lunedì 11 febbraio 2013

EGITTO

Egitto e Iran lontani dal ’79. Sfida agli Usa e all’Arabia Saudita

UN’ACCOGLIENZA  così calorosa all’estero Mahmud Ahmadinejad non l’aveva avuta da
tempo.  Il presidente  egiziano Morsi ha atteso il collega iraniano ai piedi  dell’aereo e lo ha
accolto con un robusto abbraccio  e baci sulle  guance. Un momento storico. Dal 1979 nessun
presidente iraniano era  andato  in visita ufficiale al Cairo. A Teheran erano andati al potere i
religiosi sciiti, nemici degli Stati Uniti. L’Egitto era il più grande  paese sunnita e stretto alleato
degli  Stati Uniti. Offrì asilo al  deposto scià Pahlevi e concluse la pace con Israele. Due mondi.
Teheran e  il Cairo ruppero i rapporti diplomatici.
Oggi tutto dovrebbe  cambiare, la visita di Ahmadinejad è vista come  l’inizio di una nuova
amicizia. Dopo la caduta di Mubarak, l’Iran ha lanciato ripetute avance.  Ha salutato  la
primavera araba come erede dalla rivoluzione iraniana.  In settembre Morsi aveva proposto,  in
cambio di una diversa politica   iraniana verso la Siria, la ripresa  dei rapporti diplomatici. La
politica estera è il solo campo dove è riuscito a mantenere un certo  profilo  e un’intesa con
l’Iran può fargli  segnare dei punti. Il  presidente egiziano vuole distanziarsi dalla politica estera
di Mubarak e  dimostrare  di non farsi dettare la politica  da Washington. La visita  viene seguita
con attenzione dai Paesi del Golfo, primi fra tutti  l’Arabia Saudita, fermamente opposta al
tentativo dello Stato sciita di  conquistare  un primato nella regione. Il ministro degli Esteri
egiziano  Amr Kamel ha detto che «dei rapporti  dell’Egitto con l’Iran non  faranno  mai le spese
le nazioni del Golfo, la cui sicurezza è  direttamente  legata a quella egiziana». Dagli aiuti
finanziari dei  paesi del Golfo l’Egitto dipende in modo sostanziale  per affrontare una  crisi
economica sempre più grave. Anche  all’interno le reazioni non  sono  state tutte positive. I
salafiti di Al Nour, il partito alleato di  Morsi, hanno invitato il presidente a non dimenticare che il
ruolo  dell’Egitto  è proteggere i sunniti. E il grande sceicco Ahmed El  Tayyeb dell’Università
Al-Azhar, la massima  autorità teologica  dell’Islam sunnita, ha avuto parole ferme contro «le
ingerenze iraniane  nel mondo sunnita», in particolare nel Bahrain, la piccola monarchia
sunnita dove la minoranza sciita ha dato il via a numerose proteste, o  contro i «tentativi di
diffondere la fede sciita in Egitto  ».
Ahmadinejad  era arrivato allo storico appuntamento con El Tayyeb facendo il segno  “v” di
vittoria.  Anche lui deve fare i conti a Teheran con una lotta di  potere sempre più dura.
Sebbene non possa ricandidarsi alle elezioni in  giugno, Ahmadinejad vorrebbe continuare a
contare nel Paese,  mandando alla presidenza uomini  a lui vicini. Il suo più forte  antagonista è
Ali Larijiani, presidente  del Parlamento, con cui ha  avuto un aspro scambio verbale prima di
partire per il Cairo.
Nonostante l’abbraccio, ciò che divide i due presidenti è più di quello che li unisce. Sulla Siria,
che  sarà oggi al centro della conferenza  della Cooperazione islamica,   Morsi e Ahmadinejad
hanno posizioni distanti. Nella bozza del documento  finale della Conferenza  si addossa al
regime tutta la responsabilità   delle violenze e si chiede a Assad di avviare un dialogo  serio
con  l’opposizione.


TURCHIA

Ankara, kamikaze all’ambasciata Usa

In una Turchia sempre più divisa fra Oriente e Occidente mancava solo il ritorno del terrorismo comunista di marca anti-Nato e anti-americana. Ieri mattina un kamikaze si è fatto esplodere presso un ingresso laterale dell’ambasciata Usa ad Ankara, precipitando la capitale nel ricordo degli Anni Settanta, quando la minaccia eversiva di estrema sinistra veniva arginata a suon di interventi dei militari nella vita civile dello Stato e il Paese viveva in una condizione di coprifuoco permanente. Un atto di violenza consumato in uno dei luoghi da sempre ritenuti più sicuri.

L’attentatore, Ecevit Sanli, 30 anni di cui tre passati in galera per altre azioni terroristiche, è un membro del Dhkp/c, il Fronte per la liberazione del popolo rivoluzionario che fa dell’odio verso l’Occidente, gli Stati Uniti e la Nato il suo cardine ma rimane lontano da posizioni islamiche. Fa parte dei quella «terza Turchia» di marca comunista e socialista, con legami più o meno forti, a tratti inesistenti, con gli ambienti eversivi, che i militari riuscirono a cancellare quasi completamente durante i golpe del 1960, 1971 e 1980 e che non si è mai riconosciuta né negli ambienti conservatori, né nei movimenti nazionalisti.

Ecevit è arrivato davanti alla porta della sezione visti convinto che avrebbe fatto una strage. La porta numero due dell’Ambasciata americana infatti è compresa fra la signorile Paris Caddesi e Simsek Sokak. L’accesso in macchina è controllato 24 ore su 24 e chi non è munito dell’apposito contrassegno non può circolare, il posteggio è consentito solo in alcune aree. La zona è disseminata di telecamere. Ma questo non contrasta con la vivacità del luogo, alle spalle dell’Ataturk Bulvari, una delle strade più trafficate della capitale dove si trovano altre rappresentanze diplomatiche, fra cui quella italiana, e di fronte a palazzi dove vive l’Ankara bene, che, fino a ieri, sembravano quasi trarre giovamento dalla sicurezza e tranquillità dall’avere vicini di casa come diplomatici tedeschi o americani.

