"Pensavo di trovarmi davanti il solito "rais" medio orientale e mi trovai davanti un vero e proprio statista con indiscutibili capacità manovriere e diplomatiche.
Ben diverso è il ritratto che ha fornito di se il figlio di Muhammar Gheddafi, Saif Al-Islam reso al Corriere della Sera al giornalista Lorenzo Cremonesi e riportato Giovedì 16 Giugno 2011
«Elezioni in Libia, tanto vincerà mio padre»
L'erede di Gheddafi presenta il suo piano per uscire dal conflitto: "Il vecchio regime è morto. Ora ho un governo federale stile USA. Il popolo è con noi. Batteremo i ribelli alle urne".
Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi
Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi
«Elezioni, subito e con la supervisione internazionale. È l’unico modo indolore per uscire dall’impasse in Libia» : il momento più interessante dell’intervista l’altra sera nel cuore della capitale arriva a 14 minuti dal suo inizio. Sino a quel momento Saif Al Islam Gheddafi aveva ribadito le dichiarazioni già rilasciate alla stampa in passato e sbandierate in ogni occasione dalla propaganda della dittatura. «I ribelli agli ordini dei terroristi di Bengasi sono banditi, uomini di Al Qaeda, criminali. I loro capi sono traditori, che sino allo scoppio del caos il 17 febbraio erano legati a filo doppio a mio padre. Se non ci fosse l’ombrello della Nato sarebbero stati sconfitti da un pezzo» , afferma quasi meccanicamente. Ma è quando gli si chiede come pensa di uscire dall’impasse militare e dalla minaccia di violenze anche peggiori che lui avanza la formula di compromesso. «Andiamo alle urne. E vinca il migliore» . Un messaggio nuovo di apertura alla comunità internazionale da parte del più politico tra i figli del Colonnello. Nelle ultime settimane nessuno della famiglia Gheddafi si è fatto vedere in pubblico. Neppure Saif Al Islam. E dal primo maggio, quando un missile Nato uccise suo fratello Saif Al Arab assieme a tre nipotini, le misure di sicurezza si sono fatte più strette. La cautela ha dominato anche la nostra intervista. I portavoce governativi nel tardo pomeriggio dell’altro ieri ci avevano annunciato un incontro con il ministro degli Esteri. Veniamo condotti in una stanza al quindicesimo piano dell’hotel Radisson Blu, sul lungomare. E solo qui, dopo una lunga attesa, arriva Saif che ci dà il benvenuto. Sorridente, abbronzato, in forma, sembra più giovane dei suoi 39 anni. Alla fine parleremo sino a serata inoltrata. Vuole spiegare, farsi comprendere dal mondo. Si dice «in continuo contatto» con il padre. Ma pone anche tante domande. Per due ore chiede valutazioni sulla forza dei ribelli, sul loro consenso interno, sul rapporto tra Bengasi e Misurata. L’uomo che oggi è accusato dalla nomenclatura del regime di essersi troppo operato per aprire la Libia alla globalizzazione e ai nuovi mezzi di comunicazione via Internet, cerca ancora dai media stranieri chiavi di lettura per capire il suo Paese. Usciamo dal tunnel delle accuse reciproche. Lei sostiene che i ribelli vanno perseguiti come traditori. E loro replicano che tutta la vostra famiglia va processata, al meglio espulsa all’estero. La Nato sta dalla loro parte, godono di un crescente sostegno internazionale. Gheddafi è sempre più isolato, deve andarsene. Dove il compromesso? «Elezioni. Si potrebbero tenere entro tre mesi. Al massimo a fine anno. E la garanzia della loro trasparenza potrebbe essere la presenza di osservatori internazionali. Non ci formalizziamo su quali. Accettiamo l’Unione Europea, l’Unione Africana, le Nazioni Unite, la stessa Nato. L’importante è che lo scrutinio sia pulito, che non ci siano sospetti di brogli. E allora tutto il mondo scoprirà quanto Gheddafi è ancora popolare nel suo Paese. Non ho alcun dubbio: la stragrande maggioranza dei libici sta con mio padre e vede i ribelli come fanatici integralisti islamici, terroristi sobillati dall’estero, mercenari agli ordini di Sarkozy. Alla nostra gente non sfugge che lo stesso presidente del governo fantoccio a Bengasi, Mustafa Abdel Jalil, come del resto il loro responsabile militare, Abdel Fatah Younes, sono, al pari di tanti altri, uomini della vecchia nomenklatura, gente che è saltata sul carro delle rivolte all’ultimo minuto, miserabili profittatori, venduti. Erano ministri con Gheddafi e ora vogliono giocare la parte dei leader contro di lui. Ridicoli. Non li temiamo affatto. Sono fantocci di Parigi. Marionette incapaci di stare in piedi da sole» . I ribelli temono di essere assassinati, perseguitati, come del resto è avvenuto in 42 anni di dittatura a tanti membri dell’oppo- sizione. Cosa offre per garantire la loro incolumità? «Sono loro che hanno paura, non noi. Li conosco bene, uno a uno, sono stati con me nelle università straniere. Hanno