giovedì 21 aprile 2011

LA CRISI LIBICA E IL RUOLO DELL'ITALIA

Articolo di Giorgio Ruffolo, La Repubblica, 21/04/2011

"LA CRISI LIBICA E IL RUOLO DELL'ITALIA"

Nello scontro con l´Europa il governo italiano sta dando segni di insostenibile leggerezza. Non possono essere diversamente qualificate le minacce espresse e malamente ritrattate dal Premier e dal ministro degli Interni di uscire dall´Unione: minacce che, se prese sul serio, dovrebbero preoccupare molto più gli italiani che l´Unione stessa.

La rappresentazione di uno tsunami che investe l´Italia è chiaramente strumentale alle fantasie e agli interessi elettorali leghisti. Come tutti sanno, la condizione dell´immigrazione in Italia è molto meno drammatica che in altri paesi. C´è sì uno tsunami migratorio, che riguarda un´isola, Lampedusa, che va affrontato, come finalmente si è fatto con grave ritardo, con politiche di dislocazione degli immigrati nel territorio nazionale, osteggiate vigorosamente dalla Lega. Un problema europeo, invece, certamente esiste sul problema drammatico dell´immigrazione. Quel problema è oggi ingigantito dai movimenti insurrezionali che investono i paesi arabi. Questi movimenti hanno colto l´Europa di sorpresa. I governi europei, tutti, scorgevano in quei paesi una sola minaccia di sovversione, quella islamica. E accettavano le politiche populiste che sembravano proteggerli da quella minaccia. C´erano quelli che lo facevano solo per realpolitik. E quelli che ci mettevano dell´entusiasmo, per congeniale simpatia verso i regimi autoritari e i leader folkloristici. L´insurrezione libica e la conseguente violenta repressione li hanno costretti a una scelta: appoggiare apertamente la rivolta o lasciarla al suo destino. Ambedue le scelte hanno i loro rischi. La prima è che attraverso quelle confuse insurrezioni si sviluppi davvero una più violenta minaccia islamica. La seconda è che la prospettiva di una evoluzione democratica di quei paesi sia perduta e con essa un futuro migliore per quelli e per l´Europa stessa. Penso che la seconda sia di gran lunga peggiore. Stare a guardare per capire come si mettono le cose è stolto se intanto ti cavano gli occhi: se la repressione schiaccia ogni prospettiva democratica. Bene hanno fatto i francesi a impedire con un pronto intervento che la ribellione fosse schiacciata nella sua culla. La politica non può aspettare le ricerche sociologiche. La scelta del non intervento è la peggiore per una semplice ragione. Non possiamo essere spettatori di un dramma nel quale siamo direttamente coinvolti: per l´immediata prossimità e anche, certamente, perché esso investe il petrolio. Che non è solo la fonte dello strapotere delle Grandi Sorelle, ma anche del nostro benessere materiale. C´è qualcuno, tra gli indignati che il petrolio sia una ragione dell´intervento, disposto a rinunciare alla sua quota di consumi vistosi? Dunque le ragioni forti dell´intervento sono politiche ed economiche. Non umanitarie. Non ci si può commuovere sulle vittime della Libia e fregarsene delle stragi che si compiono nell´Africa nera. D´altra parte non mi convincono le istanze pacifiste applicate a Gheddafi. E´ difficile parlare in termini critici del pacifismo all´indomani del fatto che ci ha commosso e sconvolto. Dico egualmente ciò che penso. Penso con grande rispetto al pacifismo praticato come ideale, come messaggio e soprattutto come missione praticata con impavida semplicità fino al sacrificio della vita. Non credo nel pacifismo come pratica politica che per essere coerente dovrebbe condannare la guerra e la resistenza armata al nazismo, disarmandoci di fronte ai nemici della libertà. Mi chiedo se in questo pacifismo assoluto non trovi sfogo quell´antiamericanismo sistemico che costituisce la residua passione della sinistra; e che oggi prende di mira il più democratico presidente degli Stati Uniti. Quanto all´Europa. Mai come oggi è evidente l´impotenza che deriva dalla sua assenza politica. Solo un´Europa unita avrebbe dato alla giusta scelta di appoggiare l´insurrezione giovanile nei paesi arabi un sostegno non inficiato da sospetti nazionali egemonici, mettendola in grado di usare il suo grande peso economico e politico per pilotarla verso un esito democratico. Quanto, ancora, all´Italia. «Meglio soli che male accompagnati», ha recitato il ministro degli Interni. E se n´è andato. Male accompagnato.




