sabato 24 dicembre 2011

SIRIA

Attacco kamikaze nel cuore di Damasco due autobombe davanti ai Servizi: 45 morti

LA SIRIA come l’Iraq: due autobombe — il marchio di fabbrica della guerra civile irachena — irrompono per la prima volta sullo scenario della protesta siriana. Esplose a pochi minuti l’una dall’altra, seminano strage sui marciapiedi di fronte alla Direzione della Sicurezza generale nel quartiere di Kfar Sousa, il cuore moderno della capitale. L’orologio della piazza ha segnato da poco le 10 del mattino, e due kamikaze si avvicinano al portale del compound dell’Intelligence. Il primo detona il carico, tentando di sfondare l’ingresso. Il secondo aspetta che arrivino i soccorsi, la folla si assiepa: sette minuti dopo, la nuova detonazione fa almeno 45 morti e 120 feriti. Muoiono i militari di guardia all’edificio assieme a molti civili usciti per gli acquisti il giorno di festa nel Mall, il centro commerciale proprio di fianco. Le due auto sono imbottite di una carica potente: l’onda d’urto scuote le pareti dei palazzi a cinquecento metri di distanza. Selim, un residente della Città vecchia, ha «sentito l’aria lacerata da due tuoni cavernosi. Ma il cielo era limpido, perciò abbiamo capito subito di che cosa si trattasse ». Mentre la televisione di Stato trasmette immagini cruente di corpi decapitati, membra dilaniate, facce carbonizzate, il regime s’affretta a denunciare Al Qaeda: «Lo abbiamo detto fin dall’inizio, qui si tratta di terrorismo. È il primo regalo di Al Qaeda», dice Faisal Mekdad, portavoce del ministero degli Esteri. L’opposizione è altrettanto lesta nel puntare l’indice contro i servizi segreti: «Abbiamo molti sospetti che questo possa essere stato organizzato dal regime», dice Basma Qadmani del Consiglio nazionale siriano, il gruppo di opposizione esterna di base a Istanbul. Le autorità, stando a quest’accusa, vogliono dimostrare alla Lega araba, arrivata da due giorni a Damasco, che la Siria è vittima di una cieca violenza, e per provarlo sarebbero disposte a devastare persino la capitale. La Lega araba ha appena inviato una prima delegazione: è l’avanguardia di una missione di centinaia di osservatori attesi entro la fine del mese per monitorare il rispetto del piano sottoscritto dalla Siria che dovrebbe servire a disinnescare la crisi e avviare una transizione pacifica verso la democrazia. Secondo la Lega, il regime deve ritirare le forze di sicurezza dai centri abitati, rilasciare i prigionieri politici e avviare un dialogo con l’opposizione. Il piano tuttavia è liquidato dai militanti, che parlano di «protocollo della morte», e proprio ieri avevano indetto dimostrazioni contro «l’apatia della Lega», respingendo l’invito rivolto a entrambe le parti di arrestare la violenza. Gli attivisti calcolano almeno 160 morti nell’ultima settimana di scontri. Stando all’Onu, le vittime in nove mesi sono più di 5000, cui il governo ne aggiunge 2000 fra i militari e la polizia. Da Washington il Dipartimento di Stato condanna «ogni tipo di terrorismo», però, attraverso il portavoce Mark Toner avverte: «L’attentato di ieri non deve impedire l’importante lavoro della Lega araba e la sua missione fatta per documentare e scongiurare gli abusi dei diritti umani, e proteggere i civili».

Alix Van Buren


Assad agita lo spettro terrorismo l’ultima difesa per evitare la caduta

UNA strategia gestita direttamente dalle stesse forze di sicurezza di Assad. Sospetto che trae alimento dal fatto che l’attacco, altamente simbolico oltre che drammatico, alla sede dei servizi di sicurezza è avvenuto nel giorno in cui inizia la missione della Lega Araba finalizzata a stabilire una tregua tra regime e oppositori e una soluzione negoziata della crisi. Un passo che Assad e il suo cerchio interno hanno accettato per guadagnare tempo, oltre che per evitare un ulteriore isolamento dal mondo arabo dopo la sospensione della Siria dalla Lega e l’adozione di sanzioni da parte dello stesso organismo. Bashar Assad, infatti, sa bene che un successo della mediazione preluderebbe alla sua uscita di scena… La repressione è stata troppo dura perché il leader siriano possa restare al suo posto. Dall’estate scorsa, poi, la rivolta non è fatta solo di manifestazioni di massa e di violenti scontri urbani ma anche di una guerriglia aperta, prodotto della diserzione di soldati sunniti che si sono rifiutati di sparare contro i membri della propria comunità e hanno, invece, rivolto le armi contro quanti ritengono dei persecutori. In Siria, paese a larga maggioranza sunnita, i comandi delle forze armate sono appannaggio dei membri dalla minoranza alawita, alla q u a l e a p – partiene lo stesso Assad, mentre gradi intermedi e soldati sono in larga parte sunniti. La classica frattura interconfessionale è ora esplosa anche tra i militari. I “disertori”, per ora forse un migliaio, hanno dato vita all’Esercito di Liberazione Siriano (Fsa) comandato da Riad Asaad, un generale dell’aviazione, arma tradizionalmente controllata dai fedelissimi del regime, significativamente rifugiatosi in Turchia. L’Fsa chiede alla comunità internazionale l’istituzione di una no-fly zone nel Nord, nella quale ha la sua principale base, dalla quale organizzare un attacco su larga scala contro le truppe governative. Non è un caso che la repressione contro i “disertori” sia stata particolarmente dura ai confini con la Turchia, come ricorda il recente massacro a Jabal al-Zawiya nella provincia di Idlib, dove parte degli effettivi dello Fsa si sono concentrati. Dalla capacità di contenere il fenomeno delle defezioni — sin qui non c’è stato il passaggio di intere unità nei ranghi dell’opposizione armata anche se la situazione si è rivelata piuttosto critica a Homs, teatro di durissimi scontri — così come dalla possibilità di mantenere il pieno controllo della capitale, presidiata dalla Quarta Divisione comandata da Maher, il fratello di Bashar, dipende la tenuta militare del regime. Sul piano del consenso, invece, esso può contare sull’appoggio di diversi settori sociali. In primo luogo le minoranze religiose: alawiti, cristiani, drusi, che temono un paese dominato dai sunniti, ma anche fette della borghesia sunnita, in particolare uomini d’affari, commercianti, impiegati pubblici, che hanno tratto vantaggio dal patrimonialismo di regime, lo sostengono ancora. Sono pezzi di società che rifiutano un futuro dominato da partiti e movimenti islamisti sunniti. In particolare dai Fratelli Musulmani, assai radicati nel paese e meno pragmatici dei loro confratelli egiziani o tunisini. Dimostrare che la caduta del regime aprirebbe spazi impensati a Al Qaeda, o comunque ai fautori di un diverso equilibrio geopolitico, è l’ultima carta per Assad. L’obiettivo è attenuare le pressioni esterne. Dei paesi arabi del Golfo e della Turchia. Oltre che rendere evidente a antichi nemici come Stati Uniti e Israele, preoccupati dei legami di Damasco con Teheran ma anche del certo effetto domino sulla regione provocato dall’eventuale caduta di Assad, e a storici alleati ora titubanti come la Russia, che in circolazione ci sono nemici ben peggiori, per i loro interessi, dell’attuale regime siriano.