goduto del mio programma di liberalizzazione negli ultimi dieci anni, di cui, si badi bene, non mi pento affatto. Il nostro rapporto è come quello tra il serpente e il topo che vorrebbero convivere nella stessa tana. Ci considerano il serpente. La soluzione? Dobbiamo essere tutti uguali: tutti serpenti, o tutti topi. E la via è quella delle urne» . Ma che garanzie può offrire loro? «Occorre pensarci. Dovremo cercare di mettere in piedi un meccanismo per garantirli. Nel periodo prima del voto si dovrà comunque elaborare la nuova Costituzione e un sistema di media completamente libero. Credo in una Libia del futuro composta da forti autonomie locali e un debole governo federale a Tripoli. Il modello potrebbero essere gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda o l’Australia. In questi ultimi mesi ho maturato una convinzione profonda: la Libia pre-17 febbraio non esiste più. Qualsiasi cosa accada, incluso la sconfitta militare o politica dei ribelli, non si potrà tornare indietro. Il regime di mio padre così come sviluppato dal 1969 è morto. e sepolto. Gheddafi è stato superato dagli avvenimenti, ma anche Jalil. Occorre costruire qualche cosa di completamente nuovo» . E se le elezioni le vincono i dirigenti di Bengasi? «Bravi. Tanto di cappello. Noi ci faremo da parte. Sono però certo della nostra vittoria. Sui poco più di cinque milioni di libici, almeno i due milioni residenti a Tripoli stanno con noi e anche a Bengasi godiamo della maggioranza. Semplicemente laggiù la gente non può parlare per paura di rappresaglie. Comunque, se dovessimo perdere, ovvio che lasceremo il governo. Rispettiamo le regole. Non mi opporrei neppure se venisse democraticamente eletto nostro premier l’intellettuale ebreo-francese Bernard-Henri Lévy» (sorride per la battuta). La pensa così anche suo padre dopo 42 anni di regime? «Certo» . E, in quel caso, Gheddafi sarebbe pronto all’esilio? «No. Non c’è motivo. Perché mai? Questo è il nostro Paese. Mio padre continua a ripeterlo. Non se ne andrà mai dalla Libia. Qui è nato e qui intende morire ed essere sepolto, accanto ai suoi cari» . A quel punto non sareste però voi a rischio di vendette? Andreste a cercare protezione tra qualche tribù fedele nel deserto? «Staremmo a Tripoli, a casa nostra. Nessuno di noi scappa. Sappiamo come difenderci» . L’Italia potrebbe avere un ruolo in questo processo di ricostruzione democratica? «Non ora. Non sino a quando ci sarà Berlusconi al governo. Da quello che possiamo capire qui a Tripoli, il vostro premier è in difficoltà, pare inevitabile la sua prossima sconfitta elettorale. Bene. Non possiamo che gioirne. Lui e il ministro degli Esteri Frattini si sono comportati in modo abominevole con noi. Sino a tre mesi prima lo scoppio della ribellione venivano a inchinarsi e baciavano le mani a Gheddafi. Salvo poi voltare la schiena e passare armi e bagagli tra le file dei nostri nemici alla prima difficoltà. Vergogna!» . Che sarà dei contratti con l’Eni? Italia e Libia hanno una lunga storia di rapporti economici che va ben oltre i governi Berlusconi. «Ovvio, e infatti separiamo nettamente la figura di Berlusconi dall’Italia. Apprezziamo le critiche alla guerra e contro la Nato avanzate dalle Lega. Guardiamo con interesse ai vostri partiti della sinistra. La Libia terrà un atteggiamento assolutamente diverso nei confronti di un’Italia senza Berlusconi» . E il petrolio? «Non so. È prematuro parlarne. Per ora dobbiamo porre fine alla guerra, imporre la legge e l’ordine in tutto il Paese. Ma voglio essere franco. Da tempo Mosca guarda con interesse ai pozzi e alle infrastrutture Eni in Libia. Forse, ora i russi hanno una carta in più» . Tuttavia, anche Mosca ultimamente ha perorato la causa dell’esilio di Gheddafi. Non la penalizzate? «Lo so. Ma con Berlusconi è diverso. Si diceva vero amico di Gheddafi. Il suo tradimento brucia di più» . E allora, quale tra i governi stranieri potrebbe meglio aiutare la transizione verso il voto in Libia e nel contempo mediare con la Nato? «La Francia. Abbiamo già avuto abbocchi con Parigi, ma per ora senza seguito. Comunque, sono loro che impongono la politica del governo di Bengasi. È stato Nicolas Sarkozy a volere più di tutti l’intervento Nato. Dunque a loro il compito di cercare una via d’uscita il meno cruenta possibile» . Sono ormai le dieci di sera. Il figlio di Gheddafi già da qualche tempo ha spostato la sedia sul balcone. Guarda verso l’alto. Il cielo stellato domina il porto. Ma lui cerca soprattutto i segnali di pericolo. Si odono i rumori dei caccia Nato. Lontano, i traccianti di una contraerea vanno a perdersi nel buio, come fuochi d’artificio stanchi. «È tempo di partire — esclama uscendo di fretta —. Basta poco per restare uccisi».
