C'è molto di surreale e di tragico nel rito che l'Assemblea generale dell'Onu si appresta a compiere nelle prossime ore. È scontato che una cospicua maggioranza del vasto campionario mondiale raccolto nel Palazzo di Vetro si pronunci in favore della promozione della Palestina da semplice organismo osservatore a Stato osservatore; ed è altrettanto scontato che la Palestina continui poi a essere l'entità territoriale militarmente occupata, qual è dal 1967; e che lo Stato tanto auspicato, promesso e temuto resti un miraggio.
In concreto, con i due tempi che scandiranno il rito dell'Onu, la Palestina passerà dallo strapuntino di semplice osservatore a un sedile riservato agli Stati che non lo sono sul serio. Il Vaticano, animato da altre ambizioni, se ne accontenta. Per la Palestina è una promozione piuttosto simbolica, anche se il voto dell'Assemblea generale ha in realtà un peso tutt'altro che insignificante, sul piano politico e morale. A dargli valore sono anche le promesse mancate. Quante volte è stato auspicato, annunciato uno Stato palestinese?
In questo senso il voto è una prima, timida riparazione. Denuncia l'incapacità di ieri e di oggi di chi conta nel mondo. Basta osservare come ci si è dati da fare nelle ultime ore per impedirlo. Ed è evidente l'angoscia dei paesi europei, il cui voto farà la differenza nella qualità del risultato. La loro scelta riguarda la giustizia, non solo la politica.
Surreale è senz'altro la procedura e tragico il risultato se li si mette a confronto con le aspirazioni degli abitanti di quella Terra troppo santa e troppo contesa. Nell'autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, aveva chiesto che il suo paese, fino allora presente all'Onu con l'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nella veste di semplice osservatore, diventasse uno Stato membro a pieno titolo. Ma quel tentativo è fallito perché, dopo il voto dell'Assemblea generale spettava al Consiglio di Sicurezza decretare l'ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gli Stati Uniti avrebbero posto il veto.
Washington riteneva e ritiene infatti che si debba arrivare al riconoscimento di uno Stato palestinese attraverso negoziati con Israele e non con "un colpo di mano" alle Nazioni Unite. L'esigenza della Casa Bianca coincide con quella israeliana, e blocca la situazione, perché la società politica di Gerusalemme vive una stagione di grande intransigenza. La quale assomiglia a un rifiuto a vere trattative. Alla vigilia delle elezioni politiche, previste per gennaio, nel Likud, principale partito al governo, ha prevalso alle primarie la corrente meno incline a un autentico dialogo con i palestinesi.
Un anno dopo, Abu Mazen comunque ci riprova, ma con una richiesta meno impegnativa. All'Assemblea generale, dove il veto americano non conta, chiede appunto, oggi, che la Palestina sia promossa da entità osservatrice a Stato osservatore (e non a Stato membro, come richiesto nel 2011). Votare l'ammissione di un paese a quel titolo non significa riconoscere diplomaticamente lo Stato, e quindi dichiarare ambasciata la rappresentanza che i palestinesi hanno già in tante capitali.
All'interno delle Nazioni unite il nuovo status aprirebbe tuttavia a loro alcune porte. Ad esempio quella dell'Organizzazione mondiale della sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penale internazionale comporta più problemi, perché in quella sede i palestinesi potrebbero denunciare gli israeliani e quindi promuovere processi scomodi per lo Stato ebraico. C'è stato un fitto andirivieni tra Washington, Gerusalemme e Ramallah, dove risiede Abu Mazen, per convincere quest'ultimo a impegnarsi su alcuni punti: in particolare a non ricorrere alla Corte Penale internazionale, quando ne avrà acquisito il diritto.
In proposito americani e israeliani avrebbero ottenuto una vaga promessa: i palestinesi hanno detto che non usufruiranno di quella possibilità durante i primi sei mesi. Poi si vedrà. Saeb Erekat, principale negoziatore palestinese, ha respinto un invito a Washington per evitare le pressioni americane. Quando nell'ottobre 2011 la Palestina fu ammessa all'Unesco come Stato membro, gli Stati Uniti sospesero i finanziamenti all'agenzia incaricata della cultura e dell'educazione. Finanziamenti pari a più del venti per cento del suo bilancio. Quali rappresaglie saranno adottate in questa occasione?
Gli israeliani ne hanno agitate parecchie: abrogazione degli accordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra Israele e l'Autorità palestinese; aumento degli insediamenti in Cisgiordania che contano già più di seicentomila coloni; confisca dei diritti di dogana; proibizione ai dirigenti palestinesi di uscire dalla Cisgiordania: ma di fronte alla tenacia di Abu Mazen il governo di Gerusalemme ha abbassato i toni. E non si parla più di sanzioni. Dice Yigal Palmor, portavoce del ministero degli esteri, che nulla accadrà se i palestinesi si accontenteranno di fare festa a Ramallah per celebrare la loro vittoria simbolica, e poi ritorneranno sul serio al tavolo dei negoziati. Ma Abu Mazen sa che non può andare a trattative alle condizioni poste dagli israeliani.
