mercoledì 29 febbraio 2012

ALCUNE PUNTUALIZZAZIONI SULL'ARTICOLO DEL GIORNALE DI VICENZA DAL TITOLO "VICENZA ADDIO. MEGLIO LA MOSCHEA DELLA CAPITALE"

Domenica 5 Febbraio è comparso sul Giornale di Vicenza un articolo dal titolo "Vicenza Addio. Meglio la moschea della capitale" (sottotitolo: "Domenico Abdullah Buffarini tornerà nei Castelli Romani").
Non ho molti motivi per polemizzare con l'articolo anche perché l'autrice, Chiara Roverotto, è una mia cara amica e non ho certamente motivo di polemizzare in maniera meno soft con lei. Tuttavia alcune puntualizzazioni mi sembra necessario farle:
I - Non ho mai detto che voglio andarmene da Vicenza perché è meglio la moschea di Roma. Considero Roma la città più bella del mondo e ad abbellirla contribuisce in non piccola parte anche la moschea di Paolo Portoghesi. Anche Vicenza è una bellissima città: penso che alcune delle sue vie, ad esempio Contrà Porti, siano alcune delle più belle vie d'Europa. Vicenza, tuttavia, ha un difetto ed è quello di avere oggi, anche in seguito a talune mutazioni di gran parte dei suoi residenti, un capitale umano con il quale una persona nata e cresciuta nei Castelli Romani fa molta fatica ad ambientarsi e a viverci. In altra sede ho sostenuto che Vicenza ha dei residenti ma molti di questi non sono cittadini in grado di dare alla città una fisionomia positiva. La situazione è nettamente peggiorata quando le grandi fabbriche, che fino agli inizi degli anni 80' ne facevano una "città operaia", si sono trasferiti nei paesi contermini. Vicenza è così diventata una città semi-morta, senza il calore umano che si richiederebbe ad una città tanto ricca di bellezze architettoniche e di storia. E questo è il motivo per il quale la naturale nostalgia che posso provare per i miei luoghi di origine si è fatta sempre più forte. Anche nei Castelli Romani ci sono state trasformazioni negative, ma per riconoscimento unanime essi sono rimasti una specie di mondo a parte, dove il passato si mescola in maniera armonica con il presente e gli abitanti hanno conservato la bonomia scherzosa ed ospitale che gli hanno sempre caratterizzati. Non è un caso che quell'immagine è la stessa di quella che traspare da quanti i Castelli Romani conobbero, da grandi poeti come Goethe, Neruda, Quasimodo, Ungaretti, Longfellow, Byron; e non credo sia un caso che ad Albano risieda ancora oggi uno straordinario personaggio scontroso quanto geniale come Ceronetti. Non mi dilungo sullo splendore della natura: grandi boschi si alternano agli uliveti, alle vigne e agli orti; i due laghi che si vedono dalla cima di Monte Cavo, già Monte Albano, furono paragonati da Byron a "due piccoli specchi di infinito", mentre Longfellow ha sostenuto in piena convinzione che la strada che da Albano arriva a Velletri era a suo avviso la strada più bella del mondo. Dal mio paese si vede insieme l'intera città di Roma e il mare da Ostia fino al Circeo, ma nei giorni di Tramontana è possibile vedere anche l'isola di Ponza. Sorvolo sul fatto che i Castelli Romani sono i luoghi della mia infanzia e della mia giovinezza, degli studi più importanti e dei primi amori; e poi, vi sono sepolti i miei morti.
Non è quindi il raffronto con la moschea di Roma, che pure è bellissima, che mi allontana da Vicenza ma il diverso modo di concepire la vita che abbiamo noi latini rispetto a chi in gran parte ama considerarsi "longobardo" o "celtico";
II - Mi duole evidenziare che il mio rapporto con Vicenza è molto peggiorato da quando ho deciso di abbracciare l'Islam. La gran parte dei pregiudizi, che si nutrono nei confronti di quella che è ormai la più diffusa religione del mondo, si è concentrata sulla mia persona accrescendo in me il senso di alterità e di estraneità che ho nei confronti della "vicentinità". Mi ha sempre colpito negativamente il fatto che qui la maggior parte della gente che incontra e scambia le prime parole con un "foresto" usa apostrofarlo con l'espressione "Ma lù non xe de qua, se foresto!". Dalle mie parti il più delle volte si omette di evidenziare tale condizione di non "castellano"; al massimo si chiede al forestiero: "Ma tu da dove vieni?". Il vicentino tipo esclude dal suo orizzonte il forestiero; i miei concittadini latini tendono al contrario ad includerlo puntando a conoscere di lui ciò che è essenziale: la provenienza. E questo è lo stesso modo con cui gli Indiani d'America mi hanno sempre accolto: "Where are you from?". Circostanza strana: questa caratteristica è tipica anche dei musulmani delle più svariate origine: "Di dove sei?";
III - Mi capita sempre più spesso di vedermi superare da qualche energumeno in bicicletta che mi interpella, pedalando a grande velocità, per il timore coraggioso delle mie note reazioni dialettali in romanesco con piacevolezze del tipo: "Te si diventà islamico perché così te poi accoppare le donne?"..."Dove abita quei che prega come tì i xe dei selvadeghi sanguinari, terroristi ecc.ecc.". E non si tratta sempre di zotici privi di cultura. Una persona conosciuta come una delle più colte di Vicenza, in occasione della morte di Bin Laden mi ha chiesto se mi ero messo in lutto. Accenno appena alle telefonata anonime che non contengono certo complimenti. Voglio nominare come encomiabile eccezione Giorgio Sala, che considero sempre il migliore sindaco che ha avuto Vicenza. Sala è profondamente cattolico, ma quando ha saputo che avevo abbracciato l'Islam mi ha detto: "Mi sei molto più caro come amico ora che sei musulmano e credi e preghi il mio stesso Dio, che è il Dio di Abramo, Mosé e Gesù". Purtroppo di persone come Giorgio Sala a Vicenza ce ne sono molto poche.
IV - Anche la mia amica Chiara Roverotto non è potuta sfuggire a questo pressapochismo offensivo che caratterizza l'idea che a Vicenza, e non solo si ha dei musulmani. Tra le altre domande che mi ha rivolto, Chiara mi ha chiesto: "Ma l'Islam è tollerante?". La mia risposta è stata: "Certo che lo è, la scienza è assolutamente libera nell'Islam perché il suo scopo è quello di conoscere i segreti del Creato e non esiste un rapporto più libero tra fede religiosa e ragione". Se avessi conosciuto il suo commento a tale riposta ("Eppure non si direbbe viste le cruenti rivoluzioni che ci sono state in alcuni paesi arabi a partire dalla scorsa primavera") le avrei risposto in un modo più articolato e non mi sarei limitato a far presente che in Europa in fatto di intolleranza c'è stato di molto peggio: i 13 mila musulmani ammazzati a Srebrenica e i 10 mila musulmani ammazzati dai cecchini croati e serbi a Sarajevo sono di pochi anni fa. E comunque, è intolleranza rovesciare con la forza dittatori, ladri, assassini e servi degli interessi occidentali per cercare di instaurare regimi democratici e liberi come è avvenuto in Tunisia e in Egitto e come si spera che avverrà anche in Siria? Da quando in qua le rivoluzioni che rivendicano maggiore libertà sono una manifestazione di intolleranza? O forse si pensa che solo gli interventi militari americani o francesi sono legittimati a portare la democrazia?
Siamo sempre alle solite: non si riesce a vedere la trave che è nei propri occhi e si pensa di vederla in quegli degli altri. Non credo che le migliaia di giovani che hanno affrontato con le mani nude e al grido di 
"Allah-u-Akbar!" gli sgherri torturatori e assassini dei tiranni e si sono fatti ammazzare a migliaia, meritino di essere portati come esempio di intolleranza islamica.

