talebani hanno rivendicato gli attacchi sostenendo che gli obiettivi principali erano il quartier generale della Nato, e le ambasciate di Gran Bretagna e Germania.

sabato 14 aprile 2012

Addio ad Ahmed ben Bella il padre dell'Algeria libera

Ahmed ben Bella è stato uno storico personaggio della decolonizzazione. Uno dei nove capi
dell'insurrezione algerina, che, tra il 1954 e il 1962, ha condotto il paese all'indipendenza,
attraverso la lotta armata. Il giovane campîone di football, nato a Marnia nel '16 (nonostante
l'anagrafe, la data è incerta), nella provincia di Orano, aveva imparatoa usare le armi durante la
Campagna d'Italia, come sergente dell'esercito francese. Edè nella battaglia di Monte Cassino
che si era distinto, guadagnando i gradi di adjudant (maresciallo) e ricevendo poi la croce di
guerra a Roma, dalle mani del generale de Gaulle. Egli raccontava spesso ai giornalisti amici di
essersi deciso alla rivolta armata contro la Francia dopo il massacro di Setif, non lontano da
Costantina. In quella località, l'8 maggio 1945, era stata indetta una manifestazione per
chiedere al governo di Parigi l'indipendenza dell'Algeria. I francesi avevano appena
riconquistato la loro, dopo l'occupazione tedesca, anche grazie al sangue dei soldati algerini.
Perché non l'accordavano anche al paese del Maghreb occupato da più di un secolo (dal 1830)
e considerato un dipartimento francese, nonostante i suoi legittimi abitanti non usufruissero
della liberté, dell'egalité e della fraternité, parole stampate sulle bandiere della République? La
risposta arrivò dall'esercito coloniale, appoggiato dall'artiglieria navale. Cosi furono massacrati
migliaia di civili. Fu allora che ben Bella decise di aderire al partito di Messali Hadj. Un partito
proletario, collegato con gli emigrati in Francia, che aveva superato la moderatae inascoltata
richiesta dell' "assimilazione", alla quale si limitavano i vecchi partiti algerini, e che, reclamando i
diritti sociali, non escludeva la lotta violenta. A evocare quest'ultima erano soprattutto i reduci
dalla guerra.  
Il nome di Ahmed ben Bella ha occupato per la prima volta le cronache dei giornali francesi e
algerini nel 1950, quando venne processato e condannato a sette anni per attività anti francese
e per avere svaligiato armi alla mano la posta centrale di Orano. La sua partecipazione alla
rapina restò incerta ma i soldi dovevano comunque servire a comperare delle armi e l'azione
doveva segnare il primo atto di ribellione. Due anni dopo ben Bella evade dal carcere di Blida e riesce a raggiungere il Cairo, dove con
Hocine Ait Ahmed e Mohamed Khider forma la delegazione esterna del nuovo Fronte di
Liberazione Nazionale. L'insurrezione armata in Algeria comincia nell'autunno del 1954 e
costerà centinaia di migliaia di morti. Un milione dice la storia ufficiale. E l'Armée, nonostante
l'impiego di centomila uomini, la tortura e la repressione, non riuscirà a domare la rivolta.
Lascerà sul terreno, anch'essa, migliaia di morti. E un milione di coloni francesi, ricchi e poveri,
furono costretti a lasciare il paese.
Nel 1956 ben Bella è di nuovo arrestato dai francesi, i quali dirottano l'aereo che lo sta portando
dal Marocco in Tunisia. Viene rinchiuso nella prigione parigina della Santé, e poi spostato
continuamente da un carcere all'altro. Ma riesce a comunicare con l'esterno. Ne approfitta per
organizzare la Federazione di Francia dell'FLN e per mantenere i contatti con i capi
dell'insurrezione armata in patria. Nel '58, benché ancora prigioniero, viene eletto vice
presidente del GPRA (il Governo provvisorio della Repubblica Algerina) formato nel frattempo.
Ritorna in libertà esattamente mezzo secolo fa, nel 1962, dopo gli accordi di Evian, durante i
quali il generale de Gaulle, convinto che non resta ormai altra soluzione, riconosce agli algerini
il diritto all'autodeterminazione. Sono trascorsi dodici anni dopo la rapina di Orano e la Francia
riconosce la sconfitta. L'Algeria conquista la libertà. L'indipendenza è proclamata il 3 luglio ma i
capi della rivoluzione sono divisi. Ben Bella contesta la legittimità del Governo provvisorio, ed
emargina i compagni che lo difendono. Compagni che auspicherebbero una piattaforma
democratica.
Dopo una sosta a Tlemcen, ben Bella rientra ad Algeri e il 27 settembre è designato presidente
del consiglio.
Si propone di costruire un socialismo adeguato alla realtà algerina. Al tempo stesso influenzato
da quello cubano e impegnato a mantenere i rapporti con la Francia. Ai "piedi neri", cioè i
francesi d'Algeria che hanno abbandonato in massa il paese, sono succeduti gruppi di "piedi
rossi", formati da alcune centinaia di francesi desiderosi di partecipare all'esperienza socialista.
I modi di ben Bella sono spicci. Ha fretta. Diventato segretario generale del partito si occupa
con zelo dell'epurazione dell'esercito, dell'amministrazione, e dello stesso Fronte di Liberazione
Nazionale, cioè del partito. Ad Algeri prevale un'atmosfera rivoluzionaria. Gli eccessi libertari si
alternano agli eccessi repressivi. La società condizionata dalla tradizione religiosa stentaa
seguirei ritmi del nuovo presidente. Eletto appena approvata la costituzione, «al suono
dell'Internazionale e al ritmo del Corano» dirà con sarcasmo Kateb Yacine, il grande scrittore algerino. Siamo nel settembre '63. E al coraggioso iniziatore dell'insurrezione algerina restano
pochi mesi di potere. Il 19 giugno 1965 il colonnello Bumedien, il delfino designato, che
comanda l'esercito algerino formatosi all'esterno, in Tunisia e in Marocco, compie in poche ore
un colpo di Stato, proprio mentre Gillo Pontecorvo gira per le strade della capitale il film "La
battaglia d'Algeri". Comincerà cosi un socialismo più burocratico, più rigido di quello che ben
Bella si proponeva di realizzare. Ben Bella finisce di nuovo in prigione fino al 1979.
Poi viene messo agli arresti domiciliari e infine mandato in esilio. Nel settembre del 1990 è di
nuovo in patria più ignorato che riverito. Ma vent'anni dopo assisterà, come invitato d'onore, al
giuramento del presidente Abdelaziz Buteflika, pure lui vecchio animatore della rivoluzione. Ben
Bella ha potuto cosi morire nel suo paese, che insieme ad altri compagni ha reso indipendente.