Paris Caddesi è sempre affollata da studenti e persone che si recano allo sportello visti dell’Ambasciata. Ieri invece, intorno alle 13, le 12 ora italiana, per puro miracolo, non c’era nessuno ed Ecevit si è trovato faccia a faccia con la guardia di sicurezza, che sarebbe poi diventata la sua vittima, nel giro di pochi minuti.

Il giovane ha azionato l’esplosivo che trasportava poco prima di passare dal metal detector. Per Mustafa Akarsu, 36 anni, non c’è stato niente da fare. Il gabbiotto in muratura con vetri anti-proiettili è stato gravemente danneggiato dall’esplosione. I segni della deflagrazione erano ampiamente visibili a cinquanta metri dal luogo dello scoppio, con danni agli edifici circostanti e decine di persone ferite. Fra i più gravi c’è Didem Tuncay, giornalista dell’emittente «Ntv» che adesso lotta fra la vita e la morte.

Nel pomeriggio il nuovo ministro dell’Interno, Muammar Guler, ha dato la notizia che in pochi si aspettavano, ossia che gli autori del gesto non erano né i separatisti curdi del Pkk, né Al Qaeda, ma minacce provenienti dal passato con un’accresciuta capacità di colpire. Washington parla di «atto terroristico», pur riconoscendo di non sapere «il motivo di questo gesto». Il premier islamicomoderato Erdogan ha chiamato all’unità nazionale per combattere il terrorismo, ma l’attacco arriva a pochi giorni dalla visita del nuovo Segretario di Stato americano, John Kerry, per parlare della crisi siriana e il premier adesso si trova ad avere qualcosa in comune con i militari, con cui non è mai stato in sintonia. C’è una parte di Turchia che l’alleanza con gli Usa non la vuole. Che il Paese sia guidato da laici o islamici sembra quasi un particolare.

ISRAELE

La scelta d'Israele
TEL AVIV Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento. E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un'impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell'aspirare al Grande Israele. Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un'estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l'occasione con quello dell'ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.
(segue dalla copertina) TEL AVIV Èsenz'altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell'attuale tendenza della società. Quindi merita un'attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze. È ovviamente ben lontano dall'immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale.
Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l'imminente rituale riposo. Al contrario appaiono in preda a un'indifferenza laica.
«Naftali?», dice l'amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. «Naftali è l'estrema destra high tech». Scherza naturalmente. Ma c'è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all'aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzoa edifici più di vetro che di cemento. Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell'abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv.
Naftali Bennett rappresenta l'estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell'industria sofisticata, orgoglio di Israele. Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l'ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari.
Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio. Naftali Bennett sa rivolgersia una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità.
Nonostante il loro estremismo.
Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c'è stata la svolta. Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni.
Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l'associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l'aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell'esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell'Israele laburista.
A dargli ulteriore credito è l'esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l'attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett. Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme. Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l'irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole "palestinese" e "pace" non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combattevae si morivaa Gaza.E la Palestina dell'Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani,è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell'Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti,e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all'estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c'è scritto: «Un uomo forte per un paese forte». Non c'è bisogno d'altro. Sono parole che rassicurano. La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. Si prodiga per far curare i giovani palestinesi ammalati,è favorevolea uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c'è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell'isolamento e al tempo stesso della tendenza all'isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell'alleato americano. È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l'estrema destra vincono le elezioni. È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall'Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l'Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un'"etnocrazia". E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi. Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di "Crisi del sionismo", hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico. Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l'hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c'è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l'obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi.
Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l'argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull'economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all'Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.

