mercoledì 29 giugno 2011

E' NECESSARIO INTENSIFICARE LA POLEMICA

Nel post con il quale abbiamo dedicato qualche doveroso complimento al nazista olandese, che taccia l'Islam di essere il nazismo e il Corano una copia del Mein Kampf di Hitler, ci siamo dedicati a pubblicare alcune parole che il grande filosofo tedesco Immanuel Kant ha dedicato agli olandesi. Riteniamo di riprendere i concetti che lo stesso filosofo ha dedicato agli arabi:

"Se gettiamo uno sguardo fugace anche agli altri continenti, troviamo che l'arabo è l'uomo più nobile dell'oriente, anche se dotato di un sentimento poetico e fantasioso che a volte diventa ai nostri occhi calcolatori un'accentuata stravaganza. Egli è ospitale, generoso, leale; la sua letteratura, la sua storia e in genere il suo sentire sono sempre intessuti di elementi meravigliosi. La sua immaginazione creativa ed accesa gli rappresenta le cose sotto aspetti trasfigurati; e persino il diffondersi della sua religione fu una grande, fantastica avventura...Se gli arabi sono per certi versi gli spagnoli dell'oriente (e la cosa non deve meravigliare considerato che per quasi 800 anni la Spagna è stata araba), i persiani sono a loro volta i francesi dell'Asia. Sono buoni poeti, gentili e di gusto notevolmente selezionato. Non sono rigidi seguaci dell'Islam e concedono, alla loro indole disposta alla gaiezza, un'interpretazione piuttosto raddolcita del Corano".

Se un grande filosofo del 700' europeo, in un piccolo libretto dal titolo "Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime" Fabri Editori 1996, e se giudizi simili e positivi sono stati lasciati sui popoli del medio oriente da pensatori illustri come Montesqieu, Goethe, Lessing, e se uno scrittore italiano del 900' di ceppo ebraico come Alberto Moravia dedicò a un poeta palestinese, assassinato a Roma da agenti della Mossad, parole commoventi e intense ("...Hussein rappresentava l'essenza poetica del suo popolo e della sua cultura: un mondo che, non essendo prigioniero di quel mostro che è il tempo, da sempre l'impressione di muoversi in uno spazio magico e meraviglioso dove ogni evento può accadere a prescindere da ogni limite temporale. Il che altro non è che la dimensione della fiaba e della fantasia, dove a prescindere dalle caratteristiche delle azioni che vi si compiono sembra di essere immersi in un'esistenza fatta di bontà e di luce"), mi chiedo come dei trogloditi, razzisti, ignoranti probabili residui ancestrali dell'homo erectus, si arroghino il diritto di parlare di popoli dei quali non sanno nulla ne si curano di sapere qualcosa. Eppure anche in Europa, prima che le logiche del Pentagono e di personaggi alla Bush facessero da sfondo di isterie alla Oriana Fallaci o, perché non dirlo? Alla professor Sartori (quel vecchio arcigno che discetta su tutto sapendo in realtà su pochissimo), i romanzi di avventure, una popolarissima filmistica e anche saggi di grande interesse hanno sempre presentato i popoli del medio oriente come entità che meritano qualcosa di meglio delle "borghezzate" e dei grugniti di Bossi.
Per questi motivi cesseremo di usare volontarie censure nel rispondere alle varie scemenze razziste ed incolte dedicate all'Islam, e non useremo un minimo di diplomazia neppure tenendo conto delle esigenze "pratiche" delle comunità islamiche che vivono in Italia e in Europa con la consapevolezza di essere minoranze disprezzate e isolate, alle quali in alcuni paesi europei non si è disposti neppure a riconoscere i diritti umani sanciti dalla costituzione repubblicana. In questo lavoro, che porteremo avanti a titolo personale e senza alcun condizionamento di carattere rappresentativo o politico, io scriverò come un musulmano che è stato illuminato dal sublime Corano e dalle profonde verità che Dio, nella sua infinita misericordia e clemenza, ha consegnato a un umile carovaniere dei deserti d'Arabia.
Allah è il più Grande


Voglio iniziare questo nuovo capitolo del mio blog citando un incredibile strafalcione che un professore della Val Brenbana ha pronunciato con una domanda rivolta al grande imperatore Federico II di Svevia.
Questo indegno pseudo professore ha chiesto: "Ma c'è un'università a Napoli?". L'asino, che per uno stipendio mensile sale in cattedra per diseducare i suoi sventurati allievi, ignora, col resto, che l'università di Napoli fu la prima università d'Europa che venne istituita dall'imperatore svevo senza la prescritta "Bolla Papale". Per questo venne scomunicato e accusato di essere un eretico. Nello stesso periodo, nella Spagna araba vi erano 4 università nelle quali insegnavano a parità di dignità docenti musulmani, ebrei e cristiani.



L´affondo dell´Aja "Crimini contro l´umanità arrestate il Colonnello"

BRUXELLES - La Corte Penale internazionale, il tribunale delle Nazioni Unite con sede all´Aja, ha emesso mandato di cattura per crimini contro l´umanità a carico del colonnello Gheddafi, di suo figlio Saif al-Islam e del capo dei servizi segreti del regime libico, Abdullah al-Senussi. La decisione è stata presa dal procuratore generale della Corte, Moreno-Ocampo, cui la risoluzione 1970 delle Nazioni Unite, la stessa che autorizzava l´intervento militare per la protezione dei civili in Libia, aveva chiesto di indagare sull´operato del dittatore. «La Corte penale internazionale ha raccolto sufficienti testimonianze sulle violenze commesse dalle forze di Gheddafi», ha spiegato Ocampo. «Ci sono motivi ragionevoli per ritenere che il raìs, in coordinazione con i suoi più stretti collaboratori, abbia concepito e orchestrato un piano per reprimere e spaventare la popolazione che manifestava contro il regime», è scritto nel mandato di arresto internazionale. I tre ricercati devono essere arrestati «per evitare che nascondano i crimini che continuano a commettere e che ne commettano di nuovi».
Gheddafi, il figlio e il capo dei servizi segreti sono incriminati «come autori indiretti» di omicidi, torture e violenze in quanto, secondo l´accusa, «avevano un controllo assoluto» sulle milizie che hanno compiuto materialmente i crimini. La richiesta della Corte è stata accolta da una salva di dichiarazioni soddisfatte. Secondo il segretario generale della Nato, Rasmussen, il mandato di cattura «ribadisce una volta ancora il crescente isolamento del regime» e «rafforza la legittimità» della campagna militare della Nato. A Bengasi e Misurata, le due roccaforti dei ribelli, la notizia è stata salutata da scene di giubilo in piazza. La Farnesina ha espresso soddisfazione «per la rapidità e serietà con cui la Corte ha dato esecuzione al mandato conferitole dal Consiglio di Sicurezza. Nell´assicurare il suo forte e convinto contributo all´attività della Corte, l´Italia continuerà coerentemente, insieme ai propri alleati e partner, il proprio impegno nella missione internazionale». Il ministro degli esteri britannico, William Hague, ha approfittato della notizia del mandato di arresto per lanciare un appello agli ultimi fedeli del regime perché abbandonino Gheddafi. «A diversi livelli di responsabilità le persone dovrebbero riflettere seriamente sulle conseguenze delle loro azioni, sia che essi diano ordini sia che eseguano materialmente gli attacchi contro i civili. Chi prende parte alla repressione deve assumersi l´intera responsabilità delle sue azioni, e ne pagherà il prezzo».
Tuttavia, se la decisione della Corte aumenta l´isolamento del regime e rafforza la legittimità della missione militare condotta dalla Nato, essa rischia anche di rendere più difficile una soluzione negoziata del conflitto. Dopo l´emissione del mandato di arresto, infatti, qualsiasi Paese che aderisca alle Nazioni unite è tenuto ad assicurare Gheddafi e i suoi complici alla giustizia. Questo significa che le ipotesi di un esilio per il raìs e i suoi fedelissimi si fanno oggettivamente assai ridotte. Non c´è teoricamente più un solo Paese al mondo dove Gheddafi potrebbe sentirsi al sicuro e questo rischia di rafforzare la sua determinazione a lottare fino alla morte. In serata il ministro della giustizia del raìs ha spiegato che «la Libia respinge la decisione della Corte e non ne riconosce l´autorità».
Fino ad ora solo un altro capo di stato in carica è stato colpito da mandato di cattura internazionale della Corte penale: il presidente sudanese Omar Al Bashir, ricercato come mandante dei massacri in Darfur.

