venerdì 23 novembre 2012

LA GUERRA DI GAZA

Le conseguenze della guerra

QUANDO i conservatori israeliani se la prendono con ragionamenti troppo pacifisti, o con chi in patria critica la politica dell'occupazione, subito tirano in ballo l'Europa: "Questo è un tipico ragionamento ashkenazita; non ha alcun rapporto con il Medio Oriente!", dice ad esempio Moshe Yaalon, già capo dell'esercito, oggi vice premier, rispondendo al giornalista Ari Shavit in un libro appena edito da Haaretz (Does this mean war?). L'ebreo ashkenazita ha radici in Germania e in Europa centrale, parla yiddish.

E lo stereotipo non è diverso da quello usato ai tempi di Bush figlio: l'America è Marte e virile, il nostro continente è Venere e fugge la spada. L'ashkenazi tornò come altri ebrei in Terra Promessa, ma ha i riflessi della vecchia Europa. Lo storico Tom Segev racconta come erano trattati gli ebrei tedeschi, agli esordi. Li chiamavano yekke: erano ritenuti troppo remissivi, cervellotici, e poco pratici. L'Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. Lo scettro decisivo sempre fu affidato all'America.

Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese. Lo stereotipo dell'ashkenazita mente, perché ci sono ashkenaziti di destra e sinistra. Era ashkenazita Golda Meir. Sono ashkenaziti David Grossman, Uri Avnery, Amira Hass, pacifisti, e espansionisti come Natan Sharansky. Ma lo stereotipo dice qualcosa su noi europei, che vale la pena meditare. Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati.

Eppure l'Europa avrebbe cose anche pratiche da dire, sulle guerre infinite che i governi d'Israele conducono da decenni, sicuri nell'immediato di difendersi ma alla lunga distruggendosi. Ne ha l'esperienza, e per questo le ha a un certo punto terminate, unendo prima i beni strategici tedeschi e francesi (carbone, acciaio) poi creando un'unione di Stati a sovranità condivisa.

Le risorse mediorientali sono quelle acquifere in Cisgiordania, gestite dall'occupante e assegnate per l'83% a Israele e colonie. Tanto più l'Europa può contare, oggi che l'America di Obama è stanca di mediazioni fallite. È stato quasi un colpo di fucile, l'articolo che Thomas Friedman, sostenitore d'Israele, ha scritto il 10 novembre sul New York Times: provate la pace da soli, ha detto, poiché "non siamo più l'America dei vostri nonni". Non potremo più attivarci per voi: "Il mio Presidente è occupato-My President is busy". Anche gli ebrei Usa stanno allontanandosi da Israele.

È forse il motivo per cui pochi credono che l'offensiva si protrarrà, ripetendo il disastro che fu l'Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Ma guerra resta, cioè surrogato della politica, e solo all'inizio la vulnerabilità di Israele scema. Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l'Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013.

Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente. Un male evidente, anche se ci s'incaponisce a negarlo. Sono ormai 45 anni - dalla guerra dei sei giorni - che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest'incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d'ingresso e d'uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l'Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l'Unione europea). Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni). I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane.

Se poi l'occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose. Un'architettura dell'occupazione che trasforma le colonie in dispositivi di controllo (in panoptikon), spiega l'architetto Eyal Weizman. È urgente guardare in faccia queste verità, scrive Friedman, prima che la democrazia israeliana ne muoia. Forse è anche giunto il tempo di pensare l'impensabile, e chiedersi: può un arabo israeliano (1.5 milioni, più del 20% della popolazione) riconoscersi alla lunga in un inno nazionale (Hatikvah) che canta la Terra Promessa ridata agli ebrei, o nella stella di Davide sulla bandiera? Potrà dire senza tema: sono cittadino dello Stato d'Israele, non di quello ebraico?

