La nuova Tunisia teme gli islamisti in ascesa
TUNISI - Nei rapporti dei diplomatici occidentali sulla Tunisia sono definiti una «criticità». Sulla rete virtuale del Paese (Facebook) e su quella materiale (bar e mercati), corrono giudizi molto più pesanti: «maschilisti», «talebani», «ex terroristi». In mezzo la «katiba karsa», (la maggioranza silenziosa) appare un po' spiazzata e un po' incuriosita dal fenomeno politico del momento. Il partito di ispirazione islamica, Ennahda (la Rinascita), è in testa nei sondaggi a quattro mesi dalle elezioni per l' assemblea costituente (ufficiosamente fissate per il 23 ottobre) e proprio mentre si apre (domani la prima udienza) il processo al presidente-dittatore Ben Ali, rifugiatosi in Arabia Saudita e inseguito da una richiesta di estradizione che sta per essere formalizzata. Agli inizi di giugno alla formazione guidata da Rachid Ghannouchi veniva attribuito il 16,9% delle preferenze di voto, ben al di là del 9,5% accreditato allo storico partito socialdemocratico Pdp di Nejb Chebbi. Islamisti e socialdemocratici sono gli unici giganti in una folla di 93 partiti nani o mezze promesse (come i liberali, i nazionalisti e i comunisti). Le associazioni delle donne sono in allarme. Dal 1956 in poi la Tunisia ha costruito un sistema di pari opportunità tranquillamente paragonabile agli standard occidentali. I laici del Paese sono diffidenti, come spiega Raouf Kalsi, editorialista del quotidiano Le Temps: «Ennahda è una nebulosa con posizioni ambigue sullo Stato di diritto. E poi non si capisce chi li finanzia. Temo ci siano dietro l' Arabia Saudita e il suo modello di integralismo wahhabita. Con il placet degli americani». A questo punto urge verifica. La sede di Ennahda è un bel palazzotto di cinque piani nel quartiere amministrativo della capitale. Tutto nuovo. Ha aperto da due mesi, ma negli uffici non ci sono cassette di frutta al posto dei tavoli, bensì poltrone in pelle nera, computer, uscieri in completo blu fresco lana. E dopo pochi minuti di attesa arriva Nabil Labassi, un avvocato di 46 anni, membro del «gabinetto politico». Labassi spiega subito che lì sono tutti «volontari» e porge una lunga lista di ingegneri, legali, professori, ricercatori, contabili, medici e persino animatori. E' il gruppo dirigente del partito. Molti di loro hanno scontato 12-15 anni di carcere duro, altri sono rientrati dall' esilio. Labassi si aspetta la sequenza delle domande e risponde senza esitazione, come fosse un test per la «patente di democratico». Dunque: la parità uomo-donna? «Non si tocca. Anzi noi siamo l' unico partito che ha proposto di inserire l' obbligo di riservare alle donne metà dei posti nelle liste per le elezioni». Il velo? «Permesso, ma non obbligatorio». Il divorzio? «Nessun problema, resta». La poligamia? «Che cosa? Non scherziamo, non se ne parla neanche». L' aborto? «Forse si può inserire qualche limite a tutela della salute della partoriente, ma ne vogliamo discutere con tutti gli altri partiti». Il divieto di bere alcolici? «Il massimo che possiamo è vietarne la vendita ai minori». E' vero che volete cacciare gli investitori stranieri? «Al contrario, sono i benvenuti e vogliamo collaborare con loro». E così via. Sarebbero questi i talebani? I cripto-sauditi? A proposito chi finanzia Ennahda? «Da sempre girano voci su presunti finanziatori occulti, l' Arabia Saudita, gli Stati Uniti, l' Iran. Ma il nostro modello, se mai, è la Turchia di Erdogan. Le nostre risorse vengono dai militanti, ci sono almeno 50 mila tunisini che versano ogni mese il 3-5% del proprio salario, in più riceviamo donazioni dai nostri connazionali all' estero». Se davvero è così sarebbero, calcolando a spanne, almeno 6-7 milioni di euro all' anno: in Tunisia sono soldi. Eppure c' è qualcosa che non torna. C' è troppo scarto tra la versione del dirigente islamista e le opinioni correnti. Ma andando avanti si entra in una zona d' ombra. Ennahda è forse l' unica formazione che ha aperto una sede nei 24 governatorati e un ufficio in ogni distretto del Paese. Nel palazzotto di Tunisi ammettono di non sapere neanche chi siano tutti questi militanti. E si vede, si sente. Su Facebook sono attivi almeno 600-700 profili di persone che parlano a nome di Ennahda. Ma sono proprio i raduni improvvisati nelle città tunisine, i proclami lanciati sul web e alla tv dai «buoni musulmani» ad alimentare la diffidenza verso il partito islamico. C' è chi invoca l' applicazione stretta della «sharia» (frustate comprese), chi suggerisce di risolvere il problema della disoccupazione, dando agli uomini i posti occupati dalle donne, che vanno invece segregate in casa. Per ora confusione e ambiguità stanno portando quei consensi necessari per negoziare con gli altri partiti da una posizione di forza. Perché Ennahda vuole comandare. Le tappe Il suicidio Il 17 dicembre 2010 un laureato 26enne Mohamed Bouazizi si dà fuoco: gli era stato vietato di vendere verdura in strada Le proteste Il 18 dicembre scoppiano le prime proteste contro disoccupazione e aumento dei prezzi del cibo La fuga Il 14 gennaio il presidente Zine Abidine Ben Ali, si dimette e lascia il Paese dopo 23 anni al potere Il governo Il premier ad interim Mohamed Ghannouchi forma un nuovo governo: 14 dei 21 ministri sono legati al vecchio regime. Le prossime elezioni dovrebbero tenersi il 23 ottobre.
