Perché i film sull’Islam sacrificano la verità
UN TEMPO andavamo al cinema per sognare, per invitare Ava Gardner o Sofia Loren a entrare a far parte delle nostre fantasie. Ci piacevano quelle storie d’amore che finivano male, eravamo felici di aver potuto vivere per un’ora o due tra le braccia immaginarie delle donne più belle del mondo. Questo accadeva prima che la politica s’impadronisse della settima arte per fare propaganda a colpi di effetti speciali, con inseguimenti di macchine sui tetti di Istanbul o esplosioni nei mercati popolari di Kabul o Islamabad.
Abbandonati i sogni meravigliosi e il «glamour», si punta sul tema del «pianeta in pericolo». E questo pericolo oggi è l’Islam. Evidentemente, quello sfigurato da Al Qaeda, o esibito da terroristi e trafficanti di droga per giustificare la loro barbarie, come sta avvenendo anche in questo momento nel Nord del Mali. Nella celebre serie «Homeland » si assiste alla visita di un agente della Cia a Beirut. Una caricatura. Fin dall’aeroporto, nient’altro che donne velate di nero, come in un feudo dei Taliban. Si dà il caso che io sia nato a Beirut alla fine di ottobre, poco dopo l’assassinio di Wissam al Hassan. E ho avuto modo di constatare la modernità, il dinamismo di questa città che non ha perduto nulla della sua energia e delle sue speranze, dove le donne sono vestite come le europee; e se alcune portano il velo, non hanno nulla a che vedere con l’immagine diffusa dal serial americano.
Bene ha fatto il ministro del Turismo a denunciare il modo in cui «Homeland» descrive la capitale libanese. Ha certamente ragione, anche perché questo serial, celebrato e premiato con vari Oscar, è distribuito in tutto il mondo e sta appassionando centinaia di milioni di telespettatori. Ma una denuncia contro una produzione di così grande portata e potenza non basta certo a ricostituire un’immagine veritiera del mondo arabo.
Nell’immaginario americano, oggi l’Islam e il mondo arabo hanno preso il posto del comunismo. In passato si combatteva con ogni mezzo contro il pericolo comunista (tanto che tuttora il popolo cubano soffre nella propria carne per l’embargo economico imposto dall’America, che neppure un presidente come Obama ha osato ammorbidire, e men che meno abolire). Ai bambini si diceva che il diavolo veniva dai Paesi comunisti. Ma poiché ormai l’Unione Sovietica si è dissolta, il muro di Berlino è caduto e il comunismo è relegato in Cina e nella Corea del Nord, ci si è rivolti a un nuovo diavolo:
l’arabo, il musulmano.
Evidentemente, non mancano gli arabi e i musulmani che si impegnano notte e giorno per accreditare nel mondo intero quest’immagine odiosa e devastante, propagando un terrorismo atroce, le cui principali vittime sono gli stessi musulmani. Certo, dall’11 settembre 2001 è stato fatto di tutto per dirigere la lotta contro il mondo islamico e arabo. Al Qaeda è il migliore alleato di quell’America che ha reso tutti gli arabi sospetti, e vede in ogni musulmano un potenziale terrorista.
Chi, come me, viaggia parecchio nel mondo ha avuto occasione di constatare fino a che punto un nome arabo su un passaporto (il mio è francese) susciti diffidenza e sospetti. Nel 2003 mi è capitato di essere trattenuto per varie ore in un box dell’aeroporto di Newark, senza aver fatto nulla di strano o di illegale, e senza che nessuno mi abbia dato spiegazioni. Il mio crimine era quello di essere arabo. Casi del genere si verificano tutti i giorni, ai danni di centinaia di migliaia di viaggiatori.
Abbiamo una cattiva reputazione. Siamo percepiti come lo erano i comunisti ai tempi della guerra fredda.
In un recente film americano di grande successo, «Argo», con Ben Affleck che ne è anche il regista, si racconta come nel 1979 la Cia riuscì a far uscire dall’Iran sei funzionari dell’ambasciata americana che si erano rifugiati presso quella canadese: una vicenda realmente accaduta.
L’Iran vi è rappresentato nel modo più orrendo possibile. Può darsi che all’epoca i guardiani della rivoluzione fossero veramente individui fanatici e brutali. Ma ciò che questo film suggerisce allo spettatore in maniera molto efficace è l’immagine di un Islam selvaggio, sanguinario e violento. Mi ha ricordato un altro film: «Midnight Express», che tanto male aveva fatto a suo tempo alla Turchia.
Non provo alcuna simpatia per il regime iraniano e la sua rivoluzione. Ma il mio pensiero va a quella popolazione, già costretta a subire il regime degli ayatollah. Perché penalizzarla ancora rappresentandola in un modo che non corrisponde affatto alla realtà? Viviamo in un sistema privo di sfumature, che rifiuta la complessità: bianco o nero, vero o falso, buono o cattivo, il bene o il male.