SIRIA

Siria Punizione collettiva

Il cadavere, già cereo, fasciato nel sudario, con una corona di fiori di plastica intorno alla testa, riposa in un angolo della moschea. Inginocchiato accanto al catafalco, un ragazzo in lacrime, suo fratello, gli accarezza il viso con tenerezza infinita. Il morto aveva tredici anni. La notte precedente stava spaccando legna sulla soglia di casa. Lo racconta suo padre, con gli occhi gonfi, ma dritto e composto, circondato da amici e parenti: «Deve essersi fatto luce con il cellulare, credo. E il cecchino lo ha colpito». Non è stato né un incidente né un caso. La via in cui abita è tenuta incessantemente sotto tiro da quel cecchino che, appostato nella scuola del quartiere, quando non trova altri bersagli si esercita sui gatti. «Non abbiamo nemmeno più il coraggio di portare fuori la spazzatura», aggiunge un vicino. Un altro mi mostra, sul cellulare, il cadavere del fratello, ucciso mentre proteggeva il figlio di undici anni; poi mi spiega che ha dovuto sfondare il muro tra il suo appartamento e quello confinante per poter uscire senza esporsi. 
Quella mattina erano stati Abu Bilal, Abu Adnan e Omar Telaui, tre militanti dell´informazione, a portarci al funerale del bambino. È il 26 gennaio. Dopo le esequie ci ammassiamo in sette sulla loro auto per proseguire verso un quartiere più a est, Karam al-Zeitoun. Sui viali, le shawari al-maut o "strade della morte", come le chiama la gente, l´autista accelera a tavoletta per evitare i proiettili. E appunto, davanti a noi sparano. Svoltiamo bruscamente in un vicolo. Alcuni passanti corrono, altri aspettano sul bordo del viale, al riparo. Piombiamo in un centro sanitario improvvisato. Il personale sta attorno a un ragazzo a cui un proiettile ha attraversato la base del cranio. Lui si inarca, vomita un fiotto di sangue, si raddrizza, vomita di nuovo. Chi lo assiste, che non è nemmeno un medico, non può fare niente: gli viene fasciata la testa alla meglio e lo ficcano su un taxi per mandarlo in una clinica. Un testimone racconta: la vittima, ventisette anni, stando alla carta d´identità, è rimasta ferita non lontano da lì, davanti alla moschea Said ibn Aamir, mentre portava dei medicinali ai genitori; un´ora prima un uomo era stato ucciso all´uscita dalla stessa moschea, il collo trapassato da un proiettile.
Il testimone non fa nemmeno in tempo a concludere il suo racconto che già portano altri due feriti, un uomo di una certa età colpito alla parte superiore del petto e una donna velata che strabuzza gli occhi, terrorizzata, con la mandibola distrutta da un proiettile. È stato lo stesso cecchino, mira sempre al collo, la donna ha avuto fortuna. L´uomo, invece, ansima stringendo convulsamente la mano del nostro fotografo; viene evacuato anche lui su un furgoncino, con un amico che regge la fleboclisi. Gli attivisti filmano, Omar commenta la scena per la videocamera, sguazziamo nel sangue, Abu Bilal si stringe la testa tra le mani, già con i nervi a pezzi. Ed è solo l´inizio. Mentre intervistiamo alcuni testimoni a casa del responsabile del centro, altri colpi di clacson; torniamo indietro di corsa. Regna il caos. I due feriti che si era tentato di far ricoverare sono stati riportati, morti; il personale sanitario si adopera attorno a tre persone, colpite da una granata davanti a un altro centro di soccorso; sul tavolo, un quarto uomo muore sotto i miei occhi, con un breve sussulto, senza che io nemmeno me ne accorga. Cerco di fare qualche domanda a uno dei feriti, ma in quel momento portano un bimbo piccolo, ferito all´inguine.
Per strada, più avanti, c´è agitazione. Un attacco, una granata? Accorriamo tutti. Quando arrivo, trovo Mani appiattito contro il muro; un gruppo di scalmanati gli impedisce di fotografare. «È un shabiha» riesce a dirmi. «Lo stanno linciando». Gli shabiha sono miliziani, per lo più alauiti, che il regime ha reclutato per i lavori più sporchi sin da quando è cominciata la rivolta. Al limitare dei quartieri alauiti di Homs i loro posti di blocco mitragliano senza tregua le vie sunnite, facendo vittime ogni giorno; i testimoni parlano anche di stupri, di torture, di altre atrocità. Mentre i soldati, e persino i mukabarat, catturati dai ribelli vengono reclutati o scambiati, gli shabiha che cadono nelle loro mani sono giustiziati d´ufficio. Quando riusciremo finalmente ad andarcene dal quartiere, a prezzo di un tragitto troppo lungo sul viale dei cecchini, scorgerò per caso quello shabiha - nudo, coperto di sangue, le mani legate, la testa fracassata - portato in trionfo su un pick-up dell´esercito libero, tra gli "Allahu akbar" della popolazione.
Tre giorni dopo, di domenica, le stesse scene di massacro si ripropongono ad al-Bayada, roccaforte dell´opposizione nella zona nord della città. Questa volta non dovremo nemmeno uscire dall´edificio in cui abitiamo: il centro di soccorso è al pianterreno. Il primo ferito arriva appena prima di mezzogiorno, con l´addome perforato da un proiettile mentre tentava di proteggere i suoi figli dai colpi di un cecchino nascosto sul tetto dell´ufficio postale del quartiere; lo segue il figlio, con due dita amputate. Ci viene detto che nello stesso posto è già stato ucciso un altro uomo. Due ore dopo tocca a un bambino di dieci anni, dai folti capelli neri che accarezzo mentre il medico gli lega le mani con strisce di garza. Il proiettile che gli ha attraversato il petto lo ha ucciso sul colpo. Il cugino guarda il piccolo corpo e singhiozza: «Sia gloria a Dio, sia gloria a Dio». Prima che scenda la notte ne arriverà ancora uno, un uomo colpito ai polmoni che sopravvivrà per un pelo. Nei pressi di un grande viale mi mostrano una lunga asta di metallo con un uncino saldato all´estremità: serve a recuperare i feriti, e i morti. I cecchini sparano su chiunque, donne, bambini, soccorritori: così, senza un motivo, senza nessun motivo. Tranne punire il popolo recalcitrante dei quartieri in rivolta, colpevole collettivamente di non volersi piegare, e obbedire in silenzio al suo signore e padrone.
Volevo assistere al funerale del bambino, che si chiamava Taha, ma non si è potuto svolgere prima della mia partenza: i mukabarat trattenevano il suo cadavere all´obitorio finché il padre non avesse firmato una dichiarazione, attestando che era stato ucciso da "terroristi", cioè dall´Esl, ovviamente. Ma c´è di peggio. Il giorno dei massacri a Karam al-Zeitoun, nel pomeriggio, i militanti apprenderanno che un´intera famiglia è stata assassinata in casa sua, nel quartiere di Nasihine. A tarda sera Mani esce di nuovo con alcuni soldati dell´Esl per fotografare i cadaveri: undici persone, tra cui cinque bambini, tre con la gola tagliata. Era una famiglia sunnita che abitava al limitare di un quartiere alauita; le testimonianze raccolte da Mani fanno pensare a una provocazione di carattere confessionale. Contemporaneamente è avvenuto un altro massacro: una famiglia di sei persone, tra cui quattro bambini, tutti uccisi con un colpo in testa o in un occhio; ma i corpi non potranno essere recuperati prima del lunedì successivo a causa di violenti scontri nella città vecchia.
La sera del massacro di Nasihine l´Esl ha organizzato un´operazione di rappresaglia. Ma si è preoccupato di attaccare soltanto obiettivi militari: i posti di blocco che avevano coperto la fuga degli assassini e un edificio della sicurezza militare. Gli ufficiali dell´Esl, come i militanti, fanno di tutto per evitare una deriva settaria della rivoluzione. «Siamo consapevoli che il regime gioca la carta dello scontro confessionale», mi spiegherà Muhannad al-Umar, uno dei capi del Consiglio militare di Baba Amr. «Sì, se la rivolta continua, è probabile che si vada verso un conflitto religioso perché la comunità alauita appoggia inequivocabilmente il regime. Se invece il regime cade, non ci saranno rappresaglie. Chi ha ucciso verrà giudicato, ma la comunità alauita parteciperà dei benefici, come tutti i siriani. Non la si può cancellare. Fa parte della società siriana, come noi».
Nessuno nega che civili alauiti siano già stati vittime di rapimenti - spesso per essere usati come moneta di scambio - o di uccisioni. I militanti con cui ho parlato scaricano la responsabilità su gruppuscoli fuori controllo, in particolare famiglie beduine, una comunità in cui la tradizione della vendetta di sangue è fortemente radicata; nonostante tutti i tentativi di mediazione, né l´Esl né gli attivisti civili riescono a impedire ai beduini di vendicarsi su alauiti innocenti, soprattutto quando le loro donne o i loro figli vengono uccisi o stuprati. Ovviamente, il regime approfitta di questi abusi per definire terroristi i suoi avversari. Ritengo tuttavia che vada fatta una distinzione tra una politica sistematica, quella del regime che fomenta lo scontro etnico e provoca massacri confessionali, e l´impotenza di autorità embrionali, sotto pressione, che non riescono a controllare gli elementi più estremisti del proprio schieramento.
Ad al-Bayada, poco dopo la morte di Taha, ho incontrato un cineasta di Damasco. «Che ci sia uno scontro religioso è innegabile», ammette. «Su entrambi i fronti si parla seriamente di pulizia etnica. Ma è circoscritto a Homs, altrove non è così. Io sono un laico. Ho il dovere di stare qui: se non sto qui, questa diventa una guerra tra fazioni religiose. Se la situazione evolve positivamente, se prevale una versione migliore della rivoluzione, Homs potrà essere tenuta sotto controllo». Una scommessa che si è ben lontani dall´avere vinto. Da quando sono partito, il 2 febbraio, Homs subisce quotidianamente massicci bombardamenti che hanno già causato oltre 718 morti, secondo le stime dall´Osservatorio siriano per i diritti dell´uomo. Le comunicazioni sono quasi completamente interrotte, manca il pane, i centri sanitari sono sommersi di feriti. L´Occidente e la Lega araba, impotenti di fronte al veto di Russia e Cina, parlano di caschi blu, di corridoi umanitari. Il che rievoca brutti ricordi. Tra il 1993 e il 1995, quando ero in Bosnia, più di 80.000 persone sono morte sotto gli occhi dei giornalisti e dei cooperanti del mondo intero, nonché dei caschi blu, il cui mandato permetteva loro di sparare solo ai cani rabbiosi. Se non si ha niente di meglio da proporre ai siriani, tanto vale abbandonarli al loro destino. Sarebbe più onesto.

