martedì 14 giugno 2011

SIRIA, Stupidi cinismi all'interno di una grande tragedia

I - Il caso della falsa Amina. Così la censura dei regimi fa nascere leggende online
14/06/2011, Corriere della Sera, Massimo Gaggi

NEW YORK - «E' la dimostrazione che il "citizen journalism" va preso con le molle. La prova che il lavoro di selezione e verifica, oltre che di ricerca di materiale originale, da parte dei professionisti dell'informazione è indispensabile: le storie veicolate su Internet non possono essere prese a scatola chiusa». «Ma no, lasciate stare Internet. Prendetevela piuttosto coi giornalisti professionisti che si sono fatti prendere per il naso per mesi».
A giudicare dalle prime battute del dibattito che già infuria in rete il caso di Amina, la blogger lesbica siriana perseguitata a Damasco che era invece un barbuto attivista politico americano residente in Scozia, rischia di alzare altra polvere sulla questione, ormai annosa, della credibilità del sistema informativo nell'era delle tecnologie digitali.
LE NOTIZIE «TAROCCATE»- La diffusione di notizie «taroccate» non è iniziata certo col web: le campagne di «disinformatsja» organizzate dai servizi segreti sovietici precedono lo sviluppo di Internet. E i falsari delle news non hanno risparmiato nemmeno la televisione. L'era digitale ha, però, amplificato di molto la minaccia dando più potere ai fabbricatori di storie inventate e rendendo più difficile il lavoro di verifica. Fermo restando che il «vizietto» di inventare l'hanno avuto anche penne di testate illustri (otto anni fa i «falsi» di Jason Blair costarono a Howell Raines la direzione del New York Times) è evidente che l'informazione digitale ha reso tutto molto più complesso per almeno tre motivi: 1) la moltiplicazione delle fonti e dei canali informativi ha trasformato il sistema dell'informazione in una babele di voci che rimbombano rendendo sempre più difficile selezionare, individuare i punti deboli delle storie, verificare; 2) l'accelerazione del ciclo informativo, l'esigenza di pubblicare in tempo reale la notizia sui siti, prima ancora di proporle sul giornale del giorno dopo o nel tg serale, riduce ulteriormente i margini per un controllo approfondito; 3) il progressivo assottigliamento delle redazioni dei "mainstream media". Riducendo il numero dei giornalisti - misura adottata quasi ovunque ma soprattutto negli Usa per cercare di riportare in attivo i conti in tempi di crisi - gli editori finiscono per ridurre anche la capacità delle testate più serie e credibili di fare le loro verifiche. LE TAPPE - La scoperta che quello di Amina Arraf era un falso costruito ad arte ha sicuramente gettato nello sconforto le testate che, come l'inglese Guardian, avevano puntato con convinzione sul dramma della «gay girl» di origine americana perseguitata dal regime di Assad. Tom MacMaster, l'attivista americano che si dice un sostenitore della causa palestinese, ha cominciato a impersonare in rete il falso personaggio a febbraio, ma solo il sette maggio i giornali anglosassoni si sono accorti della storia e hanno cominciato a raccontarla. Un mese dopo, la scoperta della truffa: l'8 giugno il Guardian rimuove dal suo sito le immagini della presunta «eroina» siriano-americana perseguitata a Damasco. La persona ritratta, si scopre, è Jelena Lecic, una ragazza croata che lavora a Londra: dice di aver subito un furto d'identità. Le foto di una festa di compleanno, messe su Facebook, sono finite su un altro profilo personale. 
LA LETTERA - La storia, conclusasi domenica con una lettera nella quale MacMaster confessa di aver costruito il falso e si scusa, ha ancora molti lati oscuri. L'anziano studente americano (a 40 anni sta cercando di ottenere un master all'università di Edimburgo) dice di aver voluto esplorare i confini tra realtà e finzione. E adesso chi paga per gli enormi danni alla credibilità dei ragazzi che si ribellano ai dittatori arabi affidando la loro protesta alle reti sociali e a YouTube? E che fare per evitare il moltiplicarsi dei casi Amina? MacMaster probabilmente la farà franca. Colpa della stampa «credulona»? Certo, c'è stata troppa enfasi prima delle verifiche. Ma controllare in un Paese in cui infuria una guerra civile, governato da una dittatura feroce che non vuole testimoni fra i piedi, è assai difficile. Non fosse finita su giornali e tv, la storia della falsa perseguitata non avrebbe avuto un risalto mondiale, ma probabilmente avrebbe continuato a proliferare in rete. Alla fine sono state proprio le ricerche incalzanti del Washington Post, della radio pubblica americana (Npr) e di un sito filopalestinese (Electronic Intifada) a far emergere una realtà diversa da quella che era stata descritta.LE VERIFICHEIl nuovo mondo dell'informazione - pieno di opportunità ma anche di insidie - richiede, insomma, più maturità da parte di tutti e l'abbandono delle utopie di chi ha fin qui creduto in una rete naturalmente orientata al bene: più controlli da parte dei «media» anche a costo di fare uno scoop in meno e di perdere qualcosa in tempestività e un maggior riconoscimento del ruolo dei professionisti dell'informazione da parte degli utenti. Più facile a dirsi che a farsi: quello delle verifiche è un lavoro oscuro, difficile da far apprezzare. Ora sul sito del laboratorio giornalistico della Nieman, celebre scuola di Harvard, la studiosa Maria Popova propone di attribuire un maggior valore professionale e il riconoscimento di svolgere un lavoro creativo a chi, in un mondo sommerso da un diluvio di informazioni, è chiamato a selezionare e verificare.
II - Migliaia di siriani in fuga dai tank del regime
10/06/2011, Corriere della Sera, Davide Frattini

