martedì 1 marzo 2011

ANCORA SULLA LIBIA


La frontiera italiana - Corriere della Sera di Mario Polito

In poche settimane l'Italia ha cambiato la sua collocazione geopolitica, ma non sembra ancora rendersene conto. Le rivoluzioni in corso nel Maghreb hanno rimesso il Mediterraneo al centro della storia del mondo e l'Italia, che lo voglia o no, è al centro del Mediterraneo. La posizione geografica in politica conta. Non a caso uno dei periodi di maggior stabilità e prosperità della nostra storia è coinciso con il lungo dopoguerra, quando il ruolo di confine orientale dell'Occidente ha reso l'Italia un Paese importante sullo scacchiere internazionale: l'avamposto della Nato a Est. La caduta del Muro di Berlino ci ha dissolto come frontiera orientale della democrazia e della libertà, ma ora la Storia torna a battere alle nostre porte. Lampedusa non è soltanto la disgraziata isola dove si illuminano ogni sera i nostri incubi di invasioni barbariche. È anche il luogo simbolo della nuova frontiera dell'Occidente che siamo chiamati a rappresentare: la frontiera meridionale. Siamo l'unica media potenza europea letteralmente a un tiro di schioppo dall'Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia (non a caso Italo Balbo la chiamava la «quarta sponda») e anche dall'Egitto. Ciò che faremo, ciò che diremo sarà rilevante per gli sviluppi futuri di queste rivoluzioni, delle quali niente del poco che sappiamo è in grado di dirci oggi che piega prenderanno. Il rivolgimento in corso è così straordinario che perfino la questione palestinese sembra marginalizzata e comunque è stata clamorosamente assente in questa originalissima arab street che ha fatto fuori i tiranni. Siamo diventati così importanti che Obama ha perfino sentito il bisogno di telefonare a Berlusconi. Non sembra che il nostro dibattito pubblico sia però consapevole di questa nuova grande occasione. Sul piano politico, il governo è tutto preso a far dimenticare il più presto possibile l'eccesso di baciamaneria al dittatore libico e l'opposizione è tutta presa a non farlo dimenticare mai. Entrambi combattono una battaglia di retroguardia, regolano conti del passato. Ci sarebbe invece da prendere alcune decisioni. Intanto come apparire amici di chi farà fuori Gheddafi, dopo essere stati così tanto amici di Gheddafi. Qualche ostilità dobbiamo metterla infatti in conto, ma non è affatto impossibile - come ha scritto Angelo Panebianco su questo giornale il 27 febbraio - far coincidere finalmente il giusto e l'utile. Ma una politica che persegua l'interesse nazionale richiede un respiro anche più vasto. Per esempio uno sguardo alla Tunisia, dove l'influenza francese esce notevolmente acciaccata dalla caduta di Ben Ali. Per esempio una riconsiderazione della nostra rete diplomatica, non particolarmente acuta nell'avvertire il rombo dello tsunami in arrivo, e della nostra rete consolare, strangolata dalle ristrettezze di bilancio. Per esempio il lancio di un canale tv in lingua italiana dedicato a questi Paesi, che forse conta più di dieci anni di politica estera per conquistare i cuori e le menti di un popolo vicino. Ma ancor di più si tratta di rispondere alla domanda chiave che questo rivolgimento storico ci pone: sarà un bene, o è solo l'ennesimo mostro uscito dal videogame della globalizzazione? E, soprattutto, come indirizzarlo verso la democrazia? Conviene che l'Europa l'abbracci, come propone chi già vede il Maghreb nell'Unione Europea, o conviene metterlo prima alla prova? Va aiutato con soldi, armi e tecnologia, come abbiamo fatto con le dittature precedenti, o va legato con immigrazione, commerci e cultura? L'Italia ha la possibilità di guidare questo dibattito in Europa. Se però è in grado di farlo prima di tutto a casa sua. Queste settimane sono state sconfortanti: un balbettio imbarazzato del governo, analisi abborracciate e sostanzialmente al buio, scarse informazioni: ci sono volute un paio di uscite del capo dello Stato per dare all'Europa l'idea che eravamo anche noi della partita. L'unica cosa che sembra interessarci della caduta del Muro del Maghreb è il numero esatto di immigrati che arriveranno sulle nostre coste, e si sente in giro un insopportabile tanfo di nostalgia per i vecchi regimi, brutti sì, ma così utili a evitarci rogne. Sarebbe invece il caso, una volta tanto, di resuscitare il Parlamento per la funzione cui è destinato: una sessione straordinaria, con relazione del governo, per discutere che fare dell'Italia in questo nuovo scenario internazionale e per costruire uno straccio di politica estera comune sulla sponda sud del Mediterraneo. Non ci sarebbe modo migliore che parlare del nostro futuro anche per ricordare degnamente il nostro passato: il 150° dell'Unità d'Italia, ma anche il centenario dell'invasione coloniale di Tripolitania e Cirenaica.