Jonathan Littell

lunedì 27 febbraio 2012

AFGHANISTAN




SIRIA

Siria, referendum sotto le bombe ma Damasco va alle urne per Assad

DAMASCO - Il rito surreale della democrazia promessa mentre il Paese sfiora la guerra civile si consuma a mezzogiorno nella piazza delle Sette Fontane, sotto ad un gigantesco ritratto di Bashar al-Assad calato sulla facciata della Banca centrale. Mancano ancora sette ore alla chiusura delle urne nel referendum popolare sulla nuova Costituzione che dovrebbe traghettare la Siria sulle sponde della democrazia parlamentare. Ma per le migliaia di sostenitori del rais convenuti in questo angolo della capitale dove abitualmente il regime celebra se stesso, non c´è bisogno di aspettare i risultati: la vittoria dei Sì è certa. Canti, danze e sventolio di bandiere. La Siria sta per aprire una pagina completamente nuova della sua storia all´ombra della dinastia che la guida da oltre 40 anni.
Anche Assad sembra voler anticipare gli eventi sfoderando una sorta di bellicoso ottimismo, subito dopo aver votato assieme alla moglie Asma, in un seggio vicino all´edificio della tv di Stato. Per anni, questo medico prestato alla politica per ubbidire alla legge della successione in vigore (forse, ma non è certo, soltanto fino alla Primavera araba) nelle cosiddette "repubbliche ereditarie" del Medio Oriente, aveva lasciato trasparire una certa ritrosia nel dover indossare i panni del rais. Ma quello che parla alle telecamere, è l´ultimo Assad, il condottiero che ha promesso di schiacciare la rivolta presentandola come un complotto internazionale. «Sul terreno siamo noi i più forti», dice rassicurante. «Contro di noi – spiega, allungando la lista dei suoi nemici - c´è un attacco da parte dei media. Loro possono essere più forti nella blogosfera. Ma noi vogliamo vincere sia sul terreno che nella blogosfera».
Altrove, nel Paese, la scommessa lanciata da Assad con questo referendum, che, dopo 50 anni di partito unico, dovrebbe portare all´instaurazione del pluralismo democratico e alla celebrazione di libere elezioni entro 90 giorni, è stata respinta con sdegno. «Per cosa dovremmo votare, qui a Homs - ha detto sulle onde di Skype, Walid Fares, un abitante del quartiere Khalidiya a Homs –, se essere uccisi da una bomba di mortaio o da un singolo proiettile? Da 23 giorni siamo intrappolati nelle nostre case. Scuole e mercati sono chiusi. Manca l´acqua e per 18 ore al giorno manca anche la luce. Nessuno andrà a votare in queste condizioni».
Anche ieri, denuncia l´opposizione, Bab Amro, il quartiere di Homs da quasi 4 settimane martoriato dall´artiglieria, ha subito bombardamenti che avrebbero provocato nove morti. Quattro militari delle truppe lealiste sarebbero stati uccisi, poi, in scontri con i disertori del Libero esercito siriano. Altri dieci civili e otto militari sarebbero caduti in altre province. In totale, le vittime di ieri sarebbero 31. Ma è impossibile sapere in che misura questi incidenti, il clima d´insicurezza che domina nel Paese, e l´ordine di boicottare le urne impartito dalle centrali dell´opposizione abbiano inciso sull´andamento del voto. Si sa soltanto che, improvvisamente, la durata della giornata elettorale che avrebbe dovuto chiudersi alle 7 di sera è stata estesa fino alle 22. Se per far fronte ad un eccesso, o a una carenza di affluenza, questo è tutto da vedere.
Quello cui abbiamo potuto assistere in alcuni seggi di Damasco, che il ministero dell´Informazione ha aperto ai giornalisti, è stata, tuttavia, una mobilitazione straordinaria, seppure sotto gli occhi delle telecamere. E per noi l´occasione di sondare l´animo dei votanti. Nella scuola superiore femminile "Bassam Hamsho", nel quartiere borghese di Tijara, molti elettori ostentano qualcosa di simile a un elementare sentimento di difesa nazionale. «Voterò Sì alla nuova Costituzione perché amo la Siria – dice Badi Abdel Nour, traduttore che il rapido decadimento della situazione economica a causa delle sanzioni rischia di ridurre senza lavoro: niente turisti e niente più compagnie straniere -, mentre quelli che combattono a Homs sono gente cattiva che spera soltanto di poter profittare del caos».
Ma non tutti sono disposti ad assecondare questa sorta di schematismo, di contrapposizione politica e morale che minaccia la società. Rami, un giovane bancario che ha avuto dal capufficio mezz´ora di permesso per votare, ammette: «Ci sono buone ragioni per quello che sta succedendo a Homs, e buone ragioni per quello che succede qua. Molte promesse sono state fatte in passato e non sono state mantenute. Ovunque, a Homs e qui, c´è bisogno di cambiamenti. Dovremmo condividere questo momento di democrazia».
Sicuramente a Damasco, la fedelissima, quasi una bolla di tranquillità, mentre la rivolta è arrivata nei sobborghi della capitale (anche oggi ci sarebbero stati incidenti gravi) il regime ha attivato per l´occasione tutte le sue risorse umane, i suoi sostenitori. Ma sarebbe un errore guardare alla gente che è andata a votare per la nuova Costituzione come una massa inerte totalmente manipolata. In mezzo a questa folla, che l´economista e politologo indipendente (merce rarissima, da queste parti) Nabil Samman definisce «la maggioranza timorosa», c´è di tutto, «anche i moderati che vorrebbero vedere realizzati quei cambiamenti e quelle riforme indispensabili al rinnovamento del Paese ma senza rischiare di perdere il loro status».
La domanda conseguente è se questo, per Assad, fosse il momento opportuno per lanciare la sua scommessa. Se i tifosi del regime non hanno dubbi, per l´opposizione s´è trattato soltanto di un atto d´arroganza: «Non si può celebrare un referendum in un Paese quasi in stato di guerra, con una larga percentuale di elettori che, o non può votare, o non può raggiungere neanche i seggi», spiega Aref Dalila, che ha speso otto anni in carcere ed è stato liberato recentemente. «Ho paura che con la nuova Costituzione, come è successo con l´abolizione della legge sullo stato d´emergenza, attuata soltanto sulla carta, si sia voluto creare un´attesa e nulla più».

Alberto Stabile


giovedì 23 febbraio 2012

AFGHANISTAN

Kabul, rivolta per il Corano assalto alla base americana

La rabbia è divampata quando i lavoranti afgani della base americana di Bagram hanno trovato copie bruciacchiate del Corano fra i rifiuti. La distruzione del libro sacro è un oltraggio inaccettabile per gli islamici: la notizia è girata rapidamente in tutto l´Afghanistan, dando il via a proteste e cortei. Per le vie di Kabul sono ricomparse addirittura le bandiere nere dei Taliban. I manifestanti gridavano: «Morte all´America e a Karzai». Il presidente ha definito «giusta» l´indignazione, chiedendo però ai connazionali di rispettare i civili e le proprietà. Non è servito: almeno duemila persone hanno assalito il compound americano di Camp Phoenix e i contractor hanno sparato, uccidendo almeno un dimostrante. «Se gli americani ci insultano fino a questo punto, perché non dovremmo unirci agli insorti?», si chiedeva un dimostrante ai microfoni dell´agenzia Reuters. A Jalalabad i dimostranti hanno bruciato bandiere americane e gridato: «Lunga vita al mullah Omar», persino nella città pachistana di Karachi i manifestanti sono scesi in piazza.
I comandi Isaf e il governo di Washington hanno cercato di limitare il danno, correndo a chiedere scusa senza nemmeno verificare l´accaduto e le responsabilità. Ma a fine giornata il bilancio delle proteste conta otto morti nelle provincie di Parwan e Logar e decine di feriti nei centri maggiori, con i rappresentanti diplomatici Usa costretti a blindarsi dentro l´ambasciata di Kabul.
Nell´aprile dell´anno scorso era stato un pastore protestante della Florida a bruciare pubblicamente un Corano, suscitando in Afghanistan un´ondata di disordini culminata nell´uccisione di sette dipendenti Onu. Ma se in quell´occasione le autorità Usa avevano cercato di fermare il fondamentalista cristiano, sembra quasi incomprensibile che un nuovo incidente del genere si verifichi con i militari. È l´ennesimo disastro di immagine, che si iscrive nella stessa pagina dei marines ripresi a urinare sui corpi dei Taliban uccisi, delle oscene foto "souvenir" scattate davanti ai corpi straziati del "nemico", delle offese gratuite e disumane di Abu Ghraib.
Se verrà confermato che le copie del Corano sono state davvero bruciate da personale Usa, l´unica spiegazione possibile si basa sulla modesta qualità media dei militari americani: l´impegno su più scenari, imposto da Bush, ha esasperato i meccanismi del reclutamento e negli ultimi anni le Forze armate Usa sembravano pronte ad accettare chiunque, a prescindere da eventuali carichi con la giustizia o da scarse attitudini alla disciplina. Con un presupposto del genere, la «conquista di cuori e menti» dei locali prevista dalla dottrina militare sembra davvero fuori portata.