Questo significa che anche per Israele è tempo di risveglio. Di una sconfitta del nazionalismo, prima che essa sia letale. Separando patria e religione nazionale, la pace è supremo atto laico. Risvegliarsi vuol dire riconoscere i guasti democratici nati dall'occupazione. Le menti più acute di Israele li indicano da anni. Ari Shavit evoca i patti convenienti con Bush figlio, gli evangelicali Usa, il Tea Party: "Patrocinato dalla destra radicale Usa, Israele può condurre una politica radicale e di destra senza pagare alcun prezzo". Può sprezzare le proprie minoranze, tollerare i vandalismi dei coloni contro palestinesi e attivisti pacifisti. David Grossman ha scritto una lettera aperta a Netanyahu: l'accusa è di perdere ogni occasione per far politica anziché guerre (Repubblica, 6 novembre 2012). L'ultima occasione persa è l'intervista di Mahmoud Abbas alla tv israeliana, l'1 novembre: il capo dell'Autorità palestinese si dice disposto a tornare come turista a Safad (la città dov'è nato a nord di Israele). "Nelle sue parole - così Grossman - era discernibile la più esplicita rinuncia al diritto del ritorno che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dei negoziati". Abbas s'è corretto, il 4 novembre: la volontà di chiedere all'Onu il riconoscimento dell'indipendenza aveva irritato Netanyahu, e Obama di conseguenza ha sconsigliato Abbas. Quattro giorni dopo, iniziava a Gaza l'operazione "Pilastro della Difesa".

L'abitudine alla guerra indurisce chi la contrae, sciupa la democrazia. In Israele, allarga il fossato tra arabi e ebrei, religiosi e laici. Vincono gli integralisti, secondo lo scrittore Sefi Rachlevsky che delinea così il volto della prossima legislatura: una coalizione fra Netanyahu, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, e ben quattro partiti che vogliono - come l'Islam politico - il primato della legge ebraica (halakha) sulle leggi dello Stato. In tal caso non si tornerebbe solo alle guerre nazionaliste europee, ma alle più antiche guerre di religione. Stupefacente imitazione, per un paese dove l'Europa è sì cattivo esempio.

Barbara Spinelli

Gaza, la lunga attesa della tregua fuga tra le case dalle ultime bombe Un soldato israeliano ucciso dai razzi