I ribelli: "Consegneremo Gheddafi all´Aja"

BRUXELLES - I ribelli libici si sono impegnati a consegnare Gheddafi, suo figlio e il capo dei servizi segreti del regime alla Corte penale internazionale. Lo ha riferito il procuratore generale della Corte, Luis Moreno-Ocampo, che ieri ha incontrato all´Aja Mohammed Al-Allagui, il ministro della Giustizia del Consiglio Nazionale di transizione che riunisce le forze anti - Gheddafi. Tuttavia, secondo Moreno-Ocampo, la soluzione al problema della cattura di Gheddafi e degli altri ricercati, potrebbe venire ancora prima dalla «cerchia prossima» del dittatore. «Il cerchio di persone che sta attorno a Gheddafi è la prima opzione per il suo arresto. Tocca a loro decidere se fanno parte del problema, con il rischio di essere incriminati, o se vogliono fare parte della soluzione».
Il mandato di cattura internazionale per crimini contro l´umanità, spiccato lunedì contro i tre dirigenti libici, può essere eseguito dalle forze dell´ordine di qualsiasi Paese che aderisca alla Convenzione di Roma che ha dato vita alla Corte penale internazionale delle Nazioni Unite. Ma, secondo Ocampo, spetterebbe per prima alla Libia darne esecuzione.
Il procuratore generale ha anche annunciato di aver avviato due nuove inchieste a carico delle autorità del regime. La prima riguarda gli stupri che le milizie del raìs avrebbero compiuto nei centri di detenzione, aiutate anche da stimolanti sessuali che sarebbero stati forniti ai soldati dalle gerarchie libiche. La seconda inchiesta riguarda i tentativi di nascondere le prove di torture, omicidi e altri crimini contro l´umanità compiuti dalle forze pro-Gheddafi. Secondo Ocampo, comunque, la fine del dittatore è ormai prossima: « in due o tre mesi i giochi possono essere finiti».
Da parte sua, invece, la Nato pur plaudendo alla decisione di arrestare Gheddafi, non si considera coinvolta nell´esecuzione del mandato di cattura. «Il nostro compito è di proteggere la popolazione civile - ha spiegato ieri la portavoce dell´Alleanza - Il mandato di arresto tocca alle autorità competenti».
L´Alleanza, attraverso il generale canadese Charles Bouchard, che dirige le operazioni, ha anche ripetuto la volontà di mantenere alta la pressione militare sul regime respingendo dunque la proposta italiana di una tregua nei bombardamenti. «Le violenze contro i civili continuano e non penso che una riduzione delle operazioni in questa fase sarebbe opportuna», ha detto Bouchard.
La Nato, però, secondo quanto ha denunciato il segretario americano alla Difesa, Robert Gates, proverebbe crescenti difficoltà a far fronte all´onere dell´offensiva militare, soprattutto da parte dei Paesi europei. «Molti alleati non partecipano alle operazioni in Libia non perché non vogliano, ma semplicemente perché non ne hanno i mezzi», ha accusato Gates, che a fine settimana lascerà l´incarico all´ex capo della Cia Leon Panetta. Il segretario alla Difesa ritiene che gli europei debbano mettere in comune i mezzi di cui dispongono per consentire economie di scala, se vogliono evitare per la Nato «un avvenire oscuro»: «in Europa ci sono ancora due milioni di soldati, perché è così difficile trovarne 25 mila per una missione militare?».
Il presidente francese Sarkozy ha definito «ingiuste» le accuse di Gates. Ma le crescenti difficoltà che i Paesi europei impegnati in Libia stanno incontrando dimostrano che sul fondo il dirigente americano ha ragione. Una prova della penuria di mezzi di cui dispone l´Alleanza (se si esclude l´apporto degli Usa), è arrivata ieri dalla notizia che la Germania avrebbe offerto di mettere a disposizione della missione «bombe e altro materiale tecnologico» per bombardamenti di precisione. Il governo tedesco non ha votato la risoluzione Onu sulla Libia e non partecipa alle operazioni contro Gheddafi. Ma avrebbe accettato una richiesta della Nato di fornire materiale bellico che comincia a scarseggiare negli arsenali dei Paesi impegnati nelle operazioni. Un fatto che ha scatenato le critiche dei partiti di opposizione al governo di Angela Merkel. 

lunedì 27 giugno 2011

LIBIA, TRA BOMBARDAMENTI E VITTIME UMANE PROSEGUE IL FARSESCO BALLETTO DIPLOMATICO A LIVELLO INTERNAZIONALE

Libia, i calciatori contro il Colonnello con i ribelli diciassette star del pallone

Gheddafi non parteciperà ai negoziati

MILANO- Muammar Gheddafi ha accettato di non partecipare a eventuali negoziati sulla Libia. Lo hanno riferito domenica capi di stato africani che stanno portando avanti la mediazione dell'Unione Africana per avviare trattative e porre fine al conflitto che va avanti da quattro mesi.
OBIETTIVO ONU NON È L'ASSASSINIO DEL RAIS -«L'intenzione della risoluzione dell'Onu non era quella di autorizzare una campagna per il cambiamento di regime o l'assassinio politico di Gheddafi» ha poi detto il presidente sudafricano Jacob Zuma, nel discorso di apertura del meeting del comitato dei mediatori dell'Unione africana sulla Libia, tenutosi a Pretoria. «Vite dei civili sono state perse a causa di queste bombe e le infrasttrutture hanno subìto danni indicivili», ha aggiunto Zuma riferendosi ai raid della Nato. «I bombardamenti della Nato sono andati oltre la risoluzione dell'Onu, che autorizzava l'uso della forza per proteggere i civili libici dagli attacchi delle truppe di Gheddafi», ha detto Zuma. «I cittadini libici ci chiedono di porre fine a questa carneficina e vogliono vedere una fine immediata del conflitto e l'inizio di un processo per l'amministrazione democratica», ha concluso.
«BISOGNA ARRESTARLO»- Di diverso avviso, la Corte dell'Aja : «Bisogna arrestate il leader libico Muammar Gheddafi per mettere fine ai crimini di guerra e contro l'umanità commessi in Libia dall'inizio del conflitto». È quanto sostiene il Procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) dell'Aia, Luis Moreno Ocampo, che il 16 maggio scorso ha chiesto alla Corte di spiccare mandati di arresto a carico di Gheddafi, del figlio primogenito, Saif Al Islam, e del capo dei servizi di Intelligence, Abdallah Al Senussi. «I crimini vengono commessi ancora oggi in Libia. Per farli cessare e per proteggere i civili, Gheddafi deve essere arrestato», ha detto il procuratore in un comunicato. I giudici della Cpi si pronunceranno lunedì sulla richiesta di Moreno-Ocampo.

venerdì 24 giugno 2011

DEDICATO AGLI OLANDESI

La stampa internazionale ha dato notizia della prodezza di un tribunale olandese che ha mandato assolto il leader del partito neo-nazista Geert Wilders, il quale ha affermato che: "Il Corano è come il Mein Kampf di Hitler e l'Islam è un'ideologia simile al nazismo". Il geniale tribunale che ha adottato la sentenza l'ha motivata affermando che Wilders non avrebbe fatto affermazioni naziste contro i musulmani come persone, ma avrebbe insultato l'Islam in quanto tale.
Pubblichiamo l'articolo di Andre Tarquini (La Repubblica, 24/06/2011)


"Il Corano come Mein Kampf" ma il tribunale assolve Wilders

BERLINO - Paragonare il Corano al Mein Kampf, il libro di Hitler, e definire l´Islam un´ideologia fascista non è reato. Non in Olanda. Geert Wilders, il giovane, popolarissimo leader della nuova destra radicale, è stato assolto ieri dall´accusa di istigazione all´odio contro una minoranza. È un successo politico per i nuovi partiti di destra in tutta Europa, e insieme una sentenza che spacca il continente e il mondo, e preannuncia nuove tensioni tra musulmani e Occidente. Wilders parla esultante di «vittoria della libertà d´espressione», al Cairo i portavoce dei Fratelli musulmani avvertono: «È un verdetto pericoloso, potrebbe rinfocolare sentimenti di tensione tra i popoli».
Il processo era cominciato a gennaio. Geert Wilders era stato denunciato da un gruppo di fedeli musulmani, per incitamento all´odio e offesa alle persone e ai loro sentimenti religiosi. «Il Corano è come Mein Kampf,     l´Islam minaccia la libertà come il fascismo, siamo in guerra, dobbiamo difenderci», erano le affermazioni incriminate. La Corte di Amsterdam, presieduta dal giudice Marcel van Oosten, ha dato ragione alle richieste d´assoluzione della Difesa. «Le sue affermazioni sono estremamente rozze e denigratorie, ma non penalmente perseguibili», ha spiegato il magistrato: l´imputato «non ha criticato i musulmani come individui, bensì l´Islam in quanto tale», e le sue affermazioni «sono accettabili nel contesto del dibattito pubblico».
«Non è solo un´assoluzione per me, è una grande vittoria per la libertà», ha detto Wilders. «Ora è chiaro che è legale criticare in pubblico l´Islam, e c´è bisogno delle nostre voci critiche perché l´islamizzazione è un grave problema delle nostre società e una minaccia alla libertà, e io sono autorizzato a dirlo». Immediata la protesta della parte lesa, il cui avvocato ha preannunciato un ricorso alla Corte europea di giustizia e passi alle Nazioni Unite. La magistratura olandese ha infatti definito inappellabile la sentenza, approvata anche dal pubblico ministero. «Io non tacerò, come non tacquero Pim Fortuyn e Theo van Gogh», ha detto Wilders. Si riferiva al predecessore, fondatore della nuova destra, e al regista autore di un film contro l´oppressione della donna nell´islam, assassinati da un fanatico ecologista e da un integralista islamico. Alle elezioni dell´anno scorso, il Partito della libertà di Wilders è diventato terza forza politica. E sono da esso ispirate le ultime leggi            sull'immigrazione, che obbligano i migranti a integrarsi a loro spese, e tolgono il permesso di soggiorno in caso di bocciatura o assenza ai corsi d´integrazione a pagamento.


