sabato 27 ottobre 2012

TURCHIA

Il muro del Bosforo

COME È TRISTE L’EUROPA VISTA DA ISTANBUL
Abbiamo sempre guardato al Vecchio Continente come a un modello, dalla laicità ai Lumi Ma
oggi è vittima delle sue paure      Ho passato la vita intera ai margini dell’Europa continentale:
dalla finestra della mia casa o del mio ufficio guardavo oltre il Bosforo e vedevo l’Asia sull’altra
riva; perciò, quando pensavo all’Europa e alla modernità, mi sentivo sempre, come il resto del
mondo, un pochettino provinciale. Come i milioni e milioni di persone che vivono al di fuori del
mondo occidentale, dovevo comprendere la mia identità guardando l’Europa da lontano, e nel
processo di elaborazione della mia identità mi sono spesso domandato che cosa poteva
rappresentare l’Europa per me e per noi tutti. È un’esperienza che condivido con la
maggioranza della popolazione mondiale, ma dal momento che Istanbul, la mia città, è situata
proprio dove comincia l’Europa – o forse dove finisce l’Europa – i miei pensieri e i miei
risentimenti sono stati un po’ più pressanti e costanti.
Provengo da una delle tante famiglie dell’alta borghesia di Istanbul che hanno abbracciato con
convinzione le riforme in senso laico e secolare introdotte negli anni ’20 e ’30 da Kemal Atatürk,
il fondatore della Repubblica turca. Per noi, che a metà Novecento conducevamo una vita
altoborghese a Istanbul, l’Europa non era semplicemente un posto dove poter trovare un lavoro,
un luogo con cui commerciare o da cui attrarre investitori: era in primo luogo un faro di civiltà.
A questo punto è il caso di sottolineare un fatto importante. Storicamente, la Turchia non è mai
stata colonizzata da una potenza occidentale, non ha mai subito l’oppressione dell’imperialismo
europeo. Questi ci ha consentito di coltivare più liberamente i nostri sogni di occidentalizzazione
all’europea, senza risvegliare troppi ricordi brutti e sensi di colpa.
Otto anni fa cercavo di convincere chi mi ascoltava di quanto sarebbe stato bello per tutti se la
Turchia fosse entrata nell’Unione Europea. Nell’ottobre del 2004, le relazioni fra la Turchia e
l’Unione Europea erano all’apogeo: l’opinione pubblica turca e gran parte della stampa
apparivano soddisfatte dell’avvio ufficiale dei colloqui per l’adesione. Alcuni giornali turchi
ipotizzavano con ottimismo che la faccenda non sarebbe andata per le lunghe, che Ankara
sarebbe entrata a pieno titolo nell’Unione Europea entro dieci anni, nel 2014. Altri scrivevano
resoconti fiabeschi dei privilegi che i cittadini turchi avrebbero finalmente ottenuto una volta
entrati nella Ue. Cosa più importante di tutte, ci sarebbero stati investimenti e i tesori infiniti dei
vari fondi comunitari avrebbero preso la via della Turchia, consentendo anche a noi, come i
greci, di salire un gradino più su nella scala sociale e vivere nel comfort come gli altri europei.
Nel frattempo diventava sempre più forte, specialmente in Germania e in Francia, il coro delle
proteste di gruppi nazionalisti e conservatori contro il possibile ingresso della Turchia
nell’Unione. Io mi ritrovai invischiato in questo dibattito e cominciai a interrogarmi (e a
interrogare gli altri) sul reale significato dell’Europa.
Se è la religione a definire i confini dell’Europa, pensavo, allora l’Europa è una civiltà cristiana: e
in questo caso la Turchia, la cui popolazione al 99 per cento è di fede islamica,
geograficamente fa parte dell’Europa, ma non ha posto nell’Unione Europea.
Ma una definizione tanto ristretta del loro continente sarebbe soddisfacente per gli europei?
Dopo tutto non è il cristianesimo che ha trasformato l’Europa
in un modello per le persone che vivono al di fuori del mondo occidentale, ma una serie di
trasformazioni sociali ed economiche, e le idee che tali trasformazioni hanno generato nel corso
degli anni. Questa forza intangibile che negli ultimi due secoli ha fatto dell’Europa una calamita fortissima per il resto del mondo è, per dirla in parole semplici, la modernità. Come i nostri fidati
libri di storia ci hanno insegnato, la modernità è il prodotto di fenomeni squisitamente europei
come il Rinascimento, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale. E
l’elemento chiave è che le forze trainanti di questi cambiamenti di paradigma non sono state
religiose, ma “laiche”.
Qualche anno fa, ogni volta che veniva fuori l’argomento dell’Unione Europea, dicevo che la
Turchia doveva entrare nell’Unione se dimostrava di essere in grado di rispettare i principi di
libertà, uguaglianza e fratellanza. «Ma la Turchia rispetta questi principi?», mi chiedeva
giustamente la gente, e ripartiva il dibattito. Ripensando a quei giorni non posso fare a meno di
provare un senso di nostalgia per la passione con cui si discuteva, sia in Turchia che in Europa,
dei valori che l’Europa doveva difendere.
Oggi, con l’Europa che si dibatte nella crisi della moneta unica e il processo di espansione che
ha subito un rallentamento, pochissimi si preoccupano ancora di ragionare e discutere su questi
argomenti. E purtroppo è anche scemato l’interesse positivo che circondava il possibile
ingresso della Turchia. In parte perché la libertà di pensiero rimane, tristemente, un ambito in
cui il mio Paese è ancora in ritardo. Ma la ragione principale sta indubbiamente nel consistente
afflusso di immigrati musulmani dal Nordafrica e dall’Asia in Europa, che agli occhi di molti
europei getta un’ombra cupa di dubbio e paura sull’idea che un Paese a maggioranza
musulmana entri nell’Unione.
È evidente che questa paura sta spingendo l’Europa a erigere muri ai suoi confini, e ad
allontanarsi gradualmente dal mondo. Mentre il motto Liberté, égalité, fraternité cade pian piano
nel dimenticatoio, l’Europa si trasforma tristemente in un luogo sempre più conservatore,
dominato da identità etniche e religiose.

