sabato 18 giugno 2011

SEMPRE PIU' GRAVE LA TRAGEDIA SIRIANA


Assad, l' Élite sciita e la Rivolta se l' Esercito «si Scopre» Sunnita

Logica settaria La notizia di qualche defezione fra i soldati si salda con le prime avvisaglie di uno scontro a coloritura confessionale

Corriere della Sera, 16/06/2011, Roberto Tottoli
Da oltre tre mesi la crisi siriana riserva un immutabile scenario. Ogni settimana, un venerdì di rabbia, a Damasco e nel resto del Paese, è seguito dalla feroce repressione di un esercito nella sostanza fedele al regime. Poco o nulla pare preludere a una soluzione, in un quadro politico che pare sostanzialmente bloccato e in cui il fattore religioso, come nelle altre rivolte arabe, non ha giocato finora alcun ruolo. Ma qualcosa pare cambiare ed è qualcosa che alla lunga potrebbe rivelarsi l' unica chiave in grado di intaccare la forza del regime. Si tratta delle prime e timide avvisaglie di una logica settaria e di uno scontro che potrebbe prendere una coloritura confessionale. Hanno cominciato dapprima alcuni manifestanti ad accompagnare manifestazioni e scontri con un «Allahu akbar» buono per ogni occasione, ma che in Siria e in questi momenti assume i colori di uno slogan polemico e insidioso per la minoranza sciita alauita degli Assad. Nella Siria multiconfessionale e repressa da decenni di dittatura, slogan che richiamassero le diversità e le militanze religiose, quando ci sono stati, sono stati sempre cancellati nel sangue. Ora ritornano per la prima volta, e non certo per forme di radicalismo. È stata poi la volta di testimonianze, anche se non verificate, di crudeltà dell' esercito riservate nel nord alauita della Siria solo ai pochi villaggi sunniti. E quindi, da ultimo ma ben più significativo, è giunto l' appoggio esplicito e ufficiale del leader di Hezbollah Nasrallah che ha ribadito a fine maggio, nel pieno della repressione, il suo sostegno incondizionato a Bashar Al Assad. Il risultato è stata la comparsa di ritratti di Nasrallah bruciati, e di un abbozzato sentimento antisciita che può alla lunga attecchire e cominciare a colorare una rivolta finora priva di slogan religiosi. L' insidia dell' ingresso di dinamiche religiose nella crisi siriana appare oggi l' unico fattore in grado di spezzare definitivamente la saldezza del rapporto tra Al Assad, élite sciita alauita ed esercito. E la notizia di qualche defezione nell' esercito, benché difficilmente riscontrabile, se dovesse orientarsi su slogan anti-sciiti, potrebbe riservare ulteriori sorprese, sia negli assetti interni, con timori diffusi che toccherebbero anche le altre minoranze religiose come cristiani e drusi, sia soprattutto nel futuro sviluppo della regione. Gli ultimi movimenti della regione sembrano sottendere infatti che una logica di questo tipo comincia timidamente ad affacciarsi. Da un lato non solo Hezbollah ma anche l' Iran non fanno mancare il loro appoggio perché la Siria degli Assad permette quel corridoio di contatto non solo ideale, che tanto preoccupa Israele e che costituisce il luogo di maggior presenza e influenza degli sciiti del mondo musulmano. Anche se questo non può avvenire senza costi. Quelle forze sciite persiane, irachene e libanesi fautrici di movimenti di massa e popolari difficilmente possono giustificare le crudeltà di un regime sotto gli occhi di tutti. E il tatticismo politico può divenire una pregiudiziale antisunnita che costerà cara. Dall' altro lato, le potenze sunnite della regione mostrano crescenti insofferenze e un netto distacco dalle prime solidarietà. La Turchia ha abbandonato le prudenze iniziali e ha pronunciato, per bocca delle sue più alte cariche, condanne nettissime della repressione, ha aperto i confini ai profughi e comincia a valutare scenari diversi. I sogni egemonici turchi non possono certo tollerare il massacro di siriani soprattutto sunniti. Oltre a ciò, sulle solidarietà iniziali di nemici storici come i sauditi e i Paesi del Golfo è calato un silenzio quanto mai imbarazzato, interrotto solo dalla voce critica e feroce di Al Jazeera dal Qatar. Nessuno accenna a motivi o pregiudiziali confessionali, non ancora. Ma le sue prime avvisaglie possono cambiare gli scenari della crisi siriana e in prospettiva rideterminare le strategie e le alleanze della regione. E soprattutto sottolineano come la questione sciita e i rapporti interconfessionali in seno alla comunità islamica saranno un fattore determinante per gli equilibri del Vicino Oriente, e non solo al confine tra Siria e Turchia.

