sabato 27 ottobre 2012

TURCHIA

Il muro del Bosforo

COME È TRISTE L’EUROPA VISTA DA ISTANBUL
Abbiamo sempre guardato al Vecchio Continente come a un modello, dalla laicità ai Lumi Ma
oggi è vittima delle sue paure      Ho passato la vita intera ai margini dell’Europa continentale:
dalla finestra della mia casa o del mio ufficio guardavo oltre il Bosforo e vedevo l’Asia sull’altra
riva; perciò, quando pensavo all’Europa e alla modernità, mi sentivo sempre, come il resto del
mondo, un pochettino provinciale. Come i milioni e milioni di persone che vivono al di fuori del
mondo occidentale, dovevo comprendere la mia identità guardando l’Europa da lontano, e nel
processo di elaborazione della mia identità mi sono spesso domandato che cosa poteva
rappresentare l’Europa per me e per noi tutti. È un’esperienza che condivido con la
maggioranza della popolazione mondiale, ma dal momento che Istanbul, la mia città, è situata
proprio dove comincia l’Europa – o forse dove finisce l’Europa – i miei pensieri e i miei
risentimenti sono stati un po’ più pressanti e costanti.
Provengo da una delle tante famiglie dell’alta borghesia di Istanbul che hanno abbracciato con
convinzione le riforme in senso laico e secolare introdotte negli anni ’20 e ’30 da Kemal Atatürk,
il fondatore della Repubblica turca. Per noi, che a metà Novecento conducevamo una vita
altoborghese a Istanbul, l’Europa non era semplicemente un posto dove poter trovare un lavoro,
un luogo con cui commerciare o da cui attrarre investitori: era in primo luogo un faro di civiltà.
A questo punto è il caso di sottolineare un fatto importante. Storicamente, la Turchia non è mai
stata colonizzata da una potenza occidentale, non ha mai subito l’oppressione dell’imperialismo
europeo. Questi ci ha consentito di coltivare più liberamente i nostri sogni di occidentalizzazione
all’europea, senza risvegliare troppi ricordi brutti e sensi di colpa.
Otto anni fa cercavo di convincere chi mi ascoltava di quanto sarebbe stato bello per tutti se la
Turchia fosse entrata nell’Unione Europea. Nell’ottobre del 2004, le relazioni fra la Turchia e
l’Unione Europea erano all’apogeo: l’opinione pubblica turca e gran parte della stampa
apparivano soddisfatte dell’avvio ufficiale dei colloqui per l’adesione. Alcuni giornali turchi
ipotizzavano con ottimismo che la faccenda non sarebbe andata per le lunghe, che Ankara
sarebbe entrata a pieno titolo nell’Unione Europea entro dieci anni, nel 2014. Altri scrivevano
resoconti fiabeschi dei privilegi che i cittadini turchi avrebbero finalmente ottenuto una volta
entrati nella Ue. Cosa più importante di tutte, ci sarebbero stati investimenti e i tesori infiniti dei
vari fondi comunitari avrebbero preso la via della Turchia, consentendo anche a noi, come i
greci, di salire un gradino più su nella scala sociale e vivere nel comfort come gli altri europei.
Nel frattempo diventava sempre più forte, specialmente in Germania e in Francia, il coro delle
proteste di gruppi nazionalisti e conservatori contro il possibile ingresso della Turchia
nell’Unione. Io mi ritrovai invischiato in questo dibattito e cominciai a interrogarmi (e a
interrogare gli altri) sul reale significato dell’Europa.
Se è la religione a definire i confini dell’Europa, pensavo, allora l’Europa è una civiltà cristiana: e
in questo caso la Turchia, la cui popolazione al 99 per cento è di fede islamica,
geograficamente fa parte dell’Europa, ma non ha posto nell’Unione Europea.
Ma una definizione tanto ristretta del loro continente sarebbe soddisfacente per gli europei?
Dopo tutto non è il cristianesimo che ha trasformato l’Europa
in un modello per le persone che vivono al di fuori del mondo occidentale, ma una serie di
trasformazioni sociali ed economiche, e le idee che tali trasformazioni hanno generato nel corso
degli anni. Questa forza intangibile che negli ultimi due secoli ha fatto dell’Europa una calamita fortissima per il resto del mondo è, per dirla in parole semplici, la modernità. Come i nostri fidati
libri di storia ci hanno insegnato, la modernità è il prodotto di fenomeni squisitamente europei
come il Rinascimento, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale. E
l’elemento chiave è che le forze trainanti di questi cambiamenti di paradigma non sono state
religiose, ma “laiche”.
Qualche anno fa, ogni volta che veniva fuori l’argomento dell’Unione Europea, dicevo che la
Turchia doveva entrare nell’Unione se dimostrava di essere in grado di rispettare i principi di
libertà, uguaglianza e fratellanza. «Ma la Turchia rispetta questi principi?», mi chiedeva
giustamente la gente, e ripartiva il dibattito. Ripensando a quei giorni non posso fare a meno di
provare un senso di nostalgia per la passione con cui si discuteva, sia in Turchia che in Europa,
dei valori che l’Europa doveva difendere.
Oggi, con l’Europa che si dibatte nella crisi della moneta unica e il processo di espansione che
ha subito un rallentamento, pochissimi si preoccupano ancora di ragionare e discutere su questi
argomenti. E purtroppo è anche scemato l’interesse positivo che circondava il possibile
ingresso della Turchia. In parte perché la libertà di pensiero rimane, tristemente, un ambito in
cui il mio Paese è ancora in ritardo. Ma la ragione principale sta indubbiamente nel consistente
afflusso di immigrati musulmani dal Nordafrica e dall’Asia in Europa, che agli occhi di molti
europei getta un’ombra cupa di dubbio e paura sull’idea che un Paese a maggioranza
musulmana entri nell’Unione.
È evidente che questa paura sta spingendo l’Europa a erigere muri ai suoi confini, e ad
allontanarsi gradualmente dal mondo. Mentre il motto Liberté, égalité, fraternité cade pian piano
nel dimenticatoio, l’Europa si trasforma tristemente in un luogo sempre più conservatore,
dominato da identità etniche e religiose.

ORHAN PAMUK

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