domenica 12 giugno 2011

LA TRAGEDIA SIRIANA

Quella che ormai da mesi si vive in Siria è una tragedia a puntate quasi giornaliere. Si sa come è cominciata, non si sa con certezza quando e come finirà se ne può solo prevederne l'epilogo inevitabile, e cioè la fine certa del regime di Bashar El-Assas, ormai condannato dalle feroci logiche probabilmente imposte dal suo clan Alawita che all'inizio pensava di poter ridimensionare con qualche riforma. La comunità internazionale a cominciare dall'Unione Europea, si rivela un'altra volta impotente. Gli Stati Uniti hanno paura di muoversi convinti come sono che dietro alla Siria c'è l'Iran. Israele, come è suo costume, probabilmente spera di poter prima o poi approfittare della situazione.
Avvertimenti, embarghi, montagne di parole: ma Assad si permette persino di rispondere alle telefonate del segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Mohonne. L'unico ad aver risposto duramente a Damasco è un paese che fino a ieri era amico della Siria, e cioè la Turchia di Erdogan, che domani avrà le sue elezioni. Dopo aver inutilmente spinto Assad a fare subito le riforme, Erdogan ha aperto le frontiere alle migliaia di profughi in fuga dalla Siria. Davanti alle immagini delle violenze compiute dai soldati di Assad, ha parlato di situazione "inumana" e di "intollerabili atrocità". Mentre l'Unione Europea si trastulla nei distinguo, il presidente della repubblica turca Abdullah Gul è pronta ai peggiori scenari, anche a quello militare, per mettere fine alla tragedia. Si tratta di parole durissime e importanti, perfettamente comprensibili per affrontare la crisi di un paese confinante che ormai è entrato in una guerra civile tanto simile a una mattanza contro inermi.
Le preghiere del venerdì sono diventate scontati appelli alla carneficina al termine delle quali i manifestanti disarmati delle città vengono colpiti dal fuoco dalle squadracce del regime che sparano ad altezza d'uomo.
Quel che è più volte accaduto a Damasco, ad Aleppo, a Homs, a Hana, ampiamente documentato da internet nonostante la cappa della censura imposta dal regime, dimostra che si è vicini a una sempre più sanguinosa e dolorosa resa dei conti. C'è ormai una dura consapevolezza: il crollo del regime siriano, quando avverrà sarà più fragorosa e pericoloso di quello di Gheddafi. La Siria è infatti il crocevia di tutte le contraddizioni del medio oriente; e alla tremebonda Europa non resta che sperare che la nobile nazione turca riacquisti piena consapevolezza del suo grande passato.

Pubblichiamo di seguito i principali articoli pubblicati negli ultimi tempi sulla stampa italiana.

I - Damasco: "Uccisi 82 poliziotti, reagiremo!"
07/06/2011, La Repubblica, ALIX VAN BUREN