Gli articoli successivi non fanno che confermare:
I - La totale mancanza di strategia della missione NATO
II - Il carattere raccogliticcio, in gran parte interno al sistema di potere del clan Gheddafi, che ha cambiato bandiera in larga misura per un visibilissimo opportunismo
I - La totale mancanza di strategia della missione NATO
II - Il carattere raccogliticcio, in gran parte interno al sistema di potere del clan Gheddafi, che ha cambiato bandiera in larga misura per un visibilissimo opportunismo
III - La profonda debolezza del fronte ribelle, che non ha finora fornito ne la garanzia di vincere la partita con le proprie forze, ne l'immagine di una rivolta che esprime la sicura volontà del popolo libico
Anche le preoccupazioni espresse dal dipartimento di stato americano circa le atrocità commesse dalle truppe di Gheddafi, e che per altro nonimpegno fino in fondo, sono fatte apposta per aumentare seri dubbi
sono certo state seguite dalla ferma decisione statunitense di seguitare il loro impegno
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Libia, a Roma l' assemblea dei capi tribù
Corriere della Sera, 16/06/2011
LA GUERRA e i bombardamenti non riescono a convincere Gheddafi a cedere il potere. Ma nel frattempo la macchina politica gira a pieno regime, già provando a disegnare quella che sarà la Libia del dopo-Gheddafi. Il ministro degli Esteri Franco Frattini firma oggi a Napoli con il presidente del CNT Jalil un accordo sull' immigrazione illegale.È il primo segnale di disponibilità dei ribelli libici a gestire assieme all' Italia un fenomeno che sta gettando nello sgomento la maggioranza del governo Berlusconi. L' accordo, di cui Repubblica ha potuto vedere il testo, non è un' intesa concretamente esecutiva, ma sembra avere una doppia valenza politica: innanzitutto conferma che anche la Libia del dopo-Gheddafi sarà impegnata contro il traffico di essere umani, e sicuramente lo farà in maniera più rispettosa dei diritti umani rispetto al regime Gheddafi. Ma poi l' accordo conferma il fatto che il Ministero degli Esteri è riuscito in qualche modo a convincere i ribelli a intervenire nel dibattito politico interno italiano. Sarà un' intesa capace di tranquillizzare la Lega e permettere al governo Berlusconi di continuare ad essere coinvolto nelle operazioni militari in Libia. In altre parole, un testo immediatamente spendibile dai ministri leghisti di fronte al popolo di Pontida. C' è poi una seconda operazione politica, anche questa accelerata dalle perplessità di parte del mondo politico e delle opinioni pubbliche occidentali, che è maturata in queste ore a Roma. «Il 25, 26 e 27 giugno a Roma favoriremo l' organizzazione di una «Conferenza del dialogo libico» a cui parteciperanno 300 esponenti di tutte le regioni e le estrazioni politiche della Libia», dice il ministro degli Esteri Franco Frattini: «Noi pensiamo che la road map per la costruzione di un percorso democratico che doti la Libia di una sua Costituzione e di un processo di costruzione delle sue istituzioni democratiche non debba attendere la fine delle operazioni militari». La Grande Assemblea è stata decisa in una riunione che si è tenuta proprio a Roma il 12 giugno: fra i principali promotori ci sono Abdurrahman Shalgam, ex ambasciatore all' Onu di Gheddafi, e l' ambasciatore a Roma Hafed Gaddur. «Vogliamo iniziare a discutere dei temi che saranno centrali nella costruzione del nuovo stato libico», dice uno degli organizzatori, «dalla sicurezza, all' economia, alla riconciliazione nazionale». Un percorso inevitabile e necessario, che però stride col fatto che in Libia Gheddafi resiste mentre le operazioni militari creano problemi seri ai governi della Nato. Negli Stati Uniti il presidente Obama è stato costretto a rispondere ai deputati che lo hanno accusato di aver abusato dei suoi poteri: la Casa Bianca sostiene che gli Usa non sono impegnati in una «guerra» vera e propria, ma in un' operazione militare per la quale il presidente ha tutti i poteri di dare ordini alle forze armate.