In fuga da Assad      La Repubblica, 17/06/2011, Alberto Stabile


E' vero, non sempre, le loro sono ricostruzioni di cose viste con i propri occhi, spesso si tratta di storie apprese da altri. Ma le testimonianze su certi episodi sono così ripetute e consistenti da lasciare poco spazio al dubbio.Poteva sembrare che su Jisr al Shugur, la città-martire di 50 mila abitanti, che domenica scorsa è stata piegata dai carri armati della famigerata IV Divisione guidata da Maher el Assad, il fratello del presidente, dai servizi di sicurezza e dagli Shabiha, i miliziani fedeli al regime, non ci fosse più nulla da aggiungere. Iportavoce di Damasco hanno esaltato il "ritorno alla normalità" della città e hanno chiesto ai fuggitivi di tornare nelle loro case.
Imad, che come gli altri rifugiati accetta soltanto di indicare il suo nome per paura di esporre a ritorsioni i parenti rimasti di là, invece, ribatte: «Sono dei bugiardi, guidati da un grande bugiardo.
Non è vero che la situazione a Jisr al Shugur adesso è tranquilla. La città è semivuota. Le strade, la sera, sono deserte. Continuano ad arrestare la gente e a sparare.
Quattro giorni fa, hanno fermato 12 persone, componenti della famiglia degli Yusef. Erano appena tornati a casa dopo essersi allontanati durante gli incidenti dello scorso fine-settimana. Sono stati tutti portati allo zuccherificio. Gli uomini sono spariti oltre il cancello, quattro donne, due sui 3540 anni e due poco più che adolescenti, sono state umiliate in pubblico». In che modo, umiliate? «Hanno tolto loro i vestiti e le hanno lasciate nude per strada. Me l'ha detto un mio amico che è rimasto e si nasconde in montagna, ma in città ne parlano tutti». Poi prende il telefonino è fa partire la registrazione di un uomo che invoca Allah u akhbar, "Dio è grande". «E' lui - dice Imad - il mio amico. Mi ha chiamato dopo che è stato ferito al fianco e a una coscia, e sta pregando».
Chiediamo, ma cos'è questa storia dello zuccherificio? «È una vecchia fabbrica di zucchero che occupa un'area di un chilometro quadrato e che è stata trasformata in centro di comando dell'esercito e del mukabarat. Dentro ci sono anche alloggi per gli ufficiali. La gente arrestata per strada viene portata lì e nessuno sa che fine faccia».
La faccia deturpata da un incidente o da una malattia infantile, la barba delineata a punta di forbice, Imad ha 31 anni e non è sposato. Nega di aver mai usato armi contro il regime, ma ammette, implicitamente di avere partecipato alla protesta. «Lavoravo ad Aleppo, in un grande supermercato. Quando sono cominciate le manifestazioni ho perso il lavoro.
Allora sono tornato dai miei, in un villaggio vicino a Jisr al Shugur. Ma anche lì ci sono state manifestazioni. L'esercito ha sparato. Ci sono stati molti morti. Poi, domenica sono arrivati i carri armati». Un momento, il regime accusa i manifestanti di aver ucciso, a Jisr al Shugur, 120 tra poliziotti e agenti dei servizi. «Non è vero - interviene Alì, 28 anni, sposato, con un bambino, contadino, proprietario di un uliveto - L'ordine che hanno dato gli ufficiali, era di sparare sulla folla e molti soldati si sono rifiutati. E allora li hanno uccisi. Io ne ho visti cadere una decina».