GAZA - Gli occhi di tutti ieri a Gaza erano puntati sull'orologio, nella speranza che la mezzanotte fosse "l'ora X" per il cessate-il-fuoco, dopo sette giorni di bombardamenti e raid sulla Striscia, e più di 1200 missili sparati dai miliziani della galassia islamica contro le città israeliane del Sud, ma anche Gerusalemmee Tel Aviv. Ma la lunga vigilia delle "24 ore di calma" che tutti si augurano - grazie ai buoni uffici del presidente egiziano Morsi e alle pressioni internazionali - a Gaza City e nell'intera Striscia è stata un succedersi di esplosioni, con i droni israeliani in cerca "prede", gli F-16 che volavano bassi, i "tuoni" dei grandi cannoni navali che sparano dal mare, e le fiamme che illuminavano la notte. Entrambe le parti hanno cercato di sferrare un ultimo "colpo decisivo" al nemico. In quindici minuti le batterie di Hamas, della Jihad islamicae degli altri gruppi hanno sparato 150 missilia ventaglio contro il Sud d'Israele. Il bilancio di questa "guerra dei sette giorni"è di 150 palestinesi uccisi - oltre la metà sono civili - e più di mille feriti, dal lato israeliano sono 5 le vittime dei missili di Hamas, e fra loro ieri il primo soldato in un kibbutz nel Negev. È ancora presto per dichiarare una "hudna", una vera tregua.
Nessun accordo è stato firmato, si tratterebbe di un cessate-il-fuoco preliminare. Se ci sarà lo stop al lancio di razzi chiesto da Israele per almeno 24 ore si potrà procedere alla sottoscrizione di un'intesa: servirà a mettere alla prova l'affidabilità di Hamas, della Jihad islamica e di tutte le fazioni armate attive a Gaza. Sono trionfalistici i portavoce del premier Ismail Hanyeh: «Abbiamo impartito al nemico una lezione che non dimenticherà mai».
«Lasciamo Hamas rivendicare ciò che vuole. Tutti sanno che ha subito un grossissimo colpo in questi 7 giorni di azione militare», è la replica da Gerusalemme, facendo capire che l'altra "ora X", quella dell'attacco di terra, è stata solo aggiornata di 24 ore. L'imponente dispositivo militare schierato da Israele ai confini della Striscia - 40 mila uomini pronti all'invasione - aspetta solo un ordine del premier Netanyahu che ieri ha parlato «di mano tesa», ammonendo però che nell'altra c'è «la spada di David». Parlava dopo un incontro a Gerusalemme con il segretario generale dell'Onu Ban kiMoon, giunto in Israele per cercare di fermare il focolaio di guerra prima che contamini la regione.
Nella notte è arrivata anche Hillary Clinton, per mettere finalmente il peso americano in questa difficile maratona diplomatica, gestita soprattutto dall'Egitto.
Le ansie degli abitanti di Gaza non si sono placate, e l'attesa della tregua si mescolava con la paura di un'imminente attacco di terra.
Perché oltre ai missili aria-terra d'Israele che hanno colpito la banca di Hamas in pieno centro, l'edificio che ospita la sede dell'agenzia di stampa francese Afp e altri identificati come bersagli dall'intelligence dello Stato ebraico, e dopo l'omicidio mirato di due cameraman della tv Al-Aqsa vicina a Hamas, gli aerei israeliani hanno seminato a pioggia sulla città volantini in lingua araba in cui si intimava a tutti di allontanarsi «immediatamente» da alcuni quartieri della zona Sud. «Per la vostra sicurezza, sgombrate subito le case e spostatevi verso il centro di Gaza», era il messaggio. Molte famiglie terrorizzate sono scese in strada in cerca di un riparo, a centinaia hanno bussato con le coperte in mano alle porte delle scuole dell'Onu per chiedere rifugio, donne e bambini soprattutto.
«Ignoratei volantini israeliani», ordinava in serata una radio di Hamas, ma la gente già cercava di raggiungere il centro.
In una città devastata dalla guerra tutto è possibile, anche la giustizia sommaria. Ieri pomeriggio le brigate Al-Qassam hanno giustiziato nella centralissima Via Nasser sei persone accusate di essere dei "traditori". Una scena agghiacciante, ma non nel racconto dei testimoni: «Alcuni uomini armati sono arrivati a bordo di un minibus, sono entrati nel quartiere, arrivati a quell'angolo lì hanno spinto fuori sei uomini e gli hanno sparato in mezzo alla strada, poi sui corpi dei giustiziati è stato attaccato un messaggio che li chiamava "traditori" per aver "dato informazioni al nemico"». I cadaveri sono stati circondati da una folla di passanti: c'era chi scattava foto col telefonino, chi li prendeva a calci. Alla fine il corpo di uno dei sei è stato trascinato per le strade vicine da un gruppo di miliziani a bordo di motociclette, un messaggio feroce, "stile afghano" come quando a Kabul comandavano i Taliban.