L'esercito siriano ha ripreso ieri il totale controllo di Jisr al-Shughur, la città ribelle nel nordovest del Paese, al confine con la Turchia. Le truppe governative sono penetrate con oltre 200 veicoli, protetti da carri armati ed elicotteri, tra violenti combattimenti e migliaia di persone in fuga verso il confine turco. Secondo gli organizzatori delle proteste, la cruenta repressione da parte del regime ha causato finora la morte di 1.300 civili. L'Italia ha chiesto a Damasco di cessare le violenze e far entrare la Croce rossa. In Libia il regime ha annunciato di rifiutare ogni negoziato che presupponga la partenza del colonnello Muammar Gheddafi.
E la situazione d'emergenza comincia a far sollevare serie proteste delle cancellerie occidentali.  Berlino e Londra sollecitano la condanna dell'Onu con una risoluzione "chiara" contro la repressione violenta imposta dal regime ai movimenti di opposizione. "La situazione pericolosa esige una risposta chiara e urgente - ha detto oggi il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, il cui paese detiene un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza. "E i nostri sforzi politici e diplomatici rimangono diretti a far passare la bozza di risoluzione redatta insieme a Portogallo, Francia e Gran Bretagna, il prima possibile". Simile sollecito è arrivato oggi da Londra dove il ministro William Hague ha chiesto all'Onu "una posizione chiara" che obblighi la Siria a rispondere "al dolore legittimo, a liberare i prigionieri e a cooperare con l'Alto commissariato per i diritti umani". Facendo un paragone con la Libia, Hague ha affermato che il caso della Siria è diverso dal momento che il Paese ha forti legami con la Russia e ci sono interconnessioni con il governo del Libano, attuale rappresentante arabo al Consiglio di sicurezza. Inoltre, ha aggiunto Hague, c'è l'appoggio dell'Iran il cui ruolo, ha aggiunto "è uno straordinario esempio di ipocrisia negli affari internazionali". Anche l'Italia, con una nota di Palazzo Chigi, ha chiesto la cessazione delle violenze e l'accesso immediato agli operatori umanitari. Ieri sera la Casa Bianca è intervenuta duramente 1 contro il regime di Assad, accusandolo di provocare deliberatamente una "crisi umanitaria" al confine con la Turchia e intimandogli di lasciare libero accesso agli operatori umanitari della Croce Rossa per aiutare la popolazione civile rimasta intrappolata dagli scontri. 


III - Siria, i carri armati occupano la città ribelle
13/06/2011, Corriere della Sera, Davide Frattini