Non ho mai provato un'eccessiva simpatia per gli olandesi, anche perché, per le strane distrazioni della storia, si è sempre sorvolato sul tipo di vicende di cui sono stati protagonisti su scala mondiale. Debbo anche ammettere che uno dei pochissimi motivi, se non l'unico che mi hanno sempre indotto a provare una qualche condivisione per le tesi della Liga Veneta vi è il fatto che sulla carta storico-geografica dell'Europa è stata cancellata la presenza di un'entità dalla storia luminosa come la repubblica serenissima di Venezia, mentre vi è rimasta un'entità priva di un qualche merito (a parte qualche grande pittore come Rembrandt, che fra i suoi contemporanei patì la fame..), un'entità come l'Olanda.  
Il grande filosofo tedesco Immanuel Kant scrive: "L'olandese è dotato di un carattere ordinato e diligente, e poiché egli si preoccupa esclusivamente di ciò che gli è utile, ha poca sensibilità per tutto ciò che è bello o è sublime o ha un intelletto raffinato. Un grand'uomo significa per lui la stessa cosa che uomo ricco, che l'amico egli intende solo il suo corrispondente in affari economici e una visita è per lui noiosa se non gli fa guadagnare nulla. Egli è contrario tanto della raffinatezza francese quanto per quella italiana: per certi versi egli è un tedesco molto flemmatico, e privo di ogni gusto...Se volessimo esaminare ad esempio il sentimento dell'onore si rivelerebbero le seguenti differenze nazionali: il senso dell'onore nei francesi è a volte vanità, negli spagnoli è orgoglio, negli inglesi è fierezza, nei tedeschi è superbia, negli olandesi è arroganza. L'arrogante è un orgoglioso che mostra nei suoi atti un palese disprezzo degli altri. Nel contegno è maleducato: questa meschina qualità è lontanissima dal buon gusto perché è segno manifesto di stupidità; infatti non è certo il modo giusto per soddisfare il senso del proprio onore quello di attirarsi, ostentando il disprezzo, l'altrui avversione e derisione meritatamente beffarda."
La mia avversione per gli olandesi si è alimentata nel corso degli anni mano a mano che venivo a conoscenza delle nefandezze che hanno commesso nelle parti del mondo in cui hanno avuto l'avventura di sbarcare.
I - Per un breve periodo di tempo gli olandesi fondarono una colonia sulla costa atlantica del nord America e la chiamarono Nuova Amsterdam. Per creare spazi alle loro piantagioni di tabacco sterminarono decine di migliaia di indiani Lenapi e introdussero il civilissimo uso della caccia agli scalpi e della vendita ai "selvaggi" di rum avvelenato. Bastarono pochi colpi di cannone di qualche nave inglese per fargli cambiare bandiera e per ribattezzare Nuova Amsterdam con il nome di New York;
II - Diventati padroni grazie ai commerci truffaldini dell'intera Indonesia, vi praticarono per qualche secolo un tipo di colonialismo simile  a quello praticato dai loro cugini belgi nel Congo: costringere intere comunità ai lavori forzati per raggiungere alla fine di ogni anno una produzione di un certo livello di Caucciù. Le comunità che non raggiungevano la produzione venivano sottoposte a una severa rappresaglia: agli uomini di età superiore ai 14 anni venivano tagliate entrambe la mani;
III - Essendo sostanzialmente poco avvezzi alle avventure troppo rischiose non praticarono in prima persona la tratta degli schiavi dall'Africa: essi preferirono arricchirsi costituendo robuste compagnie di assicurazione che assicuravano le navi "negriere"; con questo sistema riuscirono comunque a deportare diverse decine di migliaia di africani nelle Antille dette olandesi;
IV - Un qualche spiraglio di gloria lo realizzarono durante la Seconda Guerra Mondiale costituendo qualche formazione partigiana che combatté duramente contro gli occupanti nazisti; ma siccome questi non erano troppo diversi da loro, si riscattarono costituendo, insieme ai cugini belgi, numerose formazioni naziste di SS. Durante l'occupazione nazista furono tra i più assidui denunciatori di ebrei: la piccola Anna Frank venne consegnata con tutta la famiglia alle SS tedesche da un vicino di casa olandese. 
Non mi dilungherò a lungo sulla ferocia repressiva con la quale cercarono di stroncare le lotte di liberazione indonesiana. Ricorderò solo, come musulmano che erano olandesi quei soldati con i caschi blu che consegnarono al generale serbo-bosniaco Ratko Mladic più di 8000 bosniaci musulmani che vennero sterminati sotto gli occhi dei caschi blu che avrebbero dovuto difenderli. 
In nome di quale illustre passato e di quale profonda fede religiosa un loro tribunale manda assolto un volgare delinquente xenofobo e razzista come Wilders. Per qualche secolo gli olandesi furono i soli europei ai quali i samurai giapponesi consentivano di sbarcare sulle coste del Giappone per commerciare. I giapponesi avevano una triste eredità di guerra civile fomentata dai gesuiti e avevano deciso che gente con gli occhi tondi non avrebbe più infestato l'Impero del Sol Levante a meno che i marinai che cercavano di farlo non accettassero di bestemmiare Dio e la Madonna e di camminare, dopo averlo coperto di sputi sopra il crocifisso.
Nessun marinaio europeo si piegò alla condizione: solo gli olandesi, acquiescenti poterono commerciare.
Poiché dovrebbe esserci in ogni azione umana, anche la più delirante, un qualche fondo non dico di razionalità ma di soluzione, sarebbe da chiedere ai giudici olandesi e a Wilders e a quanti la pensano come loro cosa bisognerebbe fare del 1.700.000.000 di musulmani che considerano il Corano un libro sacro che recando la Parola di Dio insegna la FRATELLANZA, la MISERICORDIA e la CARITA' 
"Tra tutti i discendenti di Adamo ed Eva, diversi per lingua e per colore di pelle, ma tutti creature dello stesso Dio". 
Nell'Europa degli anni 40' fu facile per i nazisti sterminare qualche milione di ebrei. Con i musulmani la cosa sarebbe molto più complicata, anche perché, come dimostrano gli eventi degli ultimi mesi, centinaia, migliaia, milioni di giovani musulmani stanno dimostrando di affrontare le pallottole degli sgherri dei dittatori al grido di
"Dio è il più Grande!" anche degli olandesi e degli islamofobi di ogni genia.




martedì 21 giugno 2011

FINO A QUANDO LA COMUNITA' INTERNAZIONALE CHIUDERA' GLI OCCHI SUI MASSACRI DI SIRIA

Siria, Assad non si piega "Complotto contro di noi nessun accordo con i sabotatori"

BEIRUT - Nessun accordo è possibile con i «sabotatori» e i «banditi armati», che sfruttano per i loro fini la buona fede dei siriani, ma, con gli altri, i dimostranti che «avanzano richieste legittime», il «dialogo nazionale» non soltanto s´intensificherà, ma produrrà le tanto auspicate riforme in pochi mesi. Nel frattempo, i cittadini del Nord della Siria, che sono fuggiti (oltre diecimila), o stanno cercando di fuggire (altri diecimila) nella vicina Turchia possono tornare a casa, perché non è vero, come dicono i media, che l´esercito è stato mandato lì per tagliare loro la strada della salvezza, o per vendicarsi delle violenze esplose a Jisr al Shugur, ma «per proteggerli». Parola di Bashar el Assad.
E´ apparso teso e stanco, il quarantacinquenne presidente siriano, durante il discorso di un´ora e 20 minuti - il terzo da quando è esplosa la protesta, a metà marzo - fatto ieri davanti ad una folla di invitati dall´ovazione facile, nell´aula magna dell´Università di Damasco. I distillatori più attenti del verbo del leader siriano hanno colto alcune differenze degne di nota rispetto ai precedenti interventi, ma non una vera svolta, una proposta coraggiosa e dirompente, diretta a soddisfare se non tutte, almeno in parte, le richieste avanzate dai dimostranti. La risposta degli oppositori, di conseguenza, si può riassumere così: proposta non ricevibile. Manifestazioni, seppur di portata limitata, si sono avute ad Homs, Latakia, Aleppo e in qualche quartiere di Damasco con slogan di scorno spesso trascendenti nell´insulto («Bugiardo! Bugiardo»).
In sostanza, neanche stavolta Bashar el Assad ha potuto fare a meno di evocare la teoria del complotto contro la Siria. Un complotto fomentato da oscuri ambienti internazionali e gestito sul terreno da una minoranza di «sabotatori» che hanno sequestrato per i loro loschi fini le legittime richieste della gente. I quali sabotatori, assicura il presidente siriano, sarebbero in possesso di armi e mezzi (di telefonia) ultra moderni.
Tuttavia, stavolta, contrariamente ai precedenti discorsi, Assad non si è nascosto la profondità della crisi e le sue implicazioni più gravi (tra cui ha citato il rischio che il sistema economico crolli). E poiché in gioco è il futuro della Siria, ecco allora la necessità di seguire la via delle riforme e del «dialogo nazionale». Dialogo che dovrà realizzarsi nell´ambito di un comitato di oltre cento persone, di cui s´ignora chi sarà chiamato a far parte, che avranno il compito di valutare e raccomandare al nuovo parlamento che dovrebbe essere eletto in agosto le proposte per cambiare il sistema politico e la stessa costituzione. E´ del tutto evidente che Assad si propone come l´unica fonte istituzionale in grado di garantire e portare a compimento questo cambiamento epocale.
Ma l´enfasi con cui Assad ha un po´ semplicisticamente descritto la sua «road map» verso una nuova Siria, contrasta fortemente con le critiche dei dissidenti. Uno di questi oppositori, il difensore dei diritti umani Walid al Bunni, liberato poche settimane fa dopo cinque anni di carcere, ha quasi schernito il discorso: «Il regime - ha detto - chiama sabotatori i dimostranti, ma non ha ancora realizzato che in Siria è in corso una rivolta popolare per la libertà e la dignità della persona». Anche quegli osservatori disposti ad entrare nel merito delle proposte di Assad, come l´analista libanese Osama Safa, hanno finito con il dare un giudizio del discorso che equivale ad una bocciatura: «Troppo poco e troppo tardi». La rivoluzione, in sintesi, continuerà, fanno sapere i dimostranti.
«Delusione» anche a livello internazionale. Le parole di Assad hanno convinto l´Unione Europea a cercare un inasprimento delle sanzioni contro il regime con l´obbiettivo di realizzare un cambiamento al vertice.