Giampaolo Cadalanu





SIRIA

Il rebus del tiranno siriano

È la domanda che il tiranno siriano probabilmente si pone ogni giorno. Si parla molto delle opzioni a disposizione delle democrazie mondiali per fermare il massacro, ma non si parla altrettanto delle opzioni ancora a disposizione di Assad. Me lo immagino a riflettere sulle sue possibilità mentre contempla due fotografie dell´anno scorso. Una ritrae la sua bella sposa Asma in un servizio elogiativo della rivista Vogue, l´altra è quella del cadavere di Muhammar Gheddafi. La prima gli ricorda una vita e delle alternative che ormai non possiede più, la seconda mostra quale potrebbe essere il suo destino. La speranza – simboleggiata dall´articolo di Vogue – che Assad potesse riformare la brutale dittatura ereditata da suo padre, ormai non la nutre più nessuno: le migliaia di innocenti assassinati bloccano quella via d´uscita. Ma se questa e altre porte sono chiuse, quali rimangono aperte?
1) Uccidere. Assad può continuare, come ha fatto finora, a uccidere i rivoltosi e le loro famiglie. È quello che ha cercato di fare Gheddafi. Il dittatore libico è stato fermato dalla Nato, ma il dittatore siriano sa che le potenze occidentali non scenderanno in guerra contro il suo Paese; e ogni volta che gli impongono nuove sanzioni, Assad alza il livello dei massacri. Ma sa anche che la repressione da sola non è la via d´uscita, che non la può portare avanti a tempo indefinito, che troppi Paesi stanno armando e appoggiando gli insorti, le cui file crescono di giorno in giorno, e che in qualsiasi momento una fazione importante delle sue forze armate potrebbe voltargli le spalle; e Cina e Russia anche. Uccidere non basta.
2) Negoziare. Il problema è: con chi? L´opposizione è un amalgama in perenne mutamento di gruppi non coordinati tra loro, accomunati solo da un´irrinunciabile volontà di rovesciare Assad. L´altra alternativa è negoziare con gli stranieri: l´Onu, la Lega araba, l´Unione Europea, gli Stati Uniti e così via. Assad potrebbe promettere, in cambio della mediazione internazionale (invio di caschi blu?), una serie di riforme politiche che comportino una parziale rinuncia al potere. Ma sarebbe ingenuo presupporre che gli stranieri gli crederanno o che non esigeranno garanzie forti. E nemmeno Assad stesso ci crede. Sa bene che cedere un po´ di potere fa aumentare di parecchio la possibilità di perderlo completamente (vedere Mubarak, Hosni). L´ostinato rifiuto di fare concessioni da parte di Gheddafi era basato su questa convinzione. Ma, si starà domandando il leader siriano, se Gheddafi avesse saputo dove lo avrebbe portato la sua intransigenza, avrebbe tenuto duro comunque su quella linea? Alla fine Gheddafi e i suoi figli hanno cercato disperatamente la maniera di negoziare una tregua che potesse garantirgli di restare al potere, anche se con maggiori limiti, ma ormai era troppo tardi. La lezione della Libia è che bisogna negoziare prima di essere sconfitti. La lezione dell´Egitto, della Tunisia e dello Yemen è che nei regimi autoritari non esiste il concetto di condividere «un po´» il potere. O tutto o niente.
3) Fuggire. L´esilio è meglio della morte. O del carcere. Sicuramente la pensano così i familiari di Mubarak, Hussein e Gheddafi, per citarne alcuni. E oggi la qualità di vita dell´haitiano Baby Doc Duvalier è migliore di quella di Seif al-Islam Gheddafi. Anche la famiglia Assad deve essersi posta il problema. Dove andare, però? In Europa li aspetta la Corte penale internazionale e centinaia di organizzazioni che hanno documentato le atrocità commesse da Assad e dai suoi familiari. Un´altra possibilità è l´Iran, o anche la Cina e la Russia. Il grande problema è: chi altri far salire a bordo dell´aereo che li condurrà in esilio? Il fratello del presidente dirige l´apparato repressivo del regime e la sorella è indicata come una delle fautrici più agguerrite del pugno di ferro. E poi ci sono i generali, i capi degli organismi di sicurezza, i loro soci e altri collaboratori stretti; e rispettive famiglie. Gira voce, ed è abbastanza plausibile, che gli accoliti di Assad abbiano creato una rete molto efficace per impedire al dittatore di fuggire, nel caso si decidesse per l´esilio.
La fine della sanguinaria dinastia siriana si avvicina, ma nessuno sa se sarà una questione di giorni, settimane o mesi. Come abbiamo visto, le opzioni ancora disponibili per Assad sono poche e poco invitanti. È vero che i grandi leader riescono ad aprire strade nuove verso scenari che nessun altro aveva immaginato, ma è altrettanto vero che Bashar al-Assad non è un grande leader. Forse l´unica speranza che rimane è che sua moglie, che prima dei massacri la rivista Paris Match aveva definito «un elemento di luce in un Paese pieno di ombre», possa illuminare la strada per salvare migliaia di vite; compresa quella di suo marito.

Moises Naim


Siria, bombe sui reporter occidentali due morti nell´assedio di Homs

BEIRUT - La tragedia siriana ha bruciato le vite di altri due giornalisti, il fotografo francese Remi Ochlik e la prestigiosa corrispondente di guerra, americana di nascita ma inglese d´adozione, Marie Colvin, del settimanale Sunday Times. Entrambi sono stati uccisi ieri, verso le dieci del mattino, nell´ennesimo bombardamento scatenato dalle truppe fedeli al presidente Bashar el Assad contro la città ribelle di Homs, e segnatamente contro il quartiere di Bab Amro, roccaforte dell´insurrezione. Con i reporter uccise almeno altre venti persone. Ad essere stata colpita ripetutamente dall´artiglieria è stata la casa in cui l´opposizione aveva allestito una sorta di centro-stampa per i cronisti stranieri entrati clandestinamente in Siria per raccontare il conflitto dalla parte degli insorti. Oltre ai due uccisi, almeno altri due giornalisti sono stai feriti, la francese Edith Boumier de Le Figaro e il fotografo inglese Paul Conroy, anch´egli del Sunday Times.
Nello stesso bombardamento hanno perso la vita, secondo fonti dell´opposizione, 19 civili. Vittime, queste ultime, che vanno ad aggiungersi alle centinaia di caduti di quello che è stato definito l´assedio di Homs, vale a dire della brutale repressione lanciata dall´esercito siriano contro la città a partire dal 3 di febbraio, poco dopo che il Consiglio di Sicurezza aveva respinto, grazie al veto decisivo della Russia e della Cina, la risoluzione di condanna contro Assad. Homs, la terza città della Siria, a 140 chilometri da Damasco e a una quarantina dal confine libanese, più che un obiettivo strategico da difendere sembra rappresentare per gli strateghi della repressione un obiettivo politico, una "punizione esemplare" da infliggere per evitare che l´opposizione conquisti terreno anche altrove, più o meno quello che è stato il caso di Hama, nel 1982, quando almeno dieci mila persone vennero uccise e il centro cittadino raso al suolo per soffocare nel sangue la rivolta dei Fratelli musulmani. 
Ma se si guarda al quadro generale della protesta esplosa 11 mesi fa e al lento, ma inesorabile scivolare della stessa verso una guerra civile guerreggiata, bisogna concludere che questa strategia non sta funzionando: i morti, secondo i calcoli dell´opposizione, sono più di 7300 (un dato che le autorità di Damasco contestano) e, soprattutto, non c´è angolo del paese, ad eccezione di Aleppo e, in parte, di Damasco, dove non siano divampate le fiamme della rivolta. In questa situazione di accanita contrapposizione, segnata da un uso sempre più sproporzionato e indiscriminato della forza da parte del potere, il diritto d´informare, di documentare a 360 gradi, e non soltanto attraverso i canali della propaganda, è stato travolto, calpestato. E i giornalisti, da Gilles Jacquier della televisione francese, ad Anthony Shadid, del New York Times hanno finito con il pagare un prezzo altissimo, come non era successo finora in nessun´altra rivoluzione araba.
Adesso anche Marie Colvin, l´infaticabile reporter di tante guerre, che nel 2001, mentre copriva in zona Tamil la guerra civile nello Sri Lanka, aveva perso l´occhio sinistro colpito dalle schegge di una bomba ma, anziché ritirarsi a vita privata, aveva fatto di quella benda nera che spiccava come uno sfregio contro il suo chiaro incarnato, un segno distintivo del suo coraggio e della sua alta professionalità. Marie Colvin, assieme a tutta una generazione di corrispondenti, il Medio Oriente l´aveva nel cuore. Qui s´era fatta conoscere a cavallo degli anni ‘90 ottenendo riconoscimenti su riconoscimenti, stringendo amicizie durevoli, coltivando affetti. E qui è venuta a morire ubbidendo ancora una volta al dovere della testimonianza, la sua religione civile.
Adesso, davanti a tanta violenza, le capitali della politica mondiale ostentano un rinnovato attivismo verso la questione siriana. Il francese Sarkozy ordina ad alta voce: «Adesso basta! Assad deve andarsene». Il dipartimento di Stato americano fa capire che quella di armare i ribelli potrebbe essere una scelta fattibile in un futuro prossimo. La Russia, immemore dei suoi veti, cerca di negoziare l´accordo su una tregua giornaliera di due ore per permettere alla Croce rossa internazionale di soccorrere la popolazione stremata dei quartieri di Homs. Ma Damasco dice no. E, come ha scritto Marie, nel su ultimo reportage: «Viviamo aspettando il prossimo massacro».

Alberto Stabile

domenica 19 febbraio 2012

SIRIA

“Diario di guerra tra i ribelli di Homs”