ORHAN PAMUK

domenica 14 ottobre 2012

BREVI OSSERVAZIONI AUTOBIOGRAFICHE

Considerata la mia non più giovane età, sono stato colpito da una di quelle infermità che colpiscono sempre più persone perché la cultura pseudo scientifica dell'occidente, invece di impegnarsi a fondo contro le vere piaghe dell'umanità (la morte per fame soprattutto dei bambini, le malattie infettive dei paesi poveri), ha voluto ambiziosamente cercare di prolungare oltre il limite naturale la durata della vita terrena dell'essere umano.
Ecco perché quelle malattie che un tempo venivano chiamate invecchiamento, fanno gridare al progresso perché portano la vita dell'uomo oltre il limite che le leggi di natura volute da Allah ha fissato: tutti gli animali hanno un'età media biologica che di norma coincide con la capacità di procreare. Solo nell'uomo e in particolare il genere maschile va oltre l'età procreativa, mentre sappiamo tutti che questa cessa nella donna intorno ai 50 anni. Maschio e femmina della specie umana arrivano ormai nei paesi occidentali a livelli di gran lunga superiori, quasi che si nutrisse l'ambizione, da non pochi scienziati ventilata, di volerla prolungare fino oltre il secolo. Le malattie dell'invecchiamento tra cui assume una particolare rilevanza quella che mi ha colpito (il cosiddetto morbo di Parkinson) possono invece considerarsi un messaggio dell'onnipotenza di Allah: "Puoi prolungare la vita terrena fin quando vuoi o credi potere, ma l'Onnipotente ci ricorda che a Lui dobbiamo prima o poi tornare".
Si può fare tuttavia un uso positivo di quel tipo di infermità e ringraziare l'Onnipotente di avercela mandata lasciandoci la mente lucida e il corpo, sia pure con difficoltà, capace di muoversi. Possiamo così usufruire del nostro tempo per approfondire i ragionamenti sul destino dell'uomo, sui suoi bisogni reali e sui suoi doveri verso il Creatore e verso il prossimo. Per questo, in risposta a quei cialtroni che non sanno quello che dicono e che attribuiscono la mia infermità a una sorte di punizione per aver abbracciato l'Islam, mi viene spontaneo rispondere che io ringrazio Iddio per avermi dato quest'ultima opportunità di maturazione e di arricchimento del mio impegno per l'Islam.
Naturalmente tutto questo fa acquisire una maggiore capacità critica nei confronti delle miserie che l'umanità, e in particolare quella che crede di essere più civile e più evoluta, provoca ai propri simili e all'ambiente che ci circonda: sempre maggiori sono le devastazioni che la cosiddetta civiltà tecnologica provoca alla Terra che Allah aveva consegnato ai nostri progenitori perché ne facessimo un giardino, perché ne conservassimo la bellezza e ne proteggessimo le specie viventi. Dovremmo allora ricordarci che Allah, non è solo Clemente e Misericordioso ma è anche giusto e come più volte ricorda il Corano da a ciascuno ciò che si merita.
Alla luce di queste considerazioni mi viene di guardare con profonda preoccupazione e pietà a quel che accade nel mio paese, che è pur sempre la patria che l'Onnipotente mi ha assegnato e non posso trattenere l'indignazione davanti allo spettacolo della corruzione, del saccheggio delle risorse che ci rendono sempre più poveri delle ingiustizie che i più ricchi e potenti infliggono ai più poveri e diseredati. Dio punirà i trasgressori.
Sotto questo profilo non possiamo non lanciare un forte grido di allarme che si traduca anche in segnali di avvertimento verso i principali responsabili delle ingiustizie e dei delitti contro ciò che l'Onnipotente ha creato verso tutto ciò che vive. 
Nel mio piccolo ho così deciso di restituire al sindaco della città in cui risiedo la tessera elettorale che mi consentirebbe di esercitare il diritto di voto. Mi sono persuaso che nella situazione in cui ci troviamo a vivere la nostra esistenza quotidiana non può essere rimediato con il voto elettorale che, fatalmente, finirebbe con eleggere i peggiori; e basta dare un'occhiata anche superficiale a coloro che si vantano di essere i più capaci di governo per concludere che la cosa più giusta da fare è di non rendersi complici di questo teatrino della politica dove il gioco più praticato è la truffa, il furto del pubblico denaro, la malversazione nell'amministrare e nel gestire la cosa pubblica. Ai ladri che imperversano nel mio paese non posso che dire una cosa: "Fate pure i vostri comodi pretendendo di agire seconda giustizia, ma fatelo senza chiedere la mia complicità. Ai vostri giochi non voglio più partecipare".