Assad, linea dura contro i sabotatori

Assad: linea dura contro 1 sabotatori Il leader di Damasco-promette riforme. Ma gli oppositori: bugiardo Il terzo discorso in tre mesi di rivolta dura settanta minuti, con sei bandiere siriane alle spalle e davanti i notabili dell`università di Damasco, dove Bashar Assad ha studiato medicina. La lezione del chirurgo oculista diventato presidente recupera i termini medici: è tutta colpa dei «germi - proclama - che hanno infettato il Paese. «Germi» e «sabotatori» che- starebbero sfruttando le «legittime aspirazioni» del popolo. A quelle richieste - dice - può rispondere solo lui, con le riforme che ancora una volta promette. 

«Siamo noi a dover risolvere il problema. Modificheremo la legge sui partiti politici e quella elettorale per poi dare inizio al dialogo nazionale. 

Ma non discuteremo nel caos con chi è armato e uccide». 

Entro settembre - è l`unica data a venire annunciata - il nuovo sistema dovrebbe essere pronto e permettere il voto aperto a formazioni diverse dal Baath, che domina da quarant`anni (la Costituzione lo definisce il «partito guida della società e dello Stato»). 

Se sarà necessario, le elezioni parlamentari di agosto verranno rinviate in attesa delle proposte di legge. 

Gli oppositori respingono le poche aperture del leader: 
«Non ha presentato le tappe che dovrebbero garantire la -transizione dalla dittatura alla democrazia», commenta Hassan Abdul-Azim all`agenzia Associated Press. Alla fine del discorso, cortei si sarebbero formati a Latalcia, la città portuale sulla costa, e alla periferia di Damasco. I manifestanti avrebbero gridato «Bugiardo, bugiardo». «L`intervento di Assad è costruito sulle promesse e nessuno in strada si fida più del governo», replica Louay Hussein, tra i capi dei dissidenti, al New York Times. E` dal 2oo5 che il governo discute della riforma del sistema elettorale. 
Troppo tardi e troppo poco anche per gli americani («a questo punto vogliamo fatti e non parole», commenta una portavoce del Dipartimento di Stato) e per gli europei che preparano nuove sanzioni contro il regime. «Assad ha pronunciato le stesse frasi usate da Muammar Gheddafi», dice Franco Frattini, ministro degli Esteri italiano. «E` stato il discorso di una persona incapace di imparare», accusa il tedesco Guido Westerwelle. 
Pure la Turchia, alleata e vicina delusa, critica il leader che con la repressione ha spinto dentro i suoi confini quasi undicimila profughi. 
«Non è abbastanza - dice il presidente Abullah Gul -. La Siria deve aprirsi a un sistema libero, con più partiti». 
Agli esuli dall`altra parte della frontiera si è rivolto Assad: 
«Vi fanno credere che lo Stato si vendicherà di voi, non è vero. Tornate a casa». 
L`esercito ha trasportato ieri un gruppo di giornalisti locali nelle campagne attorno a Jisr al-Shugur, la città da dove sono fuggiti la maggior parte dei siriani accolti nei campi allestiti da Ankara. Gli ufficiali hanno mostrato una fossa comune con ventinove corpi, poliziotti e soldati uccisi dagli insorti, secondo il regime. 
Opera dei «sabotatori» nelle parole del presidente: «Un piccolo gruppo di estremisti che vogliono la distruzione in nome delle riforme e diffondono il caos in nome della libertà. E` un complotto, ma ne usciremo rafforzati. Daremo la caccia a questi fondamentalisti». 
La ribellione ha colpito dentro al circolo che attornia la famiglia al potere. Rami Malchlouf, cugino di Bashar, sarebbe stato costretto a lasciare l`impero imprenditoriale costruito attraverso la proprietà di Syriatel, il più grande operatore di telefonia mobile del Paese. Rami ha promesso di devolvere i miliardi di dollari accumulati in beneficenza e strutture che creino posti di lavoro. 
Soprannominato Mister Five, per quel cinque per cento in mazzette che esigerebbe ad ogni affare, durante le manifestazioni è stato il più bersagliato dagli slogan dei dimostranti. 
«Il regime combatterà fino alla fine. Se affondiamo, non lo faremo da soli», aveva detto al New York Times. 
Per ora, il regime avrebbe scelto di sacrificarlo per restare ancora un pò a galla. L`inizio Le prime proteste risalgono al 26 gennaio, quando un manifestante si dà fuoco a Damasco. 
Dopo l`arresto di 15 adolescenti per graffiti anti-regime ametà marzo, le rivolte si intensificano e si diffondono nelle principali città Repressione Nonostante la dura repressione, la protesta non si arresta neanche dopo l`abolizione dello stato d`emergenza, il 21 aprile. Oltre mille i morti in 3 mesi L`emergenza Sono 13 mila i profughi siriani: 10 mila accolti in 5 campi turchi e 3 mila in Libano Promesse Ieri Assad ha promesso una nuova legge elettorale, un impegno a sradicare la corruzione e la modifica della Costituzione.


Le prime proteste registrate in Siria risalgono al 26 Gennaio, quando, così come è avvenuto a Tunisi, un manifestato si è dato fuoco a Damasco. Dopo l'arresto di 15 adolescenti per aver fatto dei graffiti anti-regime a metà Marzo, con inevitabile corollario di pestaggio e torture, le rivolte si sono intensificate e si sono diffuse nelle principali città: Dama, Latikia, Hons e infine Damasco.
Nonostante la dura repressione la protesta non si è arrestata neppure dopo che Assad ha solennemente promesso in una seduta dello pseudo parlamento l'abolizione dello stato d'emergenza in vigore da 30 anni. La rivolta si è allargata e fa registrare oggi un tragico bilancio: ben oltre i 1000 morti in tre mesi; 13 mila profughi, di cui 10 mila accolti in campi turchi e 3000 in Libano. Ieri Assad ha promesso per la terza volta una nuova legge elettorale, un impegno a sradicare la corruzione  e a modificare la costituzione. Non si capisce perché questa dovrebbe essere la volta buona.

In coincidenza con ogni massacro l'Unione Europea e il governo americano si sono turnati nell'invocare l'inasprimento delle sanzioni contro la Siria (quali?); nello stesso arco di tempo di fronte ai massacri di Gheddafi la stessa Unione Europea, la NATO, e in tono minore gli USA, hanno coinvolto la NATO in bombardamenti sempre più intensi sulla Libia, l'assemblea generale dell'ONU ha dichiarato Gheddafi fuorilegge internazionale e la corte internazionale sta deliberando di spiccare contro di lui un mandato di cattura per crimini di guerra e per delitti contro l'umanità.
E' lecito chiedersi, a questo punto, quali siano i motivi di fondo di un comportamento tanto diverso delle forze internazionali di fronte ad atteggiamenti delittuosi in tutto simili.
Cerchiamo di fornirne un sintetico quadro:
I - La Siria non possiede una goccia di petrolio, mentre la Libia, come è noto, ne è il terzo produttore mondiale. L'esperienza insegna che la coscienza umanitaria dell'occidente subisce un irresistibile fascino quando sente odore di "greggio": nel caso libico, la Francia ha battuto tutto sulle linee di partenza.
II - Mentre la Libia è uno stato per modo di dire (c'è del vero nell'affermazione di Gheddafi quando sostiene che la Libia è in gran parte una sua creatura, e probabilmente è anche vero che per questo motivo una non piccola parte dei libici si identifica con le sue mattane da tiranno senza paura). La Siria, anche se è un complicato mosaico di etnie, fedi religiose, persino lingue, ha una sua identità storico-politica antica e gloriosa: Damasco è stata la prima splendida sede del califfato Omayyade, e l'intero territorio è ricco di centri e di tradizioni culturali. Purtroppo la sua debolezza politica l'ha fatta cadere in mano a una ferrea dittatura sostenuta da una esigua minoranza religiosa che ha nell'Iran sciita il suo grande protettore. Vi è stato un giornalista di quelli che pretendono di sapere tutto che la minoranza Alawita al potere ha in Teheran il suo Vaticano, mentre la maggioranza sciita avrebbe come Vaticano niente di meno che l'Arabia Saudita. E' difficile dare un voto a una scemenza di questo genere.
III - Perpetuare i guai interni della Siria significa assicurare un congruo fronte di sicurezze militari al "cocco di mamma", e cioè, tanto per cambiare a Israele. Non va trascurato che in Siria una radicata opposizione politica, oltre a quella sunnita esiste, ed è costituita da quell'entità di fronte alla quale l'occidente ne inventa di ogni tipo. Parliamo, come ovvio, dei Fratelli Musulmani.
Nel quasi silenzio dell'opinione pubblica di gran parte dei paesi arabi fortunatamente il popolo siriano sembra aver trovato un potente protettore di sicuro avvenire, che non è ne fondamentalista, ne islamista ma semplicemente musulmano: parliamo di quella che prima o poi tornerà ad essere la grande speranza dell'intero mondo islamico e cioè della Turchia.
I giovani siriani che si fanno uccidere affrontando disarmati gli sgherri di Assad sono consapevoli di avere con loro la stessa grande forza: Allah-U-Akbar, Dio è il più Grande.