HOMS. Mattina. Piove fitto. Uno dei due libanesi, al volante di un furgoncino, ci porta – Collera, il fotografo Mani e me – su strade secondarie del monte Libano, evitando i posti di blocco dell´esercito libanese, fino a una grande pianura sassosa. La Siria è proprio di fronte a noi. A una svolta ci aspettano tre ragazzi, in moto.
«Mi hanno subito chiamato Al-Ghadab, “Collera”», dice il nostro passatore, e nella sua grossa barba si apre un sorriso malizioso. «E dire che invece rido sempre!». Tarchiato, tuta da jogging nera, due cellulari in mano, Collera sta in un appartamento gelido di Tripoli, nel nord del Libano. È con due libanesi; contrabbandieri, a quanto pare. Non è un professionista. «Quando è cominciata – ci racconterà poi – stavo per sposarmi. Ho dovuto scegliere: o la rivoluzione o il matrimonio». In luglio, quando si sono formate le prime unità dell´Esercito per la liberazione della Siria (Esl), ha cominciato a fare la spola per loro: trasporto di feriti, di materiale sanitario, di giornalisti come noi e di altro ancora. La sua famiglia è ricca. Insiste: «Non lo faccio per soldi».
Mattina. Piove fitto. Uno dei due libanesi, al volante di un furgoncino, ci porta – Collera, il fotografo Mani e me – su strade secondarie del monte Libano, evitando i posti di blocco dell´esercito libanese, fino a una grande pianura sassosa. La Siria è proprio di fronte a noi. A una svolta ci aspettano tre ragazzi, in moto. Nemmeno loro sono professionisti: semplici contadini del posto, con le mani rosse piene di calli. Viaggiamo su sentieri fangosi tra abitazioni e campi, incrociamo bambini malvestiti e con il moccio al naso, alveari, qualche cavallo, fino a una casa dove dei contadini sorridenti ci offrono il caffè. Una chiamata radio: via libera, si riparte verso un´altra casa del paese, un po´ più lontano. A quel punto mi arriva sul cellulare un sms, in inglese, del ministero del Turismo: «Benvenuto in Siria». Siamo passati al di là dello specchio.
Diversamente dai centri abitati che incontreremo più avanti, questo è tranquillo: «Qui non ci sono manifestazioni – spiega il nostro ospite – non vogliamo attirare i mukabarat (gli agenti dei servizi segreti siriani, ndr) e mettere a rischio il transito». Ma l´Esl non è lontano. Collera torna con un pick-up, ci pigiamo nell´abitacolo, e partiamo. Campi, frutteti, stradine dissestate; incrociamo, in rapida sequenza, un ufficiale dell´Esl, poi un posto di blocco, su un ponte, presidiato da combattenti che controllano l´andirivieni di pick-up e di camion: contrabbandieri provenienti dal Libano che trasportano tutto ciò che manca alla gente. Sul posto di blocco sventola una bandiera, nera, bianca e verde con tre stelle rosse: la bandiera della rivoluzione siriana.
Il cellulare di Collera squilla ininterrottamente; l´Esl ha osservatori ovunque, per segnalare eventuali movimenti di truppe o posti di blocco volanti, i più pericolosi. Il giorno dopo, del resto, un amico di Collera, un disertore delle forze di sicurezza, verrà ucciso da una raffica di mitragliatrice proprio davanti a un posto di blocco di quel genere, non lontano da qui, mentre tentava di fuggire. Collera tiene una bomba a mano vicino al volante; se dovesse succedere, non lo cattureranno vivo.
Sulla strada, a qualche centinaio di metri, c´è uno dei posti di blocco fissi che circondano la cittadina di al-Qusayr. Collera devia su una strada sterrata e lo aggira percorrendo terreni abbandonati su cui sono accampate famiglie beduine. Poi si arriva all´abitato, dove ci destreggiamo per i vicoletti tra case a due piani di cemento sgretolato, tetre sotto la pioggia. Due settimane dopo, a Homs, un militante mi dirà: «L´Esl libererà Homs prima di Qusayr. Il regime non mollerà mai Qusayr. Se perdono Qusayr, perdono tutta la frontiera». Eppure sembra che l´esercito siriano non controlli già più la città. A parte i posti di blocco in periferia e alcuni carri armati nascosti alla meglio per via dell´accordo con la Lega araba, presidia davvero solo il municipio e l´ospedale, in centro.
Passerò più volte davanti al municipio, un grande edificio di quattro piani, in stile sovietico, con i vetri rotti, e sacchi di sabbia sul tetto per proteggere le postazioni dei cecchini. Fino a poco tempo fa i cecchini bersagliavano regolarmente le strade ma l´Els, dopo un attacco che gli aveva permesso di penetrare nell´edificio, ha concluso un accordo con il comandante, e i suoi uomini ora se ne stanno buoni. Di fatto l´Esl si muove liberamente in città, a volte su pick-up equipaggiati con una mitragliatrice pesante e, sulle portiere, il simbolo della “katiba al-Faruk”, l´unità responsabile della zona. Ogni sera, quando i civili scendono in strada per manifestare contro il regime, decine di uomini dell´Esl, armati, si posizionano agli incroci per proteggerli. «Interveniamo di rado», spiega un ufficiale che incontro il giorno dopo, con una quindicina di uomini, in una fattoria fuori dalla cittadina. «I posti di blocco restano trincerati e non ci danno fastidio. Attacchiamo solo quando l´esercito regolare tenta qualche operazione».
Il viaggio da Qusayr a Homs, una trentina di chilometri, si svolgerà nello stesso modo: passando da una casa all´altra, da un veicolo all´altro, da una persona all´altra. Una vasta rete di civili aiuta l´Esl e la rivoluzione. A ogni tappa, un veicolo o una moto parte a verificare se la strada è libera. E quando ci muoviamo c´è sempre qualcuno davanti, intorno, dietro; i telefoni squillano incessantemente per trasmettere le ultime informazioni. È come se, di fronte alla rete di controllo delle forze di polizia e di sicurezza del partito Baath e dei mukabarat, che da decenni domina la vita del Paese e in cui la popolazione è rimasta in un modo o nell´altro intrappolata, durante questi ultimi mesi la società avesse creato una rete alternativa, quasi altrettanto efficace, fatta di attivisti, civili, notabili, esponenti religiosi e, sempre più, di forze armate, i disertori che formano l´Esl. Questa rete alternativa resiste all´altra, la aggira e in parte comincia ad annettersela. Quando ci si muove tra la frontiera libanese e Homs, diventa visibile. Certo, continua a esserci una resistenza passiva al controllo del regime, ma ora la rete alternativa è diventata autonoma dalla prima. Quasi che, dalla primavera scorsa, la società siriana si fosse sdoppiata, e le due società parallele coesistessero, nel Paese, in un conflitto mortale.
Colpisce anche la coscienza politica dei normali cittadini coinvolti nella rivoluzione. Abu Abdo, uno dei nostri autisti, ci domanderà: «Allora, avete visto dei salafiti, qui, come dice Bashar?». «Dipende – risponde Mani. – Cosa intendi per salafiti?». «Appunto. La parola ha due significati. I musulmani siriani adottano la via della moderazione, e per condurre una vita onesta devono seguire l´esempio di un antenato pio: è questo il senso letterale del termine salafismo. L´altro, la corrente takfirista, jihadista, terrorista, è una creazione degli americani e degli israeliani. Non ha niente a che vedere con noi».
Poco dopo, durante una lunga pausa in una fattoria, si mostrerà molto critico nei confronti dei partiti di opposizione: «Oggi, diversamente di quanto accaduto a Hama, nel 1982, a ribellarsi è il popolo. I Fratelli musulmani, i comunisti, i salafiti e gli altri movimenti politici lo rincorrono per raggiungerlo e cavalcarlo. Ma la piazza rifiuta la politicizzazione del movimento. Accetta aiuti da qualunque parte vengano, ma non possono essere aiuti condizionati. La piazza non si è ribellata per rivendicare un´opzione politica precisa, ma per reagire all´oppressione e all´umiliazione. Il popolo siriano ha vissuto come in un pollaio: hai diritto di mangiare, dormire, fare l´uovo, e basta. Non c´è posto per il pensiero. È la Corea del Nord del Medio Oriente».
La conversazione continuerà per buona parte del viaggio. Costeggiamo un grande impianto chimico che emana un odore nauseabondo; più oltre si estende il lago di Homs, una sottile lingua azzurra; l´orizzonte è ingombro di nubi, ma da sotto brilla il sole, illuminando il paesaggio fangoso, caotico, dominato da quel dinosauro industriale con i suoi enormi cumuli di polvere gialla. Davanti a noi si staglia già l´autostrada Damasco-Homs, sopraelevata e percorsa da molti mezzi, come in tempi normali. È l´ultimo ostacolo da superare, strettamente sorvegliato dall´esercito regolare. Ma anche qui l´Esl ha le sue risorse, che bisogna mantenere segrete. Al di là dell´autostrada ci aspetta un´altra macchina, con due giovani combattenti dell´Esl. Partiamo in fretta. Il tessuto urbano si infittisce, è la prima periferia della città. Poco più avanti, in mezzo a un viale abbastanza largo, un posto di blocco dell´Esl controlla un incrocio. Proprio alle sue spalle c´è il quartiere liberato di Baba Amr.
* * *
«Baba Amr è uno Stato nello Stato». A dirlo è il soldato B., un bell´uomo con una faccia arguta ed espressiva, e occhi scintillanti, accesi dalla fede quanto dal digiuno che sta osservando dal giorno in cui, a dicembre, è entrato a far parte dell´Esl. Non è un disertore, come la maggior parte dei commilitoni, ma un civile di Aleppo che, sconvolto dai crimini del regime, ha deciso di imbracciare le armi. Ovviamente questa frase l´ha pronunciata prima del 4 febbraio, quando l´esercito siriano – Jaysh-e-Assadi, “l´esercito degli Assad”, come lo chiamano gli oppositori – ha cominciato a bombardare a tappeto il quartiere, facendo centinaia di vittime. Fino a quel momento Baba Amr era considerato un «quartiere liberato».
È il tipico quartiere popolare all´estremo limite della città dove, in tempi normali, i borghesi non mettono piede, un quartiere di edifici di cemento, alti quattro o cinque piani, a volte rivestiti da lastre di pietra levigata e in gran parte non terminati, affastellati lungo viuzze dove a stento possono incrociarsi due veicoli, e abitato da lavoratori e da donne velate che riesci appena a intravedere. Agli angoli delle strade venditori ambulanti offrono scodelle di foul (zuppa di fave, ndr)che viene avidamente mangiato con le dita; i ragazzini portano sciarpe e berretti nero-bianco-verdi sferruzzati dalla mamma oppure blu e arancione: i colori della rivoluzione o quelli dell´Al-Karama, la squadra di calcio di Homs. Davanti alla moschea Gilani sono ammonticchiati i catafalchi vuoti, pronti per l´uso; dietro, sono state già scavate due tombe nel terrapieno, caso mai i cecchini impedissero l´accesso al cimitero. Fa un freddo cane, umido e pungente, il cielo è grigio, affogato in una nebbia contro cui si stagliano le facciate degli edifici e i minareti, e attraverso cui riecheggiano gli spari, le deflagrazioni improvvise delle granate, e gli appelli alla preghiera.
L´Esl controlla il perimetro del quartiere. È un´autentica linea del fronte, che attraversa appartamenti sfasciati, crivellati dai proiettili e dalle granate, pieni di fango e macerie, di bei divani rovesciati, televisori bruciati, letti fatti a pezzi. A ovest, di fronte ai frutteti e allo stadio, c´è Haqura, dove Mani e io viviamo da quasi una settimana con un´unità dell´Esl. A parte due o tre irriducibili, i civili sono fuggiti tutti. I vicoli che sbucano nella terra di nessuno sono protetti da sacchi di sabbia, ridicola barriera contro i carri armati. Nei muri degli appartamenti e dei giardini sono state praticate delle aperture per permettere ai combattenti di muoversi al coperto. Il posto di comando di Hassan, il capo dell´unità, dà su una via abbastanza larga, e spesso beviamo il tè sul marciapiede, intorno a un braciere, nonostante il rischio di un proiettile di mortaio: «Insh´allah», ridono gli uomini.
Una mattina veniamo svegliati da un fuoco più sostenuto del solito. Alcuni soldati piombano nell´appartamento, scuotono chi sta dormendo, tirano fuori dalla stanza che serve come magazzino per le armi mitragliatrici, nastri di munizioni e lanciarazzi. Li seguiamo correndo verso il posto di comando, e poi in una via fiancheggiata da edifici, dove saliamo al primo piano. In una stanza devastata un combattente spara raffiche di mitragliatrice attraverso lo squarcio aperto da una granata; un altro, in salotto, esplode colpi di rusi, come qui chiamano il kalashnikov; l´appartamento si riempie dell´odore di cordite. Ci spiegano: un cecchino ha cominciato a sparare sui civili dal grande edificio di fronte, ancora in costruzione; ci sono quattro feriti. L´Esl risponde, cerca di farlo sloggiare. Continuerà così per quasi quattro ore, mentre noi sgusciamo da un appartamento all´altro per osservare. Le postazioni dell´esercito regolare non sono lontane, duecento o quattrocento metri; se ci si arrischia a gettare un´occhiata, si vedono chiaramente i sacchi di sabbia. Stando sui tetti, si sentono i proiettili fischiare o schioccare sui muri; di tanto in tanto la deflagrazione di un lanciarazzi scuote l´aria. L´Esl non tenta di conquistare le postazioni nemiche, si limita a costringere i cecchini a ritirarsi e smettere di sparare sui civili.
Baba Amr non è stato messo in sicurezza in un colpo solo. In novembre, l´ultima volta che Mani è stato qui, un posto di blocco delle forze regolari controllava ancora un incrocio in centro, e i suoi cecchini sparavano sulle strade tutto intorno, dividendo di fatto il quartiere in settori. «Siamo riusciti ad accerchiarli – ci spiega un vice di Hassan, – e gli abbiamo tagliato i viveri. Poi, quando sono arrivati gli osservatori della Lega araba (ai primi di gennaio), ce ne siamo serviti per negoziare la loro ritirata, senza spargimento di sangue. Resta sempre un altro posto di blocco in fondo al viale, ma adesso è molto più vulnerabile, e non spara più sulla gente per paura della nostra reazione». Per i combattenti dell´esercito di liberazione, la missione è essenzialmente proteggere i civili. «In teoria l´esercito non dovrebbe essere di parte – scandisce, un pomeriggio, il tenente Abdel Razzak Atlas, uno dei comandanti della katiba Al-Faruk che si vanta di essere il primo ufficiale siriano ad avere disertato, nel giugno 2011 – Dovrebbe proteggere il popolo e la nazione. Invece fa tutto il contrario». B., il volontario di Aleppo che, scesa la sera, recita ai commilitoni splendide poesie in arabo classico, è più lirico del suo capo: «Noi combattiamo per la nostra religione, per le nostre donne, per la nostra terra, e da ultimo per salvare la pelle. Loro combattono solo per salvare la pelle».
Prima di aver disertato, quasi tutti i combattenti dell´Esl devono avere partecipato a operazioni di repressione. Pochissimi sono disposti ad ammettere di avere ucciso qualcuno. «Io? Ho sparato in aria», dicono per lo più. Ma il disgusto per quello che sono stati costretti a fare, il senso di colpa, sono palpabili. Lo si avverte dall´insistenza con cui ognuno vuole mostrarti il tesserino militare. Valga per tutte la testimonianza di un ex soldato che incontriamo in centro: «Ci hanno mandati in strada a combattere le bande armate. Io non vedevo nessuna banda armata. Allora gli ufficiali ci hanno detto: “Le munizioni non costano niente, sparate, sparate il più possibile”».
I disertori descrivono un esercito regolare allo sfascio. Più volte gli ufficiali dell´Esl con cui mi trovo ricevono informazioni, precise e dettagliate, da colleghi rimasti in servizio, e ricevono anche, per denaro o per la causa, armi e munizioni. Il tenente Atlas mi spiegherà come avesse tentato, in maggio, di organizzare con altri ufficiali l´ammutinamento di due brigate e di un battaglione. «Era tutto pronto. Ma gli altri non hanno voluto andare fino in fondo per paura di essere annientati dall´aviazione». È questo il vero motivo della richiesta di una no-fly zone, reiterata a ogni manifestazione, una richiesta che sorprende l´Occidente perché, a differenza di Gheddafi, Bashar al-Assad non ha ancora fatto ricorso all´aviazione contro i civili. «Se otteniamo una no-fly zone – insiste Atlas, – metà dell´esercito si ammutinerà. Il regime sarà spacciato».
«È un esercito di ladri, – borbotta Abu Amar, un sottufficiale – ci vanno solo i poveri. È un esercito di incompetenti, che non funziona. Serve solo a ingrassare la comunità alawita». A questa setta sciita dissidente, considerata eretica da molti musulmani, appartengono il clan al-Assad e la maggior parte dei comandanti delle forze di sicurezza. Nell´Els gli alawiti sono pochi, ma ce ne sono. Ne incontro uno, Fadel, a un posto di blocco di Baba Amr: «Quando ho visto l´esercito uccidere dei civili – mi spiega di fronte ai suoi commilitoni – ho pensato: “Io non sono con loro, sono con il popolo”. Non ho detto: “Io sono alawita, perciò sto con gli alawiti”. No. Se loro agiscono male, io cerco di agire bene». Tuttavia la stragrande maggioranza dei combattenti dell´esercito di liberazione è sunnita, e lo si vede dai simboli, dai nomi delle katiba, come “Khalid ibn Walid” (il più importante generale del Profeta) o “Kawafil el-Shuhada” (“Le carovane dei martiri”). Una scelta che molti criticano aspramente. «Perché questi nomi? – si chiede M., un attivista rifugiato a Beirut, anche lui sunnita – è la nostra rivoluzione, non la rivoluzione del Profeta! Abbiamo i nostri martiri, potrebbero usare i loro nomi».
All´orizzonte di questa sunnizzazione della rivolta c´è la tentazione della jihad. È senza dubbio il rischio più grosso che incombe sull´esercito di liberazione, perché farebbe il gioco di Assad. Ma questo argomento non scoraggia gli ufficiali dell´Esl, per lo meno a Homs. Abdel Razzak Atlas ce lo dirà in modo esplicito: «Se continua così, diventeremo davvero come Al Qaeda. Se il mondo ci abbandona per appoggiare Assad, saremo costretti a proclamare la jihad, per far venire dei combattenti dal mondo musulmano e internazionalizzare il conflitto». Atlas insiste: non si tratta di un punto di vista personale, il comitato militare di Homs ne ha discusso e tutti sono d´accordo. Me lo confermeranno altri ufficiali. Questa idea – sia chiaro – non è il risultato di una radicalizzazione religiosa, ma di un calcolo strategico, per quanto ingenuo. Secondo Atlas, proclamare la jihad potrebbe portare a un caos di tipo iracheno, forse persino a una guerra regionale, e questo rischio forzerebbe la mano all´Occidente, costringendolo finalmente a intervenire. Il giovane ufficiale siriano non conosce bene il mondo fuori dal suo paese, le sue logiche e i suoi condizionamenti. Ma esprime l´appello delle masse in rivolta contro il regime: «Il popolo vuole un intervento dell´Onu!». Un mese fa non era così; la disperazione ha cambiato le carte in tavola. 
Jonathan Littell

