domenica 12 giugno 2011

EGITTO

I - In bilico tra vecchi e nuovi amici. Il grande gioco dell'Egitto di domani


Ogni ministero degli Esteri si considera il tempio dell’interesse nazionale, il luogo dove la continuità prevale sul colore dei governi e sugli indirizzi della politica interna. Quello della Repubblica egiziana non fa eccezione. Nel grande palazzo che ospita la sua diplomazia, due lunghi corridoi del piano nobile (quello in cui sono gli uffici del ministro e dei suoi principali collaboratori) sono dedicati agli «antenati» , vale a dire ai ritratti di coloro che hanno diretto la politica estera del Paese. I più vecchi portano il fez, un copricapo ottomano che fu di moda in Egitto sino all’abdicazione di re Farouk e al breve regno del figlio Fouad, ultimi sovrani della dinastia di Mohamed Ali Pascià. I più recenti sono ritratti a capo scoperto. La serie s’interrompe durante il protettorato britannico e ricomincia dopo il ritorno all’indipendenza. Amati o detestati dai loro contemporanei, tutti i ministri degli Esteri appartengono alla nazione e hanno diritto agli stessi onori. Fra qualche settimana, nella galleria dei ritratti vi sarà anche quello della persona con cui ho un appuntamento. La permanenza di Nabil El Arabi alla testa del ministero degli Esteri verrà ricordata come una delle più brevi nella storia del Paese: dal 6 marzo, quando venne chiamato dai militari a far parte del governo post-rivoluzionario di Essam Sharaf, al 15 giugno, quando si trasferirà nel palazzo della Lega Araba in piazza Tahrir per divenirne il segretario generale. Ma sarà ricordata come quella dell’uomo che ha fatto in poche settimane almeno tre cose: ha presieduto alla riconciliazione palestinese, ha aperto Rafah, il valico di frontiera che separa l’Egitto dalla Striscia di Gaza, ha avviato i contatti per la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Iran. E sarà anche ricordato probabilmente come il primo ministro degli Esteri egiziano, da molti anni a questa parte, che ha meritato un giudizio sospettoso, diffidente, quasi ostile del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. El Arabi ha avuto incarichi diplomatici, ma è principalmente un giurista. Ha partecipato come consulente legale agli accordi di Camp David fra l’Egitto e Israele nel 1978, è stato giudice alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sino al 2006, ha fatto parte della commissione che ha espresso un parere sulla costruzione del muro israeliano e ha criticato il governo di Gerusalemme, nel corso di questi anni, con argomenti soprattutto giuridici. Mi accoglie in italiano (ha studiato a Roma quarant’anni fa), ma passiamo rapidamente all’inglese e parliamo anzitutto della mediazione egiziana per la conclusione dell’accordo fra i discendenti palestinesi di Yasser Arafat e i cugini separati di Hamas. Quando osservo che l’accordo è stato indirettamente facilitato dalla rivoluzione del 25 gennaio, El Arabi ricorda che la mediazione egiziana era cominciata da tempo e preferisce mettere l’accento sulla continuità della politica estera del suo Paese. L’intesa, secondo il ministro, sarebbe stata resa possibile dalla evoluzione della linea di Hamas dopo l’inizio della crisi siriana: gli islamici della Striscia temevano di perdere la protezione di Damasco e sono diventati più concilianti. È vero, ma soltanto in parte. Il mediatore, prima della rivoluzione, era il generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e noto per essere il migliore amico di Israele nella regione. Oggi, grazie ai documenti caduti nelle mani del giornalista Robert Fisk e pubblicati dall’Independent del 7 giugno, sappiamo che una delegazione composta da palestinesi delle due parti, andò al Cairo il 10 aprile ed ebbe conversazioni con l’Intelligence egiziana, con Amr Moussa, segretario della Lega Araba, e con El Arabi, da poco installato al ministero degli Esteri. L’Intelligence promise che