All'interno dei territori posti sotto il controllo dell'autorità musulmana, l'Islam non ha mai ignorato la realtà delle altre fedi e ha sempre cercato di istituzionalizzare il rapporto con esse. Il messaggio divino rivelato nel Corano non intende abrogare le rivelazioni precedenti ma piuttosto confermarle e portarle a compiuta perfezione. I Profeti del passato anche se non espressamente citati nel Corano, vengono tutti considerati come portatori di una legge divina e dunque perfettamente valida anche se i loro seguaci col tempo ne hanno spesso tradito lo spirito alterando le scritture. Nonostante ciò l'Islam ritiene che colo che si ispirano a un autentico testo sacro (le genti del libro) siano legittimati a conservare la propria legge anche dopo che la fede islamica ha conquistato le loro terre, a patto di rispettare determinate condizioni.
Il Corano (II, 62 e V, 69) include tra le genti del libro gli ebrei i cristiani e i sabei (tali le comunità gnostiche o giudaico-cristiane) cui la sura XXII, 17 aggiunge i seguaci di Zoloastro. Questi passaggi coranici hanno indotto i giuristi a fare delle differenze fra gli infedeli, attribuendo ad alcune comunità non musulmane uno statuto legale superiore a quello dei puri e semplici idolatri. Questo principio è stato comunque oggetto di notevoli eccezioni: in base alle ripetute affermazioni coraniche secondo le quali a tutte le comunità umane è stato inviato un messaggio divino con la scrittura, si è più volte stesa la qualifica di "gente del libro" anche a fedeli di religioni diverse da quelle ricordate come è avvenuto in particolare per gli indù durante il dominio islamico nell'India.
Perché una comunità possa mantenere il proprio credo sotto l'autorità dell'Islam, essa si deve porre sotto la sua protezione con un atto di sottomissione formale (Dhimma): dispositivo giuridico che permette ai membri delle comunità non musulmane di convivere con l'Islam, mantenendo i beni e la vita e un'autonomia religiosa e amministrativa. Questo diritto all'esistenza comporta l'implicito riconoscimento della superiorità dell'Islam, e numerose sono le norme che ricordano ai Dhimmi la loro condizione di vassallaggio. Essi debbono inanzi tutto pagare alla fine di ogni anno una tassa di protezione articolata in due voci: la Gizya, imposta pro capite che deve pagare ogni adulto maschio della comunità, e il Kharag, un imposta fondiaria sui beni immobili.
Una volta assolto il pagamento, i Dhimmi possono amministrare la propria comunità in base alle rispettive leggi religiose, senza tuttavia poter manifestare il proprio culto in maniera appariscente, evitando ad esempio di suonare le campane e di tenere funerali pubblici. Essi inoltre non possono aspirare a pubblici uffici, debbono portare segni distintivi devono sempre cedere il passo ai musulmani e salutare per primi.
Non tutti i Dhimmi sono comunque soggetti alla totalità di queste restrizioni. La legge distingue tra quelli che sono stati sottomessi a viva forza e quelli che l'hanno fatto volontariamente, che godono di diritti molto più grandi. In ogni caso i Dhimmi non possono subire coercizioni religiose di nessun genere da parte dei musulmani. La comunità islamica è poi tenuta a intervenire in loro aiuto contro i nemici esterni ogni volta essi lo richiedano. In ultima analisi la Dhimma, lungi dall'essere una manifestazione di esclusivismo fanatico e bigotto, può essere interpretata come un modello esemplare di tolleranza e di liberalità: pur non essendo priva di elementi di discriminazione essa è un criterio di legittimazione e di accettazione sociale delle diversità esemplare rispetto al quadro di periodiche vessazioni, persecuzioni e massacri subite dai non cristiani nell'Europa cristiana.
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