19/06/2011, Corriere della Sera, Giuseppe Sarcina
19/06/2011, Corriere della Sera, Giuseppe Sarcina
Naturalmente il timore degli islamisti in ascesa non è dei tunisini ma di quanti in occidente preferivano che al potere ci fosse un ladrone corrotto come Ben Alì piuttosto che una forza politica organizzata e strutturata e magari tendenzialmente disponibile a riprendere le antiche relazioni che in altri tempi la Tunisia pre-coloniale aveva con l'impero ottomano. Agli occidentali non deve essere molto gradito che i turchi guidati da un governo come quello di Erdogan si allarghino troppo. Meglio imporre ad essi un umiliante immotivata anticamera davanti alle porte della comunità europea.
La Corsa a Ostacoli del Re del Marocco sulla Via delle Riforme
Non ha il carisma del nonno e del padre, ma il re del Marocco è un giovane concreto e, a suo modo, coraggioso. Non ama le iniziative spettacolari e non è prigioniero della propria immagine, come uno dei tanti leader-narcisi del recente passato arabo. Mohammed VI ha presentato venerdì il suo progetto di riforme con la solennità dei grandi momenti, annunciando che il piano sarà sottoposto a referendum popolare. Come si conviene a chi crede nella democrazia, pur avendola frequentata marginalmente. Il re ha insomma deciso di mettere in pratica quanto aveva promesso all' inizio di marzo: trasformare in costituzionale una monarchia di diritto divino, con libertà per i partiti, con i poteri politici in mano al capo del governo, e con la separazione dell' esecutivo dal sistema giudiziario, garantendo i diritti delle donne e delle minoranze, a cominciare da quelle religiose. Mohammed VI, che ha già incassato l' elogio del presidente francese Sarkozy, cerca di cambiare con il prezioso conforto della ragione. La piazza giovanile dei ribelli, raccordata via Internet con i coetanei degli altri paesi, ha già avanzato dubbi sull' iniziativa del sovrano. Anche se è difficile capire se i dubbi siano o meno conseguenza di chi rifiuta sempre e comunque i passi riformisti compiuti da chi è al potere. Il re, in sostanza, non vuole imporre, ma cerca di far ragionare e soprattutto di convincere i sudditi più giovani, giustamente insofferenti e impulsivi. Ed è questa dote che gli ha consentito di evitare imbarazzanti paragoni con il padre, che era amatissimo in patria, e rispettato e temuto fuori dai confini del Paese. Ora la «primavera araba» è arrivata, impetuosa, anche in Marocco dettando tempi e regole, e va detto che il sovrano, dopo le prime manifestazioni del «Movimento 20 febbraio», ha risposto subito, come se fosse già preparato ad affrontare una sfida a tutto campo: promettendo di modificare, dalle fondamenta, l' intero sistema di potere del regno. Un regno che si voleva protetto dalla più assoluta sacralità come era normale, dicevano molti analisti, per i discendenti del profeta. Ma anche il re di Giordania Abdallah II è discendente del profeta, però a differenza del suo quasi coetaneo fratello arabo del Marocco non ha dovuto piegarsi al peso della storia e delle tradizioni. Abdallah si è dovuto confrontare, da subito, con le incredibili contraddizione del suo piccolo regno, assediato dai problemi e prigioniero dell' irrisolta questione palestinese. Mohammed VI no. Ha potuto e saputo tessere la sua tela riformista con calma, e ora spera di vederne i risultati. Che voglia riformare, nonostante la piazza sia scettica, è sicuro. Tuttavia, la volontà di considerarsi «protettore dei credenti» e garante della «libertà di tutti i culti» ha già provocato qualche risentimento, facendo affiorare problemi di identità religiosa. Con i riformisti che guardano avanti, e i fondamentalisti indietro. Ecco perché, ben oltre gli umori di una piazza giovanile fondamentalmente laica, preoccupa l' estremismo dei religiosi musulmani marocchini più ostinati.