Bernardo Valli


L’ombra della destra hi-tech sul voto in Israele
TEL AVIV - Non uscirà primo ministro dalle urne, domani sera, ma Naftali Bennett è stato il protagonista della campagna elettorale appena conclusa. La conferma di Benjamin Netanyahu come capo del governo è annunciata con troppa insistenza per dubitarne, anche se non sono mancate le sorprese nei precedenti diciotto voti legislativi dalla nascita dello Stato di Israele. Dunque la destra nel suo insieme dovrebbe conservare fra poche ore la maggioranza dei centoventi seggi della Knesset, il Parlamento.
E ci si chiede se non sarà lui, Naftali Bennett, a darle un'impronta più intransigente, più severa rispetto al bloccato processo di pace con i palestinesi, più integralista sul piano religioso e più ferma nell'aspirare al Grande Israele. 
Egli è emerso negli ultimi mesi come il leader di un'estrema destra ricca di avvenire politico. Direi post moderna, se è possibile azzardare la formula. Si pensa che Naftali Bennett sottrarrà un sostanziale numero di elettori a Benjamin Netanyahu, al punto da ridimensionarne la vittoria personale, e creare una certa frustrazione nel suo partito, il Likud, imparentato per l'occasione con quello dell'ex ministro degli esteri, Avigdor Liberman, forte nella comunità russa, ultra nazionalista.
È senz'altro singolare il profilo di Naftali Bennett, il nuovo eroe estremista, fondatore di Habayit Hayehudi, il Focolare ebraico, terzo partito nazionale nei sondaggi. È anzitutto rivelatore dell'attuale tendenza della società. Quindi merita un'attenzione particolare. Pochi elementi nella sua biografia o dettagli nel suo aspetto, e scarsi toni nel suo linguaggio, pesante nei significati ma non troppo nello stile, rispecchiano quelli tradizionali di un capo religioso prigioniero di dogmi, comunque di certezze.
È ovviamente ben lontano dall'immagine degli haredim, con le trecce e gli abiti e i grandi cappelli neri. Loro sono immersi in una religiosità totale. Lui è ben piantato nella realtà. È un quarantenne sbarbato, avviato alla calvizie, vestito con trasandata semplicità, come i giovani che gremiscono la Dizengoff, un venerdì pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del sabbath, e sulla grande strada della metropoli non sembrano preoccupati per l'imminente rituale riposo. 
Al contrario appaiono in preda a un'indifferenza laica. "Naftali?", dice l'amico che mi accompagna, chiamando per nome, come usa in Israele, un uomo politico che non conosce di persona, e che in questo caso detesta. "Naftali è l'estrema destra high tech". Scherza naturalmente. Ma c'è del vero in quel che dice. Siamo seduti al tavolo di un caffè all'aperto, confortati da un sole da tarda primavera mediterranea, in mezzo a edifici più di vetro che di cemento. 
Dai marciapiedi trabocca una folla più cosmopolita di quella di Manhattan e dei parigini Campi Elisi. Gli abitanti ebrei non nati in Israele provengono da più di cento paesi diversi: e penso che sulla Dizengoff, nel venerdi pomeriggio, ne scorra un ampio campionario. Le macchie color carbone, che si muovono a scatti, sempre di fretta, nevrotiche, mi riferisco agli ortodossi vestiti di scuro, incrociano ragazze in blujeans, spesso tatuate sulle braccia nude abbronzate; giovani con la kippah di varie dimensioni e di foggia ben distinta, secondo il grado di religiosità, sono confusi tra coetanei senza segni particolari nell'abbigliamento e quindi in apparenza laici; e non mancano gli africani, etiopi che il mio amico sa precisare se ebrei o non ebrei. 
Lo spettacolo non è certo banale. Non credo ci sia nel Mediterraneo una città più dinamica e variegata di Tel Aviv. Israele va alle urne domani. Il protagonista della campagna elettorale è Naftali Bennett leader dell'ala radicale dei conservatori laici Ex ufficiale, ha fatto fortuna con Internet e ora vola nei sondaggi con proposte asciutte ed estreme: niente processo di pace, estensione delle colonie, solo qualche città autonoma ai palestinesi ma sotto rigidi controlli di sicurezza Una ricetta che sta conquistando un Paese che vuole nascondere le sue paure Naftali Bennett rappresenta l'estrema destra high tech perché lui stesso è un esperto di quell'industria sofisticata, orgoglio di Israele. 
Con una company internet security, la Sayota, ha fatto fortuna. Quando ha cambiato attività l'ha venduta per centoquarantacinque milioni di dollari. Dopo la Silicon Valley, Israele ha la più alta concentrazione al mondo di high tech, e chi ha contribuito a crearla ne trae prestigio. Naftali Bennett sa rivolgersi a una società giovane (età media ventotto anni), con un discorso religioso ma non bigotto, e con proposte politiche espresse con apparente asciutta razionalità. Nonostante il loro estremismo. Egli dice: niente processo di pace con i palestinesi, estensione delle colonie nella Cisgiordania occupata, e soltanto qualche città autonoma per i palestinesi, sotto il controllo della sicurezza israeliana. Al tempo stesso predica un dialogo con i laici. 
La sua più stretta collaboratrice nel partito è una giovane bella donna, Ayelet Shaked, che si dichiara appunto laica. La famiglia Bennett, polacca di origine, viene dagli Stati Uniti, dove era contro la guerra in Viet Nam, e alcuni suoi membri avevano idee di sinistra, maturate a Berkeley. In Israele c'è stata la svolta. Naftali Bennett è stato anche ufficiale in unità speciali, distinguendosi in varie operazioni. Questo suo passato gli consente di esortare senza troppi guai alla disubbidienza i militari nel caso fosse ordinato di demolire le colonie israeliane nei territori occupati. 
Lui è stato per anni il responsabile dello Yesha Council, l'associazione dei coloni. Dei quali è uno strenuo difensore. La condotta esemplare come ufficiale e l'aperta difesa dei coloni accentuano la sua influenza in due settori forti della società più conservatrice: i quadri subalterni dell'esercito (non gli alti gradi, che sanno essere critici con il potere politico) e gli abitanti degli insediamenti nei territori occupati, dai quali tenenti e capitani provengono. Un tempo gli ufficiali venivano dai kibbutz, allora roccaforti dell'Israele laburista. 
A dargli ulteriore credito è l'esperienza accanto a Benjamin Netanyahu, del quale è stato uno  stretto collaboratore, e del quale è adesso un insidioso concorrente. E domani, probabilmente, un suo ministro. Con la speranza di sostituirlo un giorno come capo del governo. Sara, l'attenta e invadente moglie di Netanyahu, ha avvertito presto, e quindi diffidato, della forte ambizione di Naftali Bennett.
Il dissenso tra Sara e Naftali, e la troppo bella Ayelet, ha alimentato i gossip a Tel Aviv e a Gerusalemme. Al contrario di quel che mi aspettavo il problema palestinese e l'irraggiungibile accordo di pace non hanno dominato la campagna elettorale. Le parole "palestinese" e "pace" non sono state quasi mai pronunciate. Eppure un paio di mesi fa si combatteva e si moriva a Gaza. E la Palestina dell'Olp, quella di Cisgiordania, occupata dagli israeliani, è stata riconosciuta da un voto plebiscitario come un Stato osservatore dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. 
È stata una sconfitta diplomatica per Israele, ed anche un segno del suo isolamento. Eppure non se ne è quasi parlato. Netanyahu ha reagito, ma non troppo, alle critiche di Barack Obama per i nuovi insediamenti decisi come una provocazione subito dopo il voto dell'Assemblea generale. Questo non significa che i problemi non siano sentiti, e non siano destinati a pesare sul voto di domani. Il successo attribuito all'estrema destra high tech di Naftali Bennett è un chiaro sintomo. Sui manifesti, sotto il ritratto di Netanyahu con un piglio severo, c'è scritto: "Un uomo forte per un paese forte". Non c'è bisogno d'altro. Sono parole che rassicurano. La paura è invisibile, dice Manuela Dviri, che ha avuto un figlio soldato ucciso in Libano. Lei è una donna coraggiosa. 
Si prodiga per far curare i giovani palestinesi ammalati, è favorevole a uno Stato palestinese e contraria alla costruzione di nuove colonie. La paura? Lei dice che non la vedi e non la senti perché ci si vergogna di provarla. Ma c'è ed è robusta. È la paura di ogni cambiamento: dei palestinesi e di ciò che il governo potrebbe fare ai palestinesi; degli iraniani e di ciò che il governo progetta contro gli iraniani; dell'isolamento e al tempo stesso della tendenza all'isolamento; di Hamas e degli Hezbollah; di quel che sta succedendo in Siria, di quel che è accaduto in Egitto e di quel che può accadere nel resto del mondo arabo; ed anche della Turchia adesso ostile; oltre che delle critiche dell'alleato americano. 
È partendo dalla paura, sfruttandola, coltivandola che il governo di Netanyahu, e l'estrema destra vincono le elezioni. È una paura ben nascosta perché stando al tasso di felicità calcolato dall'Onu nei paesi membri, Israele è al quattordicesimo posto, mentre ad esempio l'Italia è al ventottesimo. Prendo spunto da uno scritto di Peter Beinart per avviare un discorso chiave. Secondo il professore di scienze politiche alla City University di New  York, appartenente alla vasta e frammentata comunità ebraica americana, a Ovest della Linea verde, cioè della frontiera precedente alla guerra del 1967, Israele è una democrazia imperfetta ma autentica, mentre a Est, nella Cisgiordania occupata, è un'"etnocrazia". E per etnocrazia Beinart, ex redattore capo di New Republic, una rivista di sinistra, intende un luogo in cui gli israeliani, ossia i coloni, usufruiscono dei diritti di chi ha una cittadinanza, diritti negati ai palestinesi. 
Questa situazione logora la democrazia israeliana e alimenta le tendenze ultranazionaliste e razziste. È come un veleno che insidia la società, che la ferisce in profondità ma i cui effetti non sono esibiti. Sono nascosti. Le idee di Peter Beinart, autore di "Crisi del sionismo", hanno suscitato numerose reazioni. Jonathan Rosen, sul New York Times, ha riconosciuto che è degradante, faticoso e pericoloso per lo Stato ebraico trascurare la vita di milioni di palestinesi senza Stato, ma ha accusato Beinart di manicheismo semplicistico.
Il problema è assai più complesso. Perché è tanto complesso i partiti impegnati nella campagna elettorale non l'hanno quasi affrontato? Qualche eccezione, e di grande rilievo, in verità c'è stato. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, grande figura del vecchio partito laburista, ha dichiarato apertamente, in pieno clima elettorale, la necessità, anzi l'obbligo di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen, per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese. Anche la maggioranza degli israeliani accetta la soluzione di due Stati, ma poi aggiunge che non si fida degli interlocutori palestinesi. 
È come se riconoscesse che la morte esiste, è inevitabile, senza ovviamente desiderare che arrivi. Persino la dinamica, intelligente Shelly Yechimovich ha quasi schivato l'argomento. È la leader del Labour in declino e per rianimarlo ha puntato sull'economia con un certo successo, poiché il partito dovrebbe essere il secondo per numero di deputati nella prossima legislatura. La situazione non va troppo male rispetto all'Europa: la disoccupazione è al 7 per cento e la crescita oscilla tra il 2-3 per cento. 
Ma le sperequazioni nei redditi sono fortissime, e hanno provocato nel 2011 grandi manifestazioni di protesta. Shelly Yechimovich ha cercato di recuperare i giovani israeliani che le hanno promosse, ignorando quasi la questione palestinese. Ad affrontarla con decisione è stata Zahava Gat-On, leader di Meretz, il partito goscista, e la centrista Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, che ha creato un suo partito (Hatnuah). Le donne sono state più audaci.