Renzo Guolo







IRAQ

Bagdad, il sangue dopo gli americani frana la "democrazia" portata dai tank

Forse spinto dal sollievo di mettere fine a un conflitto da lui non voluto, il presidente ricevendo a Washington, nei giorni scorsi, il primo ministro Nuri Kamal el-Maliki, è stato incauto. Ha detto che i soldati degli Stati Uniti si sono lasciati alle spalle un paese «sovrano, fiducioso in se stesso e democratico». L´eco delle sue parole non si era ancora spento quando il rissoso mosaico etnico che generali e diplomatici americani pensavano di avere placato, consentendo l´avvento di una convivenza civile tra sunniti, sciiti e curdi, ha cominciato a sgretolarsi, rischiando di andare in frantumi. Di crollare come un castello di sabbia. Come se a puntellare la democrazia importata dagli Stati Uniti fossero i carri armati, la cui funzione era quella di essere le impalcature di una effimera e insanguinata scena teatrale. 
Nessuno ha rivendicato per ora la strage di Bagdad, ma essa è avvenuta appena sono uscite dalla ribalta le truppe straniere, e subito si è acceso un aspro scontro politico all´interno della coalizione in cui convivono da un anno partiti sunniti, sciiti e curdi. Una coalizione di governo fragile, zoppa. Ci sono voluti otto mesi per formarla, dopo le elezioni, e ancora oggi i dicasteri incaricati nei vari settori chiave della sicurezza sono vacanti, oppure occupati da ministri provvisori non legittimati dal Parlamento. La reciproca diffidenza tra gli sciiti dominanti e i sunniti frustrati ed emarginati ha impedito finora un accordo. La forte, ombrosa personalità del primo ministro, accusato di volere imporre una dittatura, non ha contribuito a creare un clima di fiducia. 
Il riaffiorare in modo plateale delle rivalità nella società politica ha allargato il terreno d´azione del terrorismo, la cui attività non è in verità mai cessata del tutto. Un terrorismo dalle numerose teste, da alcuni attribuito all´edizione irachena di Al Qaeda, la quale trova sulle rive del Tigri tormentate dall´odio tra comunità, odio più etnico che religioso, un ampio spazio di manovra. Dall´Iran all´Arabia Saudita, passando per la Siria in preda alla guerra civile, non c´è Paese che conti in Medio Oriente senza un´antenna che può essere terroristica in Iraq. E si tratta di Paesi spesso in aperta tenzone. Molti iracheni pensano, con fondate ragioni, che a fomentare il terrorismo siano anche esponenti degli stessi partiti di governo, o milizie a loro affiliate. Nel quartiere di Karrada, a Bagdad, una donna ferita ha rifiutato di salire su un´ambulanza, dicendo «che non voleva essere aiutata da un governo assassino». Il primo ministro, uno sciita, ha del resto accusato un vice presidente sunnita di organizzare attentati, e ha spiccato contro di lui un mandato d´arresto, appena rientrato da Washington, e prima ancora della strage di ieri. 
Non sono in pochi a pensare che Nuri Kamal el-Maliki rifletta l´immagine dell´Iraq di oggi. Il personaggio non ha un carisma luminoso. Ha vissuto a lungo nella clandestinità, e il suo partito, Dawa, in cui si riconosce larga parte della comunità sciita, maggioritaria nel Paese, ha praticato in un remoto passato il terrorismo. Negli anni in cui si opponeva al regime dominato dalla minoranza sunnita, in particolare nei lunghi anni della dittatura di Saddam Hussein, ha operato a lungo nell´ombra, in varie regioni del Medio Oriente. Senz´altro a Beirut. E pare anche nel Kuwait dove avrebbe compiuto l´attentato del 1983 contro l´ambasciata degli Stati Uniti. Il caso di Nuri Kamal el-Maliki non è certo unico in Medio Oriente. Molti militanti politici costretti alla clandestinità sono stati coinvolti in azioni violente. 