Ma uccisi da chi? «Funziona così. Gli ufficiali schierano una prima fila di soldati, venti, trenta, che hanno l'ordine di sparare sui manifestanti. Dietro ci sono gli uomini dei servizi. Chi si rifiuta di sparare viene immediatamente colpito. I soldati lo sanno. Gli ordini sono espliciti: chi non spara sarà ucciso. ciononostante molti sono riusciti a scappare».
Questa storia, ripetuta anche da altri rifugiati, contrasta in maniera stridente con la versione ufficiale che accusa i manifestanti (ovvero "bande di terroristi armati") di aver ucciso i 120 militari. E questo è stato il pretesto offerto all'esercito d'intervenire in forze. Ma davanti allo sguardo febbricitante di Osama, un ragazzino di 14 anni che ha la metà destra del cranio coperta da una benda ed escoriazioni profonde lungo tutto il collo, c'è da chiedersi quale pericolo deve aver rappresentato per ridurlo in quel modo. Come molti dei rifugiati arrivati mercoledì a Guvecci, Osama viene dal paesino di Aram Joz (letteralmente, Il campo dei noccioli) quasi attaccato a Jisr al Shugur. Osama non vuole parlare, preferisce restarsene diffidente all'ombra di grande gelso con alcuni amici. Per lui, però, parla Ahmed, un adulto che lo conosce bene. «Quella di Osama - dice - è una famiglia tranquilla: padre madre e tre figli. Lui faceva la settimana classe. Quando è arrivato l'esercito, domenica scorsa, erano tutti in casa. Nessuno era fuggito nei giorni precedenti. Improvvisamente i soldati hanno cominciato a demolire la casa con un bulldozer. Lui s'è lanciato contro di loro. Un militare lo ha bloccato, mentre un altro lo colpiva sulla testa con un bastone...». Solo dopo la famiglia è scappata. Osama è stato portato all'ospedale di Antiochia, medicato e curato. Gli altri parenti aspettano che si apra la frontiera per raggiungerlo. «Adesso sono laggiù», ed indica con il dito indice una macchia d'azzurro nel verde delle colline, oltre una strada militare che costeggia la frontiera: l'accampamento provvisorio dei siriani in attesa della salvezza.
Più di ottomila, ormai, ce l'hanno fatta, la metà è stata sistemata nell'edificio di un'ex manifattura tabacchi a Yayladagi, una ventina di chilometri a nord di Guvecci, un paesino lindo, sereno, con la piazzetta piena di anziani che sorseggiano una straordinaria tisana che si trova soltanto fra queste montagne e il cortile del municipio pieno di volontari.
Ma per l'altra metà dei rifugiati non c'è più posto nelle tende bianche con il simbolo della mezzaluna rossa allineate poco lontano dalla manifattura. Per questo, ha scritto ieri il Post, vicino al premier Erdogan, se la situazione in Siria dovesse peggiorare, e la massa dei rifugiati crescere a dismisura sarebbe obbligatorio un intervento militare per creare una zona-cuscinetto in territorio siriano dove fermare e assistere i profughi. Per ora, dalla cancellata della manifattura avvolta da teli di plastica che impediscono agli obbiettivi dei media di penetrare all'interno, trapelano storie di salvezza. Come quella di Soleiman, commerciante di 38 anni, fisico atletico, barba appena incolta e della moglie Suha che hanno percorso a piedi, con i loro cinque figli, dai tre ai 12 anni, sei dei venticinque chilometri che separano Jisr al Shugur dalla frontiera turca. Tornerete a casa come vorrebbero le autorità di Damasco, chiediamo? «Sì - risponde Soleiman, ironico - solo quando Assad deciderà di indire libere elezioni,ea condizione che a Jisr al Shugur prenda anche un solo voto. Ma non lo prenderà».