“LA PRIMAVERA ARABA”, di Tahar Bel Jelloun, La Repubblica


Questa primavera in pieno inverno non assomiglia a nulla nella storia recente del mondo. Potrebbe far pensare alla rivoluzione dei garofani in Portogallo (novembre 1974), ma è diversa. I popoli arabi hanno subìto e sono rassegnati da molto tempo. In generale, però, il Maghreb e il Machrek hanno questo in comune: l´individuo non è riconosciuto come tale. Tutto è organizzato in modo che l´emergere dell´individuo in quanto entità singolare e unica sia impedito. È la rivoluzione francese che ha permesso ai cittadini di Francia di diventare individui dotati di diritti e doveri.
Nel mondo arabo, ciò che viene riconosciuto è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona. L´individuo invece sarebbe una voce, non un soggetto da sottomettere. Un individuo è una persona che ha da dire la sua e che la dice andando a votare liberamente e senza falsificazioni. In questo sta la base della democrazia – una cultura basata sul contratto sociale; si elegge qualcuno per rappresentare un popolo in un determinato periodo e poi o lo si rinnova nelle sue funzioni o lo si rispedisce a casa. Nel mondo arabo, i presidenti della repubblica si comportano come dei monarchi assoluti al punto che restano al potere con la forza, attraverso la corruzione, la menzogna e il ricatto. Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafez al-Assad; Seif al-Islam è ritenuto il successore di suo padre Gheddafi, quando questi morirà; Mubarak ha ovviamente cercato di imporre suo figlio alla successione, ma con la rivoluzione di gennaio tutti i suoi piani sono saltati. Il principio è semplice: quando arrivano al potere, pensano di essere lì per l´eternità, che il popolo lo voglia o no. Per non indisporre troppo gli occidentali, instaurano una sorta di “democrazia formale”, giusto una maschera per gli occhi di chi li osserva. Ma è tutto nelle loro mani e non tollerano alcuna contestazione, alcuna opposizione. Il resto del tempo, considerano il Paese come una loro proprietà privata, dispongono delle sue entrate, fanno affari, si arricchiscono e mettono i loro beni al sicuro in banche svizzere, americane o europee. Quello che è successo in Tunisia e in Egitto è una protesta morale ed etica. È un rifiuto assoluto e senza mezzi termini dell´autoritarismo, della corruzione, del furto dei beni del Paese, rifiuto del nepotismo, del favoritismo, rifiuto dell´umiliazione e della illegittimità che è alla base dell´arrivo al potere di questi dirigenti il cui comportamento prende a prestito molti metodi dalla mafia. Una protesta per stabilire un´igiene morale in una società che è stata sfruttata e umiliata fino all´inverosimile.
È per questo che non è una rivoluzione ideologica. Non c´è un leader, non c´è un capo, non c´è un partito che porta avanti la rivolta. Milioni di persone qualunque sono scese in strada. È una rivoluzione di tipo nuovo: spontanea e improvvisata. È una pagina della storia scritta giorno per giorno, senza una pianificazione, senza premeditazione, senza intrallazzi, senza trucchi. La responsabilità dei dirigenti europei è importante nel mantenimento di questi regimi impopolari e autoritari. Essi tacciono e lasciano fare usando due scuse: 1. pensano che Mubarak, come Ben Ali, sia lì per impedire che si stabilisca una repubblica islamica in stile iraniano; 2. pensano che non dicendo loro che devono rispettare i diritti dell´uomo, si assicureranno succosi affari. Su entrambe le cose si sbagliano.
La rivoluzione iraniana è stata possibile perché lo sciismo è strutturato gerarchicamente (himam, mollah, ayatollah ecc.). Per gli sciiti, l´islam è politico o non è (è questo che aveva dichiarato Khomeini al suo arrivo a Teheran). L´islam sunnita non ha mai pensato la pratica religiosa in modo gerarchico. Nel Corano si dice che nell´islam non ci sono sacerdoti. Né preti, né rabbini, né ayatollah. Sul piano politico, la società araba è attraversata da diverse correnti islamiche; la corrente fondamentalista non è il solo movimento presente in Egitto. Non c´è ragione di pensare che i fondamentalisti arrivino al potere, a meno che non si verifichi un colpo di Stato militare, il che vorrebbe dire che tutto l´esercito è fondamentalista, cosa assurda. Se c´è una democrazia, questo vuol dire che c´è multipartitismo, che ci sono differenze e opinioni diverse che si fronteggiano in un campo politico libero.
Quanto al secondo punto, gli occidentali chiudono gli occhi ovunque possano fare affari, che sia in Cina, in Libia o in Algeria. Ma da quando Barack Obama ha invocato il rispetto dei diritti dell´uomo davanti al suo ospite cinese, nel gennaio 2011, non è più possibile anteporre gli affari ai diritti dell´uomo. Tutto ciò è avvolto da ipocrisia e accondiscendenza. Abbiamo appena saputo che alcuni ministri francesi accettavano inviti in Tunisia, in Egitto, e facevano coppia perfetta con dittatori di cui sapevano tutto, compreso il modo in cui torturavano e facevano sparire gli oppositori del governo. Queste rivoluzioni di oggi avranno almeno un vantaggio: più niente sarà come prima. Quanto agli altri Stati arabi in cui sussistono gli ingredienti affinché qualcosa si muova e ci si ribelli, credo che riformeranno il loro sistema e saranno più vigili sul rispetto dei diritti della persona. Il cittadino non sarà più un soggetto sottomesso ad un potere arbitrario e sprezzante; diventerà un individuo con un nome, una voce e i suoi diritti.