sabato 18 febbraio 2012

SIRIA

Retata di dissidenti a Damasco L´Assemblea dell´Onu vota "Basta sangue, Assad se ne vada"

Al telefono di Nazem Darwish, fondatore del Centro per la libertà d´espressione a Damasco, risponde un amico: «Nazem è stato arrestato: lui, la moglie Yara e altri 11. No, non so dove li abbiano portati, quale sia il capo d´imputazione, né quando e se li rilasceranno». Questa non è la prima volta di Nazem: 36 anni, l´eterna sigaretta incollata alle labbra, il giornalista si batte da anni in Siria per i diritti umani. Già due volte era stato fermato nel 2011: una per avere partecipato come osservatore alla prima dimostrazione del "risveglio siriano". Assieme a Suhair al-Atassi, discendente di uno storico lignaggio di democratici siriani, chiedeva la liberazione dei prigionieri politici. La seconda per avere «diffuso notizie false ed esagerate» da Dera´a, l´epicentro della rivolta. Di nuovo libero, al Café Brésil, ritrovo di intellettuali e dissidenti, confidava a Repubblica gli interrogativi riguardo al "tavolo del dialogo" cui egli era stato convocato dal regime assieme ad altri oppositori: «Dobbiamo accelerare la transizione pacifica verso la democrazia», insisteva. Perciò lui era rimasto a Damasco a condurre la sua lotta, nonviolenta.
Con Mazen è stata arrestata la blogger americosiriana Razan Ghazzawi, nota su Twitter col nomignolo di RedRazan. I giorni scorsi aveva ingaggiato un litigio con alcuni dei più citati pensatori liberali arabi, accusandoli di «scarso impegno» nei confronti della rivolta siriana: «Dite di sostenere ‘il popolo siriano´ MA», aggiungete sempre un "MA..."», si lanciava contro chi metteva in dubbio il «massacro di Homs».
Proprio per arginare quello e altri bagni di sangue - ieri arrivano notizie di scontri a Homs, Hama e Dera´a - a Vienna si incontrano Juppé, ministro degli Esteri francese, e il suo omologo russo Lavrov. Juppé è ottimista nel prospettare un compromesso «su un obiettivo a breve scadenza: la fine dei massacri» e «l´invio di aiuti umanitari al popolo siriano». 
All´Onu dopo il pressing saudita, l´Assemblea generale vota a stragrande maggioranza (137 a 12) la risoluzione di condanna del governo siriano, e il sostegno al piano arabo che chiede un cambiamento di regime. Ban Ki-moon dice che «quasi certamente sono stati commessi crimini contro l´umanità: quartieri bombardati indiscriminatamente, ospedali usati come centri per torture, bambini incarcerati e vittime di abusi». 
La Cina intanto invia un rappresentante a Damasco e avverte: «Un intervento delle potenze esterne può scatenare un vespaio di sangue e instabilità nella regione». A Washington il Congresso ascolta i capi dell´Intelligence: «L´opposizione siriana probabilmente è stata infiltrata da Al Qaeda», dice James Clapper, direttore della National Intelligence: l´assenza di un´opposizione unita può creare un vuoto di potere colmato dagli estremisti. Gli fa eco Dempsey, capo dello Stato maggiore: «Coloro che vogliono fomentare uno scontro fra sunniti e sciiti - e voi sapete chi sono - stanno tutti intervenendo in Siria».

