sabato 24 dicembre 2011

SIRIA

Attacco kamikaze nel cuore di Damasco due autobombe davanti ai Servizi: 45 morti

LA SIRIA come l’Iraq: due autobombe — il marchio di fabbrica della guerra civile irachena — irrompono per la prima volta sullo scenario della protesta siriana. Esplose a pochi minuti l’una dall’altra, seminano strage sui marciapiedi di fronte alla Direzione della Sicurezza generale nel quartiere di Kfar Sousa, il cuore moderno della capitale. L’orologio della piazza ha segnato da poco le 10 del mattino, e due kamikaze si avvicinano al portale del compound dell’Intelligence. Il primo detona il carico, tentando di sfondare l’ingresso. Il secondo aspetta che arrivino i soccorsi, la folla si assiepa: sette minuti dopo, la nuova detonazione fa almeno 45 morti e 120 feriti. Muoiono i militari di guardia all’edificio assieme a molti civili usciti per gli acquisti il giorno di festa nel Mall, il centro commerciale proprio di fianco. Le due auto sono imbottite di una carica potente: l’onda d’urto scuote le pareti dei palazzi a cinquecento metri di distanza. Selim, un residente della Città vecchia, ha «sentito l’aria lacerata da due tuoni cavernosi. Ma il cielo era limpido, perciò abbiamo capito subito di che cosa si trattasse ». Mentre la televisione di Stato trasmette immagini cruente di corpi decapitati, membra dilaniate, facce carbonizzate, il regime s’affretta a denunciare Al Qaeda: «Lo abbiamo detto fin dall’inizio, qui si tratta di terrorismo. È il primo regalo di Al Qaeda», dice Faisal Mekdad, portavoce del ministero degli Esteri. L’opposizione è altrettanto lesta nel puntare l’indice contro i servizi segreti: «Abbiamo molti sospetti che questo possa essere stato organizzato dal regime», dice Basma Qadmani del Consiglio nazionale siriano, il gruppo di opposizione esterna di base a Istanbul. Le autorità, stando a quest’accusa, vogliono dimostrare alla Lega araba, arrivata da due giorni a Damasco, che la Siria è vittima di una cieca violenza, e per provarlo sarebbero disposte a devastare persino la capitale. La Lega araba ha appena inviato una prima delegazione: è l’avanguardia di una missione di centinaia di osservatori attesi entro la fine del mese per monitorare il rispetto del piano sottoscritto dalla Siria che dovrebbe servire a disinnescare la crisi e avviare una transizione pacifica verso la democrazia. Secondo la Lega, il regime deve ritirare le forze di sicurezza dai centri abitati, rilasciare i prigionieri politici e avviare un dialogo con l’opposizione. Il piano tuttavia è liquidato dai militanti, che parlano di «protocollo della morte», e proprio ieri avevano indetto dimostrazioni contro «l’apatia della Lega», respingendo l’invito rivolto a entrambe le parti di arrestare la violenza. Gli attivisti calcolano almeno 160 morti nell’ultima settimana di scontri. Stando all’Onu, le vittime in nove mesi sono più di 5000, cui il governo ne aggiunge 2000 fra i militari e la polizia. Da Washington il Dipartimento di Stato condanna «ogni tipo di terrorismo», però, attraverso il portavoce Mark Toner avverte: «L’attentato di ieri non deve impedire l’importante lavoro della Lega araba e la sua missione fatta per documentare e scongiurare gli abusi dei diritti umani, e proteggere i civili».

Alix Van Buren


Assad agita lo spettro terrorismo l’ultima difesa per evitare la caduta

UNA strategia gestita direttamente dalle stesse forze di sicurezza di Assad. Sospetto che trae alimento dal fatto che l’attacco, altamente simbolico oltre che drammatico, alla sede dei servizi di sicurezza è avvenuto nel giorno in cui inizia la missione della Lega Araba finalizzata a stabilire una tregua tra regime e oppositori e una soluzione negoziata della crisi. Un passo che Assad e il suo cerchio interno hanno accettato per guadagnare tempo, oltre che per evitare un ulteriore isolamento dal mondo arabo dopo la sospensione della Siria dalla Lega e l’adozione di sanzioni da parte dello stesso organismo. Bashar Assad, infatti, sa bene che un successo della mediazione preluderebbe alla sua uscita di scena… La repressione è stata troppo dura perché il leader siriano possa restare al suo posto. Dall’estate scorsa, poi, la rivolta non è fatta solo di manifestazioni di massa e di violenti scontri urbani ma anche di una guerriglia aperta, prodotto della diserzione di soldati sunniti che si sono rifiutati di sparare contro i membri della propria comunità e hanno, invece, rivolto le armi contro quanti ritengono dei persecutori. In Siria, paese a larga maggioranza sunnita, i comandi delle forze armate sono appannaggio dei membri dalla minoranza alawita, alla q u a l e a p – partiene lo stesso Assad, mentre gradi intermedi e soldati sono in larga parte sunniti. La classica frattura interconfessionale è ora esplosa anche tra i militari. I “disertori”, per ora forse un migliaio, hanno dato vita all’Esercito di Liberazione Siriano (Fsa) comandato da Riad Asaad, un generale dell’aviazione, arma tradizionalmente controllata dai fedelissimi del regime, significativamente rifugiatosi in Turchia. L’Fsa chiede alla comunità internazionale l’istituzione di una no-fly zone nel Nord, nella quale ha la sua principale base, dalla quale organizzare un attacco su larga scala contro le truppe governative. Non è un caso che la repressione contro i “disertori” sia stata particolarmente dura ai confini con la Turchia, come ricorda il recente massacro a Jabal al-Zawiya nella provincia di Idlib, dove parte degli effettivi dello Fsa si sono concentrati. Dalla capacità di contenere il fenomeno delle defezioni — sin qui non c’è stato il passaggio di intere unità nei ranghi dell’opposizione armata anche se la situazione si è rivelata piuttosto critica a Homs, teatro di durissimi scontri — così come dalla possibilità di mantenere il pieno controllo della capitale, presidiata dalla Quarta Divisione comandata da Maher, il fratello di Bashar, dipende la tenuta militare del regime. Sul piano del consenso, invece, esso può contare sull’appoggio di diversi settori sociali. In primo luogo le minoranze religiose: alawiti, cristiani, drusi, che temono un paese dominato dai sunniti, ma anche fette della borghesia sunnita, in particolare uomini d’affari, commercianti, impiegati pubblici, che hanno tratto vantaggio dal patrimonialismo di regime, lo sostengono ancora. Sono pezzi di società che rifiutano un futuro dominato da partiti e movimenti islamisti sunniti. In particolare dai Fratelli Musulmani, assai radicati nel paese e meno pragmatici dei loro confratelli egiziani o tunisini. Dimostrare che la caduta del regime aprirebbe spazi impensati a Al Qaeda, o comunque ai fautori di un diverso equilibrio geopolitico, è l’ultima carta per Assad. L’obiettivo è attenuare le pressioni esterne. Dei paesi arabi del Golfo e della Turchia. Oltre che rendere evidente a antichi nemici come Stati Uniti e Israele, preoccupati dei legami di Damasco con Teheran ma anche del certo effetto domino sulla regione provocato dall’eventuale caduta di Assad, e a storici alleati ora titubanti come la Russia, che in circolazione ci sono nemici ben peggiori, per i loro interessi, dell’attuale regime siriano.

Renzo Guolo







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