Bernardo Valli

FRATELLI MUSULMANI


I Fratelli musulmani 
crescono tra moschee e aziende

I fondamentalisti, usciti vincitori dalle primavere arabe, puntano a conquistare i quasi due milioni di islamici d'Italia. E il proselitismo si fa anche con aiuti economici agli emigrati. Così ora c'è un boom di venditori egiziani, mentre cresce il peso della Confraternita nei luoghi di culto ROMA - Rashid vende frutta e verdura. Il suo negozio ha due ampie vetrine che si affacciano su una piazzetta pedonale in un quartiere popolare di Roma Sud. È aperto fino a tarda sera, anche la domenica. A denunciarne la nazionalità è un foglio di papiro appeso sopra la cassa, raffigurante un'antica divinità egizia. A svelarne la fede, versetti del Corano in argento su stoffa nera all'ingresso. Per il resto è lui a mettere le cose in chiaro: "Sì, sto coi Fratelli musulmani, qui quasi tutti lo siamo, almeno chi fa questo lavoro". Nelle sue parole la conferma di un movimento sotterraneo: l'espansione della Fratellanza nel nostro Paese. L'obiettivo? La conquista del milione e 650mila musulmani d'Italia. Una "campagna acquisti" rilanciata dalla Primavera araba, che i Fratelli conducono con più mezzi: aiuti economici alle imprese degli immigrati in Italia, finanziamento dei centri islamici, dottrina e fede. Ma chi sono i nuovi "padroni" dell'Islam italiano? Quali sono le loro parole d'ordine? E come si muovono nel nostro Paese?