I rifugiati che non riescono a passare il confine si ammassano tra le montagne verso la Turchia. Mehmet è tra quelli che hanno parenti dall’altra parte, è venuto a chiedere cibo da portare alla moglie e agli undici figli. Sono rimasti indietro in Siria, nascosti nei campi. «Siamo scappati dalla città, quando l’esercito ha cominciato a bombardare con l’artiglieria» , racconta all’agenzia Reuters. Come loro, sono fuggiti quasi tutti i quarantamila abitanti di Jisr al-Shugour. Per difendere le case si sono trincerati poche centinaia di uomini e i soldati che si sarebbero rifiutati di obbedire agli ordini. La Quarta Divisione comandata da Maher, fratello minore del presidente Bashar Assad, ha invaso le strade deserte dopo aver bersagliato i palazzi con le mitragliatrici dagli elicotteri e l’artiglieria. La colonna di duecento blindati si è portata dietro anche qualche reporter locale invitato dallo Stato maggiore. La televisione del regime dà notizia di scontri con «bande armate» . Annuncia la scoperta di una fossa comune davanti alla caserma della polizia: i militari avrebbero trovato dieci cadaveri in uniforme, qualcuno decapitato, altri con un colpo di ascia in fronte. Per il regime sono agenti delle forze di sicurezza uccisi dai «terroristi» , i civili in fuga sostengono che sono i resti dei soldati ammutinati, ammazzati dagli ufficiali fedeli alla famiglia Assad. «Ma quali scontri?» , dice Mustafa, fuggito ieri mattina verso la Turchia. «Ci hanno bombardato dai carri armati. I servizi segreti in Siria sanno tutto: come avremmo potuto nascondere le armi? Ci puniscono perché vogliamo la libertà» . Da Washington, la Casa Bianca accusa Assad «di aver causato una crisi umanitaria» . Il governo italiano condanna «il ricorso inaccettabile alla violenza» e chiede «un accesso immediato e illimitato» per la Croce Rossa. Catherine Ashton, alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione Europea, invoca la liberazione dei dimostranti arrestati dall’inizio della rivolta tre mesi fa (sarebbero oltre diecimila) e di tutti i detenuti politici. Jisr al-Shugour è al centro dell’autostrada che unisce Aleppo al porto di Latakia e da quattro giorni al centro della ribellione contro il clan al potere. «Il regime ha distribuito armi a qualunque maschio alauita in grado di usarle» , raccontano i profughi. «Hanno massacrato tutti i giovani del mio villaggio» , dice un’anziana. Le manifestazioni pro-democrazia si stanno trasformando in una contrapposizione tra la setta minoritaria (11 per cento della popolazione) che controlla lo Stato e la maggioranza sunnita. Nei suoi discorsi, Assad ha provato a spaventare i siriani con la minaccia dello scontro religioso. Una profezia che adesso sembra avverarsi alimentata dalla violenza dei suoi sgherri. Le operazioni delle truppe d’élite comandate dal fratello Maher si sono concentrate nel nord-ovest del Paese, nella provincia di Idlib, che già alla fine degli anni Settanta si era ribellata al padre Hafez. Anche allora Jisr al-Shughour era stata bombardata e i morti sarebbero stati almeno duecento.


IV - Siria, i carri armati nella città dei ribelli
13/06/2011, La Repubblica, Fabio Scuto

GERUSALEMME - Si combatte casa per casa nelle strade di Jisr al Shogur, la città 330 chilometri a nord di Damasco, sottoposta da venerdì scorso alla morsa della repressione del regime siriano. L´esercito, dispiegato in forze per riprendere il controllo della città ribelle, appoggiato da carri armati e elicotteri è entrato ieri nel centro cittadino. Jisr è una "città fantasma", i suoi oltre cinquantamila abitanti sono fuggiti verso il confine con la Turchia e adesso insieme a altre decine di migliaia premono sulla frontiera. Per arrivare lì hanno passato le maglie dell´esercito siriano che impedisce la fuga dei civili dai combattimenti, dalle città incendiate, dalle fattorie bruciate per rappresaglia. Settemila in due giorni hanno passato la linea del confine accolti dalla Croce rossa che ha allestito un primo campo profughi in territorio turco e ne ha altri due in montaggio. C´è una crisi umanitaria alle porte, crisi che secondo la Casa Bianca è deliberatamente provocata dal regime siriano. Regime per nulla intimidito né dalle sanzioni né dal gelo della comunità internazionale, soltanto l´Iran è rimasto ancora al fianco di Bashar Assad e del Baath, il partito-Stato del presidente.
A Jisr, abbandonata dai cittadini, tentano di sbarrare la strada ai tank gruppi di civili che si sono armati assaltando alcune caserme ma anche interi reparti dell´esercito - che in Siria è di coscritti - e della polizia locale. Due ponti sono stati minati per rallentare l´ingresso dei carri armati in città e solo gente con una preparazione militare sa farlo. La retorica del regime, attraverso la tv di Stato, continua a parlare di operazioni contro "bande di armati" ma nella città ci sarebbe stato un vero e proprio ammutinamento, specie dopo che si è diffusa la notizia che i 123 agenti morti martedì scorso non sono caduti in un agguato dei ribelli ma sarebbero stati uccisi perché si rifiutavano di sparare sulla folla. Nell´esercito e nella polizia ci sono molte diserzioni, come testimoniano i profughi arrivati in Turchia, fra loro sono in molti quelli che indossavano la divisa fino a qualche giorno fa. In un ultimo spregiudicato gesto per cercare di cercare di restare in sella il regime sta iniziando a armare le famiglie alawite. La comunità alawita, di cui fa parte il presidente e la sua cerchia, è minoritaria in Siria - solo il 10% della popolazione ma è un pilastro del regime e del Baath.
La crisi siriana, entrata nel terzo mese, ha da tempo messo in allarme il governo di Ankara. Il premier turco Erdogan, ha dato il semaforo verde per un´operazione militare e creare una "safety area" a cavallo dei due confini per fronteggiare l´emergenza umanitaria. Ma prudentemente aspetta che la comunità internazionale dia il suo parere favorevole. La Casa Bianca che ieri è tornata a accusare la Siria di avere causato una «crisi umanitaria» ha chiesto a Damasco a permettere l´accesso di aiuti sanitari alla popolazione. Appello a cui ieri si è unita anche l´Italia con una nota di Palazzo Chigi nella quale si chiede «l´accesso immediato e illimitato alla Croce Rossa nella regione per prendersi cura dei feriti, dei prigionieri e dei profughi, svolgendo così la necessaria opera di assistenza umanitaria». Anche l´Alto rappresentante per la politica estera dell´Ue, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata della situazione umanitaria in Siria» e ha «deplorato il crescente e brutale uso della forza contri i manifestanti».
Continua anche il pressing all´Onu. Ieri il ministro degli Esteri britannico, William Hague, e il collega tedesco Guido Westerwelle hanno sollecitato il Consiglio di sicurezza dell´Onu a prendere una posizione chiara e rapida sulla Siria, con una risoluzione che condanni la repressione. Al Palazzo di Vetro è allo studio una bozza di risoluzione presentata da Gran Bretagna e sostenuta da Francia, Germania e Portogallo, contrarie Russia e Cina che dispongono del veto.