L'autore dell'articolo, Giorgio Ruffolo, è una di quelle persone, ormai troppo poche, che per l'acutezza delle analisi e la profondità degli ideali manifestati, fa rimpiangere ai vecchi socialisti come me il grande patrimonio che nella storia d'Italia, in tutta l'Europa e in molte parti del mondo ha rappresentato la tradizione del socialismo democratico: nel nostro paese spazzata via dalla irrefrenabile ondata di cinismo, di pressapochismo  e di ipocrisia che ha inondato la realtà politica quotidiana. Per questo voglio dedicare alcune sottolineature al suo articolo, riguardante i tragici eventi in Libia e la insussistenza di quanti seguitano a blaterare la tesi della non interferenza in nome di un pacifismo di accatto, che darebbe campo libero a quell'ignobile macellaio travestito da pagliaccio che è sempre stato il dittatore libico Gheddafi.
Il "pacifismo" non è una posizione politica tipica di chi ritiene un bene la pace e una terribile tragedia la guerra, ma è l'ideologia di quanti devono cogliere ogni occasione per farsi delle passeggiate agitando cartelli e bruciando bandiere, nella falsa convinzione che ciò serva a risolvere i problemi dei rapporti internazionali. Come giustamente osserva Giorgio Ruffolo chi ama veramente la pace si comporta come il giovane Vittorio Arrigoni il quale "Si è dedicato alla sua missione di aiutare un popolo martire come quello palestinese praticandola con impavida semplicità fino al sacrificio della vita". L'autentico pacifismo di Vittorio non appartiene alla categoria del "pacifismo" politico: quello, tanto per citarne l'esempio più eclatante, del primo ministro inglese Chamberlain che nel 1938 cedette a Hitler la Cecoslovacchia per "salvaguardare la pace"; costui per il suo pacifismo rinunciatario che pensava di acquietare la belva nazista dandogli in pasto un agnello sacrificale, furono i principali responsabili della Seconda Guerra Mondiale. 
Uomo di pace non pacifista fu il cancelliere tedesco Willy Brandt. Giovane dirigente della socialdemocrazia tedesca, andò esule in Norvegia e quando le armate di Hitler invasero il paese scandinavo non esitò a rinnegare la cittadinanza tedesca e a combattere come partigiano nelle file della resistenza norvegese. Tornato in patria e additato come traditore da molti dei suoi concittadini si disinteressò degli ottusi pregiudizi che lo criticavano, riprese la sua battaglia politica nelle file della S.P.D e fu eletto, dopo essere stato per molti anni sindaco di Berlino Ovest, Primo Cancelliere socialdemocratico della Repubblica Federale tedesca e in questa veste fu il primo uomo politico dell'occidente che praticò un'autentica politica di distensione nei confronti dell'Unione Sovietica. Willy Brandt restituì con un solo gesto l'onore al popolo tedesco, tanto offuscato e coperto di sangue dalle infamie naziste: molti ricordano il giorno in cui, visitando Varsavia si gettò letteralmente in ginocchio davanti a fuoco perenne e al monumento edificato dove un tempo sorgeva il ghetto di Varsavia, senza trattenere lacrime. In questo modo un tedesco è diventato per quelli della mia generazione uno dei più alti simboli dell'umanità che si batte per la pace. 
Oggi credo di poter riconoscere un uomo di pace nel presidente degli Stati Uniti, Barack Hussein Obama e non valgono ad offuscare questa immagine le guerre che il suo paese ha ereditato dal suo criminale predecessore George W. Bush. Proprio perché è un uomo di pace egli non ha esitato a sostenere le rivoluzioni democratiche di Tunisia e di Egitto, e non ha neppure esitato a schierarsi senza se e senza ma al fianco degli insorti di Libia indicando al consenso internazionale la necessità che Gheddafi venga rimosso dal potere. Sempre Obama non esita a sostenere finanziariamente gli insorti siriani contro l'autocrazia della dinastia Assad, senza chiedersi, come invece fanno tanti ipocriti europei, se come è probabile dietro alle rivolte delle città siriane vi sia il demonizzato movimento dei Fratelli Musulmani. Ricordo che durante le primarie statunitensi finite con la designazione a candidato democratico alla presidenza di Barack Obama, un noto giornalista, oggi campione dei pacifisti all'italiana, scriveva corrispondenza dagli Stati Uniti nei quali traspirava una sottile aura di ostilità nei confronti del candidato afroamericano. Non manca chi ascrive il fatto che nelle manifestazioni dei giovani arabi non vi sia qualcuno che bruci le bandiere americane. Ma a nessuno viene in mente che se ciò avviene è perché Obama, in un applauditissimo intervento fatto all'università Al-Azahr del Cairo, ha proclamato con sincerità di accenti che gli Stati Uniti non sono in guerra con l'Islam e che anzi ritengono i popoli arabi tra gli artefici più importanti della civiltà umana mondiale. Vorrei concludere dicendo che il vero pacifismo non è quello assoluto (quello italiano è tutt'ora percorso dalle nature di anti-americanismo ad oltranza e ricorda tanto quello dei "partigiani della pace" che intorno agli anni 50' raccoglievano firme contro la guerra fredda e si meritavano per questo il plauso di un "pacifista" come Stalin).
La difesa della pace non è un sentimento imbelle e neutrale ma è una posizione ideale che deve sapere distinguere tra aggressori e aggrediti, tra oppressori ed oppressi, tra carnefici e vittime e quando occorre, deve saper anche impugnare le armi.
Nel Corano è detto "Combattete per la causa di Dio, ma non siate aggressori...Contro chi aggredisce combattete senza tregua fino a distruggere il nemico. Ma se questo a un certo punto mostra di preferire la pace, anche voi preferitela..."  

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