P.S: La tessera elettorale la restituisco all'attuale sindaco di Vicenza, dott.Achille Variati che ha ampiamente meritato questo "privilegio" dopo aver negato alle migliaia di cittadini il diritto di avere un luogo di sepoltura conforme alle fedi religiose di ognuno, e ha permesso a qualche cialtrone a lui vicino di usare il come gazzetta dell'infamia il giornale cittadino sul quale è comparso l'invito ad allestire un cimitero per gli animali.

                                                              *  *  *  *  *

Naturalmente la questione della mancanza o del rifiuto di cimiteri riservati ai cittadini di religione islamica è solo un aspetto del comportamento anti islamico delle istituzioni italiane  e del silenzio praticamente totale della discriminazione anti islamica che coinvolge tutti gli aspetti della vita pubblica e di cui i comportamenti barbarici dei singoli è una inevitabile conseguenza. Enfatizzare oltre ogni limite i fatti di sangue che vedono coinvolti individui di religione musulmana, in particolare quelli che hanno per vittime le donne di ogni età (aggressioni, omicidi, uccisioni di famigliari), ipotizzando che la violenza è intrinseca alla religione islamica, è un corollario della generalizzata islamofobia che caratterizza il nostro paese e gli da tristi primati a livello europeo.
In nessun altro paese l'Islam è oggetto di una continua criminalizzazione: al riguardo si trascura la enorme varietà di cultura e di condizioni sociali che è tipica dell'immenso mondo islamico che comprende paesi civilissimi come l'Egitto, il Marocco, la Malaysia, le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, ricche di memorie storiche e di centri culturali di livello mondiale. Quando si scrive di "Islam" le montagne afghane sono la stessa cosa degli splendidi musei delle grandi capitali musulmane, e il modo di vita dei nomadi beduini e delle tribù pastorali del Waziristan, non si distingue in nulla dallo splendore riconquistato della Turchia e dei paesi nord africani dove, nonostante le sciagure della storia, il forestiero in visita si trova immerso in uno spettacolo di cultura compatta e vitale. Trovarsi ad Istanbul all'ora della preghiera della sera, con le moschee che si specchiano nel Bosforo e i minareti che riecheggiano gli inviti dei Muezzin, da la fisica impressione di trovarsi in un luogo dove vibra nella bellezza che ti circonda la presenza di Allah.
E' anche inutile cercare di spiegare che le mutilazioni genitali delle donne sono un portato di culture
pre-islamiche che l'Islam, seguendo i comandamenti del Corano, ha cercato in tutti i paesi di sradicare con leggi severe; che l'usanza ancora diffusa dei matrimoni coartati in danno a ragazze poco più che bambine viola il comandamento coranico: "Il matrimonio è nullo se entrambi gli sposi non sono completamente liberi"; che uno dei principali precetti del Libro Sacro è: "Nessuna costrizione è ammessa nella religione...Chi vuole creda, chi non vuole non creda". Ecco perché in un paese musulmano con una popolazione islamica a 95% come il Marocco dispone di 138 chiese cattoliche, di cui 1/3 grandi cattedrali, e di centinaia di sacerdoti, vescovi e cardinali; e così nella quasi totalità dei paesi musulmani. Solo poco tempo fa nella civilissima Svizzera che ha brillato per decenni per le decine di referendum contro la presenza di lavoratori stranieri si è tenuto un referendum popolare che ha sancito il divieto di costruire minareti e nuove moschee.
In Italia esistono solo tre moschee riconosciute come tali (Roma, Torino, Milano), mentre i luoghi di culto e di preghiera per un milione e mezzo di residenti islamici sono ricavati spesso in vecchi garage, in fatiscenti magazzini, e a volte sulla strada aperta al traffico. L'Italia è l'unico paese europeo dove non esiste una specifica normativa che regoli i rapporti tra confessione islamica e stato italiano: non occorre essere maliziosi per immaginare che tale vergognosa singolarità abbia a che fare con l'intolleranza di fondo della Chiesa Cattolica, che solo a parole si profonde in manifestazioni formali di rispetto per la religione musulmana. Le forze politiche italiane, tutte senza eccezioni, sono allineate nei fatti sullo stesso livello di intolleranza. Fino a quando questa vergognosa situazione non cambierà un musulmano che abbia la cittadinanza italiana non può certo considerare un diritto dovere l'esercizio del voto, ma solo una copertina per coprire una corposa realtà islamofobia: che per chi non lo ricordasse è stata in una conferenza volgarizzata a livello mondiale dall'ONU parificata all'antisemitismo. A quella conferenza il governo italiano, unico tra quelli europei, non ha partecipato.