Alix Van Buren



IRAN

LA POLVERIERA MEDIORIENTALE

È opinione diffusa che l´Iran stia per dotarsi dell´atomica: conquista irrinunciabile, per cui Teheran è pronta a sfidare la coppia Usa-Israele con ogni mezzo. Posta così la partita, resta l´alternativa secca: Bomba iraniana o bombardare l´Iran.
A uno sguardo più attento, però, il quadro appare assai sfumato.  
Il cuore della disputa non è l´atomica iraniana, ma l´egemonia dell´Iran in Medio Oriente: area dominata alla fine della prima guerra mondiale dalle potenze coloniali europee, dopo il 1945 dagli Stati Uniti e loro consociati arabi. Con la mal tollerata "entità sionista" come avamposto di Washington e il risorgente espansionismo turco alle porte. Per le ambiziose élite persiane, un mare di nemici e una fonte di frustrazione. Perché l´Iran ha da sempre una vocazione imperiale e mai vi abdicherà. Gli fa però difetto quell´arma nucleare di cui sono dotati tutti i primattori asiatici: Pakistan, India, Russia, Cina, Turchia (via Nato), Israele, Arabia Saudita (di fatto contitolare della Bomba di Islamabad) e Stati Uniti. Se l´atomica favorirà le aspirazioni di Teheran, dipenderà però molto dall´esito della guerra civile siriana: se al-Asad sarà travolto e a Damasco si affermerà una leadership assai meno filo-iraniana, Teheran perderà il corridoio diretto verso Libano, palestinesi e Mediterraneo. A ciò si aggiunge la lotta per il potere interna all´Iran, collegata alla depressione economica e al rischio di impazzimento della maionese etnica iraniana.
Israele, intanto, si divide tra fautori di un attacco preventivo ai siti nucleari iraniani (il premier Binyamin Netanyahu, il ministro della Difesa Ehud Barak) e quanti, a cominciare dal direttore del Mossad, Tamir Pardo, reputano tale attacco "un´idea folle". Non già per ragioni morali, bensì strategiche: i siti atomici persiani sono troppi e troppo ben protetti per essere annientati dall´aviazione. I danni di un attacco sarebbero riparabili in un anno, forse due. Dopo di che il programma nucleare riprenderebbe più forte e legittimato di prima, mentre Israele si esporrebbe alla rappresaglia iraniana. 
Quanto agli Stati Uniti, se non capiamo che la loro priorità è evitare il sorpasso cinese, ci sfugge l´essenziale. La mobilitazione dell´élite strategica americana nel contenimento della Cina implica il ridimensionamento dell´impegno su altri scacchieri. Europa, anzitutto. Ma anche Medio Oriente. Tuttavia, Obama non intende rassegnarsi ad allentare la presa su un´area doppiamente strategica, per difendere l´approvvigionamento energetico nazionale e per garantire la sicurezza di Israele (questioni assai sensibili nell´anno elettorale). Di qui le pressioni su Gerusalemme perché non esasperi la tensione con Teheran e l´inasprimento delle sanzioni, inteso non come preparazione alla guerra, ma come alternativa ad essa. Nonché la discreta riattivazione dei canali di comunicazione con Khamenei, tesa forse a indicare che l´America non esclude un accordo. Missione non impossibile, considerato che le batoste nella "guerra al terrorismo" e la sorpresa della "primavera araba" hanno indotto Washington a trattare con taliban e Fratelli musulmani. 
Comunque, se quarta guerra del Golfo sarà, difficilmente si esaurirà in breve tempo. Le tre precedenti (Iran-Iraq, Iraq-Kuwait-Stati Uniti e Stati Uniti-Iraq-insorti) furono lunghe e sanguinose. E un Israele convinto di essere alle corde potrebbe scatenare un conflitto dagli esiti imprevedibili. "Talvolta la follia spinge ad abbracciare il disastro per sfuggire all´ansia", osservò in piena guerra fredda Dean G. Acheson, uno dei saggi architetti del containment. In questo mondo, gli Acheson rischierebbero il manicomio.

Lucio Caracciolo

giovedì 16 febbraio 2012

SOLIDARIETA' COL POPOLO GRECO

Per un europeo che da un valore alle parole che hanno una lunga storia di civiltà alle spalle, quel che l'Europa delle banche, dei banchieri e degli speculatori sta facendo per strangolare un antico civile piccolo popolo fiero come quello greco è un incommensurabile vergogna.
Ho sempre amato e amo ancora oggi i greci per la loro civiltà, per quel che hanno dato come pochi altri popoli, quasi tutti fioriti intorno a quel mare di prodigi che è il Mediterraneo, e verso i quali a intermittenza si scatena in forme diverse la "tedesca rabbia" (si legga la poesia del Petrarca dedicata all'Italia), probabilmente tipica di chi per gran parte dell'anno non ha un sole risplendente e un cielo azzurro come il mare.
Gli amo per la loro allegria, per le loro musiche popolari, per il profondo senso di ospitalità verso gli xenoi (gli stranieri, che nella loro lingua sono anche gli ospiti), per aver dato i natali al più grande poeta di tutti i tempi, per aver compreso che l'attività più importante dell'uomo come essere razionale è la filosofia, intesa come scienza e come luce volta a illuminare i misteri. Gli ignoranti che ci circondano, in genere grandi ammiratori di ciò che di peggio c'è nella cosiddetta civiltà globale, ignorano, insieme a tutto il resto, che la parola "Europa" è una parola greca ("begli occhi").
Per questo riteniamo di tributare un omaggio doveroso a chi in questo momento si trova pressoché strangolato da biechi usurai che passano per persone per bene: cominciando da quei banchieri che tramite il loro governo hanno pressoché imposto al governo greco di acquistare 5 sommergibili di cui 3 non funzionanti, e che ora sono ansiosi di riscuotere i quattrini. C'è un ulteriore motivo specifico per il quale esprimo la solidarietà. Tra i dimostranti che Domenica hanno manifestato la loro rabbia contro i diktat dei banchieri, c'erano due personaggi a me particolarmente cari: il primo è il grande musicista Mikis Theodorakis, che a 86 anni ha affrontato le cariche della polizia con lo stesso coraggio giovanile con il quale contrastò la dittatura dei colonnelli portati al potere dai servizi segreti americani; ora Theodorakis ha i capelli completamente bianchi, ma quando lo conobbi, esule a Roma, i suoi capelli erano corvini e solo gli occhi erano gli stessi di oggi. Il secondo è Manolis Glezos, il capo partigiano comunista che nel 1941, in piena occupazione nazista, salì sull'Acropoli di Atene e strappò la bandiera con la croce uncinata per innalzarvi la bandiera bianco-celeste greca. Domenica Glezos è stato pestato da poliziotti che ignoravano che con i loro manganelli bastonavano la loro bandiera...
Vale la pena di ricordare che in seguito all'aggressione perpetrata durante la Seconda Guerra Mondiale, prima dagli italiani (Mussolini disse: "Spezzeremo le reni alla Grecia!") poi dai tedeschi che entrarono colpendo l'esercito greco alle spalle, i greci ebbero 1 milione di morti su dieci: mezzo milione morirono di fame nella città di Atene, che i nazifascisti avevano stretto d'assedio per costringere la lotta di resistenza alla resa. Quando furono costretti a ritirarsi, impacchettarono le intere riserve auree della banca nazionale greca e a guerra finita, nonostante le legittime richieste del governo ellenico, non restituirono neanche una dracma; e oggi hanno il coraggio di parlare di crediti verso la Grecia. 
Per inquadrare queste sottolineature su quanto sta accadendo ci sembra utile pubblicare questo bell'articolo di

Giorgio Agamben

Se la feroce religione del denaro divora il futuro

Per capire che cosa significa la parola "futuro", bisogna prima capire che cosa significa un´altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola "fede". Senza fede o fiducia, non è possibile futuro, c´è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa. Già, ma che cos´è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede". Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco "banco di credito". Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, " fede" è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che "la fede è sostanza di cose sperate": essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze.Ma la nostra, si sa, è un´epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un´epoca senza futuro e senza speranze - o di futuri vuoti e di false speranze. Ma, in quest´epoca troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del nostro credito, che ne è del nostro futuro? 
Perché, a ben guardare, c´è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca - la trapeza tes pisteos - è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non - chissà perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci - sull´euro), c´è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito. La cosiddetta "crisi" che stiamo attraversando - ma ciò che si chiama "crisi", questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo - è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario - e le banche che ne sono l´organo principale - funziona giocando sul credito - cioè sulla fede - degli uomini. 
Ma ciò significa, anche, che l´ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca - coi suoi grigi funzionari ed esperti - ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede - la scarsa, incerta fiducia - che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L´archeologia - non la futurologia - è la sola via di accesso al presente.