Nel primo ministro iracheno sarebbe ancora visibile l´impronta di quell´attività svolta in gioventù. Si fida soltanto dei suoi stretti collaboratori, ha comportamenti bruschi, lo sguardo sospettoso, ed è poco incline al compromesso con gli avversari. Stenta ad affidare ad altri i servizi di sicurezza. Ha trascorso parecchi anni d´esilio nel vicino Iran. Non è il solo. Altri dirigenti sciiti perseguitati hanno trovato rifugio a Teheran. Saddam Hussein basava il suo potere sui correligionari sunniti, dominanti nelle Forze armate e nel partito Baath; mentre gli sciiti erano considerati spesso cittadini di seconda categoria. Oggi gli avversari di el-Maliki dicono che è un uomo di Teheran. Ma l´accusa appare eccessiva, perché nonostante le affinità religiose tra sciiti iracheni e iraniani, il rispettivo nazionalismo ridimensiona la complicità. Nella lunga guerra degli anni Ottanta tra l´Iran di Khomeini e l´Iraq di Saddam Hussein gli sciiti iracheni hanno servito fedelmente nell´esercito nazionale. E comunque gli americani, malgrado la vecchia attività terroristica di Dawa e la lunga permanenza a Teheran, hanno finito col fidarsi di el-Maliki e hanno puntato su di lui. 
Nei giorni scorsi, di ritorno da Washington, non ha perso tempo. Ha aperto un confronto con gli avversari sunniti, che pur partecipano alla coalizione di governo. Ha lanciato un mandato d´arresto contro il vice presidente Tariq el-Hashimi, un sunnita, accusandolo di avere organizzato attentati contro personalità sciite. Tariq el-Hashimi è fuggito nel Kurdistan, la regione settentrionale semi autonoma, sfuggendo ai poliziotti sguinzagliati dal primo ministro. E da Erbil ha accusato il governo di perseguitarlo, e di avere costretto alcune sue guardie del corpo a raccontare alla televisione sei attentati che avrebbero compiuto per suo conto. Per lui tutte fandonie. 
El-Maliki ha ingiunto senza successo alla polizia curda di eseguire il mandato d´arresto, e in una conferenza stampa ha minacciato di lasciare la guida del governo di coalizione e di formarne uno senza la partecipazione di Iraqiyya, l´alleanza laica dominata dai sunniti, se i suoi ministri e deputati continuano a disertare in segno di protesta le riunioni del governo e il Parlamento. Dopo queste dichiarazioni alla televisione, le accuse rivolte a el-Maliki di preparare una dittatura si sono moltiplicate. L´ambasciatore James F. Jeefrey, appena partito in vacanza negli Stati Uniti, è ritornato in gran fretta a Bagdad. Dove ha trovato il generale David H. Petraus, un tempo comandante delle truppe in Iraq e adesso capo della Cia, pure lui accorso d´urgenza. Entrambi sperano di salvare la democrazia irachena portata dai carri armati e incautamente consacrata da Barack Obama. Nella Zona Verde, l´area bunkerizzata di Bagdad dove sorge la più grande ambasciata americana, si deve misurare in queste ore, più che mai, l´ampiezza del fallimento. 
Certo, Obama aveva fretta. Come biasimarlo? Voleva uscire al più presto dall´Iraq, la trappola micidiale, costosa e disonorante in cui il suo predecessore George W. Bush ha trascinato gli Stati Uniti, nove anni fa, con falsi e irresponsabili pretesti. Obama aveva ragione. Difficile dargli torto. E così ha rispettato le scadenze, guardandosi bene dal prolungarle con faticosi, sofferti negoziati, per dar tempo all´instabile coalizione al governo a Bagdad di rafforzarsi, come consigliavano i suoi avversari. Affrontare le elezioni d´autunno con un impegno militare in meno, avendo chiuso una guerra per la durata seconda soltanto a quella del Vietnam, poteva favorire il presidente sulla soglia di un altro incerto mandato. 
Ma poche ore dopo la partenza dell´ultimo soldato sulle sponde del Tigri c´è stata un´altra dimostrazione di quanto la spedizione irachena sia stata un disastro. Se la fine di Saddam Hussein era augurabile, e salutare, bisognava coinvolgere gli iracheni nella lotta di liberazione. Non invadere il Paese sulla base di menzogne come quella delle armi di distruzione di massa. E poi restare degli occupanti che non potevano neppure bere una Coca Cola in pubblico con un cittadino o una cittadina irachena, senza rischiare la vita. La pretesa di importare con i carri armati in Mesopotamia la democrazia di Jefferson era assurda. Gli irriducibili sostenitori del conflitto rimprovereranno a Obama di essersene andato troppo in fretta. Come se nove anni non fossero bastati.