venerdì 5 ottobre 2012

VENTI DI GUERRA TRA SIRIA E TURCHIA

Turchia-Siria chi cammina sull’orlo del cratere

BEIRUT. SONO  in tanti a camminare  sull’orlo del cratere, ma  tutti cercano di non  perdere
l’equilibrio. Pur alimentandola  con armi, denaro e parole,  nessuno vuole lasciarsi inghiottire
dalla guerra civile siriana, che si  calcola abbia fatto trentamila  morti e un paio di milioni di
profughi  in un anno e mezzo.       Pare che la prudenza non sia una virtù dei turchi,  ma pur
rispondendo  con energia all’uccisione  di una famiglia rimasta  vittima dei tiri d’artiglieria
dell’esercito  siriano in una zona di  confine, il governo di Ankara si è ben guardato dall’andar
oltre una  rappresaglia destinata soltanto  a salvare la faccia. Non ha minacciato  un vero
intervento. E la Nato, di cui la Turchia è un’importante  componente, ha espresso la sua
solidarietà. Nulla di più. Il governo di  Damasco,  è vero, si è scusato.
Sono in molti ad auspicare la fine  del regime di Bashar el Assad,  giudicandolo una dittatura
sanguinaria e  senza avvenire, ma sono anche in molti a temere  le conseguenze di  quella fine.
È FORSE per questo che i sostenitori  dei ribelli centellinano gli  aiuti.  Mentre l’esercito lealista,
quello di Damasco, usufruisce della  generosità dei suoi alleati russi e iraniani. Quanto siano
spilorci i  primi e di manica larga i secondi lo vedi sul terreno. I Mig 21 e gli  elicotteri governativi
possono scorrazzare  sui territori “liberati”  senza imbattersi  in un’antiaerea efficace, quindi
bombardano e  mitragliano senza correre  grandi rischi. Gli insorti essendo per lo più  dotati
soltanto di armi leggere, quando  vogliono colpire le zone  controllate dal regime devono
ricorrere alle autobomba,  spesso guidate  da prigionieri costretti a sacrificarsi come kamikaze.
Non si  intravede nel futuro scrutabile una soluzione del conflitto. Per ora non  ci sono in vista
né vinti né vincitori. Né si scorge la possibilità di  una tregua, di un compromesso tra le parti.
Anche perché l’Esercito  siriano libero è in realtà un mosaico di movimenti e milizie di varie
tendenze, senza un comando unico sul piano nazionale. Ed è quindi  difficile identificare un
interlocutore valido. Pur essendo male armata e  pur disponendo di meno uomini (un decimo
dei più di trecentomila  soldati lealisti) l’insurrezione  appare in vantaggio sul campo di  battaglia
perché il regime di Damasco non osa impiegare tutto il suo  pletorico esercito. Per impedire le
diserzioni non vuole che esso venga a  contatto con i ribelli  o con la popolazione dei territori
contesi. Si  limita quindi a usare aerei, elicotteri  e unità blindate (i T72 russi)  che servono da
artiglieria.
Insomma adotta sempre di più la guerra a  distanza, che infligge pesanti danni alla ribellione,
ma che non  favorisce  il controllo del territorio. Le diserzioni
sono state per  più di un anno la grande  risorsa in uomini e in armi dell’Esercito   siriano libero.
Ahmed Qunatri, un ex ufficiale adesso comandante di  un’unità ribelle nelle regioni del Nord,
confessa che da alcuni mesi  deve ricorrere a svariati  espedienti per convincere i soldati lealisti
a  cambiar campo. Ha cominciato  a praticare un’azione psicologica; a  offrire vantaggi in
denaro; a ricorrere a mezzi coercitivi. «Degni del  diavolo», ammette. E non è comunque facile.
Anche  perché la polizia di  Damasco colpisce  le famiglie dei disertori. Inoltre le azioni
terroristiche spengono la simpatia  per l’insurrezione della gente, e  quindi  dei soldati richiamati
alle armi. Consapevoli  di questo, pochi  giorni fa i gruppi  ribelli operanti nella zona hanno
cercato  di  attribuire ai governativi l’attacco suicida, che aveva appena ucciso  quaranta
persone in un quartiere di Aleppo, ma poi una milizia  affiliata o ispirata da Al Qaeda (Jabhet
al-Nusra) l’ha rivendicato.
Le  milizie estremiste, indicate come jihadiste o salafite, non prevalgono  tuttavia  nel vasto
mosaico dell’insurrezione.  La propaganda  governativa ne esagera  l’importanza per
spaventare la popolazione, in  particolare i cristiani. Un sondaggio tra gli insorti condotto da
siriani  per conto di vari organismi americani  (International  Republican Institute,  Pechter Polls
of Princeton, N. J., Carleton   University ed altri), ha rilevato una forte maggioranza di moderati per  quanto riguarda l’eventuale applicazione  di principi islamici. Il  riferimento alle democrazie