Bernardo Valli

ISRAELE

Israele, nuovo attacco di Grass "Lo Stato ebraico ricorda la Ddr"

BERLINO - Dichiarandomi persona non grata nel suo territorio, lo Stato d'Israele si è
comportato con me in un modo che nel tono ricorda il modo in cui mi trattò la Ddr, cioè la
dittatura tedesco-orientale.  
E' quanto scrive Guenter Grass nella sua prima reazione alla decisione del governo israeliano
di negargli l'ingresso nel paese. La prima risposta dello scrittore tedesco, premio Nobel per la
letteratura, arriva con una breve lettera che viene pubblicata oggi dalla Sueddeutsche Zeitung e
che Grass ha recapitato anche a Repubblica. Un paragone durissimo: la democrazia israeliana
accostata alla dittatura del Muro e della frontiera della morte.
In questo modo, dopo giorni di silenzio, quello che è considerato il massimo scrittore tedesco
vivente si difende, e torna alla polemica. Il dibattito-scontro a livello mondiale, come si ricorderà,
era stato scatenato dalla pubblicazione - sulla Sueddeutsche, su Repubblica, su El Paìs - di una
poesia, intitolata "Quel che deve essere detto". Nel testo, Grass affermava in sostanza che il
vero pericolo alla pace in Medio Oriente e quindi nel mondo viene non già dal sospetto non
provato che l'Iran si stia costruendo una bomba atomica, bensì dall'arsenale nucleare israeliano
già esistente, e su cui Israele rifiuta ogni controllo internazionale. Criticato e isolato dalla
maggioranza dei media mondiali, e anche tedeschi, da premi Nobel come Elie Wiesel, dallo
stesso governo federale, Grass si era visto appunto dichiarare domenica scorsa "persona non
grata". Una reazione, quella israeliana, che a molti è apparsa eccessiva, nervosa e sbagliata.
«Per tre volte - scrive Grass - mi è stato vietato l'ingresso in uno Stato. La prima volta fu da
parte della Ddr, su istigazione del ministro della Sicurezza Erich Mielke. E fu egli stesso che
revocando l'ordine anni dopo, ordinò comunque di tenermi sotto strettissimo controllo e
sorveglianza, come "elemento distruttivo"». Nel 1986 poi, ricorda ancora lo scrittore, «io e mia
moglie vivemmo per mesi a Calcutta, e ci fu negato l'ingresso in Birmania come "persone non
grate"». In entrambi i casi, egli nota, fu seguita l'abituale prassi delle dittature.
«Adesso», egli continua, «è il ministro dell'Interno di una democrazia, lo Stato d'Israele, che mi
punisce col divieto di recarmi nel suo paese e che nel tono e nella giustificazione della misura
ricorda il verdetto di Mielke. Ma questo non m'impedirà di mantenere vivo il ricordo di molti miei
viaggi in Israele». Continuo a sentire presente in me il silenzio del deserto laggiù, continuoa
sentirmi legato allo Stato d'Israele da legami che non si possono troncare, aggiunge. «E ricordo
ancora lunghe discussioni fino a notte con amici, che erano in disaccordo sul futuro del loro
paese come potenza occupante, ma anche inquieti perché. si era sviluppato in un pericolo
minaccioso». Oggi, conclude Grass, la Germania orientale non esiste più, «ma il governo israeliano, come
potenza atomica di entità non controllata, si percepisce come in diritto di decidere da solo e finora come non disponibile ad ascoltare o ricevere moniti. Solo la Birmania lascia germogliare
una piccola speranza».

Andrea Tarquini


La flottiglia rilancia la sua sfida "arriveremo in tanti con aerei di linea"