19/06/2011, Corriere della Sera, Antonio Ferrari
19/06/2011, Corriere della Sera, Antonio Ferrari
La riforma del re non basta ai giovani marocchini
La «riforma del re» alla prova della piazza. Appuntamento al tramonto nei quartieri popolari di Casablanca, Rabat, Tangeri. Il Marocco resta un Paese diviso, anche se è difficile dire quanto sia profonda la frattura e quanta parte della società sia davvero contro con il Makhzen, l’equivalente del Palazzo, un’entità superiore e separata proprio come l’aveva immaginato Pasolini. Due giorni dopo il discorso in tv del sovrano Mohammed VI, quasi tutti i giornali traboccano di «piacevole stupore» , per i contenuti della nuova Costituzione. Ma gli oppositori del Movimento 20 febbraio, cioè il fattore scatenante per cui siamo tutti qui a chiederci che cosa ne sarà del Marocco, non arretrano. Ieri sera a Casablanca hanno sfilato almeno in 10 mila (un serpentone di 200 metri) dribblando i cocomerai e i cumuli di immondizia. Tutti insieme: adolescenti con la maglia del Barcellona e dell’Arsenal, donne velate, coppie con ragazzini, studenti universitari, giovani professionisti. Imad Jarmoumi, 30 anni, ingegnere in una società commerciale riassume con parole semplici il «no» alla nuova Carta: «Ci puoi girare intorno fin che vuoi, ma tutto il potere, quello vero, resta nelle mani del re» . Fatima Ezzaha, studentessa di 21 anni indossa un chador fucsia, è con un'amica più giovane e un uomo (probabilmente il padre) che sorride senza avvicinarsi: «Noi non abbiamo niente contro il re. Possiamo fare come in Inghilterra, ma abbiamo bisogno di tante cose» . Il corteo percorre il quartiere di El Fidaa, musulmano e, nello stesso tempo, «gauchista» , da dove partì la rivolta contro la Francia colonizzatrice. Poco lontano si vedono tre-quattro spezzoni di poche centinaia di persone che, invece, manifestano a favore della Costituzione. A Rabat (la capitale) i «lealisti» sono molto più numerosi e, riferisce l’agenzia Ap, aggressivi al punto da attaccare e poi inseguire nei vicoli i manifestanti del Movimento. E’ vero agli «ado» (gli adolescenti di Facebook) si sono mescolati gli islamisti radicali di Al Adl Wal Ihsane, che marciano mostrando la foto del «martire» Kamal Ammari, ucciso, sostengono, il 2 giugno nel corso degli scontri con la polizia a Safi. E poi nel corteo una selva di sigle della sinistra estrema cerca di trovare un po’ di spazio. Ma per capire come andrà a finire la mappa degli schieramenti politici serve poco. Negli ultimi dieci anni la partecipazione elettorale è crollata, fino a sprofondare nel 2007 al 37%. Non è un caso se tra le strade di El Fidaa il tasso di partecipazione sia solo del 17%e nessuno si sforzi di inventare uno slogan contro il partito al governo (Istiqlal, lo storico partito dell’Indipendenza 1956). Il problema cruciale è l’ «inclusione» , direbbero i politologi, cioè colmare la distanza tra il «popolo» e il Regno, sia pure riveduto e corretto. Mohammed VI lo ha capito perfettamente. Con una certa abilità, mescolando caffettano e improbabili occhiali fumé, si è rivolto non ai campioni di conformismo che siedono da decenni di Parlamento, ma direttamente al «Popolo» , anzi al «Caro Popolo» . La nuova Costituzione è un documento complesso con sorprendenti fughe in avanti: per esempio c’è l’Antitrust e viene introdotto il divieto per i parlamentari di passare da un partito all’altro (niente «Responsabili» di turno). Ma tutta l’architettura d’impostazione schiettamente liberale (specie se riferita agli standard mediorientali) poggia su un piedistallo che non ha niente a che vedere con la dottrina costituzionale e che è accettabile solo con un atto di fede: la sovranità ultima (religiosa, giuridica, politica) del re. Il Marocco non diventerà né una monarchia costituzionale all’inglese, né una Repubblica alla francese guidata da un sovrano. Perché Sua maestà lascerà la guida del consiglio dei ministri al premier, ma presiederà un nuovo organismo, il Consiglio del governo, mantenendo l’ultima parola non solo nelle questioni capitali (la guerra, la pace), ma anche nella gestione delle scelte strategiche di politica estera e, in parte, economica. E un «re cittadino» , che conserva e perpetua il primato religioso, la «Guida dei credenti» . E’ sempre difficile conciliare l’Eterno con la politica e gli affari contingenti degli uomini. Come pure è complicato fissare un limite istituzionale (all’inglese appunto) a un monarca che fino a ieri presiedeva a capotavola, seduto sulla poltrona rossa regale, il Consiglio dei ministri e governava con decreti reali inappellabili. La soluzione è un testo di 180 articoli diviso in «dieci Assi» , messo a punto da una speciale Commissione guidata da Mohamed Moatassim, giurista e vecchio professore universitario del sovrano. Non un «caminetto» di saggi, però, quanto un forum che ha coinvolto i sindacati, organizzazioni per la difesa dei diritti, per la promozione della parità tra uomo e donna e così via. La Carta sarà sottoposta a referendum il 1 ° luglio e in quell’occasione, forse, si vedrà quanto pesa la piazza.
20/06/2011, Corriere della Sera, Giuseppe Sarcina
20/06/2011, Corriere della Sera, Giuseppe Sarcina
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