giovedì 7 aprile 2011

UN DOLORE SENZA NOME...

Articolo di Claudio Magris, Corriere della Sera, 07/04/2011
(A proposito dei 250 profughi morti annegati nello stretto di Sicilia)


"Un dolore senza nome"
Nella parabola evangelica degli operai della vigna quelli che hanno lavorato soltanto un'ora, l'ultima della giornata, ricevono lo stesso salario di quelli ingaggiati all'alba, che hanno lavorato tutto il giorno. Ma, se avevano atteso oziosi tutto il giorno, è perché nessuno prima li aveva chiamati; perché fino a quel momento non avevano avuto, a differenza degli altri, alcuna opportunità.
L'inaccettabile disuguaglianza di partenza tra gli uomini, che destina alcuni ad una vita miserabile e impedisce ogni selezione di merito, va dunque corretta, anche con misure apparentemente parziali e disegualitarie, come fa il padrone della vigna.
Il mondo intero è un turpe, equivoco teatro di disuguaglianze; non di inevitabili e positive diversità di qualità, tendenze, capacità, doti, risorse, ruoli sociali, bensì di punti di partenza, di opportunità. È un'offesa all'individuo, a tanti singoli individui, che diviene un dramma anche per l'efficienza di una società. I profughi che arrivano alle nostre coste e alle nostre isole appartengono a questi esclusi a priori, a questi corridori nella corsa della vita condannati a partire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi perdenti già prima della gara. A parte il caso specifico dell'emergenza di queste settimane, con tutte le sue variabili - l'improvvisa crisi nordafricana, la confusione e mistificazione di pietà, ragioni umanitarie, interessi economici e politica di potenza, la lacerazione e l'impotenza o meglio quasi l'inesistenza di un'Europa con una sua politica - quello che è successo e succede a Lampedusa non è solo un grave momento, ma anche un'involontaria prova generale di eventi e situazioni destinati a ripetersi nelle più varie occasioni e parti del mondo, di migrazioni inevitabili e impossibili, che potranno aprire un abisso fra umanità, sentimenti umani e doveri morali da una parte e possibilità concrete dall'altra.
Il numero dei dannati della terra, giustamente desiderosi di vivere con un minimo di dignità, è tale da poter un giorno diventare insostenibile e rendere materialmente impossibile ciò che è moralmente doveroso ovvero la loro accoglienza. In Italia certo ancora si strepita troppo facilmente, dinanzi a una situazione peraltro ancora sostenibile e meno drammatica di altre sinora affrontate in altri Paesi. Ma quello che è avvenuto a Lampedusa è un simbolico segnale di una possibilità drammatica ben più grande; se a Milano o a Firenze arrivasse di colpo un numero proporzionalmente altrettanto ingente di fuggiaschi, le reazioni sarebbero - sgradevolmente ma comprensibilmente - ben più aspre. Quello che è successo a Lampedusa dimostra, con la violenza e l'ambiguità di una parabola evangelica, la necessità e l'impossibilità di una autentica fraternità umana universale, il dovere e il non potere accogliere tutti coloro che chiedono aiuto.
Proprio per questo, proprio perché la situazione è così grave e implica contraddizioni forse insanabili per la civiltà, quel di più di ottuso rifiuto razzista, di calcolato e manovrato allarmismo, di livida chiusura è inaccettabile. C'è un elemento quasi simbolico e in realtà terribilmente concreto che esemplifica questa tragedia e richiama la parabola evangelica interpretata in questo senso da un saggio di Giovanni Bazoli. Barconi sono affondati nel Mediterraneo, persone sono annegate senza che di esse si conosca il nome. Questi operai non hanno avuto la chiamata e nemmeno il salvagente dell'ultima ora; sono stati cancellati dal mare come se non fossero mai esistiti, sepolti senza un nome. Di molti, nessuno forse saprà nemmeno che sono morti; ad essi è stato tolto anche il minimo di una dignità, il nome, segno di un unico e irripetibile individuo. La cancellazione del nome è un oltraggio supremo, di cui la storia umana è crudelmente prodiga. Livio Sirovich, in un suo libro, racconta ad esempio di un bambino ebreo nato in un lager di sterminio e ucciso prima di ricevere un nome. Meno tragico ma altrettanto umiliante è quanto racconta il maresciallo Chu Teh, lo stratega cinese della Lunga Marcia, quando nelle sue memorie dice che sua madre contadina non aveva un nome, come non lo avevano le galline del pollaio, a differenza degli animali che amiamo e cui rivolgiamo affetti e cure. Nella cerchia allargata della mia famiglia acquisita c'è, in passato, una bambina illegittima, causa dell'ostracismo destinato a quell'epoca a sua madre nubile, morta piccola; ho cercato invano, a distanza di tanti decenni, di ritrovare il suo nome e sento come una vergogna non esservi riuscito.
Il mare è un enorme cimitero di ignoti, come gli schiavi senza nome periti nella tratta dei neri e gettati nelle acque dalle navi negriere. Oggi - nonostante le gravi difficoltà, fra l'altro messe ingiustamente soprattutto sulle spalle dell'Italia - si può e quindi si deve fare ancora molto per accogliere quelli che il Vangelo chiama gli ultimi e che è difficile immaginare possano veramente un giorno diventare i primi, come il Vangelo annuncia. Talvolta sono vilmente contento che la mia età mi possa forse preservare dal vedere un eventuale giorno in cui non fosse materialmente possibile accogliere chi fugge da una vita intollerabile.