Bernardo Valli

mercoledì 21 dicembre 2011

RAZZISMO: Cancro dell'Umanità

Fra le manifestazioni negative dello spirito umano, il razzismo è la più pericolosa: se vogliamo fare un accostamento con una malattia possiamo paragonare il razzismo al tumore nella fase terminale delle metastasi diffuse. Nel razzismo confluiscono infatti l'intolleranza religiosa, l'odio etnico per "l'altro", l'istinto di sopraffazione e di morte, il patologico rifiuto del diverso che solo per la sua diversità incute terrore, il tutto è condito con il disprezzo, portato fino al desiderio dell'annientamento, dell'oppressione e dell'umiliazione.
Il simbolo più completo del razzismo è Auschwitz-Birkenau.
Il razzismo poggia sui peggiori istinti dell'uomo: dall'egoismo individuale e di gruppo alla paura cieca verso ciò che non si conosce e non si vuole comprendere; dal rifiuto della cultura e delle civiltà diverse alla pretesa di essere membri eletti di una razza superiore. Fa da cemento la tendenza a scaricare le proprie frustrazioni
sull'altro. Se il più ribadito precetto di Gesù è "Ama il tuo prossimo come te stesso", il razzismo è la più radicale negazione del concetto evangelico; e se la religione è il desiderio di cercare ciò che unisce la molteplicità del reale ("Res Ligo") e di sentire in Dio il significato comune di tutto l'esistente, il razzismo è la più grave manifestazione di anti religiosità: esso in realtà è offesa verso l'uomo e bestemmia contro Dio.
E' opinione diffusa che il razzismo sia inscritto nel DNA della specie umana. Si tratta di un'ignobile falsità: l'uomo è per natura un animale sociale e un essere culturale e la società e le culture nascono e si sviluppano e si sviluppano grazie allo scambio dei beni materiali e delle conoscenze, mentre il razzismo elimina lo scambio e vi sostituisce la rapina e l'omicidio. Il razzismo ideologico, politico, etnico e religioso è invece il prodotto della storia, e in particolare della storia europea degli ultimi secoli.
Non esisteva razzismo in senso proprio nelle culture del levo antico che pure praticavano su larga scala la schiavitù. Non erano razzisti i greci, che usavano adottare gli dei dei popoli con i quali venivano a contatto. I poemi omerici ruotano intorno al rimorso che i greci provano per aver distrutto una grande città nemica come Troia e cantano la grandezza di Ettore e il valore dei troiani. Ulisse è condannato a vagare perché a distrutto la sacra città di Ilio, e piange quando, alla corte di Alcino, re dei Feaci, sente un aedo troiano raccontare la distruzione della città. Si pensi anche ad una tragedia come "I Persiani" di Eschilo, dedicata al dolore del nemico sconfitto che pure, durante la spedizione di Serse, aveva raso al suolo Atene. Il primo storico, Erodoto, dichiara di dedicare le sue "Istorias" (testimonianze) al desiderio di "Sottrarre all'oblio del tempo che tutto distrugge le imprese gloriose sia degli elleni, sia dei barbari": questi ultimi non sono per lui individui incivili, rozzi e feroci, ma solo coloro che non parlano la lingua greca.
Pur essendo conquistatori spiegati, non erano razzisti i romani. Nel "De bello gallico" non è dato trovare un passo da cui si possa arguire che Cesare non considerasse uomini i Galli, gli Elvezzi o i Germani che si trovava di fronte; Tito Livio esalta di continuo il valore dei nemici di Roma e una parte della sua opera è un vero e proprio monumento ad Annibale, capo dei Cartaginesi. Tacito ha scritto una specie di apologia dei Germani. L'impero romano diede la cittadinanza a tutti i suoi abitanti con l'Editto di Caracalla; e numerosi imperatori e generali erano "barbari", traci, arabi e illiri. Spetto a un poeta gallo, Rutilio Namaziano, cantare nei decenni dell'agonia finale dell'impero quella che ai suoi occhi era la maggiore gloria di Roma: "Urbem fecisti quod orbis erat, et unum populum multos fecisti".."Trasformasti in città quel che era solo deserto, e di molti popoli ne facesti uno solo".
Non fu razzista il Medioevo, con i suoi ordinamenti giuridici retti dal principio della personalità del diritto, in forza del quale, in un territorio popolato da etnie diverse, ognuna conservava il suo "corpus iuris", salva comunque la possibilità di creare norme comuni a tutti: tali erano ad esempio gli editti "romano-barbarici" dei re longobardi. Non ebbe segno razzista neppure l'espansione araba e musulmana che si rifaceva alla regola coranica: "Creasti l'uomo maschio e femmina perché essi generassero un infinita progenie destinata a dividersi per lingua, colore della pelle, usanze, dando vita a innumerevoli tribù, nazioni e popoli, tutti eguali ai miei occhi". Nei secoli del suo splendore, l'Islam conobbe una tolleranza religiosa ignota ai regni cristiani; e tale tolleranza non venne meno neppure durante l'impero ottomano dei turchi. Nella "Gerusalemme liberata" i crociati scannarono oltre 20 mila musulmani e 6 mila ebrei, mentre Salah al-Din mandò i suoi medici a curare i guerrieri cristiani feriti o ammalati: egli si limitò a distruggere le tombe che i principi crociati si erano fatti costruire vicino al Santo Sepolcro di Gesù.
"Non posso tollerare che persone ordinarie e crudeli profanino con la loro sacrilega tomba quella che si ritiene di un grande Profeta come Gesù".
Gli arabi non hanno mai chiamato "negri" gli africani, ma "kafir" (infedeli); ma se gli africani abbracciavano l'Islam essi entravano a parità di diritti e di dignità nella Umma e cioè nella comunità dei credenti (il primo Muizzin fu un nero della Nubia). Il termine di Kafir era usato anche per definire i montanari bianchissimi delle montagne afghane che avevano rifiutato l'Islam; e nella storia dell'impero ottomano non si contano i capi militari e i vizir che, senza essere musulmani, erano devoti tuttavia alle religioni del libro (ebrei e cristiani).