lo spirito della mediazione sarebbe cambiato. Moussa dette la benedizione della Lega. El Arabi volle riceverli e ascoltarli alla presenza del ministro degli Esteri turco, allora in visita al Cairo: il modo migliore per garantire ai palestinesi che da quel momento i mediatori egiziani avrebbero smesso di adottare la tattica dilatoria di Suleiman. Da quel momento i negoziati sono diventati pragmatici, concreti, animati dal desiderio di raggiungere un’intesa. Sull’apertura del valico di Rafah, invece, ho l’impressione che la svolta egiziana sia stata più formale che sostanziale. Il gesto non avrà per effetto il libero passaggio attraverso la frontiera e i controlli continueranno a essere piuttosto restrittivi. Ma El Arabi respinge le critiche israeliane. Il regime del valico non rientra negli accordi con Israele, che il nuovo Egitto intende rispettare. È una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto. Passiamo ai rapporti con l’Iran. Qualche giorno fa i servizi egiziani hanno arrestato un diplomatico iraniano, lo hanno accusato di spionaggio e lo hanno espulso. Ma sull’aereo che lo riportava a Teheran viaggiava anche una delegazione egiziana. Nelle scorse settimane ve ne sono state due: la prima limitata a tre intellettuali, fra cui uno studioso dell’università di Al Azhar, la seconda composta da cinquanta persone che rappresentano diverse opinioni, confessioni e attività professionali. El Arabi mi dice che i contatti per la piena ripresa dei rapporti diplomatici (oggi ciascuno dei due Paesi ha nell’altro soltanto un ufficio di rappresentanza) richiederanno un negoziato piuttosto lungo. Ma poi si chiede perché l’Egitto non dovrebbe avere rapporti diplomatici con un Paese importante della regione a cui appartiene. In una intervista, qualche settimana fa, ha detto che l’Iran ha il diritto di fare una politica corrispondente al suo ruolo e che non bisogna avere paure ingiustificate. Parliamo infine della Libia, con cui l’Egitto ha una lunga frontiera che gli abitanti della regione (spesso appartenenti alle stesse tribù e legati da vincoli familiari) attraversano liberamente senza visti e passaporti. La maggiore preoccupazione di El Arabi è la sorte della comunità egiziana. Dice che del milione e mezzo di connazionali che vivevano in Libia prima della guerra civile, 250 mila sono tornati in Egitto attraverso la sua frontiera occidentale, mentre 150 mila si sono rifugiati in Tunisia. Più di un milione, quindi, sono ancora in Libia, nel mezzo di un conflitto che ha paralizzato l’economia del Paese. Sono queste le ragioni per cui l’Egitto auspica una rapida cessazione delle ostilità. Ma non mi sembra che ponga come condizione l’estromissione di Gheddafi: una posizione alquanto diversa, quindi, da quella della Nato e delle maggiori potenze occidentali. Negli anni di Mubarak l’Egitto aveva una politica estera costante e prevedibile, fondata su tre rapporti di ferro: con gli Stati Uniti, con Israele e con l’Arabia Saudita. Erano rapporti che permettevano al regime di valorizzare la propria politica anti-jihadista mercanteggiandola contro i finanziamenti degli Stati Uniti alle Forze armate e il diritto di governare con metodi autoritari. Oggi, dopo la defenestrazione di Mubarak e il ruolo politico assunto dalla Fratellanza musulmana, questa politica estera, senza rinunciare alle relazioni con l’America e con l’Occidente, deve essere aggiustata e corretta. El Arabi ha cominciato a disegnare nuove tendenze e molto, in ultima analisi, dipenderà dalla fisionomia politica e sociale dell’Egitto alla fine della transizione di cui abbiamo parlato negli scorsi giorni. Ma qualcuno intravede già nei prossimi anni una Triplice composta da Paesi che hanno grosso modo la stessa dimensione, la stessa consistenza demografica, gli stessi interessi a non complicarsi la vita vicendevolmente e, sul piano economico, una certa complementarietà: Egitto, Iran, Turchia.