Abbiamo inserito i due articoli perché, pur non condividendone completamente i contenuti, possono essere annoverati tra gli esempi di giornalismo intelligente e documentato. 
Vogliamo aggiungere come esempio di spocchioso presappochismo "l'articoletto" intitolato: "La Libia, i morti e le auto in strada" a firma di Alberto Arbasino, uno scrittore che, per il suo cinismo a buon mercato da "scettico blu" ("Cosa mi importa se il mondo mi rese glacial...") è sempre stato in testa alle mie antipatie:

"Non si capisce ancora perché mai, se in Libia ci sono migliaia di morti i cellulari degli oppositori non ne mostrino alcuni o parecchi per le televisioni occidentali invece delle automobili che girano per le folle sparse. E come mai, a parità di rivolte per la democrazia nei diversi paesi, molti lavoratori egiziani si accalchino al confine con la Tunisia forse priva di governo, invocando soccorsi da un governo che apparentemente al Cairo non c'è? Ma a livello di cancellerie, forse ritorna un vecchio classico: fra tutti questi figli di puttana, quali saranno i "nostri" figli di puttana?" 

              

E' evidente come l'"Arbasino fino fino", (foto sopra), con le esposte "perplessità" sulla rivoluzione libica, secondo lui probabilmente inventate, intenda allinearsi alle posizioni perplesse del governo italiano e del Berlusconi nazionale, che non più tardi di ieri, si è detto poco favorevole a un esilio del colonnello Gheddafi (ma perché non lo ospita in una delle sue 27 abitazioni?) o, forse il N.H. (Nobilis Homo) "Arbasino elegantino elegantino" detesta che a rivendicare libertà e democrazia siano degli straccioni beduini che, sicuramente quando parlano o scrivono, non sono avvezzi a ricorrere ai sopraffini stilemi di una mente superiore. E poi questi ribelli hanno un'aria così plebea...
Arbasì  ma va a magnà er sapone!

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