Il razzismo è nato storicamente quando Cristoforo Colombo prese terra nelle Antille e i marinai al suo seguito "rifiutarono di riconoscere come esseri umani gli uomini che incontrarono; il che equivale a dire che gli uomini di Colombo incontrarono l'Uomo e non lo riconobbero" (Ernesto Balducci, prete cattolico). E' da allora che, per motivare lo sterminio e la riduzione in schiavitù di decine di milioni di esseri umani e di centinaia di popoli, "inferiori" solo perché privi di armi da fuoco e di polvere da sparo e indifesi di fronte le malattie infettive degli europei, il razzismo è diventato l'ideologia fondante del colonialismo e dell'imperialismo, ha pervaso i gangli vitali della cultura europea, anche di quella più alta, ha trovato benevola comprensione o attiva complicità nelle chiese cristiane e ha pervaso il costume della gente comune, ne ha condizionato o influenzato i comportamenti quotidiani diventando demagogico strumento di conquista del potere da parte di criminali populisti come Hitler.
Attraverso il razzismo i gruppi economici dominanti hanno fatto giganteschi affari: le compagnie di navigazione e quelle di assicurazione guadagnarono miliardi con la tratta degli schiavi dall'Africa, ma in vaste aree del nord America le confraternite religiose gestirono in prima persona il commercio degli schiavi "indios". Illustri storici e filosofi (liberali) hanno finito con il teorizzare la legittimità universale del fenomeno razzista. A mo di esempio citiamo il seguente agghiacciante brano del più stimato filosofo italiano, Benedetto Croce:
"Occorre sempre aver coscienza della distinzione tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura. Verso la seconda classe di esseri che solo zoologicamente sono uomini, va esercitato come verso gli animali il dominio, con il quale si cerca di addomesticarli e di addestrarli. Ma in certi casi, quando altro non si può, si lasci che vivano ai margini, oppure che di essi si estingua la stirpe, come accadde a quelle razze americane che si ritiravano e morivano dinnanzi alla superiore civiltà per loro insopportabile".
Il razzismo è un virus di fronte al quale l'Europa non è vaccinata a sufficienza: esso fa parte dell'inconscio collettivo, che tra i più rozzi esplode nei "Buuuu" gridati negli stadi da gente così digiuna di sport che dimentica come alcuni fra i più grandi campioni di tutti i tempi, da Jesse Owens a Pelé, da Mohammed Alì a Joe Louis e Sugar Robinson, erano "negri", mentre quello che è stato il più grande campione delle olimpiadi moderne è stato Jim Thorpe, indiano d'America, vincitore delle medaglie d'oro di pentathlon e di decathlon ai giochi di Stoccolma del 1912. E tuttavia non sono certamente i "Buuuu" il segno più allarmante e intollerabile del fenomeno; anzi io credo che l'enfatizzazione delle manifestazioni di becera inciviltà e ignoranza siano un modo per salvarsi la coscienza e per non operare in profondità contro il morbo dello spirito, a cominciare dalla scuola e finendo ai comportamenti individuali e quotidiani di ognuno di noi di fronte all'altro. Per restare al paragone di prima: fingere di strapparsi le vesti davanti al razzismo da stadio equivale a curare un tumore ai polmoni prescrivendo una pastiglia di Golia bianca contro la tosse.
Dei razzisti ho individuato tre categorie. La prima è quella dei razzisti ignoranti, pericolosi solo perché possono diventare massa di manovra di mestatori senza scrupoli. La seconda è quella dei razzisti inconsapevoli e parzialmente acculturati: sono quelli che, pur non conoscendo la materia, tendono a minimizzare genocidi e etnocidi oppure a giustificarli con le parole: "Si, però i bianchi hanno portato la civiltà".
La terza è quella dei razzisti motivati: individui di buon livello culturale i quali, o negano i genocidi o gli etnocidi o gli giustificano con la ferocia dei selvaggi e li motivano con la superiorità della civiltà europea e dei suoi valori cristiani. Questi ultimi, naturalmente, sono i più pericolosi anche perché in genere si tratta di gente stimata e professionalmente affermata.
Le tre categorie di razzisti debbono essersi ben mescolate per presenziare a una delle manifestazioni politiche più becere, volgari, miserabili e disgustose di cui l'Italia abbia avuto notizia da molti anni a questa parte. Mi riferisco alla marcia leghista contro i musulmani, svoltasi a Lodi con la partecipazione attiva di un consigliere regionale di Forza Italia e con la benedizione di un inqualificabile prete, che vi ha celebrato una messa blasfema. L'iniziativa è stigmatizzabile perché, al pari delle scritte che anche a Vicenza deturpano alberi e muri (no Islam) che le amministrazioni comunali di ogni colore si guardano bene dal rimuovere, rivela l'esistenza in Italia di uno sconclusionato anti islamismo pur essendo l'Italia il paese europeo che conta il minor numero di musulmani. In paesi come la Francia (5 milioni di musulmani), la Germania (3 milioni di musulmani), la Gran Bretagna (3 milioni di musulmani) e la Spagna (nella cui costituzione in un articolo si legge "la civiltà araba è elemento essenziale dell'identità spagnola") non si è mai verificato lo spettacolo di battaglioni formati da sbracati incivili simili a quelli che a Lodi, sotto la guida di Borghezio e di Calderoli, hanno dato vita a uno show di brutalità gratuita di razzismo idiota e pacchiano e di grottesca violenza verbale. Gli slogan erano un campionario del tipico lessico legaiolo: "O un sogno nel cuore, bruciare il Tricolore".."Chi non salta musulmano è!".."Musulmani multi-piedi, multi-mani, fuori dai coglioni!".."Conigli lodigiani cacciamo i musulmani". Il proclamo del capo leghista Lumbard suonava così: "Qui non faranno nessuna moschea a costo di andare a smontare di notte mattone su mattone e di fare nuovamente le crociate...E comunque porteremo i maiali a pisciare sull'area della moschea". Il defunto leader austriaco Hider in confronto a tali indefinibili cialtroni, era uno studente di Cambridge, educato alla tolleranza di Voltaire. L'indimenticabile Don Baget Bozzo, prete cattolico, commentò la vicenda di Lodi con queste parole: "Mi dispiace di non essere andato a Lodi per manifestare contro la cultura multietnica e per fermare i musulmani che vogliono portare la loro incontrollabile esplosione demografica e con essa la Guerra Santa". La schiera degli eletti personaggi nei quali il razzismo assume coloriture anti islamiche (ricordiamo qui Oriana Fallaci, il cardinale di Bologna Biffi, l'illustre giornalista, ex partigiano, Giorgio Bocca e l'altro indefinibile giornalista di sinistra che, non avendo mai partecipato a una preghiera islamica del venerdì, dove senegalesi neri come l'ebano si inginocchiano e pregano vicino a bosniaci biondi con gli occhi azzurri mentre tra i magrebini si va dai tipici mediterranei ai tuareg un pò abbronzati, ha avuto il coraggio di scrivere scempiaggini sul razzismo degli arabi contro i neri d'Africa) farebbe bene a non dimenticare i principi fondamentali del nostro ordinamento.
Ai razzisti di ogni tipo vorrei ricordare, se mai hanno ancora un barlume di umanità, l'insegnamento più nobile che ho raccolto frequentando per lunghi periodi gli indiani d'America: "I nostri vecchi erano molto saggi. Essi sapevano che il genere umano è come il Sole e che i popoli ne sono i raggi. Quando un popolo muore la terra diventa più fredda perché il Sole comincia a morire".
Cosa dire? I razzisti vogliono una terra senza Sole. Quando rifiutano la società multiculturale rifiutano ogni cultura, perché ogni cultura è multiculturale.