Corriere della Sera, 12/06/2011, Sergio Romano




II - Il dialogo difficile tra musulmani e copti per salvare la rivoluzione (e le minigonne)



Il 1 gennaio, 24 giorni prima dell’inizio della rivoluzione egiziana, un terrorista suicida si è fatto saltare in aria di fronte alla chiesa dei Santi, in Alessandria, dove si celebrava con il rito copto l’arrivo dell’anno nuovo. L’esplosione ha provocato 21 morti e 70 feriti. Nei giorni seguenti i copti del Cairo hanno dimostrato di fronte alla cattedrale di San Marco, sede del loro capo spirituale, e inscenato una manifestazione contro i rappresentanti del governo che erano venuti a presentare le loro condoglianze a papa Shenuda III. Vi sono stati violenti scontri con la polizia, il presidente Mubarak è apparso alla televisione per denunciare la presenza di «mani straniere» nell’attentato di Alessandria ed esortare alla concordia le due maggiori confessioni religiose del Paese. Poco più di tre settimane dopo, parecchie migliaia di giovani copti e musulmani hanno accolto l’invito, ma lo hanno ritorto contro Mubarak per chiedere insieme la fine del suo regime. Abbiamo assistito da allora, in piazza Tahrir, ad alcune promettenti manifestazioni di riconciliazione religiosa. È apparso un nuovo simbolo: una croce iscritta all’interno di una mezzaluna. Sono stati creati piccoli spazi in cui i fedeli delle due religioni potevano fare le loro devozioni. Abbiamo intravisto un Egitto in cui la minoranza copta (il 10%della popolazione secondo stime ufficiali, fra il 15 e il 20%per coloro che accusano il governo di sottostimarne l’importanza) avrebbe gli stessi diritti civili della maggioranza musulmana, fra cui quello di costruire liberamente le proprie chiese.
Ma dal momento in cui la piazza si è svuotata, il clima è andato progressivamente peggiorando. Il 7 maggio alcuni scontri fra copti e musulmani nel quartiere cairota di Imbaba hanno provocato una dozzina di morti, quasi duecento feriti e due chiese in fiamme. L’ 8 maggio i copti hanno formato «gruppi di autodifesa» e organizzato un sit-in di fronte al ministero degli Interni. Il 14 maggio, dopo qualche sparo d’incerta provenienza, copti e musulmani si sono dati nuovamente battaglia e hanno lasciato sul selciato 55 feriti. All’origine di questi scontri vi sono spesso le solite infamie di cui due gruppi religiosi si accusano a vicenda quando vogliono venire alle mani: un bambino rapito, una donna cristiana convertita e trattenuta a forza in una chiesa. Potremmo liquidarli come pretesti di fazioni fanatiche se la caduta del regime di Mubarak non avesse scoperchiato la pentola in cui bollivano vecchi rancori e pregiudizi. I copti si considerano discendenti dei cristiani evangelizzati dall’apostolo Marco durante i suoi soggiorni ad Alessandria, quindi molto più egiziani dei loro connazionali musulmani. E questi trattano i copti, per molti aspetti, nel modo in cui i cristiani trattavano gli ebrei nelle province polacche dell’impero russo: una combinazione di odio religioso e di invidia per i loro innegabili successi economici. Con un prudente dosaggio di colpi al cerchio e colpi alla botte, il «sistema Mubarak» era riuscito ad accontentare i musulmani senza troppo scontentare i copti. Oggi, in attesa di nuove regole, l’integralismo musulmano riparte all’attacco e l’orgoglio copto si batte in difesa. Le autorità— i militari e il vertice della Chiesa copta — hanno fatto del loro meglio per calmare gli animi. Alla vigilia di Pasqua un generale, in rappresentanza del Consiglio supremo militare, ha visitato solennemente la cattedrale di Santa Maria nel quartiere di Giza e ha stretto calorosamente la mano dei preti e dei notabili copti che lo attendevano di fronte alla Chiesa. Due settimane dopo, mentre copti e musulmani si combattevano di fronte al ministero degli Interni, papa Shenuda ha esortato i suoi fedeli a disperdersi e a tornare a casa. Fra coloro che si sono maggiormente prodigati per la pacificazione degli animi, in questi ultimi tempi, vi è Ahmed El Tayeb, Grande Imam dell’Università di Al