occidentali è risultato frequente,  e quindi  il rispetto per le minoranze  religiose. L’esempio del
governo turco,  dominato da un partito musulmano  moderato, è stato il più citato.
A  parte la Turchia del primo ministro Erdogan, spesso evocato anche nel  resto del Medio
Oriente, i paesi che appoggiano  la ribellione siriana  si distinguono per la loro ricchezza. Non
certo per il clima di libertà  che regna entro i loro confini. Il Qatar e l’Arabia Saudita sono infatti  i
principali finanziatori dell’insurrezione armata. Lo sono soprattutto  in quanto sunniti. Pur
essendo in concorrenza tra di loro. Il Qatar,  piccolo Stato con un grande portafogli gonfio di
petrodollari, era  presente anche in Libia. Con il suo dinamismo  politico-finanziario  vuole
evidentemente rimediare all’esiguità del territorio nazionale, e gareggiare con la grande Arabia
Saudita.
Entrambi  i paesi favoriscono in Siria i movimenti dei Fratelli Musulmani o di  quelli simili, la cui
intensità islamica è variabile. Il loro fervore  politico-religioso  si è intiepidito negli ultimi anni.
Ma, nella grande  famiglia sunnita, la corrente  wahabita (vale a dire saudita) resta più  intensa
di quella prevalente nel Qatar. E sarebbe questa la causa del  dissidio che spesso esplode tra i
due paesi. Ed è allora  che interviene  la mediazione turca.
Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono gli  acrobatici sostenitori della ribellione siriana,  che non
vogliono  correre il rischio di essere direttamente implicati, che si muovono  appunto in bilico
sull’orlo del cratere senza caderci dentro, ma che  sono  fermi nell’intenzione di plasmare la
Siria del dopo-Assad. Essi  sono appoggiati  in questa loro azione dalle potenze occidentali,
Stati  Uniti in testa, vigilanti ma anch’esse superprudenti. Forniscono  aiuti  umanitari ai profughi
e mezzi di comunicazione ai ribelli. Per ora  niente di più.
La guerra civile siriana ricorda quella di vent’anni  fa nei Balcani. I conflitti etnici  si confondono
con quelli religiosi.  Nell’Oriente complicato (da affrontare con idee semplici) lo scontro è  tra
sunniti  e sciiti, divisi dalla diversa interpretazione  dell’Islam  ma anche dalla Storia e nel
presente dalla lotta per l’influenza nella  regione. La Siria, benché a maggioranza  sunnita, è
governata dalla  minoranza  alawita, che ha radici sciite. Ed è l’alleata dell’Iran, la  grande
nazione sciita.  La quale è direttamente implicata a fianco di  Bashar al Assad. Non solo perché
gli fornisce armi e munizioni  attraverso  l’Iraq, dove c’è un governo dominato  dagli sciiti, ma
perché dei pasdaran sono presenti in Siria, pare nella veste di ottimi  cecchini. La prova? Di
recente sarebbe  stato sepolto con tutti gli  onori a Teheran un pasdaran ucciso a Damasco.  E
gli Stati Uniti, ancora  presenti a Bagdad, hanno invitato il governo iracheno  a non lasciar
passare nel suo spazio  aereo gli apparecchi diretti in Siria, con a  bordo armi e soldati. Se gli
Stati Uniti, e i paesi occidentali, sono  tra le quinte dell’insurrezione siriana, la Russia  rifornisce
di armi e  munizioni il regime  di Assad. E’ un frammento dimenticato  della  guerra fredda.
La Siria è anzitutto una trincea dell’Iran. La più  importante dopo la guerra che ha opposto negli
anni Ottanta l’Iran di  Khomeini all’Iraq di Saddam Hussein. Oggi per Teheran la Siria è “la  linea
di resistenza”  all’imperialismo. La resistenza  agli Stati Uniti,  che impone le sanzioni,  e a
Israele, che vorrebbe distruggere le  centrali atomiche iraniane. La guerra civile siriana
riassume cosi altri  conflitti. Sottoposto a sanzioni sempre più pesanti,  per la sua  indisciplina
nucleare, l’Iran vive una stagione difficile. La sua moneta  si è svalutata del quaranta per cento
nell’ultima settimana rispetto al  dollaro, e si sono accese manifestazioni di protesta, le prime
dopo  quelle soffocate  nel 2009, l’anno delle elezioni truccate.  Se  l’insurrezione siriana
dovesse trionfare, gli ayatollah perderebbero il  loro grande alleato in un momento critico.
Rimarrebbero isolati. Gli  hezbollah, i loro amici sciiti libanesi puntati come una spada contro
Israele, sarebbero ancora  più lontani. Per Teheran si annuncia  una  possibile grande sconfitta. Anche  qui, in Libano, con gli hezbollah in  casa e la Siria ai confini, si guarda con apprensione
a un futuro che  potrebbe essere  molto vicino.