Un massacro, stavolta di nuovo stampo, insanguina ancora il "risveglio arabo" in Siria: ieri la tv di Stato trasmette la notizia dell´uccisione di 82 uomini delle forze di sicurezza nella provincia di Idlib, nel Nord Ovest, vicino al confine con la Turchia. Lì, fra le pietraie dove s´annidano le città morte d´epoca bizantina, da sabato infuriano scontri fra quelle che il governo definisce «bande di uomini armati» e reparti anti-sommossa rafforzati da unità dell´esercito.
Stando alla ricostruzione ufficiale, 28 poliziotti sarebbero caduti in un´imboscata alle porte della cittadina di Jisr al-Shughour. Otto, di guardia nell´ufficio postale, sarebbero stati colpiti da bombe artigianali; 37 erano invece all´interno di una stazione della sicurezza. Altri ancora sarebbero stati uccisi negli scontri a fuoco con gruppi appostati sui tetti e che avrebbero sparato su civili e servizi di sicurezza. Dal canto loro, i militanti parlano di almeno 28 morti fra i dimostranti. Se tutto questo fosse confermato, il numero delle vittime fra le forze dello Stato salirebbe a 120 in due giorni, e a circa 300 dall´inizio delle proteste in marzo (contro almeno 1000 fra i dimostranti, stando agli attivisti). Due oppositori da Nicosia attribuiscono il massacro all´opera di agenti intervenuti a schiacciare un ammutinamento.
«È un dato che fa riflettere», sostiene un acuto osservatore della Siria come Joshua Landis, docente di storia araba alla Oklahoma University e autore di un blog rispettato come Syria Comment. «Rivela quanto i moti siriani siano diversi da quanto s´è visto in Egitto o in Tunisia. Ogni parte dipinge l´altra con tratti demoniaci: il governo definisce salafiti, fondamentalisti, i dimostranti, finanziati da una congerie di elementi esterni - sauditi, libanesi, neocon americani - mentre la gente in piazza stigmatizza come shahiba, banditi, le forze della sicurezza, affibbiando loro i connotati confessionali degli alawiti. È solo questione di tempo prima che la violenza esploda in tutto il Paese».
Lo scenario delineato da Landis riporta alle insurrezioni armate degli Anni ‘80, agli scontri "fino all´ultimo sangue" fra il regime allora guidato da Hafez al-Assad e i Fratelli musulmani. «Alla riunione indetta la settimana scorsa in Turchia da una certa opposizione in esilio», dice Landis, «si sono sentite le voci di chi è disposto a sacrificare anche tre milioni di vite per scalzare il regime. In più, se alcune province dovessero cadere nelle mani dei ribelli come suggeriscono gli scontri a Jisr al-Shughour, il quadro cambierebbe in modo drammatico: verrebbero a crearsi delle Bengasi sul modello della Libia. Certo, i ribelli non avrebbero difficoltà nel ricevere armi e finanziamenti dall´esterno».
A Damasco, in serata, il ministro dell´Interno al-Shaar sfida "i gruppi armati": «Lo Stato non resterà a braccia conserte», dice. Il circolo mortale sembra farsi ogni giorno più serrato: alla brutale repressione del regime segue una risposta organizzata. Se ha ragione Landis, l´escalation non si farà aspettare.



II - Siria, il giallo della blogger scomparsa
09/06/2011, La Repubblica, Valeria Fraschetti


Chi è davvero Amina Arraf? Esiste fuori della realtà virtuale? E, se sì, dove si trova la ragazza, con madre americana e padre siriano, lesbica e musulmana, blogger e dissidente che sarebbe stata sequestrata da «tre uomini in borghese» sospettati di essere agenti del regime siriano? A un giorno dalla denunciata scomparsa sul suo stesso blog da parte della «cugina», la vicenda attorno alla sedicente autrice di "Gay Girl in Damascus" diventa un intricato mistero. Un giallo zeppo di interrogativi, che sullo sfondo ha quantomeno la certezza di una poderosa mobilitazione internazionale per ottenere la sua liberazione.
Da quando la rivolta contro la dittatura di Damasco è scoppiata a marzo, il blog della "Gay Girl", che aveva scritto di essere nata in Virginia 35 anni fa, era stato citato da vari media internazionali per i suoi resoconti vividi e sensibili sulla repressione. Tanto che Amina era stata intervistata anche da Cnn e Guardian: ma apparentemente sempre tramite email. E questo è un primo dettaglio che forse avrebbe dovuto sollevare qualche dubbio sulla sua identità, benché sia noto che le comunicazioni dalla Siria non sono facili. E le cautele mai troppe in un Paese dove in tre mesi, secondo gli attivisti, sono state arrestate 10mila persone. Ad ogni modo, a mettere in luce le incognite della vicenda sono stati soprattutto il giornalista della Npr, Andy Carvin, smanettone tra i più esperti dell´attivismo online, e il blog del New York Times "The Lede". Innanzitutto, segnala Carvin, nessuna delle notizie sull´arresto è stata scritta da persone che l´hanno incontrata o intervistata. Nessuno nella clandestina comunità omosessuale di Damasco ha mai incontrato una persona di nome Amina. Contattare la famiglia finora è stato impossibile. E l´unica persona che dice di avere avuto un rapporto assiduo con lei - ben 500 email da gennaio - tanto che si dichiara sua «partner» ed è certa della sua esistenza, non l´ha mai vista in volto. Intervistata ieri da New York Times e Bbc la donna, canadese, di nome Sandra Bagaria, ha dichiarato di non aver visto mai la "girlfriend" neanche attraverso le loro chat su Skype. Piattaforma che, secondo Carvin, in Siria non ha la funzione di videochiamata.
Ad infittire il giallo, infine, le fotografie. Quelle di una bella ragazza apparse martedì sui media non sarebbero di Amina: ma di Jelena Lecic. Una ragazza che vive a Londra e che, dopo aver visto il proprio volto sulle pagine del Guardian, ha denunciato l´errore con un comunicato annunciando che qualcuno avrebbe preso le sue foto da Facebook.
Dunque chi è Amina? Anche il Dipartimento di Stato sta cercando di scoprire se si tratti di una sua cittadina. Di certo, che si chiami Amina Arraf o che questo sia un "nom de plume", crescono le persone che credono che dietro quell´identità ci sia una persona da salvare, non un bluff totale. Online la pagina Facebook "FreeAmina" ha raggiunto i 13mila fan, è stata lanciata una petizione per la sua liberazione. E per lo stesso fine i radicali italiani, con l´Arcigay e l´Agedo, si ritroveranno venerdì all´ambasciata siriana di Roma. Una dimostrazione di solidarietà che è bene sperare che non venga spenta dai tanti interrogativi che restano. Perché, come scrive Carvin, che Amina sia uno pseudonimo o meno «sembrano discussioni accademiche se paragonate a quel che le sta forse accadendo».