«Gheddafi usa gli stupri come un’arma di guerra»
Corriere della Sera, 18/06/2011, Alessandra Farkas
Il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha accusato ieri le truppe del dittatore libico Gheddafi di aver trasformato «gli stupri e le violenze contro le donne» in «strumenti di guerra» . La Clinton è il diplomatico americano di più alto rango a intervenire sulla questione della terrificante campagna di stupri sistematici messi in atto dalle truppe fedeli a Gheddafi per terrorizzare la popolazione civile libica nelle aree favorevoli ai ribelli. «Le forze di sicurezza di Gheddafi e altri gruppi nella regione stanno tentando di creare divisioni tra la gente usando lo stupro e la violenza contro le donne come uno strumento di guerra» , punta il dito l’ex first lady in una nota ufficiale pubblicata sul sito del dipartimento di Stato, «gli Stati Uniti condannano tali azioni nel modo più fermo» , prosegue, «e chiedono a tutti i governi di condurre indagini immediate e trasparenti per portare di fronte alla giustizia i responsabili» . La Clinton si rivolge alle donne libiche: «Da quando Eman al Obeidi ha fatto irruzione in un hotel di Tripoli, lo scorso 26 marzo, per denunciare la violenza carnale subita» , afferma, «altre donne coraggiose si sono fatte avanti con le loro storie di orribile brutalità» . Il comunicato cita anche le recenti dichiarazioni del procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno-Ocampo, secondo cui esisterebbero «prove atroci che lo stupro in Libia è diffusissimo e sistematico» . La «profonda preoccupazione degli Stati Uniti» espressa da Hillary s’inserisce in un contesto più vasto che vede «numerosi governi in Medio Oriente e Nordafrica ricorrere alla violenza carnale» come «mezzo per intimidire e punire gli oppositori che si battono per le riforme democratiche» . Il capo della diplomazia Usa cita «lo stupro, l’intimidazione fisica, le molestie sessuali, e persino i cosiddetti test della verginità» , alludendo alla pratica attuata ancora di recente in Egitto, malgrado il cambio di regime, nei confronti delle manifestanti. Il j’accuse di Hillary fa seguito alla denuncia dell’ambasciatrice Usa all’Onu Susan Rice, che lo scorso aprile, durante una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza dedicata alla Libia accusò Gheddafi di distribuire il Viagra alle sue truppe per facilitare gli stupri. Contro il «colpevole silenzio» delle Nazioni Unite verso ciò che lo stesso segretario generale Ban Ki-moon ha definito «una delle nostre priorità» si è levata anche l’autorevole voce della svedese Margot Wallström, rappresentante speciale di Ban Ki-moon in materia di violenza sessuale in guerra. In un comunicato di fuoco diffuso ad aprile, la Wallström ha accusato i membri del Consiglio di Sicurezza di aver «messo brutalmente a tacere» il dossier stupri, rifiutandosi di menzionarlo nel testo delle due ultime risoluzioni Onu sulla Libia. A due mesi di distanza, l’atteggiamento del Palazzo di Vetro non è cambiato. Sherif Bassiouni, il capo della commissione d’inchiesta che ha preparato il rapporto Onu sulla Libia, ha espresso dubbi sull’esistenza di una politica di stupri di massa da parte del regime libico, parlando di «gigantesca isteria» di una società che «si sente vulnerabile» .
Libia, la Nato ammette vittime civili "Un missile fuori bersaglio a Tripoli"
La Repubblica, 20/06/2011, Vincenzo Nigro
Per la prima volta dall´inizio degli attacchi sulla Libia, l´Alleanza atlantica ammette di aver commesso un errore durante uno dei suoi bombardamenti su Tripoli, e di avere fatto vittime civili. Già ieri pomeriggio i portavoce spiegavano che «la Nato è pronta a scusarsi se sarà verificato che i suoi attacchi hanno causato la perdita di vite umane innocenti». Ma alle 21,47 una e-mail partita dal comando alleato di Napoli ha spiegato che a causa del malfunzionamento di una bomba, nella notte fra venerdì e sabato era stata colpita una palazzina civile. È stato il capo delle operazioni in persona, il generale canadese Charles Bouchard, ad ammettere l´errore, confermando le scuse dell´organizzazione e soprattutto il fatto che i controlli continueranno ad essere eseguiti col massimo scrupolo. La bomba incriminata era stata lanciata venerdì notte in un quartiere orientale di Tripoli, Al Arada, una zona dietro Suk Al Jouma in cui l´esercito gheddafiano nascondeva alcuni lanciarazzi. Ma nella palazzina di due piani colpita per errore non c´erano militari, soltanto 4 o 5 famiglie. Il regime ha mostrato nove corpi estratti dalle macerie, fra cui alcuni bambini.