domenica 18 dicembre 2011

FIRENZE, A PROPOSITO DEL MASSACRO DEI SENEGALESI

Migliaia in strada per Samb e Diop
"Basta razzismo, vogliamo diritti"

ROMA - Dolore e rabbia per quei due ragazzi uccisi in mezzo alla strada per il colore della pelle. E proprio da Firenze, dove la pistola dell'estremista di destra Gianluca Casseri ha spezzato due vite, è partita l'onda di solidarietà che ha portato in strada migliaia di persone al fianco della comunità senegalese e per dire no al razzismo. Cortei e presidi a Firenze, Torino, Milano, Verona, Bari, Genova, Napoli e Bologna. Con un unico filo rosso che ha legato la protesta alla richiesta di abrogare la legge Bossi-Fini, di dare più diritti - a partire dalla cittadinanza - agli immigrati che vivono e lavorano nel nostro Paese e di fissare pene più dure contro il razzismo.

Firenze. Ventimila persone in corteo. Un lungo serpentone che si è mosso da piazza Dalmazia, dove la pistola di Gianluca Casseri ha fatto fuoco. In testa le bandiere del Senegal e i familiari delle vittime, Mor Diop e Modou Samb. Molte persone indossavano una fascetta rossa in segno di lutto. E' stato un corteo pacifico e silenzioso come avevano chiesto gli organizzatori. "Non si può diffondere disprezzo come è stato fatto in questi anni. Chi lo ha seminato, vedendo tutte queste persone, dovrebbe vergognarsi" dice Il portavoce della comunità senegalese fiorentina Pape Diaw - Al governo hiediamo leggi severe contro il razzismo e la discriminazione razziale". Tra la gente anche alcuni politici, il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani ("occorre chiedere alle istituzioni di fare la loro parte, reprimendo con severità fenomeni di terrorismo razzista"), il presidente della Puglia, Nichi Vendola ("cancelliamo la Bossi-Fini") e il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. "Noi senegalesi non abbiamo bisogno delle scuse di Casa Pound; loro, piuttosto, dovrebbero vergognarsi, e non solo di fronte a noi, ma davanti al mondo intero". Pape Diaw replica così agli esponenti di Casa Pound che stamani, a Bari, hanno detto di "non sentirsi in colpa e non dover chiedere scusa a nessuno".  