Ogni cosa è vista attraverso un prisma che sacrifica la verità. Ma non lamentiamoci, non accusiamo gli americani se non ci rispettano. Sta a noi, agli arabi coscienti di questa situazione lottare all’interno delle nostre società, contro gli impostori, i falsificatori, i bugiardi, gli inquinatori che corrompono la nostra immagine e la nostra storia, sacrificando il futuro dei nostri figli. Fintanto che i nostri Paesi non saranno divenuti Stati di diritto, con istituzioni realmente democratiche e con una cultura della libertà, saremo sempre soggetti ai perturbatori che ci confinano nell’arretratezza, nel pauperismo, nel sottosviluppo intellettuale. C’è tanto da fare nei nostri Paesi per ristabilire un’immagine veritiera e rispettata della nostra identità, della nostra religione e del nostro essere. Ma finché continuerà l’ingerenza della religione nella politica, finché regnerà la confusione tra la ragione e la fede, offriremo agli americani, e agli occidentali in genere, le migliori occasioni possibili per rappresentarci come caricature, o come marionette.
TAHAR BEN JELLOUN
Israele, dal Golan cannonate sulla Siria
Risposta ai lanci di missili. Alta tensione al confine con Gaza:
pioggia di razzi verso lo Stato ebraico
GERUSALEMME — Per la prima volta dopo quasi quarant’anni le batterie israeliane sulle
colline del Golan hanno sparato contro le postazioni siriane, in risposta ai missili vaganti che da
giorni arrivano sul lato delle alture nelle mani dell’esercito israeliano. Ieri mattina un colpo di
mortaio sparato dal lato siriano aveva colpito — facendo solo danni — un’area sotto il controllo
israeliano lungo la linea del “cessate-il-fuoco” che attraversa queste alture dopo la guerra del
Kippur nel 1973. Quasi
immediata stavolta la risposta: gli israeliani hanno sparato un colpo solo di avvertimento, un
missile anticarro Tamuz di grande precisione, che è andato a cadere a poca distanza dalle
posizioni tenute dall’esercito di Damasco. «Li abbiamo appositamente mancati», commentava
ieri sera il portavoce dell’Idf, annunciando che Israele risponderà «a ogni altra attività ostile».
Della violazione del “cessate-il-fuoco” è stato informato anche il comando Onu dei caschi blu
che presidia la regione; nella denuncia Israele avverte che «i colpi che arrivano dalla Siria
non saranno tollerati e la risposta sarà dura, questi incidenti rappresentano una pericolosa
escalation che potrebbe avere implicazioni importanti per la stabilità della regione». E in
mattinata il governo ha affrontato gli sviluppi della crisi siriana. Il premier Benjamin Netanyahu
ha fatto sapere che le autorità stanno «monitorando attentamente quanto avviene al nostro
confine con la Siria e siamo pronti a qualsiasi dispiegamento».
Da giorni si moltiplicano gli “incidenti” sulle colline del Golan, tre colpi di mortaio —
apparentemente sparati durante una battaglia nelle zone vicine alla frontiera fra forze ribelli e
esercito regolare — sono già caduti giovedì scorso in un area disabitata, lunedì scorso invece
una jeep militare era stata invece centrata da diversi proiettili vaganti, sempre sparati dal lato
siriano delle alture. Fra Siria e Israele c’è solo un accordo di “cessate-il-fuoco”, i due Paesi
sono ufficialmente ancora in “stato di guerra”. Ma malgrado l’occupazione e l’annessione
israeliana di una parte del Golan siriano — ci vivono 80 mila coloni — fra i due eserciti non si
sono mai verificati incidenti lungo la linea di demarcazione, larga in media 4 chilometri, che è
sorvegliata da un contingente dell’Onu forte di 1200 caschi blu.
Ma l’attenzione del Capo di Stato maggiore Benny Gantz e del ministro della Difesa Ehud Barak
è anche concentrata sulla fiammata di guerra che ha investito la Striscia di Gaza nelle ultime
48 ore. Dalle postazioni dei miliziani integralisti sono partiti più di cento missili in 24 ore, in
risposta a due attacchi “preventivi” israeliani. Sanguinoso il bilancio, con sei palestinesi uccisi
e oltre trenta feriti, mentre sul versante israeliano sono stati feriti quattro militari e 4 civili. Le
batterie antimissile Iron Dome hanno intercettato una decina di razzi, quelli diretti contro i
centri abitati circostanti la Striscia — Sderot, Ashkelon — i cui abitanti hanno passato l’intera
giornata negli “shelters” i rifugi anti-bomba obbligatori in ogni casa israeliana. Pugno fermo del
premier Netanyahu anche contro le milizie armate della Striscia che avverte: «Se cercano
l’escalation, noi siamo pronti».
Fabio Scuto
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