Se questa è la notizia "militare" del giorno, dall´Observer invece arrivano informazioni molto precise su Muhammar Gheddafi, sul suo ruolo nell´ordinare la repressione dei ribelli e dei civili e sulle nuove prove che potrebbero incastrare il leader libico. Il settimanale britannico ha visto documenti che sono nelle mani dei ribelli di Bengasi: ci sono lettere di Gheddafi che ordina ai generali di circondare e sigillare la città, di non lasciar entrare viveri e carburante, di lasciar morire di fame di cittadini. «Che il mare blu di Misurata diventi rosso con il sangue dei suoi abitanti», scrive il colonnello in una lettera del 4 marzo, due settimane dopo che la città era caduta nelle mani degli insorti. Il colonnello dà ordini al generale Yussef Ahmed Basheer Abu Hajar, chiedendogli di tagliare tutti i rifornimenti, di torturare i prigionieri e bombardare obiettivi civili. Un´altra lettera ordina di dare la caccia a due ribelli feriti fuggiti a Zlitan, in una chiara violazione della Convenzione di Ginevra che vieta le azioni militari contro i combattenti feriti. Secondo i giornalisti dell´Observer, gli avvocati dei ribelli hanno altri documenti che non hanno voluto mostrare: si tratterebbe di ordini di Gheddafi in cui chiede di distruggere le città passate con gli insorti senza curarsi in nessun modo della vita dei civili.
Detto questo, Gheddafi continua a resistere egregiamente nella parte di Libia che è ancora sotto il suo controllo: ieri Abdurrahman Shalgam, ex ambasciatore Onu e a Roma, uomo di primo piano nel tentativo di accreditare i ribelli nel mondo e molto informato su quanto accade nel circolo ristretto attorno a Gheddafi, si è presentato a San Marino in coincidenza con la visita del papa per convincere la repubblica a riconoscere il Cnt di Bengasi. Shalgam, che era accompagnato dall´ambasciatore a Roma Hafed Gaddur, ha detto a un giornale arabo di essere convinto che «Gheddafi fuggirà dal paese, è inseguito da un mandato di cattura internazionale e sta perdendo terreno nel paese». Shalgam racconta che «gli insorti di Misurata avanzano verso Zlitan, le cose subiranno un´accelerazione nella prossima settimana, anche a causa di fratture interne alle forze di sicurezza di Tripoli e alle dimissioni di altre personalità del governo». Ma il colonnello ormai è stato dato per spacciato troppe volte per poter credere anche a quest´ultima previsione di sconfitta.
Detto questo, Gheddafi continua a resistere egregiamente nella parte di Libia che è ancora sotto il suo controllo: ieri Abdurrahman Shalgam, ex ambasciatore Onu e a Roma, uomo di primo piano nel tentativo di accreditare i ribelli nel mondo e molto informato su quanto accade nel circolo ristretto attorno a Gheddafi, si è presentato a San Marino in coincidenza con la visita del papa per convincere la repubblica a riconoscere il Cnt di Bengasi. Shalgam, che era accompagnato dall´ambasciatore a Roma Hafed Gaddur, ha detto a un giornale arabo di essere convinto che «Gheddafi fuggirà dal paese, è inseguito da un mandato di cattura internazionale e sta perdendo terreno nel paese». Shalgam racconta che «gli insorti di Misurata avanzano verso Zlitan, le cose subiranno un´accelerazione nella prossima settimana, anche a causa di fratture interne alle forze di sicurezza di Tripoli e alle dimissioni di altre personalità del governo». Ma il colonnello ormai è stato dato per spacciato troppe volte per poter credere anche a quest´ultima previsione di sconfitta.
Naturalmente quanto andiamo dicendo non cambia il nostro giudizio su Gheddafi, che resta un tiranno sanguinario e attaccato al potere. Circostanza che non esclude la possibilità che egli e il suo clan godano di un vasto appoggio fra i libici e che le finalità della NATO e degli interventisti poco hanno a che fare con la salute del popolo libico.
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