P.S: è di oggi la notizia che nel suo esilio in Arabia Saudita l'ex dittatore tunisino Ben Alì è stato condannato da un tribunale del suo paese a 35 anni di galera.

lunedì 20 giugno 2011

NOVITA' DAL MAGREB


La nuova Tunisia teme gli islamisti in ascesa


TUNISI - Nei rapporti dei diplomatici occidentali sulla Tunisia sono definiti una «criticità». Sulla rete virtuale del Paese (Facebook) e su quella materiale (bar e mercati), corrono giudizi molto più pesanti: «maschilisti», «talebani», «ex terroristi». In mezzo la «katiba karsa», (la maggioranza silenziosa) appare un po' spiazzata e un po' incuriosita dal fenomeno politico del momento. Il partito di ispirazione islamica, Ennahda (la Rinascita), è in testa nei sondaggi a quattro mesi dalle elezioni per l' assemblea costituente (ufficiosamente fissate per il 23 ottobre) e proprio mentre si apre (domani la prima udienza) il processo al presidente-dittatore Ben Ali, rifugiatosi in Arabia Saudita e inseguito da una richiesta di estradizione che sta per essere formalizzata. Agli inizi di giugno alla formazione guidata da Rachid Ghannouchi veniva attribuito il 16,9% delle preferenze di voto, ben al di là del 9,5% accreditato allo storico partito socialdemocratico Pdp di Nejb Chebbi. Islamisti e socialdemocratici sono gli unici giganti in una folla di 93 partiti nani o mezze promesse (come i liberali, i nazionalisti e i comunisti). Le associazioni delle donne sono in allarme. Dal 1956 in poi la Tunisia ha costruito un sistema di pari opportunità tranquillamente paragonabile agli standard occidentali. I laici del Paese sono diffidenti, come spiega Raouf Kalsi, editorialista del quotidiano Le Temps: «Ennahda è una nebulosa con posizioni ambigue sullo Stato di diritto. E poi non si capisce chi li finanzia. Temo ci siano dietro l' Arabia Saudita e il suo modello di integralismo wahhabita. Con il placet degli americani». A questo punto urge verifica. La sede di Ennahda è un bel palazzotto di cinque piani nel quartiere amministrativo della capitale. Tutto nuovo. Ha aperto da due mesi, ma negli uffici non ci sono cassette di frutta al posto dei tavoli, bensì poltrone in pelle nera, computer, uscieri in completo blu fresco lana. E dopo pochi minuti di attesa arriva Nabil Labassi, un avvocato di 46 anni, membro del «gabinetto politico». Labassi spiega subito che lì sono tutti «volontari» e porge una lunga lista di ingegneri, legali, professori, ricercatori, contabili, medici e persino animatori. E' il gruppo dirigente del partito. Molti di loro hanno scontato 12-15 anni di carcere duro, altri sono rientrati dall' esilio. Labassi si aspetta la sequenza delle domande e risponde senza esitazione, come fosse un test per la «patente di democratico». Dunque: la parità uomo-donna? «Non si tocca. Anzi noi siamo l' unico partito che ha proposto di inserire l' obbligo di riservare alle donne metà dei posti nelle liste per le elezioni». Il velo? «Permesso, ma non obbligatorio». Il divorzio? «Nessun problema, resta». La poligamia? «Che cosa? Non scherziamo, non se ne parla neanche». L' aborto? «Forse si può inserire qualche limite a tutela della salute della partoriente, ma ne vogliamo discutere con tutti gli altri partiti». Il divieto di bere alcolici? «Il massimo che possiamo è vietarne la vendita ai minori». E' vero che volete cacciare gli investitori stranieri? «Al contrario, sono i benvenuti e vogliamo collaborare con loro». E così via. Sarebbero questi i talebani? I cripto-sauditi? A proposito chi finanzia Ennahda? «Da sempre girano voci su presunti finanziatori occulti, l' Arabia Saudita, gli Stati Uniti, l' Iran. Ma il nostro modello, se mai, è la Turchia di Erdogan. Le nostre risorse vengono dai militanti, ci sono almeno 50 mila tunisini che versano ogni mese il 3-5% del proprio salario, in più riceviamo donazioni dai nostri connazionali all' estero». Se davvero è così sarebbero, calcolando a spanne, almeno 6-7 milioni di euro all' anno: in Tunisia sono soldi. Eppure c' è qualcosa che non torna. C' è troppo scarto tra la versione del dirigente islamista e le opinioni correnti. Ma andando avanti si entra in una zona d' ombra. Ennahda è forse l' unica formazione che ha aperto una sede nei 24 governatorati e un ufficio in ogni distretto del Paese. Nel palazzotto di Tunisi ammettono di non sapere neanche chi siano tutti questi militanti. E si vede, si sente. Su Facebook sono attivi almeno 600-700 profili di persone che parlano a nome di Ennahda. Ma sono proprio i raduni improvvisati nelle città tunisine, i proclami lanciati sul web e alla tv dai «buoni musulmani» ad alimentare la diffidenza verso il partito islamico. C' è chi invoca l' applicazione stretta della «sharia» (frustate comprese), chi suggerisce di risolvere il problema della disoccupazione, dando agli uomini i posti occupati dalle donne, che vanno invece segregate in casa. Per ora confusione e ambiguità stanno portando quei consensi necessari per negoziare con gli altri partiti da una posizione di forza. Perché Ennahda vuole comandare. Le tappe Il suicidio Il 17 dicembre 2010 un laureato 26enne Mohamed Bouazizi si dà fuoco: gli era stato vietato di vendere verdura in strada Le proteste Il 18 dicembre scoppiano le prime proteste contro disoccupazione e aumento dei prezzi del cibo La fuga Il 14 gennaio il presidente Zine Abidine Ben Ali, si dimette e lascia il Paese dopo 23 anni al potere Il governo Il premier ad interim Mohamed Ghannouchi forma un nuovo governo: 14 dei 21 ministri sono legati al vecchio regime. Le prossime elezioni dovrebbero tenersi il 23 ottobre.
19/06/2011, Corriere della Sera, Giuseppe Sarcina

Naturalmente il timore degli islamisti in ascesa non è dei tunisini ma di quanti in occidente preferivano che al potere ci fosse un ladrone corrotto come Ben Alì piuttosto che una forza politica organizzata e strutturata e magari tendenzialmente disponibile a riprendere le antiche relazioni che in altri tempi la Tunisia pre-coloniale aveva con l'impero ottomano. Agli occidentali non deve essere molto gradito che i turchi guidati da un governo come quello di Erdogan si allarghino troppo. Meglio imporre ad essi un umiliante immotivata anticamera davanti alle porte della comunità europea.



La Corsa a Ostacoli del Re del Marocco sulla Via delle Riforme


Non ha il carisma del nonno e del padre, ma il re del Marocco è un giovane concreto e, a suo modo, coraggioso. Non ama le iniziative spettacolari e non è prigioniero della propria immagine, come uno dei tanti leader-narcisi del recente passato arabo. Mohammed VI ha presentato venerdì il suo progetto di riforme con la solennità dei grandi momenti, annunciando che il piano sarà sottoposto a referendum popolare. Come si conviene a chi crede nella democrazia, pur avendola frequentata marginalmente. Il re ha insomma deciso di mettere in pratica quanto aveva promesso all' inizio di marzo: trasformare in costituzionale una monarchia di diritto divino, con libertà per i partiti, con i poteri politici in mano al capo del governo, e con la separazione dell' esecutivo dal sistema giudiziario, garantendo i diritti delle donne e delle minoranze, a cominciare da quelle religiose. Mohammed VI, che ha già incassato l' elogio del presidente francese Sarkozy, cerca di cambiare con il prezioso conforto della ragione. La piazza giovanile dei ribelli, raccordata via Internet con i coetanei degli altri paesi, ha già avanzato dubbi sull' iniziativa del sovrano. Anche se è difficile capire se i dubbi siano o meno conseguenza di chi rifiuta sempre e comunque i passi riformisti compiuti da chi è al potere. Il re, in sostanza, non vuole imporre, ma cerca di far ragionare e soprattutto di convincere i sudditi più giovani, giustamente insofferenti e impulsivi. Ed è questa dote che gli ha consentito di evitare imbarazzanti paragoni con il padre, che era amatissimo in patria, e rispettato e temuto fuori dai confini del Paese. Ora la «primavera araba» è arrivata, impetuosa, anche in Marocco dettando tempi e regole, e va detto che il sovrano, dopo le prime manifestazioni del «Movimento 20 febbraio», ha risposto subito, come se fosse già preparato ad affrontare una sfida a tutto campo: promettendo di modificare, dalle fondamenta, l' intero sistema di potere del regno. Un regno che si voleva protetto dalla più assoluta sacralità come era normale, dicevano molti analisti, per i discendenti del profeta. Ma anche il re di Giordania Abdallah II è discendente del profeta, però a differenza del suo quasi coetaneo fratello arabo del Marocco non ha dovuto piegarsi al peso della storia e delle tradizioni. Abdallah si è dovuto confrontare, da subito, con le incredibili contraddizione del suo piccolo regno, assediato dai problemi e prigioniero dell' irrisolta questione palestinese. Mohammed VI no. Ha potuto e saputo tessere la sua tela riformista con calma, e ora spera di vederne i risultati. Che voglia riformare, nonostante la piazza sia scettica, è sicuro. Tuttavia, la volontà di considerarsi «protettore dei credenti» e garante della «libertà di tutti i culti» ha già provocato qualche risentimento, facendo affiorare problemi di identità religiosa. Con i riformisti che guardano avanti, e i fondamentalisti indietro. Ecco perché, ben oltre gli umori di una piazza giovanile fondamentalmente laica, preoccupa l' estremismo dei religiosi musulmani marocchini più ostinati.
19/06/2011, Corriere della Sera, Antonio Ferrari