GERUSALEMME - C'è una nuova Flottiglia che è pronta a muoversi verso Israele, questa volta ha scelto aerei e non imbarcazioni per avvicinarsi ai confini della Palestina. Alcune centinaia di attivisti filo-palestinesi tra sabato e domenica proveranno a sbarcare a Tel Aviv da aerei di linea provenienti da una quindicina di paesi, fra cui l'Italia. Vogliono andare a Betlemme. Due anni fa una sfida più "militante", quella della Flottiglia di navi partite dalla Turchia, terminò in tragedia. Durante uno scontro in alto mare alcuni militanti turchi, anche armati di coltelli, furono uccisi dopo aver resistito all'assalto dei soldati israeliani che volevano bloccare le navi dirette verso Gaza.
All'aeroporto Ben Gurion da giorni la polizia israeliana ha incontrato le compagnie aeree per spiegare che decine di attivisti verranno immediatamente rispediti indietro se mai dovessero atterrare in Israele con i voli di linea. Non è chiaro come faranno a sbarcare in Israele, visto che la polizia a poche ore dall'arrivo dei voli consegnerà alle compagnie aeree una lista dei militanti a cui vieteranno l'ingresso, e che quindi le compagnie dovranno riportare indietro a loro spese.
Da sabato centinaia di poliziotti saranno schierati all'aeroporto di Tel Aviv: i passeggeri verranno controllati all'interno degli aerei prima di poter sbarcare. La "Flottiglia volante" si è data appuntamento a Betlemme dove è prevista l'inaugurazione di una nuova scuola: la missione «Benvenuti in Palestina» prevede anche la ristrutturazione della scuola materna «Il Piccolo Principe», la riparazione di pozzi danneggiati nella regione di Betlemme e la realizzazione di un museo sulla storia dei rifugiati palestinesi.
Nel frattempo l'Autorità palestinese di Abu Mazen sta provando a fare nuovamente pressioni sul governo Netanyahu per far ripartire un negoziato sui territori occupati: l'ambasciatore palestinese all'Onu ha presentato una richiesta al Consiglio di Sicurezza per chiedere la condanna dei nuovi insediamenti ebraici: «La costruzione di questi nuovi insediamenti evidenzia la natura ambigua delle dichiarazioni in cui Israele dice di voler tornare a negoziare». E ieri a Washington per la prima volta da settimane è tornato a riunirsi il quartetto a livello ministri degli esteri (Ban Ki-moon, Clinton, Lavrov e Ashton): il comunicato finale della riunione invita israelianie palestinesi «a fare passi concreti per rendere l'atmosfera più adatta ai negoziati». Tutti prevedono però che fino alle elezioni americane non si muoverà nulla. A meno di sorprese.

Vincenzo Nigro

mercoledì 11 aprile 2012

EGITTO




I lettori sanno che la maggior parte degli articoli pubblicati su questo blog sono tratti, per la grande maggioranza, da giornali che cercano, non sempre riuscendoci, di conservare una patina di neutrale obbiettività: non appartengono cioè alla diffusissima corrente di pensiero secondo la quale tutte le convulsioni che agitano il cosiddetto "occidente" (Europa, Stati Uniti e dipendenze) siano una sorta di inevitabile agitarsi, di quello che Eghel chiamava lo "spirito del mondo", mentre gli eventi storici che si muovono nei paesi "terzi" sono l'irrazionale prodotto di popoli in qualche misura refrattari alla vera civiltà.
Avviene così che le primavere arabe sono, agli occhi della grande informazione, delle convulsioni difficilmente comprensibili, che hanno in più il torto di far correre dei rischi alle paradisiache isole della parte civile del mondo: così l'articolo che precede, pur senza assumere i toni esagitati di una Oriana Fallaci o la fiera dei luoghi comuni un pò idioti spesso pubblicati sotto la firma di qualche decano del buonsenso giornalistico tipo P.L. Battista, sono percorsi da un non esplicitato rimprovero: "Cosa hanno da agitarsi questi paesi arabi? Perché mettono a rischio la pace per percorrere gridando "Allahu Akbar!", democrazia e libertà", soprattutto quando nei venerdì di preghiera si riversano nelle strade della loro città, incuranti del fuoco, dei provvidi dittatori tenuti per decenni al potere a tutela degli interessi dell'occidente? Non si rendono conto che in questo modo mettono a repentaglio, con possibili crisi di approvvigionamento petrolifero i legittimi interessi del mondo occidentale?
Purtroppo manca alla parte del mondo, in cui ci troviamo a vivere la nostra vita terrena, la consapevolezza che ormai gli europei (compresi gli statunitensi) costituiscono una esigua minoranza della popolazione mondiale e che i loro "interessi economici vitali" non rappresentano che una parte ormai minoritaria degli interessi e delle aspirazioni dell'intera popolazione mondiale. In buona sostanza l'atteggiamento della quasi totalità dei nostri mezzi di informazione è molto simile a quello del papa che dalle finestre di Piazza San Pietro,  in occasione delle festività cattoliche più importanti, manda all'intero mondo benedizioni "urdi et ordi", quasi che gli venga riconosciuto dalla maggioranza del genere umano il potere di parlare a nome di Dio. 
Confesso che, per la mia naturale tolleranza, atteggiamenti di tal genere mi suscitano un non sopprimibile senso di fastidio. Avete mai sentito una suprema autorità religiosa musulmana, e persino induista o buddista, mandare raccomandazioni etiche che debbano avere una valenza che eccede i limiti dell'umano potere: è inutile, se hanno a che fare con la civiltà per eccellenza che è quella dell'occidente, quanti sono investiti di un potere politico più o meno esteso tra gli occidentali, è sempre convinto di essere partecipe di un potere universale di governo sull'intera umanità. Forse, mentre una crisi economica e sociale provocata dalla totale mancanza di senso morale da chi detiene il potere economico-finanziario del pianeta, prima o poi gli europei dovranno convincersi che l'Europa e l'America non hanno più in pugno le sorti dell'intero mondo, e che i popoli di altri continenti hanno tutto il diritto di agitarsi e di costruire le loro "primavere" di libertà senza dover chiedere il permesso a nessuno, fuorché all'Unico Dio.

P.S: Col prossimo post correremo il rischio di andare fuori tema e parleremo della Lega Nord e delle sue imprese.
I Tuareg riconquistano la loro Regina