Parecchi giornali, commentando l'impresa del neonazista, grassoccio e vagamente disgustoso, che ha voluto riprodurre nel suo piccolo le imprese del suo compagno di fede norvegese qualche mese fa, si sono affannati a dire che un singolo episodio non può essere qualificato come razzista: i più hanno definito, il massacro, il gesto di un pazzo, e qualcuno lo ha più avvicinato alla tragedia di Columbine (USA), dove uno studente ha fatto il "tiro a segno" sui suoi compagni di università e ne ha ammazzati una ventina.  La stessa persona che ha fatto questo accostamento è uno scrittore italiano con madre americana, che ci ha tenuto a dire che le imprese del Ku Klux Klan erano tutta un'altra cosa. 
Vorremmo far osservare all'illustre scrittore che tra i fatti di Columbine e la strage di Senegalesi fatta a Firenze vi sono per lo meno due differenze: il killer americano ha ammazzato gente con il suo stesso colore di pelle, non risultava essere l'autore di deliranti saggi dal sapore nazista, ne risultava aderire attivamente a un'organizzazione pseudoculturale neonazista come Casa Pound. Non risulta neppure che l'impresa dell'assassino di Columbine abbia raccolto il plauso di circoli nazisti, ne che qualcuno abbia definito un "eroe bianco". Circa poi l'auto assolutoria affermazione di chi ama sostenere che gli italiani non sono razzisti vogliamo fare due semplici affermazioni:
L'Italia è l'unico paese d'Europa dove un partito razzista e xenofobo come la Lega ha fatto parte del governo nazionale per quindici anni; ed è l'unico paese d'Europa dove si pratica una politica vergognosa nei confronti del fenomeno immigratorio e un ministro degli interni leghista ha sostenuto che nei confronti degli immigrati clandestini occorre tenere una linea politica "cattiva". Il risultato sono le migliaia di vittime morte annegate nel Mediterraneo mentre, sfuggendo a guerre e carestie, cercavano di raggiungere il nostro paese. La circostanza è ancora più deprecabile se si considera che la maggioranza degli annegati avrebbe avuto diritto all'asilo politico in base alle leggi internazionali.
Se poi ci dovessimo soffermare sui comportamenti individuali, credo che in nessun altro paese d'Europa se non forse l'Ungheria, tiene nei confronti degli stranieri comportamenti ispirati al disprezzo più totale e al rifiuto. Tanto per ricordare il fatto più eclatante, si sottolinea che in barba all'Articolo 19 della Costituzione, nonostante tra gli immigrati vi siano più di un milione e mezzo di musulmani, esiste soltanto una moschea degna di questo nome e che la politica persecutoria nei confronti delle associazioni islamiche confini di culto sono sottoposte a ogni genere di restrizione e di angheria in nome della "sicurezza contro le infiltrazioni terroristiche". Non credo sia arbitrario evidenziare che anche i musulmani nativi dell'Italia (parlo per esperienza personale) sono fatti oggetto quotidianamente di insulti, provocazioni, telefonate anonime e quant'altro. I 3500 musulmani che risiedono a Vicenza non sono ancora riusciti a farsi assegnare uno spazio comunale da usare per seppellire i propri morti; e in quest'ultima disgustosa impresa non è dato riscontrare nessuna differenza tra i comportamenti degli amministratori comunali di ogni partito, cominciando dal sindaco.

Ci sono poi segnali più sottili per dare corpo al razzismo italico, in larga misura dovuto a totale ignoranza nei confronti delle culture degli immigrati. Nei servizi televisivi dedicati alla manifestazione che i senegalesi hanno organizzato sabato scorso a Firenze c'è dato più volte di sentire che il corteo si è concluso con la esecuzione di un canto funebre tribale. Lo abbiamo ascoltato questo canto tribale funebre: si trattava della prima sura del Corano, recitata in lingua araba e antica di 1500 anni. Vorremmo chiedere agli autori di quei servizi se si sono preoccupati di chiedere a qualcuno dei senegalesi cosa stessero cantando. O forse sembrava troppo presentare una folla di migliaia di persone di fede musulmana, profondamente ferite dall'azione criminale di un "eroe ariano", mentre manifestavano pacificamente con una preghiera il loro dolore.

P.S: Abbiamo saputo che la comunità senegalese di Firenze pretende le scuse di Casa Pound per quanto è accaduto. Secondo il mio parere non è il caso. Ottenere le scuse da una congrega di mascalzoni che sotto l'etichetta "culturale" spacciano vocazioni omicide e genocide infangherebbe la memoria delle vittime. 

mercoledì 14 dicembre 2011

A PROPOSITO DELLA TRAGEDIA DI FIRENZE

Siamo costretti ad interrompere l'esposizione dell'opera di Tarik Ramadan per soffermarci sulla tragedia di Firenze dove il solito nazista, troppo facilmente spacciato per pazzo, ha ucciso a sangue freddo due fratelli senegalesi e ne ha feriti altri 3 sparando con la sua pistola in mezzo alla folla, senza dar segni di emozione o di vergogna: il suo odio per i "negri" era infatti per lui assolutamente normale e normale erano quindi gesta consequenziali di giustiziere.
Esistono, soprattutto nelle letterature riservate in Europa all'infanzia e all'adolescenza, innumerevoli romanzi e fumetti dii avventura. In essi si legge sempre che il "civilissimo uomo bianco" sbarca per spirito di conoscenza in mezzo ai cannibali patagoni e per difendersi ne distrugge la razza; non è male ricordare i libri western dove il prode cacciatore bianco è costretto a difendersi dagli attacchi di biechi scotennatori, e per farlo incendia villaggi, trucida uomini disarmati, sgozza e scotenna donne e bambini; in altri libri di autori inglesi ci si sofferma sulla oscura barbarie dell'India dei Thugs dove l'uomo bianco, a causa del suo fatale fardello di civilizzatore, saccheggia, devasta e riduce in miseria uno dei prodotti più alti della civiltà umana, l'impero Mogul.
Con l'Africa e con gli africani il rapporto è diverso. Per i razzisti nostrani l'africano, specie se è nero, è un "bingo bongo" che, meno di 100 anni fa, saltava di ramo in ramo come le scimmie; il che ha legittimato per secoli una delle più grandi tragedie della storia: la tratta dei neri d'Africa verso le Americhe.
Sicuramente ciò che frullava per la testa del ben pasciuto "intellettuale nazista", autore della strage di Firenze, è un insieme organico di tutte queste aberranti idiozie: non a caso l'assassino era un fanatico lettore di fumetti e di storiacce razziste e di ispirazione nazista: circostanza, questa, che ha fatto apparire un vigliacco miserabile come un eroe dei messaggi web inviati dai dementi criminali come lui.
Naturalmente i soliti "ben pensanti" moderati tenderanno a minimizzare quanto accaduto ricorrendo, come è stato fatto per l'assassino norvegese di qualche mese fa, alla categoria del povero pazzo o dello scemo del villaggio. Vorremmo dal più profondo del cuore che fosse veramente così: ma noi europei dobbiamo sapere fino in fondo che la dimensione nel campo di sterminio e dell'uccisione del diverso affonda le sue radici nei recessi oscuri di quella che ci si ostina a definire la civiltà occidentale, che tra le sue immagini simboliche reca quella di una divinità che in nome dell'amore non esita a far morire il figlio innocente. Del resto alla base dell'antica "spiritualità" europea c'è la distruzione della città di Troia: ma almeno i greci, nella loro pietas pagana punivano il responsabile di quella distruzione condannandolo a vagare per 20 anni cercando inutilmente di tornare nella sua terra:
"Narrami o musa dell'uomo dall'ingegno multiforme che per molto tempo fu condannato a vagare poiché aveva distrutto la sacra città di Troia". E' pur vero che l'occidente ha poi addolcito l'immagine di Ulisse e l'ha fatto vagabondare per amore di conoscenza: come Cristoforo Colombo e in Conquistadores che sterminarono i popoli di un intero continente.
Cari fratelli del Senegal, dei quali conosco la gentilezza, l'allegria e il sorriso con il quale affrontate quotidianamente la durezza di una vita di lavoro in una realtà che vi deride, vi sfrutta e a volte vi uccide: voi sapete quanto me che Allah è in primo luogo Giustizia, e nel suo nome e per la sua causa la giustizia verrà. Intanto accettate che io preghi in spirito con voi per ricordare le giovani vite che sono state spezzate da un uomo che ha la pelle del colore della mia.
Dio è il più Grande