Il suo non è soltanto un confronto con Gerusalemme. La battaglia di Gaza, dove gli avversari palestinesi di Hamas celebrano la vittoria che si sono aggiudicati, ha ridotto il suo già scarso prestigio. Gli esaltati combattenti di Hamas considerano la moderazione Abu Mazen come una forma di collaborazionismo. L'iniziativa all'Onu è la sua battaglia incruenta. È l'offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l'uso delle armi. Questo è un motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tende la mano a chi lo rifiuta.
Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore. Il voto di New York interessa Gaza, dove si è imparato che le armi servono a sfogare la collera, a combattere i soprusi, ma non a risolvere i problemi. Alla vigilia dell'appuntamento di New York, Khaled Meshaal, uno dei leader (Mohammed Morsi, il presidente egiziano, l'ha voluto al suo fianco durante la crisi di Gaza) ha dato un pubblico appoggio a Abu Mazen. Lo ha fatto in aperta polemica con Ismail Haniye, il primo ministro. Entrata in società dopo un lungo isolamento, grazie agli alleati e ispiratori egiziani, i Fratelli musulmani al potere al Cairo, e lusingata dai gesti d'amicizia della Turchia di Erdogan, la gente di Gaza seguirà il voto all'Assemblea generale come se fosse una battaglia. L'esito potrebbe contribuire col tempo a demolire le mura del loro ghetto.
Sugli europei incombe nelle prossime ore una grossa responsabilità. Come al solito non sono riusciti a prendere una decisione comune. E quindi vanno dispersi al voto. Ma devono sapere che il loro parere contrario o anche una astensione, con l'inevitabile sapore di viltà, significherebbe una sconfitta per Abu Mazen, e in generale per i palestinesi che come lui rifiutano la violenza e ricorrono alla politica. Decine di ministri arabi visitano Gaza, dove si festeggia un'azione militare che ha appena fatto decine di morti, e migliaia nel passato. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armato della sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma anche obiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia.
Bernardo Valli
L'amarezza di Israele: L'Italia ci ha deluso
ROMA - «Non ce l'aspettavamo. L'Italia, uno dei migliori amici di Israele, ci ha molto deluso: da voi proprio non ce l'aspettavamo». Naor Gilon, l'iperattivo ambasciatore di Israele a Roma, parla chiaro. Perché lui stesso, i suoi colleghi a Gerusalemme, il governo di Bibi Netanyahu fino all'ultimo hanno creduto che l'Italia non si sarebbe schierata per il "sì" alla Palestina all'Onu. «È uno sbaglio, ci avete detto che lo fate per dare un sostegno politico, per aiutare Abu Mazen: ma questo indebolisce le relazioni tra israeliani e palestinesi fondate sugli Accordi di Oslo».
Ieri è stata una giornata difficile per la piccola ambasciata di via Mercati: rassicurati dai contatti del ministro degli Esteri Giulio Terzi, che da molti però è considerato troppo filo-israeliano per essere un referente credibile per Monti, gli inviati di Israele in Italia si preparavano a fronteggiare al massimo l'astensione dell'Italia.
Nelle decisioni di Monti sicuramente hanno pesato anche le pressioni dei partiti che sostengono il suo governo. Innanzitutto il Pd: Pierluigi Bersani l'aveva chiesta apertamente durante il dibattito in tv con Matteo Renzi. Il segretario dei Democratici aveva chiesto a Lapo Pistelli, responsabile esteri del partito, di seguire il lavoro di Palazzo Chigi. E adesso applaude, anzi rivendica un ruolo: «Credo di avere avuto qualche voce in capitolo in questa scelta:è ora di dire basta alla violenza, ora si incoraggino le forze moderate da entrambe le parti».
Dalla comunità ebraica e da molti settori di quello che era il Pdl arrivano e proteste, anche dure. Andrea Ronchi, dice che «fino a ieri l'Italia aveva deciso di astenersi sul voto all'Onu.
Che cosa è cambiato? È la prima conseguenza del confronto Bersani-Renzi? La posizione italiana è inaccettabile». Come lui, che aveva partecipato ad organizzare la visita di Gianfranco Fini a Gerusalemme, molti del centrodestra. Fabrizio Cicchitto e Margherita Boniver dicono che «la scelta del governo italiano all'Onu è un errore, dall'Autorità palestinese non è venuta mai una reale volontà di pace».