Timbuktu la "misterieuse", come veniva chiamata anche in tempi recenti, quando non
c´era nessun mistero e la città era ben conosciuta, è stata sempre negli ultimi due o tre secoli,
un mito che si rivelava fasullo ogni volta che un viaggiatore europeo vi metteva piede. Il suo
periodo di splendore risaliva a molti secoli prima, quando faceva parte dell´impero Songhay:
una città di ventimila abitanti, tutti dediti al commercio, che sfruttavano la sua posizione
strategica, a cavallo tra due immense aree africane completamente diverse: quella acquitrinosa
del fiume Niger e dei pescatori animisti Bozo, un fiume che si può risalire anche d´estate con le
"pinase", le barche locali, anche quando pesca meno di un metro. E quella desertica del
Sahara, dove non esistono fiumi se non, nella forma di letti sabbiosi: una maledetta "uadi" dopo
l´altra, come dicevano nel secolo scorso gli inglesi che l´avevano attraversato, quando ancora
non era nata - la moda della wilderness, e il deserto era ancora giudicato come un "abominio di
desolazione" e le turiste che trovavano quei luoghi "divini" erano ancora di là da venire.
Da Timbuktu - conquistata ieri dai ribelli del Mali - partivano tradizionalmente le carovane dirette
alle cave di sale di Taoudeni, al centro del Sahara, un minerale indispensabile per tutti i paesi
tropicali e subtropicali, dove la sudorazione eccessiva portava a degli scompensi fisici che
potevano essere regolati solo con il sale. Le carovane provenienti da sud trasportavano schiavi,
penne di struzzo, avorio, ma soprattutto l´oro del Ghana, e riportavano indietro i preziosi blocchi
di salgemma. Quasi tutte le monete dell´epoca romana, compreso l´aureo erano coniate con
l´oro del Ghana e della Costa d´Oro. E i luoghi d´origine e di partenza del prezioso metallo,
sollecitavano la fantasia degli europei, che immaginavano Timbuktu come più tardi i
conquistatori spagnoli si immaginarono l´Eldorado: case con i tetti d´oro e strade lastricate da
pepite. 
Quando René Caillié, il primo viaggiatore europeo ad attraversare il Sahara arrivò alla città
misteriosa, nel 1828, trovò che quella che si era trovato davanti non rispondeva alle sue
aspettative: «Mi ero fatto della grandezza e della ricchezza di Timbuktu tutta un´altra idea.
Vedevo solo un ammasso di case in terra mal costruite, dove regnava una tristezza e un
silenzio innaturali, in cui non si sentiva neppure il canto di un uccello». Il mercato era modesto,
c´erano solo tre negozi che vendevano merci europee come ambra, corallo zolfo, carta e stoffe.
Non si vedeva nessun nobile palazzo sahariano emergere dalla sabbia e dal fango, come La
moschea di Djenné. I monili d´oro erano limitati a piccole collane portate dai Tuareg, e bracciali
più pesanti portati dalle mogli dei commercianti mori. Dell´università coranica, famosa durante il
medioevo, non c´era traccia, e i libri che si trovavano nella libreria più grande della città, erano
trascrizioni di sura del Corano, sempre le stesse». 
La popolazione della città era di tipo misto e i Tuareg costituivano il gruppo etnico più
numeroso. Il potere era teoricamente nelle mani dei marocchini, che però stavano sotto l´incubo
e le continue razzie dei Tuareg. Questi nomadi razziatori per istinto e tagliagole nati, erano
nomadi ma diventavano stanziali per qualche mese all´anno accampandosi alle porte di
Timbuktu. E a cavallo d arrivò magnifici destrieri arabi, e roteando le loro spade affilate, con i
pugnali e una fascia stretta alla vita, entravano città con aria truce, chiedendo a tutti quelli cheincontravano i "regali" promessi. Era una domanda che non si poteva rifiutare - Caillié ci ha dato
la prima descrizione completa dei Tuareg. Come tutti i musulmani avevano più mogli, ma le
favorite erano sempre degli esemplari femminili che avevano superato l´obesità e che
diventavano, così grasse, un´attrazione fatale e irresistibile per questi corridori del deserto,
abituati ad una vita dura. I Tuareg erano in genere ricchi, allevavano montoni e pecore, frutto di
razzie, portavano sempre una benda davanti al viso, che dava loro un aspetto misteriose e
temibile, si facevano servire da una moltitudine di schiavi, catturati come la merce durante gli
attacchi alle carovane. Nel deserto erano imbattibili, conoscevano palmo a palmo tutto il Sahara
e viaggiavano di notte per orizzontarsi con le stelle. Avevano una resistenza incredibile, non
perdevano mai la rotta, a differenza degli arabi o degli africani, e sapevano datare con
sicurezza l´età della dune, basandosi sulle sfumature di colore che nel deserto andavano dal
marrone, al giallo, al rosa.
Con il passare del tempo Timbuktu andò perdendo quella qualifica semiufficiale di capitale dei
Tuareg. Le tribù più irrequiete ora si trovavano più a nord, nella zona di Tamanrasset e
dell´Hoggar, chiamata Bled el Kouf, il paese della paura, dove la colonna Flatters, mandata in
ricognizione per un piano demenziale come la ferrovia transahariana, che doveva attraversare il
deserto da Algeri a Dakar, venne sterminata da un gruppo di Tuareg. E anche la rivolta nel
novecento guidata dal "sultano" Tegamà, che venne poi fatto strangolare in prigione dai
francesi, aveva come teatro i dintorni di Agades. Alcuni Tuareg erano diventati guide militari.
Cino Boccazzi, un indimenticabile scrittore di storie del deserto, era diventato amico di un
Tuareg che aveva condotto un distaccamento dei soldati gaullisti, guidati al generale Leclec,
nome di battaglia di De Lattre de Tassigny, dal Chad fino al Mediterraneo durante la seconda
guerra mondiale. 
Anni prima il più grande viaggiatore transahariano del secolo, Theodore Monod, era arrivato a
Timbuktu per la prima volta come prima tappa per un viaggio nel deserto che sarebbe durato
sei mesi. A Timbuktu aveva trovato una carovana di tremila cammelli che stava per partire
verso il nord. Monod decise allora di partire insieme con la carovana e andò comprare tutto
quello che serviva per il viaggio: grano, riso, arachidi, caffè, miele, burro fuso e un sacco di tè
verde. I Tuareg non partivano più per le razzie dopo aver bevuto all´alba, al riparo dietro una
duna, quel the verde concentrato e distillato nelle teiere numerose volte. Ma quella era rimasta
la loro bevanda preferita e Monod voleva bere con loro, davanti a un fuoco di sterpi quel the
bollente, circondato dal deserto che amava.