III - Siria, assalto alla città ribelle: decine di morti
11/06/2011, Corriere della Sera, Davide Frattini



I soldati che avanzano sulla città danno fuoco al bestiame e ai raccolti. Gli abitanti di Jisr al-Shughur vanno puniti per quello che hanno fatto e per quello che hanno visto. Qui il regime siriano avrebbe subito le prime defezioni nell’esercito, ufficiali che si sono rifiutati di sparare sui vicini di casa. Gli ammutinati hanno combattuto contro le truppe fedeli alla famiglia Assad. Che non può permettersi spaccature nelle forze armate e non può permettere che la notizia venga diffusa nel Paese. Le strade sono deserte, racconta chi ha trovato rifugio in Turchia ed è riuscito a parlare con i parenti rimasti indietro. Internet, l’acqua e l’elettricità sarebbero stati tagliati, i telefonini funzionano solo a momenti. Nella città di 41 mila abitanti, gli uomini più giovani difendono le case affiancati dai rivoltosi tra i soldati. «Non fuggono, vogliono restare e sono pronti a morire. È la mentalità militare» , racconta al New York Times uno degli attivisti che sta coordinando le proteste. La gente non avrebbe nulla per difendersi, anche se la televisione di Stato parla «di terroristi armati» . Per rallentare la marcia delle colonne blindate, che avrebbero bombardato i villaggi nei dintorni con l’artiglieria, i dimostranti bruciano i copertoni delle auto. Gli oppositori hanno diffuso il video del colonnello Hussein Armoush, che annuncia di essere passato dalla parte «del popolo che chiede libertà e democrazia» : «Il giorno del giuramento ci siamo impegnati a usare le nostre armi contro il nemico, non contro i cittadini indifesi. Il nostro dovere è di proteggerli, non di ucciderli» . Maher, fratello minore del presidente Bashar, controlla i soldati d’élite della Guardia Repubblicana e della Quarta Divisione corazzata. Sono state spostate dalla capitale per calpestare la rivolta nel nord. I vertici dell’esercito sono dominati dalla minoranza alauita, la stessa degli Assad: il regime teme la sollevazione dei militari sunniti. La frontiera turca a una quarantina di chilometri da Jisr al-Shughur è rimasta aperta per accogliere i rifugiati, in quasi quattromila hanno già passato il confine. I profughi stanno diventando una delle principali fonti per raccontare quello che sta accadendo dentro la Siria. Il Paese si è chiuso al mondo. Bashar Assad non risponde alle telefonate di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite. «Ci stiamo provando da giorni, gli assistenti rispondono che non è disponibile, non ha tempo» , rivela un portavoce dell’Onu. Il giorno numero 88 di rivolta popolare è stato battezzato il «venerdì delle tribù» . Dopo le preghiere di mezzogiorno in moschea, i cortei si sono formati nei villaggi attorno a Deraa, la città nel sud del Paese dov’è iniziata la ribellione, a Homs, Latakia e anche a Damasco, dove ci sarebbe stato uno dei ventotto morti di ieri, secondo le stime degli attivisti (le vittime sono oltre 1.100 dal 18 marzo).