Fabio Scuto

Obama gioca la carta Hillary in Medio Oriente per fermare le armi

PHNOM PENH - Altro che pensionamento. Nel momento della suprema emergenza Barack Obama non può fare a meno di lei. Hillary Clinton non esita un attimo, riveste la divisa di lavoro, scatta verso l'impresa più difficile. Le dimissioni possono aspettare: e questa si chiama grinta.
Ancora due notti in bianco, una qui in Cambogia per lavorare col presidentea tessere le fila del possibile cessate il fuoco tra Hamas e Israele; l'altra sull'aereo di Stato in volo verso il Medio Oriente, per preparare i dossier delle tre tappe cruciali della sua missione di oggi: Israele, Cisgiordania, Egitto.
Ieri sera l'incontro a Gerusalemme con il premier israeliano Netanyahu per cercare di ottenere «un'intesa duratura» che ponga fine alle violenze e riaffermare che l'impegno degli Stati Uniti per difendere la sicurezza d'Israele è «forte come una roccia».
E pensare che proprio ieri, incrociando alcuni giornalisti nel suo albergo qui a Phnom Penh, Hillary si era abbandonata a un momento di emozione, al pensiero che questo vertice Asean dovrebbe essere il suo ultimo viaggio da segretario di Stato con Obama. «È stato bello ma agrodolce, pieno di nostalgie». Aveva parlato troppo presto. Adesso anche la data delle sue dimissioni sembra in dubbio. Voleva andarsene in coincidenza con l'insediamento ufficiale di Obama Due, il 20 gennaio. Ora l'emergenza in Medio Oriente proibisce di fare previsioni. La Clinton, combattente disciplinata come sempre, ha già detto che resterà «fino a quando il presidente non designerà il successore,e il nuovo segretario di Stato supererà la procedura della conferma». Intanto la vera priorità che detta i tempi è spegnere l'incendio israelo-palestinese. La decisione l'hanno presa insieme, in una notte di convulse consultazioni internazionali. Alle due e mezza del mattino fra lunedì e martedì Obama e la Clinton erano ancora svegli, al diavolo il jet-lag, impegnati a sentire tutti gli attori del dramma: almeno tre telefonate al presidente egiziano Mohamed Morsi e al premier israeliano Benjamin Netanyahu. La mattina Obama sbadigliava vistosamente durante il vertice Asean, nonostante il bicchierone di caffè Starbucks sul tavolo. E appena possibile, ad ogni pausa dei lavori del summit asiatico il presidente tornava ad appartarsi. Sempre con lei, Hillary.
Insieme hanno deciso che lei sarebbe partita, subito. La sua presenza nel centro del conflitto è la massima prova di impegno americano, anche se la Casa Bianca è consapevole dei rischi che questo comporta. L'ultima prova dell'indispensabile Hillary, rilancia tutte le scommesse sul suo futuro politico. Nessuno, a cominciare da Obama, sembra disposto a credere alla versione ufficiale che lei diede già un anno fa, quando disse che era davvero stanca di questo mestiere, che voleva dedicare tempo a se stessa, «viaggiare finalmente per puro piacere». Magari fare la nonna. Lei che ha polverizzato il record di tutti i segretari di Stato, visitando 100 nazioni in quattro anni (alcune delle quali più volte), può davvero essere stanca? A 65 anni si considera pensionabile, una donna con questa energia e in una forma così vigorosa? Se il primo a dubitarne è Obama, è perché in quattro anni ha imparato a conoscere Hillary come pochi altri. Non sono diventati amici, perché sono troppo diversi, ma la loro alleanza politica e l'affiatamento sul lavoro, hanno raggiunto vette formidabili. Il merito è soprattutto di lei. Era Hillary ad avere l'orgoglio ferito, per la sconfitta nelle primarie democratiche del 2008.
Era stata lei a farsi pregare con insistenza, prima di accettare un incarico che non voleva. Poi il miracolo: frutto della sua disciplina, dell'autocontrollo, e anche di una lealtà ammirevole.
Questo summit asiatico è ricco di aneddoti. Hillary sempre attenta a non rubare il proscenio, sempre indietro di un passo rispetto al suo presidente. Perfino quando vannoa casa della sua carissima amica Aung San Suu Kyi lei resta in disparte, è la Lady birmana ad accorgersene e a correrle incontro per abbracciarla. E alla conferenza stampa nella villa sul lago di Yangoon, il presidente gioca con questa modestia. Fa finta di non trovare più il suo segretario di Stato, interrompe la dichiarazionee si guarda attorno: «Hillary, dove sei sparita?» Poi c'è la storia del monaco, nel convento buddista Wat Pho di Bangkok, su cui circolano versioni contrastanti. Il monaco avrebbe detto a Obama che il Buddha coricato gli porterà un terzo mandato (vietato per legge in America, ma fu fatta un'eccezione per Franklin Roosevelt). Secondo la stampa thailandese è Obama ad essersi girato verso Hillary, per indicare al monaco il futuro presidente nel 2016.
La base del partito non ha dubbi. L'ultimo sondaggio tra gli elettori democratici la vede favoritissima per la nomination del 2016 con oltre il 60% dei consensi, mentre Joe Biden che arriva secondo non raggiunge il 20%. Un buon piedistallo, per cominciare la raccolta fondi.