Bernardo Valli


Nel villaggio ferito dalle bombe di Assad
la Turchia si scopre frontiera di guerra

AKCAKALE (CONFINE TURCO-SIRIANO) - I bambini sono tornati a giocare sul marciapiedi dove le tre sorelline Zainab, Mariam e Shaigul, assieme alla loro mamma, Zeliah e alla sua amica, Gulshan, sono state dilaniate da un colpo di mortaio sparato dall'esercito siriano. Nella loro incontenibile vitalità, i bambini sono riusciti ad assorbire la tragedia nei loro giochi. Mohammed spalanca la mano davanti agli obbiettivi dei fotografi per mostrare, orgoglioso, 4 o 5 schegge raccattate attorno al cratere dell'esplosione e Mustafà si arrampica sulla grata contorta del cancello per mostrare a tutti dove, quel mercoledì pomeriggio, è stato sbattuto dall'onda d'urto.
È come se Akcakale, una cittadina di 40 mila abitanti distesa tra biancheggianti campi di cotone, a ridosso del confine con la Siria, si sia spaccata in due. Metà è viva, illuminata, fragrante di odori e rutilante di colori; l'altra metà, quella che sfiora la frontiera e, con la sua periferia, incorpora il valico di Tel al Abjad, è una retrovia deserta, percorsa soltanto da mezzi militari, sorvegliata dagli elicotteri che le ronzano sopra, mentre oltre i recinti delle installazioni militari i carri armati, interrati, hanno i canoni rivolti verso la Siria. Centinaia di famiglie, ci dicono, hanno deciso di abbandonare le loro case per fare ritorno, almeno per ora, nei villaggi d'origine.
Questa è lo sfondo, visibile, del confronto esploso tra Ankara e Damasco, dopo il "triste incidente", parola del governo siriano,
di mercoledì. Ma l'incidente si è nuovamente ripetuto, ieri, a sud, nella regione di Antiochia (Atai) dove l'artiglieria turca ha risposto al fuoco dopo che un altro colpo di mortaio siriano è esploso vicino ad un'azienda agricola. Appena poche ore prima, il premier Erdogan aveva detto chiaramente di preparasi al peggio, ammonendo Damasco a non sottovalutare "la capacità di deterrenza" della Turchia.
È vero che qui a Akcakale dall'alba di giovedì non si spara più, ma per capire come questa specie di tregua armata sia appesa ad un filo, basta avvicinarsi al valico di Tel al Abjad. Su quella che appena poche settimane fa era la dogana siriana sventola il tricolore degli insorti, azzurro, bianco e nero, che fu anche la bandiera della Repubblica prima che nel 1970 salisse al potere Hafez el Assad, il padre di Bashar, l'attuale presidente.
Metà dell'edificio è sventrato dalle cannonate dell'esercito regolare. Non si vede anima viva. Solo quel lento sventolio. Ma i ribelli sono asserragliati all'interno e per il regime di Damasco, questa palese riduzione della propria sovranità territoriale, che si ripete in altri due valichi dei sei in cui si articola la lunga (900 chilometri) frontiera con la Turchia, è insopportabile. Anche perché la scelta di campo del governo Erdogan di schierarsi a favore della rivolta garantisce ai ribelli di poter contare, nel caso che i soldati siriani muovano per riconquistare il valico, su una facile via di fuga.