SIRIA

I siriani sparano, vittime al confine turco

I capi dei ribelli promettono in video di rispettare il cessate il fuoco negoziato dalle Nazioni Unite. «Noi, i difensori del popolo siriano, siamo pronti a deporre le armi». Al presidente Bashar Assad non basta: pretende un impegno scritto prima di ordinare il ritiro delle truppe dalle città sotto assedio. A poche ore dall’inizio della tregua, fissato per questa mattina, il regime pone nuove condizioni e continua le operazioni contro gli insorti. All’alba di oggi Kofi Annan, inviato dell’ Onu, deve verificare il rispetto del suo piano, ma il conflitto rischia di coinvolgere già i Paesi vicini. L’esercito siriano ha sparato verso i campi rifugiati allestiti dai turchi lungo la frontiera. Sei persone sono rimaste ferite a Kilis e Ankara minaccia di essere pronta a prendere tutte le misure necessarie. «E’ evidente che l’armistizio a questo punto non ha più alcun significato. Comincia una nuova fase», commenta Naci Koru, viceministro degli Esteri. Il cessate il fuoco era stato accettato da Assad il 2 aprile. Adesso Damasco sostiene di non voler dare la possibilità ai rivoltosi di riarmarsi. «Non permetteremo che si ripeta quanto accaduto durante la missione della Lega Araba a gennaio, quando il governo ha ritirato le proprie forze dalle città e dalle campagne,mentre i ribelli prendevano possesso di quelle stesse zone. Hanno sfruttato la situazione per allargare la loro autorità a interi distretti », dice Jihad Makdessi, portavoce del ministero degli Esteri. Il regime proclama di aver cominciato il ripiegamento, per andare avanti vuole garanzie. «E’ un’interpretazione sbagliata dell’accordo definito con le Nazioni Unite», spiega Ahmad Fawzi, assistente di Kofi Annan, che oggi visita la frontiera tra Turchia e Siria. Ankara ospita 25 mila siriani fuggiti dalla repressione, tra loro i soldati che hanno lasciato le truppe regolari per combattere contro il regime. I disertori usano i campi tendati come basi per i raid contro l’esercito. Ieri all’alba hanno colpito un posto di blocco e sono stati inseguiti fino al confine: i militari di Assad non avrebbero smesso di sparare neppure quando gli otto ribelli sono passati dall’altra parte. I turchi hanno già proposto di creare una zona cuscinetto in territorio siriano per proteggere i rifugiati, sarebbe il primo passo verso l’intervento arma to. Il governo libanese è meno agguerrito verso il protettore di sempre, chiede però un’inchiesta per l’uccisione del cameraman Ali Shabaan. L’auto della televisione Al Jadeed si stava muovendo ieri lungo il confine nella zona di Wadi Khaled, quando è finita sotto i colpi che arrivavano dal villaggio di Armouta, dall’alta parte. «Per due ore non siamo riusciti a muoverci, continuavano a sparare. Non abbiamo potuto aiutare Ali che stava morendo dissanguato», racconta il giornalista Hussein Khreis. L’offensiva del regime ha colpito anche Latamna, nella provincia di Hama, dove 35 civili sarebbero stati uccisi nel bombardamento dell’artiglieria, dall’inizio della rivolta (poco più di un anno fa) le vittime sarebbero 9 mila in tutto il Paese. Human Rights Watch accusa le bande di Assad di aver freddato in vere e proprie esecuzioni oltre centro persone negli ultimi tre mesi: civili inermi o insorti che si erano arresi. «Nel tentativo spietato di calpestare la ribellione—spiega Ole Solvang, ricercatore dell’organizzazione per i diritti umani — il regime ha ammazzato a sangue freddo, in pieno giorno e davanti a testimoni: evidentemente gli assassini non sono preoccupati delle possibili conseguenze».


ISRAELE

Grass messo al bando dal governo israeliano 
Gli intellettuali si dividono


GERUSALEMME - L'unica volta che Günter Grass venne qui, fu nel 1973. Il futuro premio Nobel per la letteratura era al seguito del fresco Nobel per la pace, Willy Brandt. Una visita storica: la prima d'un cancelliere tedesco in Israele. E se tutti allora guardavano al politico che s'era già inginocchiato al ghetto di Varsavia, pochi s'erano accorti di quell'intellettuale che ancora taceva della sua gioventù nazista. Oggi, a 84 anni e con le nuove polemiche scatenate, è improbabile che lo scrittore abbia intenzione di ripetere quel viaggio. Casomai, a levargli la voglia ha provveduto domenica il ministro israeliano dell'Interno, Eli Yishai, leader del partito religioso Shas: «Le cose che vanno dette - l'ultimo poemetto pubblicato da Grass che mette sullo stesso piano l'atomica iraniana e quella israeliana - per il governo «mira ad alimentare le fiamme dell'odio nei confronti d'Israele e a diffondere le medesime idee di cui egli fu complice quando vestiva la divisa delle SS». Ergo: lo scrittore è da considerarsi, d'ora in poi, «persona non grata».