La porta per l'Europa. La Fratellanza è una influente organizzazione internazionale, fondata nel marzo del 1928 da un insegnante egiziano di nome Hassan al-Banna. Dopo la repressione subita negli anni della presidenza Nasser, i Fratelli musulmani rialzano la testa e abbandonano le posizioni più estremistiche della lotta armata in vista di una legittimazione politica. "La Fratellanza ha un fine preciso  -  spiega Massimo Campanini, docente di Storia dei paesi islamici a Trento  -  che è quello di islamizzare la società e pervenire nel lungo periodo alla realizzazione di uno Stato islamico". Un movimento fondamentalista che, cavalcando la Primavera araba, ha preso il potere in Tunisia, Marocco e soprattutto in Egitto col presidente Mohamed Morsi. Il motto dell'organizzazione è: "Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è la nostra via. Morire nella via di Allah è la nostra suprema speranza".

E l'Italia che c'entra? Lo spiega il 29 giugno 2012 Ezz Eldin Naser, esponente della Fratellanza musulmana egiziana, che si trova a Roma per incontrare alcuni imprenditori italiani: "Consideriamo l'Italia la nostra porta per l'Europa e la Russia". Traduzione: i Fratelli sono partiti alla conquista della complessa galassia dell'Islam italiano ed europeo. Lo confermano alcune informative dei servizi segreti occidentali. Quest'estate un rapporto dell'intelligence Usa fotografa i movimenti della Fratellanza in Europa, Italia compresa, seguiti al successo politico ottenuto in Egitto. In Francia l'ottobre scorso, l'ex capo del Dst (il controspionaggio francese), Yves Bonnet, indica Arabia Saudita e Qatar quali fonti del finanziamento delle reti islamiste radicali (compresi i Fratelli) nel Vecchio continente. Quanto all'Italia, l'ultima relazione dei servizi segreti al Parlamento si limita a mettere in guardia da un possibile e generico "nuovo attivismo di militanti islamisti galvanizzati dalla caduta dei regimi". Non tutto il mondo arabo guarda però con favore l'espandersi della Fratellanza. Stando al quotidiano al-Khaleej, che cita una fonte anonima vicina alle indagini, il primo gennaio scorso le autorità degli Emirati arabi uniti hanno arrestato una "cellula egiziana dei Fratelli musulmani", impegnata ad addestrare degli islamici locali per rovesciare alcuni governi arabi. La cellula, composta da oltre dieci persone, reclutava egiziani negli Emirati e finanziava alcune attività commerciali per recuperare fondi volti a sostenere l'organizzazione madre. Ma torniamo all'Italia: per quali vie i Fratelli musulmani si ramificano nel nostro Paese? E dove si è fatta più visibile la loro presenza?

Il business dei negozi. Rashid è solo la punta dell'iceberg: quella dei fruttivendoli egiziani pare un'avanzata inarrestabile. Lo confermano i numeri della Camera di commercio di Milano. In Italia quest'anno sono attive oltre 30mila imprese che commerciano in frutta e verdura. Il loro numero è in calo rispetto al 2011. A tenere sono solo i titolari stranieri, impermeabili alla crisi, con un boom degli egiziani che nell'ultimo anno hanno aumentato di ben il 20% i loro negozi: record di presenze a Milano e Roma (qui i fruttivendoli provenienti dal Cairo sono ben 233). Il segreto del loro successo è raccontato da Mohamed, che ha due negozi nella capitale: "Facciamo rete e quando andiamo ai mercati generali, compriamo grandi quantità di merce per rifornire fino cinque negozi, più qualche ristorante e albergo del centro, così abbattiamo i costi". Ma chi copre l'investimento iniziale? "È tipico della Fratellanza aiutare economicamente i propri affiliati: in tal caso investono all'estero e in cambio ricevono consenso  -  sostiene Naman Tarcha, giornalista di origine siriana in Italia  -  In base alla mia esperienza posso dire che appartengono quasi tutti alla Fratellanza e la stessa scelta di questo lavoro è halal, non toccano infatti materia impura, cosa che invece può capitare se lavori in un bar con la birra, o in una pizzeria con il prosciutto". Rashid, fruttivendolo, lo spiega chiaramente: "Tra Fratelli ci si aiuta anche col denaro, che male c'è? Non siamo estremisti, Mubarak era un dittatore, ora vediamo cosa farà Morsi, mettiamolo alla prova". Insomma, nulla da nascondere: dopo le vittorie politiche nel Nord Africa, i Fratelli escono allo scoperto e rivendicano la propria identità.

Il giallo del carpentiere. Una conferma della forza della Fratellanza tra gli immigrati sta nella notizia che l'Italia è il solo Paese occidentale in cui la maggioranza degli egiziani residenti abbia votato a favore della costituzione voluta da Morsi (1.165 hanno votato a favore e 1.039 contro). Sulla Fratellanza è dura la posizione di Souad Sbai, presidente dell'Associazione donne marocchine in Italia ed ex deputata Pdl: "Prima i Fratelli musulmani finanziavano le moschee fai-da-te, ora si sono dirottati sulle attività commerciali. I soldi arrivano dall'estero, anche dai sauditi. In cambio hanno valuta pregiata di ritorno e la crescita della loro sfera di influenza tra gli immigrati musulmani in Italia. Arrivano con valigie piene di contanti, come nel caso di quell'egiziano fermato poche settimane fa a Malpensa". La Sbai ha pochi dubbi. La deputata di origine marocchina si riferisce alla vicenda di un carpentiere proveniente dal Cairo (ma del quale non è provato il legame con la Fratellanza), al quale i finanzieri di Milano-Malpensa l'11 dicembre scorso hanno sequestrato parte dei 110mila euro in contati contenuti dentro un borsone e non dichiarati alla frontiera. L'uomo ha cercato di eludere le verifiche dei finanzieri nascondendo la somma all'interno di grosse sacche, piene di vestiti e altri effetti personali, sperando che il volume dei suoi bagagli avrebbe scoraggiato i controlli. Così non è andata.