Federico Rampini

La scommessa di Obama far ripartire il negoziato di pace In prima fila l´Egitto di Morsi

GERUSALEMME - «Ci sono cittadini israeliani che si aspettano un´azione militare più dura e forse avremo bisogno di farla», dice accigliato Benyamin Netanyahu ai giornalisti convocati poche ore dopo aver accettato la proposta egiziana di fermare la guerra contro Hamas. E non sembra trattarsi soltanto di una minaccia in calce alla tregua, nell´ipotesi di una malaugurata violazione da parte del Movimento islamico. Più realisticamente, il premier israeliano sta semplicemente riferendo ad alta voce un pensiero diffuso nella maggioranza che sostiene il suo governo: Gaza non finirà mai di rappresentare una minaccia per Israele e prima o poi bisognerà rimettere i piedi in quella sabbia.
La tregua che mette fine all´operazione "Colonna di nuvole", nasce dunque con molti "se" e molti "ma". Bisognerà vedere nel dettaglio i termini dell´intesa raggiunta al Cairo per capire se può veramente rappresentare un punto di partenza per un vero negoziato in grado di stabilire una pace duratura, o se lo scetticismo di Netanyahu è destinato ad essere confermato dai fatti. Di sicuro, l´operazione "Colonna di nuvole" ha funzionato come un banco di prova per molti protagonisti sulla scena regionale, mettendo in luce una serie di cambiamenti che già si percepivano.
S´è capito subito che per il presidente Obama spegnere le fiamme della guerra era una condizione irrinunciabile per il futuro del suo nuovo quadriennio. E ieri se n´è avuta conferma. Dopo mesi, anni, di incomprensioni con il premier israeliano, è stato lo stesso Netanyahu a telefonare ad Obama (mai i due leader si sono parlati tanto come in questi ultimi giorni) per comunicargli la decisone di accettare la proposta egiziana. Obama l´ha ringraziato. E questo è un dettaglio rivelatore, di un cambiamento in corso nei rapporti tra i due alleati. Obama avrebbe potuto cogliere l´occasione della guerra di Gaza per saldare i conti con Netanyahu che non ha mai nascosto la sua simpatia per Romney. Invece, il presidente americano non l´ha fatto, preferendo far valere la sua ritrovata leadership quando deciderà di rilanciare il processo di pace, considerato in Israele morto e sepolto, contro un recalcitrante premier israeliano.
Si vedrà. Di certo, in questo momento l´America fa molto affidamento sull´Egitto del presidente Mohammed Morsi, il quale esce da questa vicenda con la corona del vincitore. Dopo aver ricevuto la telefonata di ringraziamento da Obama, Morsi è stato gratificato da Hillary Clinton con una serie di elogi sperticati, quando la signora della diplomazia americana ha affermato, alla conferenza stampa in cui è stata annunciata la tregua, che il governo egiziano aveva acquisito «responsabilità e leadership nella regione».
Sicuramente, nel successo di Morsi, ha pesato il comune legame ideologico e religioso tra i Fratelli Musulmani, cui il presidente egiziano appartiene, e i dirigenti di Hamas, il movimento che può essere considerato una "costola" dell´organizzazione islamista egiziana. Ma anche Morsi, stretto tra l´opinione pubblica egiziana solidale con i palestinesi di Gaza e il bisogno di accreditarsi come un interlocutore affidabile presso l´Amministrazione americana, da cui dipende un sostanzioso contributo alle spese militari, pari a un miliardo e 300 milioni di dollari l´anno, aveva fretta di trovare una soluzione alla crisi.
Lo ha saputo fare in prima persona, senza lasciare spazio al premier turco Erdogan che, precipitatosi al Cairo, ha adoperato nei confronti d´Israele parole molto più dure di quelle adoperate da Morsi, né al dinamismo dei paesi del Golfo, e segnatamente dal Qatar che per convincere Hamas a più miti consigli ha fatto leva sui 400 milioni di dollari promessi un paio di settimane fa ai dirigenti di Gaza per finanziare il loro «progetto nazionale».
Ma il Cairo, ha dimostrato di saper giocare un ruolo decisivo, citando ancora Clinton, come si conviene al paese non solo più popolato ma politicamente più prestigioso del Medio Oriente. E non solo, Morsi sembra proporsi oggi come perno di un´alleanza sunnita, composta da Egitto, Giordania, Tunisia, Paesi del Golfo che, in occasione della crisi di Gaza, ha costretto ai margini il fronte sciita guidato dall´Iran (cui non è rimasto che fare appello ai musulmani di mandare armi a Gaza) e composto da Hezbollah, Siria e in parte Iraq. E chissà che questo non sia già un test per domani.

Alberto Stabile



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