Tamburi di guerra, altro che latta. Da queste parti l'Iran nucleare leva i sonni (sabato si ritenta, a Istanbul, un primo round di negoziati che sembra fin d'ora impossibile), la Germania è un fantasma, solo un mese fa il premier Bibi Netanyahu ha paragonato la minaccia atomica alla Shoah e, in definitiva, questi versi di Grass sono stati un brutto risveglio. «Vergognosi e ignoranti», li aveva liquidati subito lo stesso Bibi. «Scritti sotto effetto dell'erba», ironizzavano i blog, giocando sul significato inglese di "Grass". Qualcuno aveva lordato la statua dello scrittore a Gottinga, «chiudi il becco, Gunni!», e tutto sembrava finire lì. Invece, ecco il boicottaggio. Con rari precedenti: Noam Chomsky e Norman Finkelstein. E con l'accusa esplicita d'antisemitismo.
Giusta reazione? Sì, a leggere la Bild tedesca. O a sentire il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che domenica ha inveito contro «questi pseudointellettuali disposti a sacrificare di nuovo gli ebrei sull'altare di folli antisemiti». O a sfogliare Israel Hayom, dove ieri si faceva notare che Grass ha pure equiparato i 6 milioni d'ebrei annientati ai «6 milioni di tedeschi» morti per combattere Stalin: una cifra sballatissima, scrive il giornale, «che Grass può avere tirato fuori solo dal suo subconscio». Iran a parte, che ovviamente ringrazia «l'onestà intellettuale» dello scrittore, la frontiera sbarrata dal governo Netnayahu lascia comunque perplessi molti: può uno Stato democratico bandire un'opinione, per quanto insostenibile? Reazione «profondamente esagerata», la definisce un ministro tedesco, Daniel Bahr. «Basso livello di tolleranza», dice lo storico israeliano della Shoah, Tom Segev: «Delegittimare chi critica è una tendenza molto pericolosa, autocratica e demagogica. Netanyahu e Lieberman sono bravissimi, in questo. Ogni voce contraria è subito indicata come un segnale d'antisemitismo. Ma se davvero ci mettiamo a distribuire i permessi d'ingresso secondo le opinioni politiche delle persone, finiamo in compagnia di Siria e dello stesso Iran». Dalla sinistra israeliana, si schierano contro il boicottaggio altri intellettuali: gli scrittori Ronit Matalon e Yoram Kaniuk («il prossimo passo è bruciare i libri»), il pittore Yair Garbuz («e allora che dovremmo fare coi libri di quel rabbino che propone d'uccidere i non ebrei?»), il Nobel per la chimica Aaron Ciechanover («non si risponde alla follia con una follia»)... Il dibattito, c'è da giurare, continuerà. E sbucciando le cipolle, per dirla con un titolo di Gunni, alla fine s'arriverà al cuore della questione. Riassunta dalla cancelliera Angela Merkel: «C'è la libertà d'espressione artistica. E per fortuna c'è la libertà d'un governo, il mio, di non doversi per forza esprimere su ogni manifestazione dell'arte».


Francesco Battistini

sabato 7 aprile 2012

ISRAELE

"Tacendo si rischia una guerra mondiale"

BERLINO - «Se Israele attacca gli impianti atomici iraniani, si potrebbe arrivare alla terza guerra mondiale». Così ha detto poche ore fa Günter Grass all´agenzia di stampa tedesca Dpa. Attaccato da quasi tutti i media e i politici tedeschi, difeso da pochissimi, glorificato dai media iraniani che lo elogiano come «intellettuale coraggioso», il Nobel si difende. Ecco cosa ci ha detto. Signor Grass, cosa ha voluto dire con questa poesia? «È una poesia nella grande tradizione della letteratura e della poesia tedesca, da Goethe a Heine a Brecht fino a poesie recenti contro la guerra nel Vietnam».
Ha voluto essere di nuovo "der Mahner" colui che ammonisce?
«L´ammonitore? No…, ma anche sì. Ammonire è un tratto distintivo della mia generazione. Una generazione segnata dal nazionalsocialismo, che si lasciò sedurre dal nazionalsocialismo, e dai silenzi del dopoguerra. Leggete tutti i miei libri, dal "Tamburo di latta" fino all´ultimo ho sempre trattato il tema del genocidio degli ebrei. Un genocidio che è senza uguali ma magari ci si dimentica il milione di Rom assassinati, o i due milioni e mezzo di prigionieri di guerra russi morti di fame. Tutto questo, l´insieme, è un crimine senza uguali. Sento tutto ciò come un peso che dà un dovere agli scrittori. E per questo c´è anche il dovere di parlare sul presente per impedire altre colpe, per non dire poi "non lo sapevo"».
Concretamente cosa l´ha spinta a scrivere la poesia?
«Due fatti. La visita del premier israeliano negli Usa e la dichiarazione di prontezza a ogni gesto di ultima difesa, anche un primo colpo. In Europa da centinaia di anni diciamo in diplomazia che finché si dialoga non si spara. Il secondo fatto: la fornitura a Israele, come risarcimento quasi, pagando con soldi dei contribuenti, di sottomarini tedeschi capaci di sparare missili, anche nucleari, a medio raggio. Il linguaggio del governo israeliano peggiora pericolosamente il clima in una regione - guardate alla Siria - carica di tensioni. E già con l´Iraq abbiamo visto la menzogna delle cosiddette e inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam. Ciò mi ha reso diffidente».
Khomeini parlava di distruzione di Israele. Oggi lo fa Ahmadinejad; chiamarlo "fanfarone" non è un po´ poco?
«Nella poesia parlo di cose di cui non si parla. Prima di tutto che da anni Israele è una potenza atomica con molte testate nucleari, il governo israeliano tace e noi tacciamo. Il capo dell´esecutivo iraniano da tempo parla in discorsi, verbalmente, di negazione del diritto all´esistenza di Israele, è noto, non devo per forza parlarne nel poema. Perciò lo chiamo un fanfarone, ha retorica demagogica. La realtà di cui parlo è l´esistenza di una bomba atomica iraniana che finora è stata solo presunta, non dimostrata, mentre la potenza atomica Israele si sottrae a ogni controllo. Ci vogliono negoziati".
Si aspettava tante reazioni negative?
«Sì, ma constato che in un paese democratico ove vige la libertà di stampa, il nostro, si è manifestata una certa Gleichschaltung (il concetto con cui Goebbels uniformò e imbavagliò i media per Hitler, ndr) delle opinioni. Mi ferisce. Mi chiamano "eterno antisemita", è il rovesciamento del concetto di "eterno ebreo". È indegno parlare sempre subito e solo di antisemitismo tedesco».