V - Siria, ormai è guerra civile. L'imbarazzo occidentale
13/06/2011, Corriere della Sera, Sergio Romano


In Siria i dimostranti sono decisi a resistere, hanno armi di cui intendono servirsi, possono contare sull`aiuto di alcuni transfughi passati dall`esercito alla rivolta, e assomigliano sempre di più ai ribelli di Bengasi quando cominciarono a organizzarsi militarmente. Il rischio, oggi, è quello di una guerra civile che non verrebbe combattuta, come quella libica, fra due territori separati, ma avrebbe piuttosto, come quella spagnola del 1936, molti focolai diffusi in buona parte del territorio nazionale. 
Sulle ragioni di questo brusco peggioramento della situazione possiamo fare soltanto alcune ipotesi. Le buone intenzioni del presidente Bashar al Assad (sempre che esistessero) sono state ignorate e scartate da un blocco di potere che comprende la minoranza alauita (poco meno del 15% della popolazione), un numero consistente di ufficiali delle forze armate, i servizi di sicurezza, le milizie paramilitari, l`apparato del partito unico e forse l`interessata simpatia di minoranze religiose (fra cui i cristiani) che nel regime laico degli Assad hanno potuto contare sulla benevolenza del potere. Inasprito dalle repressioni delle scorse settimane, lo scontro, ormai, non è più di quelli che possono risolversi con un compromesso. E una guerra civile in cui chi vince prenderà tutto e chi perde sarà trattato alla stregua dì un nemico da eliminare. Conflitti di questo genere si alimentano del sangue versato, diventano lungo la strada sempre più feroci, tendono a contagiare l`intera regione e sono, per la diplomazia internazionale, inafferrabili. Se queste sono le prospettive è più facile comprendere il dilemma degli europei e degli americani. Sono preoccupati perché sanno che la Siria è un Paese cerniera, un pezzo cruciale dei precari equilibri medio-orientali. Non possono tacere perché il rispetto dei diritti umani è ormai parte integrante della loro filosofia ed è stato in molte occasioni la giustificazione della loro politica internazionale. Possono parlare e lo fanno invocando l`intervento dell`Onu e l`apertura di corridoi umanitari. Ma non possono agire perché sono già impegnati in una guerra civile che ha dato sinora risultati diversi da quelli previsti e sperati. Dopo le esperienze degli ultimi decenni, dalla Somalia alla Libia passando per l`Iraq e l`Afghanistan, la pacificazione con la forza è ormai una soluzione improponibile; e le sanzioni, quando due nemici si combattono per il diritto di sopravvivere, non avrebbero alcuna efficacia. 

Temo che l`unica politica possibile, in questo frangente, sia quella del «cordone sanitario». Se non possiamo convincere le parti a deporre le armi, possiamo almeno fare del nostro meglio per isolare la Siria e impedire che altri (Israele, Libano, Iran) vengano coinvolti nel conflitto. Ma abbiamo qualche possibilità di riuscirci soltanto se sapremo parlare a tutti con la necessaria fermezza e soprattutto se potremo contare sulla collaborazione dei turchi. Anche se la prospettiva non piacerà a coloro per cui la Turchia è un corpo estraneo all`Europa, Recep Tayyip Erdogan è oggi il migliore dei nostri alleati.






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