La riforma del re non basta ai giovani marocchini

La «riforma del re» alla prova della piazza. Appuntamento al tramonto nei quartieri popolari di Casablanca, Rabat, Tangeri. Il Marocco resta un Paese diviso, anche se è difficile dire quanto sia profonda la frattura e quanta parte della società sia davvero contro con il Makhzen, l’equivalente del Palazzo, un’entità superiore e separata proprio come l’aveva immaginato Pasolini. Due giorni dopo il discorso in tv del sovrano Mohammed VI, quasi tutti i giornali traboccano di «piacevole stupore» , per i contenuti della nuova Costituzione. Ma gli oppositori del Movimento 20 febbraio, cioè il fattore scatenante per cui siamo tutti qui a chiederci che cosa ne sarà del Marocco, non arretrano. Ieri sera a Casablanca hanno sfilato almeno in 10 mila (un serpentone di 200 metri) dribblando i cocomerai e i cumuli di immondizia. Tutti insieme: adolescenti con la maglia del Barcellona e dell’Arsenal, donne velate, coppie con ragazzini, studenti universitari, giovani professionisti. Imad Jarmoumi, 30 anni, ingegnere in una società commerciale riassume con parole semplici il «no» alla nuova Carta: «Ci puoi girare intorno fin che vuoi, ma tutto il potere, quello vero, resta nelle mani del re» . Fatima Ezzaha, studentessa di 21 anni indossa un chador fucsia, è con un'amica più giovane e un uomo (probabilmente il padre) che sorride senza avvicinarsi: «Noi non abbiamo niente contro il re. Possiamo fare come in Inghilterra, ma abbiamo bisogno di tante cose» . Il corteo percorre il quartiere di El Fidaa, musulmano e, nello stesso tempo, «gauchista» , da dove partì la rivolta contro la Francia colonizzatrice. Poco lontano si vedono tre-quattro spezzoni di poche centinaia di persone che, invece, manifestano a favore della Costituzione. A Rabat (la capitale) i «lealisti» sono molto più numerosi e, riferisce l’agenzia Ap, aggressivi al punto da attaccare e poi inseguire nei vicoli i manifestanti del Movimento. E’ vero agli «ado» (gli adolescenti di Facebook) si sono mescolati gli islamisti radicali di Al Adl Wal Ihsane, che marciano mostrando la foto del «martire» Kamal Ammari, ucciso, sostengono, il 2 giugno nel corso degli scontri con la polizia a Safi. E poi nel corteo una selva di sigle della sinistra estrema cerca di trovare un po’ di spazio. Ma per capire come andrà a finire la mappa degli schieramenti politici serve poco. Negli ultimi dieci anni la partecipazione elettorale è crollata, fino a sprofondare nel 2007 al 37%. Non è un caso se tra le strade di El Fidaa il tasso di partecipazione sia solo del 17%e nessuno si sforzi di inventare uno slogan contro il partito al governo (Istiqlal, lo storico partito dell’Indipendenza 1956). Il problema cruciale è l’ «inclusione» , direbbero i politologi, cioè colmare la distanza tra il «popolo» e il Regno, sia pure riveduto e corretto. Mohammed VI lo ha capito perfettamente. Con una certa abilità, mescolando caffettano e improbabili occhiali fumé, si è rivolto non ai campioni di conformismo che siedono da decenni di Parlamento, ma direttamente al «Popolo» , anzi al «Caro Popolo» . La nuova Costituzione è un documento complesso con sorprendenti fughe in avanti: per esempio c’è l’Antitrust e viene introdotto il divieto per i parlamentari di passare da un partito all’altro (niente «Responsabili» di turno). Ma tutta l’architettura d’impostazione schiettamente liberale (specie se riferita agli standard mediorientali) poggia su un piedistallo che non ha niente a che vedere con la dottrina costituzionale e che è accettabile solo con un atto di fede: la sovranità ultima (religiosa, giuridica, politica) del re. Il Marocco non diventerà né una monarchia costituzionale all’inglese, né una Repubblica alla francese guidata da un sovrano. Perché Sua maestà lascerà la guida del consiglio dei ministri al premier, ma presiederà un nuovo organismo, il Consiglio del governo, mantenendo l’ultima parola non solo nelle questioni capitali (la guerra, la pace), ma anche nella gestione delle scelte strategiche di politica estera e, in parte, economica. E un «re cittadino» , che conserva e perpetua il primato religioso, la «Guida dei credenti» . E’ sempre difficile conciliare l’Eterno con la politica e gli affari contingenti degli uomini. Come pure è complicato fissare un limite istituzionale (all’inglese appunto) a un monarca che fino a ieri presiedeva a capotavola, seduto sulla poltrona rossa regale, il Consiglio dei ministri e governava con decreti reali inappellabili. La soluzione è un testo di 180 articoli diviso in «dieci Assi» , messo a punto da una speciale Commissione guidata da Mohamed Moatassim, giurista e vecchio professore universitario del sovrano. Non un «caminetto» di saggi, però, quanto un forum che ha coinvolto i sindacati, organizzazioni per la difesa dei diritti, per la promozione della parità tra uomo e donna e così via. La Carta sarà sottoposta a referendum il 1 ° luglio e in quell’occasione, forse, si vedrà quanto pesa la piazza.
20/06/2011, Corriere della Sera, Giuseppe Sarcina







SEMPRE MENO CHIARO L'IMBROGLIO LIBICO

Chi abbia avuto modo di ascoltare a suo tempo le dichiarazioni di Bashar Al-Assad al "parlamento siriano" per assicurare la rapida adozione di profonde riforme costituzionali a favore del suo popolo ebbe modo di giudicare la pochezza del personaggio e per percepire come in realtà a dirigere la partita repressiva nel suo paese sia in realtà una oligarchia nella quale si mescolano i privilegi di un esercito armato fino ai denti e controllato da una minoranza religiosa con robusti appoggi extra-confine (ci riferiamo qui al regime sciita degli ayatollah iraniani di cui gli Alawiti siriani sono una scheggia). Sul piano personale il giovane Bashar, al di là dell'altissima statura che ne fa uno "spilungone" privo di eleganza intellettuale, non mostra di avere le caratteristiche di astuto cinismo che caratterizzarono suo padre Hafiz Al-Assad, che fecero dire a un personaggio navigato come Henry Kissinger:
"Pensavo di trovarmi davanti il solito "rais" medio orientale e mi trovai davanti un vero e proprio statista con indiscutibili capacità manovriere e diplomatiche.
Ben diverso è il ritratto che ha fornito di se il figlio di Muhammar Gheddafi, Saif Al-Islam reso al Corriere della Sera al giornalista Lorenzo Cremonesi e riportato Giovedì 16 Giugno 2011


«Elezioni in Libia, tanto vincerà mio padre»


L'erede di Gheddafi presenta il suo piano per uscire dal conflitto: "Il vecchio regime è morto. Ora ho un governo federale stile USA. Il popolo è con noi. Batteremo i ribelli alle urne".
Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi

«Elezioni, subito e con la supervisione internazionale. È l’unico modo indolore per uscire dall’impasse in Libia» : il momento più interessante dell’intervista l’altra sera nel cuore della capitale arriva a 14 minuti dal suo inizio. Sino a quel momento Saif Al Islam Gheddafi aveva ribadito le dichiarazioni già rilasciate alla stampa in passato e sbandierate in ogni occasione dalla propaganda della dittatura. «I ribelli agli ordini dei terroristi di Bengasi sono banditi, uomini di Al Qaeda, criminali. I loro capi sono traditori, che sino allo scoppio del caos il 17 febbraio erano legati a filo doppio a mio padre. Se non ci fosse l’ombrello della Nato sarebbero stati sconfitti da un pezzo» , afferma quasi meccanicamente. Ma è quando gli si chiede come pensa di uscire dall’impasse militare e dalla minaccia di violenze anche peggiori che lui avanza la formula di compromesso. «Andiamo alle urne. E vinca il migliore» . Un messaggio nuovo di apertura alla comunità internazionale da parte del più politico tra i figli del Colonnello. Nelle ultime settimane nessuno della famiglia Gheddafi si è fatto vedere in pubblico. Neppure Saif Al Islam. E dal primo maggio, quando un missile Nato uccise suo fratello Saif Al Arab assieme a tre nipotini, le misure di sicurezza si sono fatte più strette. La cautela ha dominato anche la nostra intervista. I portavoce governativi nel tardo pomeriggio dell’altro ieri ci avevano annunciato un incontro con il ministro degli Esteri. Veniamo condotti in una stanza al quindicesimo piano dell’hotel Radisson Blu, sul lungomare. E solo qui, dopo una lunga attesa, arriva Saif che ci dà il benvenuto. Sorridente, abbronzato, in forma, sembra più giovane dei suoi 39 anni. Alla fine parleremo sino a serata inoltrata. Vuole spiegare, farsi comprendere dal mondo. Si dice «in continuo contatto» con il padre. Ma pone anche tante domande. Per due ore chiede valutazioni sulla forza dei ribelli, sul loro consenso interno, sul rapporto tra Bengasi e Misurata. L’uomo che oggi è accusato dalla nomenclatura del regime di essersi troppo operato per aprire la Libia alla globalizzazione e ai nuovi mezzi di comunicazione via Internet, cerca ancora dai media stranieri chiavi di lettura per capire il suo Paese. Usciamo dal tunnel delle accuse reciproche. Lei sostiene che i ribelli vanno perseguiti come traditori. E loro replicano che tutta la vostra famiglia va processata, al meglio espulsa all’estero. La Nato sta dalla loro parte, godono di un crescente sostegno internazionale. Gheddafi è sempre più isolato, deve andarsene. Dove il compromesso? «Elezioni. Si potrebbero tenere entro tre mesi. Al massimo a fine anno. E la garanzia della loro trasparenza potrebbe essere la presenza di osservatori internazionali. Non ci formalizziamo su quali. Accettiamo l’Unione Europea, l’Unione Africana, le Nazioni Unite, la stessa Nato. L’importante è che lo scrutinio sia pulito, che non ci siano sospetti di brogli. E allora tutto il mondo scoprirà quanto Gheddafi è ancora popolare nel suo Paese. Non ho alcun dubbio: la stragrande maggioranza dei libici sta con mio padre e vede i ribelli come fanatici integralisti islamici, terroristi sobillati dall’estero, mercenari agli ordini di Sarkozy. Alla nostra gente non sfugge che lo stesso presidente del governo fantoccio a Bengasi, Mustafa Abdel Jalil, come del resto il loro responsabile militare, Abdel Fatah Younes, sono, al pari di tanti altri, uomini della vecchia nomenklatura, gente che è saltata sul carro delle rivolte all’ultimo minuto, miserabili profittatori, venduti. Erano ministri con Gheddafi e ora vogliono giocare la parte dei leader contro di lui. Ridicoli. Non li temiamo affatto. Sono fantocci di Parigi. Marionette incapaci di stare in piedi da sole» . I ribelli temono di essere assassinati, perseguitati, come del resto è avvenuto in 42 anni di dittatura a tanti membri dell’oppo- sizione. Cosa offre per garantire la loro incolumità? «Sono loro che hanno paura, non noi. Li conosco bene, uno a uno, sono stati con me nelle università straniere. Hanno goduto del mio programma di liberalizzazione negli ultimi dieci anni, di cui, si badi bene, non mi pento affatto. Il nostro rapporto è come quello tra il serpente e il topo che vorrebbero convivere nella stessa tana. Ci considerano il serpente. La soluzione? Dobbiamo essere tutti uguali: tutti serpenti, o tutti topi. E la via è quella delle urne» . Ma che garanzie può offrire loro? «Occorre pensarci. Dovremo cercare di mettere in piedi un meccanismo per garantirli. Nel periodo prima del voto si dovrà comunque elaborare la nuova Costituzione e un sistema di media completamente libero. Credo in una Libia del futuro composta da forti autonomie locali e un debole governo federale a Tripoli. Il modello potrebbero essere gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda o l’Australia. In questi ultimi mesi ho maturato una convinzione profonda: la Libia pre-17 febbraio non esiste più. Qualsiasi cosa accada, incluso la sconfitta militare o politica dei ribelli, non si potrà tornare indietro. Il regime di mio padre così come sviluppato dal 1969 è morto. e sepolto. Gheddafi è stato superato dagli avvenimenti, ma anche Jalil. Occorre costruire qualche cosa di completamente nuovo» . E se le elezioni le vincono i dirigenti di Bengasi? «Bravi. Tanto di cappello. Noi ci faremo da parte. Sono però certo della nostra vittoria. Sui poco più di cinque milioni di libici, almeno i due milioni residenti a Tripoli stanno con noi e anche a Bengasi godiamo della maggioranza. Semplicemente laggiù la gente non può parlare per paura di rappresaglie. Comunque, se dovessimo perdere, ovvio che lasceremo il governo. Rispettiamo le regole. Non mi opporrei neppure se venisse democraticamente eletto nostro premier l’intellettuale ebreo-francese Bernard-Henri Lévy» (sorride per la battuta). La pensa così anche suo padre dopo 42 anni di regime? «Certo» . E, in quel caso, Gheddafi sarebbe pronto all’esilio? «No. Non c’è motivo. Perché mai? Questo è il nostro Paese. Mio padre continua a ripeterlo. Non se ne andrà mai dalla Libia. Qui è nato e qui intende morire ed essere sepolto, accanto ai suoi cari» . A quel punto non sareste però voi a rischio di vendette? Andreste a cercare protezione tra qualche tribù fedele nel deserto? «Staremmo a Tripoli, a casa nostra. Nessuno di noi scappa. Sappiamo come difenderci» . L’Italia potrebbe avere un ruolo in questo processo di ricostruzione democratica? «Non ora. Non sino a quando ci sarà Berlusconi al governo. Da quello che possiamo capire qui a Tripoli, il vostro premier è in difficoltà, pare inevitabile la sua prossima sconfitta elettorale. Bene. Non possiamo che gioirne. Lui e il ministro degli Esteri Frattini si sono comportati in modo abominevole con noi. Sino a tre mesi prima lo scoppio della ribellione venivano a inchinarsi e baciavano le mani a Gheddafi. Salvo poi voltare la schiena e passare armi e bagagli tra le file dei nostri nemici alla prima difficoltà. Vergogna!» . Che sarà dei contratti con l’Eni? Italia e Libia hanno una lunga storia di rapporti economici che va ben oltre i governi Berlusconi. «Ovvio, e infatti separiamo nettamente la figura di Berlusconi dall’Italia. Apprezziamo le critiche alla guerra e contro la Nato avanzate dalle Lega. Guardiamo con interesse ai vostri partiti della sinistra. La Libia terrà un atteggiamento assolutamente diverso nei confronti di un’Italia senza Berlusconi» . E il petrolio? «Non so. È prematuro parlarne. Per ora dobbiamo porre fine alla guerra, imporre la legge e l’ordine in tutto il Paese. Ma voglio essere franco. Da tempo Mosca guarda con interesse ai pozzi e alle infrastrutture Eni in Libia. Forse, ora i russi hanno una carta in più» . Tuttavia, anche Mosca ultimamente ha perorato la causa dell’esilio di Gheddafi. Non la penalizzate? «Lo so. Ma con Berlusconi è diverso. Si diceva vero amico di Gheddafi. Il suo tradimento brucia di più» . E allora, quale tra i governi stranieri potrebbe meglio aiutare la transizione verso il voto in Libia e nel contempo mediare con la Nato? «La Francia. Abbiamo già avuto abbocchi con Parigi, ma per ora senza seguito. Comunque, sono loro che impongono la politica del governo di Bengasi. È stato Nicolas Sarkozy a volere più di tutti l’intervento Nato. Dunque a loro il compito di cercare una via d’uscita il meno cruenta possibile» . Sono ormai le dieci di sera. Il figlio di Gheddafi già da qualche tempo ha spostato la sedia sul balcone. Guarda verso l’alto. Il cielo stellato domina il porto. Ma lui cerca soprattutto i segnali di pericolo. Si odono i rumori dei caccia Nato. Lontano, i traccianti di una contraerea vanno a perdersi nel buio, come fuochi d’artificio stanchi. «È tempo di partire — esclama uscendo di fretta —. Basta poco per restare uccisi».


Gli articoli successivi non fanno che confermare:
I - La totale mancanza di strategia della missione NATO
II - Il carattere raccogliticcio, in gran parte interno al sistema di potere del clan Gheddafi, che ha cambiato bandiera in larga misura per un visibilissimo opportunismo
III - La profonda debolezza del fronte ribelle, che non ha finora fornito ne la garanzia di vincere la partita con le proprie forze, ne l'immagine di una rivolta che esprime la sicura volontà del popolo libico

Anche le preoccupazioni espresse dal dipartimento di stato americano circa le atrocità commesse dalle truppe di Gheddafi, e che per altro nonimpegno fino in fondo, sono fatte apposta per aumentare seri dubbi

 sono certo state seguite dalla ferma decisione statunitense di seguitare il loro impegno
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Libia, a Roma l' assemblea dei capi tribù