La "presa" delle moschee. Stando a un dossier segreto del Viminale (datato aprile 2007), solo le moschee di via Pallavicini a Bologna e di via dei Frassini a Roma sono in mano ai Fratelli musulmani. Ma negli ultimi anni le cose sarebbero molto cambiate: "Oggi nei centri islamici la maggioranza delle iniziative legate al culto è collegata a qualcuno della Fratellanza  -  conferma Yahya Pallavicini, imam a Milano e vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica)  -  la loro espansione si è fatta via via più forte negli ultimi tempi tra tutti gli immigrati, con la sola eccezione di senegalesi, turchi e di qualche pakistano. Oggi si sentono più potenti perché legittimati dall'Occidente quali mediatori col mondo islamico, dopo i successi elettorali incassati in giro per il mondo. Ma attenzione: va ricordato che il loro fondamentalismo ha come priorità strategica la presa del potere e un islam politico". Non manca una nota positiva: "Prima dell'11 settembre  -  ragiona Pallavicini  -  si consideravano i soli puri, ora hanno abbandonato l'arroganza dell'esclusivismo e dialogano con le altre realtà dell'islam, anche se alla fine rivendicheranno per loro la leadership". Non lontana dalla Fratellanza viene considerata l'Unione delle comunità islamiche (Ucoii). Oggi il suo presidente, Izzeddin Elzir, conferma solo che "una minoranza dei nostri membri aderisce alla Fratellanza" e quanto al finanziamento delle attività commerciali non crede che "dietro ai fruttivendoli egiziani ci siano i Fratelli musulmani e comunque non ci sarebbe nulla di male, né di illegale, nell'aiuto economico tra connazionali". Ma qual è il rischio connesso all'espansione della Fratellanza in Italia? Qual è il loro progetto non solo religioso, ma politico?

La radicalizzazione degli immigrati. "Il loro progetto di realizzazione di una società islamica non implica un elemento intrinseco di estremismo  -  ci tiene a chiarire il professore Campanini  -  e la loro espansione non ha nulla a che vedere con rischi terroristici. Ciò detto, la loro lettura fondamentalista dell'Islam può portare a una limitazione dei diritti umani, soprattutto delle donne e rendere le comunità islamiche in Italia meno integrabili. Ma è pur vero che la Fratellanza ha sempre dimostrato un notevole pragmatismo, che potrebbe portare a smussarne la radicalità e poi ricordiamoci che rispetto ai salafiti passano per dei moderati". Stando ad alcuni documenti rinvenuti dopo l'11 settembre in Svizzera, la Fratellanza disporrebbe di una rete finanziaria imponente. "La loro ricchezza  -  spiega Campanini  -  viene dalle donazioni dei fedeli, dal lavoro volontario dei loro affiliati e dai finanziamenti provenienti da alcuni ricchi Stati arabi". Dove sono presenti, i Fratelli musulmani forniscono alla popolazione anche assistenza sanitaria e scolastica. E questa è la spiegazione principale della loro forza e del crescente consenso. Per questo il boom dei fruttivendoli egiziani non sorprende Campanini: "Finanziare gli immigrati all'estero? È tipico del loro welfare".

ISRAELE

Israele al voto, la carica dei religiosi record di rabbini nella nuova Knesset

Corre con la certezza che dal voto di oggi in Israele, otterrà il suo quarto mandato da premier Benjamin Netanyahu, ma non sarà quella vittoria trionfale che "King Bibi", soltanto tre mesi fa, si aspettava. La sua formazione Likud-Beitenu, con il nazionalista Avigdor Lieberman, uscirà - ci dicono i sondaggi israeliani che però non azzeccano una previsione dal 1999 - come partito di maggioranza relativa con 33-35 seggi sui 120 della Knesset. Un' erosione rispetto al 2009, quandoi due partiti separati portarono a casa 42 deputati, provocata dalla forte aspettativa per la novità nella destra del panorama politico: "Focolare ebraico", il partito nazionalista religioso animato dal milionario Naftali Bennett, ex capo dello staff di Netanyahu, si appresta a diventare il terzo partito con 14 seggi in Parlamento. Bennett, portavoce per anni dei coloni, fra le altre cose sostiene che sia «inevitabile» l' annessione del 60 per cento della Cisgiordania palestinese. È con questa "nuova destra" e con i famelici partiti religiosi Shas e United Torah Judaism (15 seggi previsti) che Netanyahu dovrà trovare una maggioranza che affronti prima di tutto i seri problemi economici che attraversa Israele, come chiede la maggioranza degli elettori. Sul fronte dell' opposizione risale, sull' onda delle grandi proteste sociali dell' estate 2011, il Labor guidato dall' ex giornalista Shelly Yachimovich (16-18 seggi) e "Hatnua" - il neo-partito guidato da Tzipi Livni (7-9). Ma anche con il sostegno dei tre partiti arabi un fronte anti-Netanyahu che unisca tutta l' opposizione sembra destinato a restare inchiodato ai 55-57 seggi. Fino a ieri sera per tutti, da Netanyahu alla Yachimovich, è stata caccia all' ultimo voto, perché come titolava il quotidiano Haaretz ieri mattina c' è ancora il 15 per cento di indecisi. Una fetta elettorale che vale 18 seggi. Non può passare inosservata in queste elezioni la forte presenza di candidati religiosi. Gli ebrei FOTO: ANSA ortodossi hanno lasciato i partiti di nicchia per unirsi al Likud e agli altri partiti principali, sfidando il dominio laico fra i politici e infondendo alla politica israeliana un fervore religioso e certamente una linea più dura nel negoziato con palestinesi. Tutti i partiti, di destra, di centro e di sinistra, hanno candidato rabbini e personalità religiose ortodosse. Le previsioni indicano che la 19esima Knesset avrà un record di 40 deputati religiosi, in quella uscente erano 25 e solo una ventina di anni fa si contavano sulle dita di una mano. Mentre alcuni settori della società israeliana gioiscono, ha molti timori invece la maggioranza laica. Perché la tendenza può alterare l' identità di una nazione che non ha mai segnato i delicati confini fra religione e Stato, e che al suo interno ha anche una sostanziale minoranza araba musulmana. Una inchiesta condotta lo scorso anno indica che solo il 22 per cento degli ebrei israeliani si dichiara osservante- ortodosso o ultra-ortodosso - mentre ben il 78 per cento si dichiara laico. I religiosi si troverebbero a esercitare quindi un ruolo e un' influenza sproporzionata nella società israeliana. Stando a molti sociologi israeliani i movimenti religiosi che cercano di espandere gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata e che negano ai palestinesi uno Stato, stanno soppiantando, come simbolo auto-dichiarato della missione di Israele, i potenti kibbutz di una volta. E quest' ascesa nella società israeliana è stata alimentata dalla diffusa disillusione sul negoziato di pace con i palestinesi, e dall' esito delle rivolte arabe che negli ultimi due anni hanno portato al potere gli islamisti, facendo sembrare fragile anche il trattato di pace di Camp David con l' Egitto del 1979.
FABIO SCUTO