Azhar. Lo avevo conosciuto qualche anno fa, quando era rettore dell’Università e vestiva un abito scuro di taglio occidentale. Ora veste un lunga tunica nera e ha il capo coperto da un berretto bianco non diverso da quello di un qualsiasi imam sunnita nell’esercizio delle sue funzioni. Ma è la principale autorità religiosa della più autorevole istituzione accademica dell’Islam, una carica che conferisce alle sue posizioni un prestigio pari a quello del grande Ayatollah iraniano nel mondo sciita. Anche El Tayeb, nei giorni di piazza Tahrir, è stato bersaglio di qualche contestazione dai giovani che gli rimproveravano, tra l’altro, di essere stato nominato, come i suoi predecessori, dal presidente Mubarak. Ma non sembra che quei colpi di spillo abbiano deturpato la sua immagine. È certamente conservatore, ma troppo intelligente per ignorare che negli scontri fra religioni il numero degli sconfitti è sempre superiore a quello dei vincitori. La sua risposta al clima sovraeccitato degli scorsi mesi è una iniziativa ecumenica. Mi dice di avere costituito con papa Shenuda e altri esponenti religiosi una «Casa della famiglia» , in cui si lavora a creare le condizioni per una migliore convivenza fra musulmani e cristiani. Sono state istituite commissioni per eliminare dai manuali e dai programmi scolastici tutto ciò che può incitare all’odio interreligioso. Vengono programmate trasmissioni televisive in cui i rappresentanti delle diverse fedi religiose confrontano le loro letture dei testi sacri. Gli chiedo se la sua politica si scontri con la resistenza dell’oltranzismo islamico, della Fratellanza musulmana, dei gruppi salafiti che sono usciti dall’ombra e si stanno organizzando. Mi risponde prudentemente ed ecumenicamente che con la Fratellanza è possibile dialogare e che anche tra i salafiti vi sono i buoni e i cattivi. Ma ho l’impressione che il suo maggiore problema non sia soltanto quello di tenere a bada gli estremismi religiosi in un Paese surriscaldato. La «rivoluzione » di piazza Tahrir è stata opera di giovani rispettosi della loro fede, ma molto più laici dei loro genitori. Ricordo al Grande Imam alcuni dati statistici sulle ultime generazioni arabe rilevati recentemente da uno studioso francese, Emmanuel Todd. Secondo Todd le ultime ricerche registrano il declino di una vecchia pratica endogamica, tipica delle società conservatrici: il matrimonio fra cugini. Il dato segnala che la famiglia sta perdendo la capacità di condizionare con le scelte matrimoniali il futuro dei figli. Ahmed El Tayeb non commenta i dati ma osserva che il suo matrimonio fu organizzato dalla famiglia e che la sua vita matrimoniale è stata felice. Riconosce che i suoi figli hanno scelto liberamente le loro mogli, ma aggiunge che i loro matrimoni sono stati un po’ più complicati del suo. Qualche ora dopo, in albergo, sto ripensando alle parole del Grande Imam quando qualcuno mi suggerisce di dare un’occhiata alla sala da ballo dove si sta festeggiando un matrimonio. La musica assordante e l’illuminazione lampeggiante sono quelle di una discoteca. Al centro della sala un centinaio di giovani coppie hanno formato un cerchio e ballano freneticamente intorno agli sposi. Una telecamera montata su una grande gru ritrae la scena dall’alto e la proietta su un grande schermo. I ragazzi hanno eleganti abiti scuri, camicie bianche, occhi di velluto, capelli impeccabilmente spettinati. Le ragazze hanno gonne molto corte, vestitini attillati, braccia nude, generose scollature e capelli al vento. Ai tavolini disseminati lungo la sala sono seduti signori e signore che, a giudicare dall’età, sono i padri e le madri dei ballerini. Quasi tutte le madri hanno la testa avvolta in un foulard che scopre soltanto l’ovale del viso. Ma una di esse ogni tanto si alza e accenna un passo di danza. A nessuna di esse passava per la mente di dire a sua figlia che avrebbe dovuto vestirsi diversamente. Forse è questa la vera rivoluzione egiziana.


Corriere della Sera, Sergio Romano


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