Siria, un´altra strage nel venerdì dell´ira     La Repubblica, 18/06/2011, Alberto Stabile

ALTINOZU (Frontiera turco-siriana) - Il "venerdì di preghiera", che la repressione della rivolta in Siria ha trasformato in "venerdì di sangue", ha imposto, anche ieri, un alto tributo di vite umane: 14 i morti nel corso di manifestazioni in tutto il paese. Evidentemente, l´annunciata uscita di scena di Rami Makhluf, l´oligarca più odiato del paese, considerato un simbolo della corruzione, cugino del presidente Assad, non è stata vista dalla gente come l´inizio di una nuova era. E la protesta è ripresa più virulenta che mai, coinvolgendo anche la città di Aleppo, dove vive una cospicua minoranza cristiana generalmente fedele ai governanti di Damasco, e dove, per la prima volta, un manifestante è stato ucciso.
Un ulteriore segnale d´allarme sui rischi che l´onda d´urto del terremoto siriano possa propagarsi altrove con esiti devastanti, è venuto dal Libano, il paese confinante più esposto, storicamente e politicamente, all´influenza di Damasco. Nel primo pomeriggio di ieri, a Tripoli, la cosiddetta capitale libanese del Nord, ci sono stati scontri tra appartenenti alla setta degli alawiti, sostenitori del regime siriano, e gruppi di sunniti tendono in gran parte ad appoggiare la rivolta popolare. Tre i morti rimasti sul terreno tra cui un militare non in servizio coinvolto nel tiro incrociato.
Fra i possibili sbocchi della rivolta siriana, il peggiore è senza dubbio quello definito dagli esperti come "effetto domino", dovuto all´esportazione delle tensioni tra le varie componenti etniche e religiose nei paesi vicini dove quelle componenti, come è il caso del Libano e dell´Iraq, per citare due esempi, sono presenti.
Ma c´è anche la Turchia, essa stessa un caleidoscopio di fedi, etnie ed appartenenze, ad osservare con preoccupazione gli eventi siriani. Se mai dovesse verificarsi, l "effetto domino" sarebbe qui moltiplicato per quattro. Un venerdì di sangue come quello di ieri accresce la paura, tra i governanti turchi, che la pressione dei siriani che cercano rifugio in Turchia possa aumentare. Già sono oltre novemila i siriani in fuga ufficialmente accolti come profughi, ma le notizie che provengono dal nord della Siria, dove la città Maarat al Numaan (200 mila abitanti) è stata circondata dall´esercito, sono tutt´altro che rassicuranti. Tra le scelte prese in considerazione ad Ankara, oltre alla creazione di una zona cuscinetto in territorio siriano dove fermare e assistere i profughi, viene valutata anche la possibilità di tracciare un "corridoio umanitario" da Nord a Sud, lungo il confine.
Queste sono le ipotesi del futuro sulle quali Assad, sicuramente obbietterà. L´oggi, invece, è stato monopolizzato dallo show umanitario di Angelina Jolie, la star di Hollywood, ambasciatrice "di buona volontà" delle Nazioni Unite, che ha voluto visitare i 1870 profughi siriani ospitati nella vecchia manifattura tabacchi di Altinozu, un paesino della provincia di Antiochia a 15 chilometri dal confine. Mentre i rifugiati, secondo le regole imposte dalle autorità turche, devono tenersi alla larga dai giornalisti e viceversa, la visita dell´attrice ha ricevuto una copertura mediatica che non a tutti i capi di stato è concessa.

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