Corriere della Sera, 16/06/2011


LA GUERRA e i bombardamenti non riescono a convincere Gheddafi a cedere il potere. Ma nel frattempo la macchina politica gira a pieno regime, già provando a disegnare quella che sarà la Libia del dopo-Gheddafi. Il ministro degli Esteri Franco Frattini firma oggi a Napoli con il presidente del CNT Jalil un accordo sull' immigrazione illegale.È il primo segnale di disponibilità dei ribelli libici a gestire assieme all' Italia un fenomeno che sta gettando nello sgomento la maggioranza del governo Berlusconi. L' accordo, di cui Repubblica ha potuto vedere il testo, non è un' intesa concretamente esecutiva, ma sembra avere una doppia valenza politica: innanzitutto conferma che anche la Libia del dopo-Gheddafi sarà impegnata contro il traffico di essere umani, e sicuramente lo farà in maniera più rispettosa dei diritti umani rispetto al regime Gheddafi. Ma poi l' accordo conferma il fatto che il Ministero degli Esteri è riuscito in qualche modo a convincere i ribelli a intervenire nel dibattito politico interno italiano. Sarà un' intesa capace di tranquillizzare la Lega e permettere al governo Berlusconi di continuare ad essere coinvolto nelle operazioni militari in Libia. In altre parole, un testo immediatamente spendibile dai ministri leghisti di fronte al popolo di Pontida. C' è poi una seconda operazione politica, anche questa accelerata dalle perplessità di parte del mondo politico e delle opinioni pubbliche occidentali, che è maturata in queste ore a Roma. «Il 25, 26 e 27 giugno a Roma favoriremo l' organizzazione di una «Conferenza del dialogo libico» a cui parteciperanno 300 esponenti di tutte le regioni e le estrazioni politiche della Libia», dice il ministro degli Esteri Franco Frattini: «Noi pensiamo che la road map per la costruzione di un percorso democratico che doti la Libia di una sua Costituzione e di un processo di costruzione delle sue istituzioni democratiche non debba attendere la fine delle operazioni militari». La Grande Assemblea è stata decisa in una riunione che si è tenuta proprio a Roma il 12 giugno: fra i principali promotori ci sono Abdurrahman Shalgam, ex ambasciatore all' Onu di Gheddafi, e l' ambasciatore a Roma Hafed Gaddur. «Vogliamo iniziare a discutere dei temi che saranno centrali nella costruzione del nuovo stato libico», dice uno degli organizzatori, «dalla sicurezza, all' economia, alla riconciliazione nazionale». Un percorso inevitabile e necessario, che però stride col fatto che in Libia Gheddafi resiste mentre le operazioni militari creano problemi seri ai governi della Nato. Negli Stati Uniti il presidente Obama è stato costretto a rispondere ai deputati che lo hanno accusato di aver abusato dei suoi poteri: la Casa Bianca sostiene che gli Usa non sono impegnati in una «guerra» vera e propria, ma in un' operazione militare per la quale il presidente ha tutti i poteri di dare ordini alle forze armate.



«Gheddafi usa gli stupri come un’arma di guerra»


Corriere della Sera, 18/06/2011, Alessandra Farkas

Il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha accusato ieri le truppe del dittatore libico Gheddafi di aver trasformato «gli stupri e le violenze contro le donne» in «strumenti di guerra» . La Clinton è il diplomatico americano di più alto rango a intervenire sulla questione della terrificante campagna di stupri sistematici messi in atto dalle truppe fedeli a Gheddafi per terrorizzare la popolazione civile libica nelle aree favorevoli ai ribelli. «Le forze di sicurezza di Gheddafi e altri gruppi nella regione stanno tentando di creare divisioni tra la gente usando lo stupro e la violenza contro le donne come uno strumento di guerra» , punta il dito l’ex first lady in una nota ufficiale pubblicata sul sito del dipartimento di Stato, «gli Stati Uniti condannano tali azioni nel modo più fermo» , prosegue, «e chiedono a tutti i governi di condurre indagini immediate e trasparenti per portare di fronte alla giustizia i responsabili» . La Clinton si rivolge alle donne libiche: «Da quando Eman al Obeidi ha fatto irruzione in un hotel di Tripoli, lo scorso 26 marzo, per denunciare la violenza carnale subita» , afferma, «altre donne coraggiose si sono fatte avanti con le loro storie di orribile brutalità» . Il comunicato cita anche le recenti dichiarazioni del procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno-Ocampo, secondo cui esisterebbero «prove atroci che lo stupro in Libia è diffusissimo e sistematico» . La «profonda preoccupazione degli Stati Uniti» espressa da Hillary s’inserisce in un contesto più vasto che vede «numerosi governi in Medio Oriente e Nordafrica ricorrere alla violenza carnale» come «mezzo per intimidire e punire gli oppositori che si battono per le riforme democratiche» . Il capo della diplomazia Usa cita «lo stupro, l’intimidazione fisica, le molestie sessuali, e persino i cosiddetti test della verginità» , alludendo alla pratica attuata ancora di recente in Egitto, malgrado il cambio di regime, nei confronti delle manifestanti. Il j’accuse di Hillary fa seguito alla denuncia dell’ambasciatrice Usa all’Onu Susan Rice, che lo scorso aprile, durante una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza dedicata alla Libia accusò Gheddafi di distribuire il Viagra alle sue truppe per facilitare gli stupri. Contro il «colpevole silenzio» delle Nazioni Unite verso ciò che lo stesso segretario generale Ban Ki-moon ha definito «una delle nostre priorità» si è levata anche l’autorevole voce della svedese Margot Wallström, rappresentante speciale di Ban Ki-moon in materia di violenza sessuale in guerra. In un comunicato di fuoco diffuso ad aprile, la Wallström ha accusato i membri del Consiglio di Sicurezza di aver «messo brutalmente a tacere» il dossier stupri, rifiutandosi di menzionarlo nel testo delle due ultime risoluzioni Onu sulla Libia. A due mesi di distanza, l’atteggiamento del Palazzo di Vetro non è cambiato. Sherif Bassiouni, il capo della commissione d’inchiesta che ha preparato il rapporto Onu sulla Libia, ha espresso dubbi sull’esistenza di una politica di stupri di massa da parte del regime libico, parlando di «gigantesca isteria» di una società che «si sente vulnerabile» .



"Dulcis in fundo" la Nato comincia ad ammettere che i suoi missili provocano quelli che nel gergo usuale vengono chiamati "danni collaterali" e cioè vittime civili. C'è tutto quel che fa temere che la situazione libica finirà con l'assomigliare molto a un quadro di segno bosniaco.


Libia, la Nato ammette vittime civili "Un missile fuori bersaglio a Tripoli"

La Repubblica, 20/06/2011, Vincenzo Nigro

Per la prima volta dall´inizio degli attacchi sulla Libia, l´Alleanza atlantica ammette di aver commesso un errore durante uno dei suoi bombardamenti su Tripoli, e di avere fatto vittime civili. Già ieri pomeriggio i portavoce spiegavano che «la Nato è pronta a scusarsi se sarà verificato che i suoi attacchi hanno causato la perdita di vite umane innocenti». Ma alle 21,47 una e-mail partita dal comando alleato di Napoli ha spiegato che a causa del malfunzionamento di una bomba, nella notte fra venerdì e sabato era stata colpita una palazzina civile. È stato il capo delle operazioni in persona, il generale canadese Charles Bouchard, ad ammettere l´errore, confermando le scuse dell´organizzazione e soprattutto il fatto che i controlli continueranno ad essere eseguiti col massimo scrupolo. La bomba incriminata era stata lanciata venerdì notte in un quartiere orientale di Tripoli, Al Arada, una zona dietro Suk Al Jouma in cui l´esercito gheddafiano nascondeva alcuni lanciarazzi. Ma nella palazzina di due piani colpita per errore non c´erano militari, soltanto 4 o 5 famiglie. Il regime ha mostrato nove corpi estratti dalle macerie, fra cui alcuni bambini. 
Se questa è la notizia "militare" del giorno, dall´Observer invece arrivano informazioni molto precise su Muhammar Gheddafi, sul suo ruolo nell´ordinare la repressione dei ribelli e dei civili e sulle nuove prove che potrebbero incastrare il leader libico. Il settimanale britannico ha visto documenti che sono nelle mani dei ribelli di Bengasi: ci sono lettere di Gheddafi che ordina ai generali di circondare e sigillare la città, di non lasciar entrare viveri e carburante, di lasciar morire di fame di cittadini. «Che il mare blu di Misurata diventi rosso con il sangue dei suoi abitanti», scrive il colonnello in una lettera del 4 marzo, due settimane dopo che la città era caduta nelle mani degli insorti. Il colonnello dà ordini al generale Yussef Ahmed Basheer Abu Hajar, chiedendogli di tagliare tutti i rifornimenti, di torturare i prigionieri e bombardare obiettivi civili. Un´altra lettera ordina di dare la caccia a due ribelli feriti fuggiti a Zlitan, in una chiara violazione della Convenzione di Ginevra che vieta le azioni militari contro i combattenti feriti. Secondo i giornalisti dell´Observer, gli avvocati dei ribelli hanno altri documenti che non hanno voluto mostrare: si tratterebbe di ordini di Gheddafi in cui chiede di distruggere le città passate con gli insorti senza curarsi in nessun modo della vita dei civili.
Detto questo, Gheddafi continua a resistere egregiamente nella parte di Libia che è ancora sotto il suo controllo: ieri Abdurrahman Shalgam, ex ambasciatore Onu e a Roma, uomo di primo piano nel tentativo di accreditare i ribelli nel mondo e molto informato su quanto accade nel circolo ristretto attorno a Gheddafi, si è presentato a San Marino in coincidenza con la visita del papa per convincere la repubblica a riconoscere il Cnt di Bengasi. Shalgam, che era accompagnato dall´ambasciatore a Roma Hafed Gaddur, ha detto a un giornale arabo di essere convinto che «Gheddafi fuggirà dal paese, è inseguito da un mandato di cattura internazionale e sta perdendo terreno nel paese». Shalgam racconta che «gli insorti di Misurata avanzano verso Zlitan, le cose subiranno un´accelerazione nella prossima settimana, anche a causa di fratture interne alle forze di sicurezza di Tripoli e alle dimissioni di altre personalità del governo». Ma il colonnello ormai è stato dato per spacciato troppe volte per poter credere anche a quest´ultima previsione di sconfitta.

Naturalmente quanto andiamo dicendo non cambia il nostro giudizio su Gheddafi, che resta un tiranno sanguinario e attaccato al potere. Circostanza che non esclude la possibilità che egli e il suo clan godano di un vasto appoggio fra i libici e che le finalità della NATO e degli interventisti poco hanno a che fare con la salute del popolo libico.