Franco Frattini, ex ministro degli Esteri e grande amico di Israele, già ragiona su come gestire la scelta del governo Monti: «Non bisogna dare ai palestinesi la sensazione sbagliata che questa risoluzione faccia nascere il loro Stato. E non dobbiamo gestire questa risoluzione come un colpo contro Israele». Chi crede che sia un colpo contro Israele e gli ebrei è invece Riccardo Pacifici, presidente della Comunità di Roma: «Una svolta improvvisa, visto che fino a ieri sera, prima del dibattito in tv tra Bersani e Renzi, l'Italia era nella prudente linea dell'astensione. Siamo dispiaciuti e amareggiati».
Bernardo Valli
Palestina all’Onu, la risposta di Israele:
tremila nuove case per i coloni
Gli Usa a Tel Aviv: così si ostacolano
i negoziati. L’alt delle Nazioni Unite
Dopo il si dell’Assemblea generale dell’Onu alla Palestina «Stato non-membro» del Palazzo di vetro, è il giorno della rappresaglia israeliana, preparata da tempo e mirata al cuore di uno Stato esistente solo sulla carta e negli organismi delle Nazioni Unite: il territorio. In particolare, quello tra Gerusalemme est e la Cisgiordania, dove saranno costruite 3.000 nuove abitazioni di coloni. La decisione è stata rivelata da un tweet di Barak Ravid, corrispondente diplomatico di Haaretz: «Le nuove case», scrive, «sorgeranno in aree già oggetto di un forte contenzioso con i palestinesi, come El, tra Maaleh Adumim e Gerusalemme, con una edificazione che separera’ la Cisgiordania del sud da quella del nord. Tutto ciò, nonostante Netanyahu abbia assicurato in passato a Barack Obama che il progetto di El sarebbe stato congelato» in base a quanto stabilito dalla roadmap siglata nel 2003.
Il progetto, che creerà un corridoio che di fatto pregiudicherebbe la continuità territoriale in vista della creazione di uno Stato indipendente, ha visto nel corso degli anni una dura opposizione da parte dell’Autorità nazionale palestinese. «È un atto di aggressione israeliana contro uno Stato e il mondo deve assumersi le sue responsabilità».
La preoccupazione per la nuova decisione israeliana è arrivata alla Casa Bianca, che pur condannandola come dannosa per i «negoziati diretti», è a questi ultimi che si affida per far ripartire il processo di pace: «Restano il nostro obiettivo e incoraggiamo tutte le parti a redere più facile un percorso che porti alla soluzione due popoli-due Stati», ha detto Tommy Vietor, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale. Così è anche per l’Onu: «Il segretario generale, Ban Ki-moon, ha più volte ripetuto che le nuove colonie non aiutano il processo di pace», ha dichiarato, Farhan Haq, uno dei portavoce del Palazzo di Vetro.
Nei Territori, per il momento, la gioia per il risultato raggiunto fa dimenticare le conseguenze in arrivo. Perfino Hamas, reduce da una breve guerra con Israele, si è unita all’esultanza della rivale Anp e di Abu Mazen per quella che he definito «una nuova vittoria sulla via della liberazione della Palestina e del ritorno dei profughi».
Il governo Netanyahu, che si era affidato ai successi dell’offensiva militare per riprendere fiato nei sondaggi in vista delle elezioni, si trova isolato anche in patria. La stampa di Israele è unanime nel definire una dura sconfitta il voto all’Onu, che ha visto contrari alla risoluzione solo 9 paesi: Haaretz ha parlato di «campanello d’allarme» perché anche Paesi amici europei hanno mandato un messaggio che «la pazienza per l’occupazione si sta esaurendo». Anche il più conservatore Yediot Ahronot ha definito il voto del Palazzo di Vetro «una debacle politica».
La diplomazia riparte, ma il voto ha riposizionato diversi Paesi, tra i quali l’Italia, che con i precedenti governi aveva espresso posizioni molto vicine a Israele. «È stata una decisione sicuramente ponderata», ha spiegato il ministro degli Esteri, Giulio Terzi. «L’Italia è fortemente convinta del suo rapporto di amicizia con Israele e con i palestinesi», ha assicurato Terzi che ha ribadito la richiesta all’Anp di accettare di sedersi «al tavolo dei negoziati senza precondizioni».
L’Unione europea, che al voto si era presentata divisa, sembra non riuscire a trovare un minimo di filo comune strategico e si affida all’inviato per il Medio Oriente, Andreas Reinicke, che ha chiesto laconicamente di «guardare al futuro» e di concentrarsi per far ripartire «il prima possibile» i negoziati tra israeliani e palestinesi.
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