JAN-PETER GEHRCKENS

mercoledì 4 aprile 2012

Una poesia contro Israele l´ultima provocazione di Grass "Le sue atomiche una minaccia"

BERLINO - Rieccolo in campo, torna come sempre, da intellettuale impegnato di tutto il lungo dopoguerra, a lanciare le provocazioni più scomode possibili. Decenni fa in campagna elettorale per Brandt cancelliere della pace, questa volta sul tema caldo mondiale del momento, i piani atomici iraniani: secondo lui il vero pericolo per la pace è Israele e non l´Iran, il deterrente nucleare israeliano e non l´arsenale che Ahmadinejad sta costruendo. Di chi parliamo? Di Guenter Grass. Il Nobel per la letteratura, il massimo scrittore tedesco vivente, con la poesia che pubblichiamo vuole aprire un dibattito che si annuncia confronto lacerante, a livello globale. 
"Quel che deve essere detto", s´intitola la lirica. In uno stile politico-didattico che ricorda il Brecht più impegnato e aggressivo, Grass lancia un attacco durissimo contro la politica dello Stato d´Israele, e contro la Repubblica federale. Perché, in nome della responsabilità per il passato chiamato Olocausto e del nuovo ruolo di potenza-leader di Berlino, la Germania di Angela Merkel ha fornito a prezzi stracciati sei sottomarini ultramoderni alla Hel ha´Halama le Israel, la Marina israeliana. Sottomarini che possono sparare missili da crociera.
Un´arma made in Germany per l´ultima difesa, deterrente da minacciare di usare per non usarlo, come fu con le atomiche tra Usa e Urss nella guerra fredda. In tecnica e strategia militari moderne, spieghiamolo al lettore, i missili lanciati da sottomarini servono a una risposta nucleare a un attacco nucleare subìto, non a un primo colpo. Il primo colpo atomico lo spari con i missili terrestri, come quelli che Teheran acquista in Corea del Nord. E non Gerusalemme e Washington, bensì l´Agenzia internazionale per l´energia atomica (Aiea) che fu guidata dal grande politico egiziano Mohammed el Baradei, denuncia per prima il programma atomico iraniano.
Grass non è d´accordo, non ci sta. Nel poema parla del deterrente israeliano come "minaccia alla pace". Una minaccia, si potrebbe sottintendere, va eliminata. Parla degli U-Boot tedeschi per Gerusalemme scrivendo di "crimine prevedibile, e nessuna delle nostre scuse cancellerebbe la nostra complicità". E denuncia "l´ipocrisia dell´Occidente". Tirades non nuove: da sempre Grass è un grande polemista, non solo un grande letterato. Anni fa, in "im Krebsgang", raccontando del piroscafo Wulhelm Gustloff carico di civili e silurato dai russi nel Baltico, dipinse i tedeschi in qualche modo come vittima della Seconda guerra mondiale. Più tardi, dopo un lunghissimo silenzio, in "Sbucciando la cipolla", confessò di aver prestato servizio nelle SS da giovane, credendoci. Passato e presente si confondono nell´eterno dramma tedesco. Ma questa volta è anche diverso. Die Zeit, l´illustre settimanale di Amburgo, ha rifiutato di pubblicare la poesia. La pubblicherà invece oggi (insieme a Repubblica, El Paìs, e a Politiken in Danimarca) la liberal Sueddeutsche Zeitung. «Grass è il più noto e massimo scrittore tedesco vivente, un Nobel, è sempre stato nel dibattito politico non si censura, si pubblica, in una certa misura i media sono anche bacheche, e Grass è uno dei tedeschi più famosi nel mondo», mi dice Heribert Prantl, direttore nella direzione collegiale della Sueddeutsche. 
«Non si può censurare Grass, anche se si ritengono fuorvianti alcune sue opinioni», continua Prantl. «Forse riceverà applausi da una parte, interviene con una poesia nel dibattito, posso solo accettare l´intervento come contributo lirico al dibattito». Non si censurano i grandi intellettuali, insomma, neanche quando possono violare gravi tabù della Memoria o travisano la realtà odierna. La discussione è lanciata.