Israele, verso l'accordo Netanyahu-Lapid

GERUSALEMME - È una vittoria che ha il sapore amaro della sconfitta e Benjamin Netanyahu è costretto rivedere i suoi piani all'indomani del voto che ha ridimensionato l'alleanza elettorale del premier uscente Likud-Beitenu (31 seggi) e premiato invece nuovi partiti di centro come Yesh Atid (19), e a sinistra il Labour (15) e Meretz (6). E' mancata quell'ondata di voti di voti che si aspettava il milionario hi-tech Naftali Bennett, leader del partito dei coloni "Focolare ebraico", che però incassa 11 seggi. Al momento attuale la Knesset appare divisa in due blocchi eguali, di 60 deputati ciascuno: quello della destra e dei partiti confessionali, e quello della sinistra con le liste laiche e quelle arabe.
La situazione potrebbe cambiare oggi, con la fine dello spoglio dei voti dell'esercito e il possibile passaggio di un seggio dall'area di sinistra a quella di destra.
Ma la sostanza politica non cambia: senza Yesh Atid guidata da Yair Lapid sarà difficile formare una coalizione con un margine di maggioranza accettabile.
Il partito centrista fondato solo un anno fa dall'ex anchorman di Channel Two - sull'onda delle proteste sociali e contro i privilegi concessi ai religiosi ortodossi - è la seconda forza politica del Paese.
Il primo ministro Netanyahu, a cui il presidente Peres dovrebbe affidare l'incarico di formare un governo essendo il leader del partito di maggioranza relativa, già ieri pomeriggio ha promesso di impegnarsi in riforme socio-economiche e di formare una coalizione la più ampia possibile. «Ci siamo svegliati con un chiaro messaggio degli elettori», ha detto dopo essersi consultato con l'alleato ed ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. La sicurezza rimarrà una priorità ma il prossimo governo, ha spiegato, si occuperà anche di riequilibrare la situazione fra laici e ortodossi, riduzione del costo degli alloggi e riforma elettorale. Tutti cavalli di battaglia su cui l'ex volto della tv ha costruito la sua fortuna elettorale. Una telefonata di complimenti di Netanyahu l'altra notte a Lapid ha aperto di fatto le consultazioni e ieri dal premier uscente è venuto un invito ancora più chiaro a partecipare al prossimo esecutivo.
Sulla stampa e alla tv israeliana impazzano gli scenari. Quello dato per possibile prevede l'esclusione dei religiosi e degli ultraortodossi per un governo formato dal Likud-Beitenu, "Focolare Ebraico", Yesh Atid e Hatnuah, il nuovo partito della signora Livni (6 seggi). Il totale dei seggi sarebbe 67 su 120, un compromesso che ricorda il precedente di Ariel Sharon, che tenne fuori appuntoi religiosi. Come le dichiarazioni di Lapid di ieri sera lasciano intravedere. Il risiko politico, però, è appena iniziato.