Il colpo di mortaio di mercoledì ha azzerato qualsiasi considerazione, se mai da queste parti ne ha avuta, nei confronti del raìs di Damasco. Le tende del lutto della famiglia Timucin, quella decimata dalla bomba, sono state innalzate a Bolatlar, 1400 abitanti, a una decina di chilometri da Akcakale. Le donne, che nascondono le capigliature sotto foulard dello stesso colore viola, sono inavvicinabili. Gli uomini si riuniscono a un centinaio di metri. Sulla soglia del capannone bianco il marito di Zeliah e padre delle tre bambine uccise, Omar, di 43 anni, riceve le condoglianze con accanto il figlio Ibrahim, 16 anni, sopravvissuto assieme ad altre tre sorelle rimaste ferite. Sotto il tendone, dove si entra a piedi scalzi come in una moschea. gli ospiti si raccolgono in piccoli gruppi. In un angolo, un vassoio colmo di sigarette, le teiere, le caffettiere, le ciotole con lo zucchero.
Omar, un contadino di 43 anni, sembra rifiutare sentimenti d'odio, o desideri di vendetta. "Queste cose vengono da dio e a dio deve rendere conto chi le commette", dice ad occhi asciutti. Il muktar del villaggio, Mustafà Tashtan, consente. "Noi non vogliamo vendette. Abbiamo fiducia nella fermezza del nostro governo", aggiunge col tono ufficiale del sindaco. Ma appena ci allontaniamo di qualche metro dalla gruppo che circonda i parenti stretti, un giovane ci chiede in un buon inglese: "Ma voi, in Italia, accettereste che un paese vicino spari e ammazzi la vostra gente?". "Bashar? - dice lo sceicco Taher Ozgut, arrivato per testimoniare la sua solidarietà - E' un assassino che non merita pietà", e accompagna le sue parole con il gesto inequivocabile di una lama che attraversa la gola. E tuttavia le cose non sono così semplici come vorrebbe far apparire l'anziano capo tribù.
La guerra civile siriana minaccia di ripercuotersi seriamente sul complicato caleidoscopio di minoranze su cui si regge la Turchia. E questo non può non indurre Ankara a qualche cautela. Akcakale, ad esempio, è un città mista arabo-curda. Siamo sulla pianura pedemontana del Kurdistan turco cioè alle pendici del vulcano separatista curdo. Ora, i curdi, oltre che in Iraq, in Iran e in Turchia, sono presenti e numerosi anche in Siria, e lì, in cambio di alcune concessioni sul piano dell'autonomia, hanno scelto di non schierarsi contro il regime. Ecco che i curdi turchi cominciano a sentirsi a disagio, stretti tra l'inevitabile solidarietà con i loro fratelli che vivono nel Kurdistan siriano, l'"invasione" degli arabi in fuga dalla Siria e l'antica diffidenza, se non ostilità, verso il governo di Ankara.