Andrea Tarquini

I VIZI CONGENITI DI QUALCHE PAESE EUROPEO: FRANCIA E ITALIA

La Francia post rivoluzione è stata per più di due secoli un susseguirsi continuo di grandezza e miseria: tutte le sue vicende, tuttavia, sono state percorse da un vizio congenito cui si è voluto attribuire, dalle generalità del capostipite, il nome di "Bonapartismo". I francesi, insieme al loro spirito clamorosamente libertario, hanno declinato l'amore per la libertà con quello per i tiranni che volevano vivere da perenni statue equestri. Per questa sua vocazione Napoleone I ha provocato milioni di morti fino a vedere infrangere i suoi sogni di "grandeur" nei palazzi in fiamme di Mosca e poco più tardi sui campi di battaglia di Waterloo. Il sogno di grandezza, i francesi, hanno seguitato a coltivarlo anche quando Napoleone, afflitto da mille malattie, si è spento in un'isola sperduta dell'oceano Atlantico (Sant'Elena). La "Grandeur" è tornata brevemente a fiorire sventolando la bandiera delle libertà nella rivoluzione democratica del 1848: il sogno fu di breve durata e, quasi a dimostrare che i grandi eventi storici sono destinati a prodursi la prima volta come grandi tragedie, salvo a riprodursi in una dimensione rimpicciolita come spettacolo comico, sulla scena comparve presto Napoleone III, detto il "piccolo".
Successivamente la Francia ha conosciuto rare pagine di storia men che ignobile: alle decine di migliaia di fucilati della comune di Parigi fecero seguito le peggiori pagine del colonialismo di marca europea, a cominciare dalla lunga guerra di conquista e di sterminio portata avanti per quasi un secolo contro l'Algeria. Poi seguirono gli intrighi colonialistici in tandem con la Gran Bretagna, la Prima Guerra Mondiale dovuta in buona misura al desiderio di rivincita contro la Germania, che le aveva inflitto la batosta della guerra franco-prussiana. La Francia non riuscì a conquistare neppure un metro quadrato di territorio tedesco e vinse la Prima Guerra Mondiale grazie  al determinante aiuto degli Stati Uniti d'America: ma ciò non le impedì di imporre alla Germania sconfitta condizioni di pace talmente umilianti da far dire al presidente americano Wilson le profetiche parole: "Con queste premesse preparatevi a combattere anche la Seconda Guerra Mondiale". Facile profezia: la dirigenza francese, mediocre quanto megalomane, impose alla Germania una occhiuta pace che trasformò i tedeschi in cani rabbiosi, che diedero a uno psicopatico criminale come Hitler l'opportunità di provocare la più sanguinosa guerra di tutti i tempi. I francesi, ancora abbacinati dalla grande vittoria, assistettero al riarmo tedesco del tutto passivi, permisero al dittatore folle di riarmarsi fino ai denti, lasciarono che il nazi-fascismo soffocasse in un mare di sangue la democrazia repubblicana di Spagna e lasciarono coltivare la propaganda criminale 'dell'action francaise', di cui teorico era stato il primo organico razzista antisemita Joseph Gobineau. Naturalmente le fanfaronate francesi che precedettero il secondo conflitto mondiale fecero si che la Francia si trovasse completamente impreparata quando le divisioni corazzate del Terzo Reich dilagarono attraverso l'Olanda e il Belgio fino ad entrare in Parigi sfilando sotto l'Arco di Trionfo. Alla Francia venne imposto un regime di occupazione militare feroce e razzista: nella Francia di Vichy, nonostante non fosse mai stata votata una legge contro gli ebrei, più della metà degli ebrei francesi vennero consegnati ai carnefici tedeschi o ammazzati in proprio dalla polizia di Petain e di Laval. In Italia, dove il regime fascista aveva adottato le leggi razziali antisemite, di ebrei ammazzati nei campi di sterminio ce ne furono poco più di 5000: nonostante gli sforzi criminali del Duce la stragrande maggioranza degli italiani rimase contraria alla ferocia genocida, e ciò sta a dimostrare che i francesi, in barba alle prediche sulla libertà e sui diritti dell'uomo, sono sempre pronti ad impegnarsi in massacri di segno razzista: si devono alla Francia i massacri consumati contro i soldati senegalesi, che pure avevano combattuto sul suolo francese contro l'occupante nazista, e sempre francesi furono gli autori della tortura di massa della guerra di sterminio condotta durante la pluridecennale lotta di indipendenza algerina.
'Il lupo perde il pelo ma non il vizio', e dopo le pagine di indubbia intelligenza politica scritte da figure di notevole livello come il generale De Gaulle e Francois Mitterrand, sono arrivati i nanetti: da Valery Giscard D'Estaigne, che non esitò ad accettare i diamanti che gli diede in regalo il sedicente imperatore centro africano, il cannibale Bokassa, fino a Jacques Chirac, che ha dovuto subire l'onta di vari processi per delitti contro la pubblica amministrazione.
Adesso è in carica Nicolas Sarkozy, oriundo ungherese, che fin'ora ha compiuto come azioni di rilievo una non trascurabile collezione di belle donne come mogli o come amanti. Ultimamente il piccolo presidente, che ha la curiosa abitudine fisica di muovere le braccia come se fossero quelle di un burattino, forse per darsi l'importanza che non ha, ha cercato di cavalcare una gloriosa avventura. Rimasto alla finestra durante le rivoluzioni arabe, si è messo alla testa della caccia a Gheddafi con metodi che hanno fatto della rivoluzione libica la più sanguinosa delle Primavere Arabe (si parla di circa 50 mila morti); poi la follia di un franco algerino che ha improvvisato una singolare caccia all'uomo di cui sono stati vittime 3 soldati francesi di origine marocchina e di religione musulmana, e 3 bambini di una scuola ebraica francese con il loro maestro: in tutto 7 vittime. Nicolas ha preso la palla al balzo e, tenuto conto che per i sondaggi per le elezioni presidenziali francesi le sue quotazioni battono pateticamente la fiacca, dopo le dichiarazioni iniziali che invocavano la pace tra le religioni e la fratellanza fra tutti i francesi di ogni origine, ha ritenuto di cogliere la grande occasione di "Grandeur" e si è messo a blaterare sui pericoli che corre la repubblica, ha arrestato qualche imam e 20 francesi di origine nord africana, ha vietato l'ingresso in Francia a 6 imam, ha deplorato il fatto di non aver potuto tener fuori dal suolo francese il pericoloso fondamentalista Tarik Ramadan, cittadino svizzero di origine egiziana attualmente professore di storia dell'Islam all'università di Oxford (dopo essere stato per anni professore di filosofia all'università di Zurigo). Nicolas deve aver sognato per più notti di essere la reincarnazione di George Bush Jr.: non ha esitato infatti a dichiarare in televisione che le stragi appena avvenute debbono considerarsi l'11 Settembre francese.
Sarkozy, in coppia con la Angela Merkel ha presentato Berlusconi come una sorta di pagliaccio all'italiana: nel  merito possiamo anche essere d'accordo; e lui che è? Una sorta di pagliaccio alla francese di origine gitana?

Sugli 8 razzisti romani che hanno picchiato a sangue una signora algerina, le hanno strappato il velo e l'hanno insultata in vario modo, c'è poco da dire: in ogni epoca i fascisti si sono sempre distinti per il grande coraggio. Le loro aggressioni sono sempre opera di un minimo di 5 persone contro una persona indifesa.