IV - Fuga dalla Siria: "Qui è guerra civile"
12/06/2011, La Repubblica, Fabio Scuto

GERUSALEMME - La guerra civile siriana è entrata nel suo terzo mese, in una spirale di violenze e feroce repressione del regime che ha già fatto ufficialmente oltre 1.500 morti, migliaia di feriti, decine di migliaia gli arrestati, distrutte dalla rappresaglia dell´esercito diverse città. Incurante delle sanzioni e dell´isolamento internazionale, il presidente Bashar Assad va avanti con la soluzione militare della crisi portando la Siria verso una grave crisi umanitaria. Nel nord decine di migliaia di profughi in fuga dalle distruzioni e le violenze sono da giorni a ridosso del confine con la Turchia, cinquemila in meno di 24 ore sono passati dal lato turco dove è stato allestito in gran fretta un primo campo d´accoglienza e la Croce rossa turca ne sta allestendo altri due nella provincia di Hatay. I profughi ospitati nelle tende e ricoverati negli ospedali turchi raccontano di una Siria abbandonata a sé stessa con i rastrellamenti dei fedelissimi del regime, di città distrutte, di campi coltivati bruciati, di fabbriche ridotte in cenere, con i militari e le forze speciali che si abbandonano a una rabbia cieca e crudele contro i civili. Ci sono diversi disertori fra i profughi arrivati Yayladgi, soldati siriani che hanno rifiutato di sparare sulla folla che manifestava contro Assad e hanno gettato la divisa, raccontano di altri meno fortunati giustiziati sul posto dagli ufficiali.
A Jisr al-Shughour, il centro del nord dove si sta concentrando la morsa del regime, è una "città fantasma" dopo la fuga dei cinquantamila abitanti verso la vicina Turchia. Venerdì per tentare di fermare la massa che affollava le strade chiedendo la fine del regime, l´esercito è stato costretto a usare gli elicotteri da combattimento. Ci sono state lunghe sparatorie ieri, quando l´esercito dopo un intenso bombardamento d´artiglieria ha raggiunto barricate innalzate e date alle fiamme dagli attivisti anti-regime per tentare di sbarrare la strada ai militari. Il regime tenta di definire dagli schermi della tv di Stato quest´assedio come operazioni contro «bande armate», che si estendono anche a villaggi vicini, dove secondo Damasco si annidano circa 2.000 uomini armati.
La tensione sta salendo rapidamente con la Turchia, Ankara vuole evitare un´emergenza umanitaria come quella dei profughi curdi nel 1991 ed è pronta «a uno scenario militare», come ha annunciato il presidente Abdullah Gul, per scongiurarla. Secondo ambienti dell´intelligence, la Turchia si appresta a inviare proprie truppe nel nord della Siria, il premier Erdogan venerdì notte avrebbe dato il via libera a un intervento militare. Triplice la missione delle forze turche: arginare il flusso di migliaia di profughi che si stanno riversando verso il confine turco, delimitare una zona militare nella parte siriana della frontiera dove la Croce Rossa possa allestire alcuni campi per i rifugiati, istituire una zona cuscinetto nelle zone curde del nord della Siria.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha definito «inaccettabile» l´uso della forza militare da parte del regime siriano contro i civili e si è detto «profondamente preoccupato» dalle violenze che proseguono nel Paese. A dispetto delle pressioni degli Stati Uniti non marcia speditamente la risoluzione di condanna al Consiglio di sicurezza dell´Onu per la repressione in Siria. La bozza - promossa da Francia e Gran Bretagna - attualmente dispone solo di 9 si, alla freddezza di Cina e Russia si aggiunge quella di Libano, India, Brasile e Sudafrica.


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