Per concludere voglio ricordare la testimonianza di un viaggiatore siriano nell'Atene del 1500 d.C ridotta ormai a un cumulo di rovine dalle invasioni barbariche, dalle guerre e dalla fine dell'antica civiltà:
"Ho visitato la città di Atene che un tempo era popolata da gente civilissima e valorosa e che ora è ridotta ad essere un piccolo villaggio. Un tempo la città era meravigliosa per i suoi innumerevoli monumenti e le opere d'arte che la decoravano. Di queste sono rimasti i resti scolpiti in marmo bianco, che raffigurano esseri favolosi un tempo onorati come divinità. Nonostante la rovina le loro fattezze sono talmente belle che nell'ammirarle le gambe tremano, il cuore batte più forte e gli occhi si riempiono di lacrime".

lunedì 13 febbraio 2012

SIRIA

"Assad spara contro il suo popolo è venuto il momento di cacciarlo"

IL CAIRO - «Siamo al fianco dei nostri fratelli siriani che lottano contro una dittatura, Assad deve andare via il prima possibile. Il nostro cuore è con i giovani che lottano per la democrazia e per la libertà». Professano moderazione adesso i Fratelli Musulmani, ora che hanno la maggioranza nel Parlamento egiziano e si aspettano di guidare con uno dei loro leader eletti nelle liste del Partito della Giustizia e della Libertà il prossimo governo. L´Egitto guarda con attenzione a quel che accade a Damasco, è in prima fila nella Lega Araba perché l´Onu intervenga per fermare la strage in Siria. Mahmoud Ghozlan - un biochimico prestato alla politica, membro dell´Ufficio politico e ascoltato consigliere di Mohammed Badie, guida suprema della Confraternita - riceve i suoi ospiti in una elegante palazzina della periferia cairota che è il Quartier generale della Fratellanza. Hall elegante, divani, poltrone, telefoni che squillano. Sono finiti per Fratelli Musulmani i tempi della clandestinità e delle riunioni nei garage e nelle cantine, ora è il Partito che decide il destino dell´Egitto e l´Egitto è il "paese guida" del mondo arabo.
Professore andiamo diretti al punto. Un´altra rivoluzione araba sta affogando nel sangue. Bashar Assad, diversamente da Mubarak che resistette 18 giorni, non vuole cedere il potere …
«Assad è un dittatore sanguinario, non ci sono altre definizioni per chi ordina di sparare sul suo popolo».
Lei pensa che sceglierà l´esilio o resisterà armi in pugno come Gheddafi?
«Non sono un profeta ma se domani ci giungesse la notizia che è morto, sarebbe certamente una buona notizia».
Ci sono diversi Paesi arabi come il Qatar o la Turchia che per fermare il bagno di sangue si dicono favorevoli a un intervento anche militare …
«Non credo che un intervento militare straniero possa risolvere la crisi siriana. E poi con quali forze? Noi arabi non abbiamo esperienza in questa materia».
Professor Ghozlan veniamo all´Egitto ancora percorso da tensioni fortissime un anno dopo la rivoluzione. Il ruolo dei militari dei militari in questa fase di transizione - così sanguinosa - come lo definirebbe?
«I militari sono un male necessario in questa difficile fase se non vogliamo che l´Egitto precipiti nel caos. Dobbiamo andare avanti rapidamente nel trasferimento dei poteri da loro a un potere civile». 
Il maresciallo Tantawi, il capo della Giunta militare, è un amico o un nemico della Rivoluzione che ha spazzato via Mubarak?
«All´inizio, lo scorso anno, i militari hanno svolto un ruolo positivo ma via via col passare dei mesi hanno preso un´altra strada. Tantawi se ne deve andare via il prima possibile».

Fabio Scuto

"Siria, ora l´Onu mandi i caschi blu"

Qualcosa sembra finalmente muoversi in Siria dove, dopo undici mesi di rivolta, la repressione contro gli oppositori ha già provocato oltre 6.000 morti. S´è mosso il Papa, il quale ieri ha rivolto un pressante appello per porre fine alla violenza e allo spargimento di sangue, mentre Homs, la città ribelle al regime di Damasco subiva uno dei più pesanti bombardamenti dall´inizio della sua "primavera". S´è mossa soprattutto la Lega araba che, sempre ieri, ha chiesto all´Onu l´invio di una forza internazionale di peacekeeping nel Paese, dopo che il capo degli osservatori in Siria, il generale sudanese Mohammed Al Dabi, ha rassegnato le dimissioni. Che cosa ha scatenato queste prese di posizioni? Forse il fatto che nel marasma siriano aleggia sempre più consistente lo spettro di Al Qaeda: l´organizzazione terrorista sta infatti approfittando dell´assenza dell´Occidente per schierarsi al fianco degli oppositori, cercando di guadagnandarne le simpatie. 
Nel pericoloso laissez-faire delle grandi potenze del pianeta in quella che potrebbe diventare una guerra civile dalle incalcolabili conseguenze, il leader di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri, ha infatti espresso il suo sostegno alle proteste in Siria in un filmato diffuso su Internet da alcuni forum jihadisti. Nel video, intitolato "Avanti, leoni di Siria", il medico egiziano accusa il regime del presidente Bashar El Assad di crimini contro i suoi cittadini. Ma Zawahiri esorta anche i siriani a non fidarsi dei governo occidentali o arabi.
Dopo la fallimentare missione dei suoi inviati in Siria, la Lega araba fa invece appello al Consiglio di sicurezza del Nazioni Unite per formare forze di mantenimento di pace arabo-Onu e per controllare e mantenere il cessate il fuoco. In un comunicato diramato ieri pomeriggio i ministri degli Esteri dell´organizzazione panaraba chiedono anche, puntando il dito contro le forze di sicurezza del presidente Bashar Al Assad, «che gli autori degli atti di violenze contro i civili in Siria siano puniti in virtù del diritto internazionale». La Lega araba ha anche deciso di mettere fine alla missione controversa dei suoi osservatori in Siria, i quali sono stati sballottati per settimane dalle forze di regime, senza la minima di libertà di indagare sugli eventuali crimini della repressione.
All´Angelus, rivolgendosi anzitutto alle autorità politiche siriane, il Pontefice le ha invitate «a privilegiare la via del dialogo, della riconciliazione e dell´impegno per la pace». Benedetto XVI ha poi aggiunto che è urgente rispondere alle legittime aspirazioni delle diverse componenti della Nazione, «come pure agli auspici della comunità internazionale preoccupata del bene comune dell´intera società e della Regione».
Intanto, da Damasco il vice ministro degli Esteri, Fayçal Mekdad, ha detto che presenterà le prove del sostegno dei Paesi vicini a "gruppi terroristici" che operano in Siria. «Offrono rifugio a gruppi terroristici armati, li finanziano e offrono loro sostegno mediatico», ha dichiarato il vice ministro, denunciando una «campagna di disinformazione isterica» contro la Siria, su scala araba e internazionale.

Pietro Del Re


venerdì 10 febbraio 2012

CIVILTA' VENETICO-LEGHISTA

Abbandonato in obitorio dai parenti, dai concittadini e dalla comunità, a pagargli il funerale è stata la comunità marocchina.
E' successo nella ricca Treviso, la città del sindaco-sceriffo Gentilini, leghista, che toglieva le panchine dai giardini pubblici per tenere lontani gli extracomunitari.
Astorre Vecchiati, funzionario di banca, diventato clochar per scelta dopo aver dato tutto a suo figlio, compresa la pensione, giaceva dimenticato da tutti in una cella frigorifera dal 12 Dicembre. Nessuno credeva di doversi occupare di lui. In questo quadro di sconcertante squallore l'unico gesto di pietà evangelica è venuto dagli immigrati marocchini,  per assolvere quella che per i cristiani, di fede o di cultura, è una delle 7 opere di misericordia corporale, seppellire i morti. Che non è solo un precetto religioso, ma qualcosa di più universale che tocca i fondamenti stessi dell'umano. Da che il mondo è mondo gli uomini possono dirsi veramente tali dal momento in cui riescono a prendersi cura di chi non vive più, mentre trattare come un semplice ingombro quella che fu una vita, significa ridurre la morte a una questione di smaltimento rifiuti.
In fondo il rapporto che una società ha con i morti è lo specchio del rapporto fra vivi. Ecco perché l'episodio di Treviso fa paura, perché è il segno dell'oltrepassamento di una soglia incompatibile non solo con la civiltà, ma con la stessa umanità.


Recentemente il Giornale di Vicenza ha pubblicato una mia intervista nella quale si da conto del mio intendimento di andarmene dal Veneto per rientrare nei Castelli Romani, retaggio di quello che fu un tempo il centro della cultura latina presso la quale il rispetto per i defunti, per la loro identità e per il loro essere stati esseri umani aveva un profondo intenso significato religioso. Non è un caso se a Roma esiste dal XVI secolo un cimitero speciale per seppellirvi i non cattolici, in modo che i loro parenti possano predisporre la sepoltura in conformità delle loro convinzioni religiose e delle loro usanze funerarie. I romani bestemmiano molto poco e la sola bestemmia che viene recepita con disgusto è l'imprecazione rivolta ai morti. Mi è capitato di leggere l'episodio di Treviso dopo la mia intervista. Se l'avessi letto prima avrei dichiarato alla giornalista che mi intervistava che uno dei principali motivi che mi ha reso insopportabile la permanenza in questa città dopo 42 anni di residenza è che c'è un sindaco cialtrone, che si professa cattolico, che non ha ancora trovato il modo di dare una risposta alla richiesta più volte rinnovata della comunità islamica di avere un luogo per seppellire i propri morti, che sono sempre più numerosi, visto che i cittadini residenti in città di religione islamica sono ormai più di 3000, la metà dei quali cittadini italiani.
L'ineffabile sindaco, eletto come candidato del PD e fedele osservante delle norme di buona creanza con tutto ciò che ha a che fare con la Curia, non si è finora degnato di dare in risposta, quale che fosse, alla nostra istanza. In un'intervista resa al Giornale di Vicenza ha detto che prima di prendere una decisione al riguardo vuole avere idee più chiare sulla comunità musulmana vicentina. Le stesse parole sono state usate da un illustre personaggio della rete delle opere di carità cristiana. Dal momento della mia conversione all'Islam ho sopportato telefonate anonime, insulti per strada e persino la richiesta che un alto prelato ha rivolto alla mia comunità di non utilizzarmi in iniziative islamiche esterne. Quello di trovarmi in una città che ha un sindaco che fra tutte le altre apprezzate qualità ha anche quella di non preoccuparsi del seppellimento di suoi concittadini appartenenti ad una religione diversa da quella cristiana, non riesco a sopportarlo. Come dice in un noto romanzo francese di fine settecento (Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos):
"Eccede il mio controllo!".

P.S: Alla gentile giornalista che ha scritto l'articolo, mi occorre fare una precisazione riferita alla sua affermazione secondo la quale le recenti rivolte arabe sono una prova dell'intolleranza dei musulmani. Forse la giornalista ritiene che ribellarsi a 30 anni di dittature sanguinarie e affamatrici del popolo siano delle manifestazioni di intolleranza religiosa.