ALGERIA

Algeria, assalto ai rapitori ma è strage di ostaggi C'è la mano di Al Qaeda

PARIGI - Un blitz che si è trasformato in un disastro. Decine di morti, una pioggia di polemiche e il laconico commento del presidente francese Hollande: «La faccenda ha preso una piega drammatica». L'intervento armato voluto da Algeri nel sito petrolifero della Bp di In Amenas, dove i ribelli avevano preso in ostaggio una quarantina di occidentali, è stato un bagno di sangue. L'obiettivo era quello di annientare i terroristi che avevano attaccato l'impianto.
L'esercito ha dato l'assalto a fine mattinata, un portavoce dei terroristi ha annunciato la morte di 34 ostaggi (sette gli stranieri) e 15 integralisti tra cui il leader Abou Al Bara. Ma le notizie sono confuse e contraddittorie: secondo un'agenzia di stampa algerina, l'attacco è finito ieri sera, alcune fonti parlano della liberazione di «metà» degli ostaggi stranieri, senza che se ne conosca il numero esatto. I paesi occidentali non nascondono l'inquietudine e le critiche: la Casa Bianca ha chiesto chiarimenti: «C'è dietro Al Qaeda», dice il Pentagono. Cameron ha fatto sapere al primo ministro algerino che avrebbe voluto essere avvertito; il premier giapponese ha chiesto l'immediato arresto delle azioni militari. L'assalto dell'esercito è cominciato verso mezzogiorno. Secondo le diverse testimonianze, impossibili da verificare, si sa che i terroristi avevano fatto irruzione nella base abitativa del sito petrolifero, che si trova a quattro chilometri dalla raffineria e dai giacimenti di gas. I fondamentalisti avevano in ostaggio almeno 41 stranieri, ai quali sarebbero state messe cinture cariche di esplosivo. Al tempo stesso, 600 lavoratori algerini sono rimasti intrappolati nella base, ma liberi di muoversi al suo interno.
La tragedia degli ostaggi, come tante altre volte in passato, arriva sugli schermi occidentali attraverso Al Jazeera: tre di loro, un britannico un giapponese e un irlandese, chiedono il ritiro dell'esercito che accerchia la base. Difficile parlare di negoziato: i fondamentalisti vogliono la fine della guerra in Mali, la liberazione di cento terroristi detenuti in Algeria e soprattutto di potersene andare in Libia con gli ostaggi. Richieste inaccettabili per Algeri. Alcuni stranieri e una manciata di lavoratori algerini riescono a fuggire, poi, verso mezzogiorno, arriva l'assalto, violento.
Secondo un portavoce integralista, i primi scontri a fuoco provocano, come detto, la morte di 34 ostaggi e di 15 integralisti. I seicento lavoratori algerini riescono a uscire indenni. Il conflitto a fuoco continua, senza che se ne sappia granché: l'agenzia di stampa mauritana che aveva i contatti con i terroristi resta senza notizie. Il cellulare del portavoce non risponde più. Ma queste notizie frammentarie lasciano aperti molti interrogativi sulla dinamica dei fatti.
Il ministro della Comunicazione algerino, ieri sera, non ha dato dettagli. Ha detto che il dialogo coi terroristi si è rivelato impossibile a causa del loro oltranzismo. Il blitz avrebbe consentito la «neutralizzazione» di molti terroristi e «purtroppo alcuni morti e feriti.
Daremo il numero esatto appena lo avremo». Il premier britannico Cameron resta pessimista: «Dobbiamo prepararcia brutte notizie», dice ai giornalisti. Il bilancio del governo algerino tarda ad arrivare, mentre nel Mali le truppe francesi continuano ad avanzare verso il nord del paese con molta cautela.
- DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GIAMPIERO MARTINOTTI



Costretti a mettere cinture esplosive e siamo diventati degli scudi umani

ALGERI - L' intervento militare algerino è ancora in corso attorno alla base di Tigantourine presa dai jihadisti di Mokthar Belmokhtar vicini ad Al Qaeda; le comunicazioni dall' interno della base sono interrotte, i familiari degli ostaggi seguono le notizie con il fiato sospeso. Le prime notizie filtrate dopo la fuga di alcuni sequestrati, restituiscono un quadro del terrore: stando a uno degli scampati, gli islamisti hanno fatto sapere che «uccideranno gli ostaggi cristiani e infedeli», dotati di maggior valore ai loro occhi, risparmiando i musulmani. Per separare i due gruppi, hanno imposto a ognuno di recitare in arabo un versetto del Corano. Alcuni sono stati costretti a infilare cinture esplosive, trasformati in scudi umani per frenare l' intervento delle forze algerine. Il campoè stato minato. Fra gli ostaggi ci sarebbero parecchi feriti in gravi condizioni. «Li ho visti uccidere uno a sangue freddo». Lyès, ingegnere nella divisione tecnica dello stabilimento per l' estrazione del gas di Tiguentourine a In Aménas (alla frontiera con la Libia), è ancora incredulo: «Non riesco a capire come i terroristi siano riusciti a entrare con tanta facilità nella base, nonostante la presenza della sicurezza: devono avere avuto dei complici all' interno». Di ritorno a casa dopo essere stato liberato dai sequestratori con una quarantina di lavoratori algerini, Lyès non smette di pensare a quello che ha vissuto. «Quando sono penetrati nella base, stavo per uscire dalla mia stanza per andare al ristorante a fare colazione. Ci sono state raffiche di mitra. Ho capito subito che si trattava di un attacco, ma pensavo che a sparare fossero i militari da una postazione proprio accanto a noi». Gli è impossibile immaginare che i terroristi «possano entrare senza ostacoli fino allo stabilimento e forzare la porta d' ingresso con un' autoariete. Come hanno fatto», si chiede, «a superare il primo posto di controllo della polizia, a 10 chilometri dall' ingresso dello stabilimento, sulla strada di Illizi, e la barriera fissa che si trova sulla strada secondaria che porta all' impianto?». Ieri quattro ostaggi stranieri (un francese, un keniano, due britannici)e 600 algerini sono stati liberati dopo l' assalto militare disposto dal governo. Il raid è avvenuto in seguito a un tentativo di fuga dei sequestratori a bordo di due fuoristrada. In mancanza di un bilancio ufficiale, il ministro algerino delle Comunicazioni, Mohamed Said, parla di «un notevole numero di ostaggi liberatie purtroppo di alcuni morti e feriti». Una valutazione rosea rispetto alle dichiarazioni degli islamisti che parlano di più di 30 ostaggi e una quindicina di sequestratori uccisi. All' alba, una trentina di impiegati algerini era già riuscita a sfuggire. «Ma sono tutti sotto shock», dice Samir, che li ha incontrati all' aeroporto di Tébessa, dove 11 dei "miracolati" sono atterrati nel pomeriggio. «Oltre a non aver dormito, hanno dovuto fare l' autostop per più di 40 chilometri prima di arrivare all' aeroporto». A Djanet, un agente di sicurezza della base, in ferie, ha saputo per telefono della morte di un collega. «Aveva solo 30 anni», si dispera. «Stava lasciando il campo in autobus: i terroristi li hanno intercettati e riportati all' impianto». Tutto lascia pensare che l' Algeria abbia deciso da sola il momento di lanciare l' attacco. Il primo ministro britannico, David Cameron, si è lamentato di «non essere stato avvertito». La Casa Bianca, che conta diversi americani tra gli ostaggi, aspetta «chiarimenti» dalle autorità locali. Il Giappone, a sua volta, ha chiesto all' Algeria di far cessare immediatamente il suo intervento militare sull' impianto di gas.
MÉLANIE MATARESE