Alberto Stabile



lunedì 1 ottobre 2012


Quel mausoleo alla crudeltà 
che non fa indignare l’Italia

«Mai dormito tanto tranquillamente », scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia.
Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc,ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.
Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.
È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò...) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.
Il sito web del comune di Affile dedica una pagina a Rodolfo Graziani 'figura tra le più amate e più criticate a torto o a ragione'
Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».
Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».
«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica ».
Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.
Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente ». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».
C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».
Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.
Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.

Gian Antonio Stella

Rodolfo Graziani, l'ignobile personaggio che Stella ci ha fatto sommariamente conoscere nell'articolo del Corriere, è stato uno dei peggiori criminali di guerra della Seconda Guerra Mondiale: degno compare dei Goering, Himmler e di tanti altri criminali tedeschi e, purtroppo, italiani. Se il numero delle sue vittime non ha raggiunto i livelli toccati dagli eserciti nazisti è stato solo perché l'Italia era la compagna stracciona del nazismo e degli altri colonialismi europei che hanno insanguinato il mondo. A differenza dei tedeschi, nessun monumento costruito col denaro pubblico ne esalta qualcuno e gli dedica un monumento in Germania. L'iniziativa del comune di Affile è perciò qualcosa di unico nella esaltazione della vergogna. Non sarebbe male viste le cattive abitudini di troppi italiani che fingono di crogiolarsi nella convinzione che gli italiani, in fondo, sono "brava gente" che insieme al Giorno della Memoria, che si celebra in Italia per ricordare le poche migliaia di vittime che gli jugoslavi provocarono come reazione alle atrocità compiute durante la guerra, dedicassero un giorno a ricordare le vergogne di cui la ferocia fascista ci ha coperto di fronte ai popoli vittime della vocazione civilizzatrice italica: oltre al mezzo milione di libici, al milione di etiopi, ai 200 mila sloveni, ai 150 mila greci fatti morire di fame durante l'assedio di Atene, si edificasse un monumento alle vittime della barbarie fascista a livello internazionale. Il compito di inaugurarlo dovrebbe essere affidato a quei personaggi troppo indulgenti con i massacri e le atrocità commesse dagli ufficiali del reggio esercito italiano e delle squadre di milizia fascista. Un posto in questa compagnia potrebbe spettare anche all'attuale presidente della repubblica Giorgio Napolitano il quale, per quanto mi risulta, non ha mai levato una parola di indignazione contro i tripolini massacrati insieme a migliaia di cirenaici, agli abissini, agli sloveni della corniola e agli jugoslavi del Montenegro, vittime tutte insieme della cosiddetta "missione civilizzatrice" delle Aquile Romane inventate da Mussolini; ne andrebbero ulteriormente taciuti i silenzi di Toliatti e di De Gasperi e le visite onorifiche che il ministro della difesa Giulio Andreotti tributò al macellaio di Ciociaria Rudolfo Graziani in occasione della sua troppo prematura liberazione dalla galera cui era stato condannato come criminale di guerra.


P.S: Da notare che è dall'Italia che si levano i più alti strepiti contro i massacri di poche decine di copti provocati in Egitto dalla rivoluzione che ha liberato quel paese dalla tirannia di Mubarak. Anche le migliaia di etiopi impiccati o uccisi con i gas appartenevano al Cristianesimo copto monofisita.