Claudio Magris è uno degli scrittori che apprezzo e amo di più per la sua profonda umanità e per la capacità che ha di immedesimarsi nel dolore dei disperati del mondo. Se dedico l'odierno post al suo articolo è per dichiararmi in affettuoso disaccordo con lui. I poveri morti di cui ha scritto non sono morti senza nome: tutti gli esseri umani hanno il nome che Dio ha apposto nella loro anima e nella loro esistenza; gli ha apposti alla loro nascita, nel momento in cui soffiava il suo soffio vitale nella creatura da poco concepita; e quel nome non può essere cancellato da nessuna forza e da nessuna sciagura. Gli annegati del Golfo di Sicilia e tutti i milioni di esseri umani che sono morti come loro nel corso dei secoli della crudele storia umana hanno il nome che ha dato loro l'altissimo. Per questo, anche se non gli abbiamo visti morire e non ci siamo inginocchiati in preghiera accanto al loro cadavere, possiamo ugualmente dedicare loro la preghiera dei morti.                                       Oltretutto penso che essi, considerata la loro provenienza geografica e la loro etnia, erano miei fratelli di fede; e sicuramente prima di morire hanno fatto in tempo a pensare che Allah è il più Grande, come ha fatto quel giovane morto di fame e di sete nel deserto del Sahara ritrovato in posizione di preghiera e prosternato con il volto verso la Mecca; o come la bambina, che aveva visto morire di stenti l'intera sua famiglia nello stesso deserto, e che una pietosa assistente sociale cercava di consolare, ha avuto la forza di dire: "Sia fatta la volontà di Dio".                                                                                                                                             Pubblico così l'intere cerimonia funebre dell'Islam perché chiunque abbia l'avventura di leggere questo post ne ripercorra mentalmente i passaggi e ne reciti le preghiere per quei nostri fratelli e quelle nostre sorelle che il mare ha inghiottito senza che altri uomini ne conoscessero il nome.
Il rituale islamico prevede che il morto sia lavato, messo nel lenzuolo funebre, si svolga per lui la preghiera funebre e sia sepolto. Queste quattro pratiche sono un obbligo per i musulmani della contrada di residenza del defunto. Per i morti dello Stretto di Sicilia questa residenza è il mondo intero e l'obbligo della preghiera grava quindi su tutti coloro che credono in Dio.                                                                                                     
Dopo aver lavato e messo il corpo nel lenzuolo funebre, il defunto viene portato alla moschea per la lettura della preghiera. La salma viene posta in direzione della Mecca e l'Imam si mette nella sua stessa direzione; gli oranti si dispongono in file dietro l'Imam. La preghiera si consta i 4 atti, non ci sono movimenti da fare e tutto si svolge in piedi. Bisogna in primo luogo formulare interiormente l'intenzione di eseguire la preghiera funebre, specificando anche per chi si sta pregando, per una sola persona o per un gruppo, per un uomo o una donna, per un adulto o per un bambino. Si inizia poi con le altre normali preghiere, alzando le mani all'altezza delle spalle, ponendo le palme  in direzione della Mecca e con le dita lievemente divaricate e recitando la frase di inizio: "Allahu Akbar". Si mettono poi le mani sul petto, la destra sulla sinistra e si passa poi alla recitazione della prima sura. Si pronuncia poi il secondo takbir seguito dalla recitazione della preghiera del Profeta. Si pronuncia poi il terzo takbir seguito da invocazioni per il morto, in particolare quelle tramandate dal Profeta: 
"O Dio, perdona i nostri vivi e i nostri morti, presenti ed assenti, piccoli e grandi, maschi e femmine. O Dio, chi hai fatto rimanere in vita tra di noi fa che viva secondo l'Islam, e chi di noi hai chiamato a Te, fa che muoia nella fede".
"Dio, perdonalo, benedicilo, dispensalo dalle punizioni e sii Misericordioso verso di lui; rendi bella e ospitale la sua dimora e ampio il suo ingresso; lavalo con l'acqua, la neve e la rugiada e purificalo dalle sue mancanze come viene mondata la veste bianca dallo sporco; dagli una dimora, fallo entrare in paradiso e proteggilo dalla prova della tomba e del castigo".
La preghiera viene poi conclusa come le altre preghiere normali con la parola "Amen".                                    Il corteo funebre deve essere seguito fino alla sepoltura. Gli Imam Bukhary  e Muslim riportano che il Profeta ha detto: "Chi partecipa a un funerale, fino a che si esegue la preghiera per un morto riceve da Dio la ricompensa di un carato; e chi partecipa fino alla sua sepoltura riceve in ricompensa due carati". Fu chiesto al Profeta: "Come sono due carati?". Il Profeta rispose: "Sono come due grosse montagne".

Vi sono per la verità simulacri di esseri umani (in realtà sono dei pagliacci) che non hanno nome anche se in vita lo esibiscono. Sono tutti coloro che in qualche misura sono responsabili della morte degli innocenti. Ad essi Dio ha riservato un supplizio eterno doloroso e umiliante. A Gerusalemme esisteva un luogo chiamato Gehennah, dove si bruciavano le immondizie. Gehennah è il nome dell'inferno.


P.S: I lettori provino ad immaginare con quale infastidito disprezzo mi tocca ad ascoltare chi da finestre molto alte, senza tradire emozioni nella voce, esprime il suo dolore per la morte di tante persone nel mare di Sicilia.

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