NON CHIAMIAMO PAZZI I NOSTRI BREIVIK

Avevamo qui, per strada, nella città bella in cui camminiamo, uno che, fino a mezzogiorno di ieri, era come noi. Uno che aveva avvertito, scrivendo sui Protocolli di Sion: "Quanto esporrò non è banale e semplicistico, e richiede la conoscenza di dati ben fondati, nonché lo sviluppo di ragionamenti logici". Poi ha aperto il fuoco. 
Quando una squadra di bravi psichiatri norvegesi ha dichiarato Anders Breivik totalmente incapace di intendere, ha pronunciato un´ovvietà. Chi chiameremo pazzo se non l´uomo che va a sterminare scrupolosamente il maggior numero di suoi simili, inermi e innocenti? E non è un pazzo l´uomo che va ad ammazzare dei suoi simili sconosciuti e inermi, badando al colore della pelle, da una piazza all´altra di Firenze? Sono altrettanti casi di follia, e di follia isolata, come si affrettano a rassicurare le autorità. Ma bisogna pur dire che la diagnosi sull´infermità mentale, anche la più fondata giuridicamente, è umanamente insostenibile, perché toglie ai giustizieri la responsabilità che spetta loro, ed esonera gli altri dall´interrogarsi su se stessi. Gli altri sono i sani, cioè quelli che non hanno (ancora) varcato la soglia che li trattiene dal massacro. Il ragioniere della montagna pistoiese – posto aspro e splendido, il posto di Maramaldo e Ferrucci – aveva qualcosa in comune con Breivik, forse ha immaginato di emularlo. Vanesio e vile, Breivik aveva scelto i suoi connazionali per l´olocausto con cui si figurava di scuotere una comunità infiacchita e pronta a farsi espugnare. Casseri ha invece mirato ai senegalesi, gli espugnatori. I senegalesi sono specialmente detestabili perché sono alti e belli e parlano le lingue, anche quando scappano alla rinfusa raccogliendo i loro borsoni per sfuggire alla caccia. Non so se questo abbia contato per Casseri. Il quale un anno fa, scrivendo del nuovo romanzo di Eco sui Protocolli di Sion (e insinuando di passaggio che Eco avesse copiato dal romanzo scritto da lui, Casseri, e un suo coautore) citava la domanda del protagonista del Cimitero di Praga: "Ma perché mirate in particolare agli ebrei?". E la risposta: "Perché in Russia ci sono gli ebrei. Se fossi in Turchia mirerei agli armeni". Ecco, il lucido e delirante Casseri, cultore di quei Protocolli, deve aver risposto allo stesso modo. Dopotutto, la bella sinagoga fiorentina è a due passi da lì, ma gli sarà sembrato che "a Firenze ci sono i senegalesi". Un pazzo isolato, dunque, anzi due pazzi isolati, un ragioniere a Firenze e un saldatore a Liegi, hanno fatto strage nello stesso giorno e allo stesso mezzogiorno. Ma anche a questa formidabile coincidenza si può rassegnarsi, e anche al fattaccio torinese del giorno prima – "a Torino ci sono gli zingari", no? Però sentite: nel primo pomeriggio di ieri, quando ancora non si conosceva l´identità dello sparatore, e la notizia sui siti dei giornali locali diceva: "Piazza Dalmazia, due senegalesi uccisi e molti feriti", i lettori più svelti già commentavano. Nel sito della Nazione (che, sia detto recisamente, non ne ha alcuna responsabilità, e ha presto aggiornato il titolo: "Omicidi razzisti") la maggioranza dei primi commenti avevano questo tenore: "Meno due"; "Grazie alla politica del buonismo è stata aperta la porta alla criminalità camorristica e extracomunitaria NAPOLI è già qua"; "Un grazie ai buonisti newage che non hanno MAI avuto rispetto prima di tutto per gli Italiani lasciando proliferare mescolanze senza criterio... siamo solo all´inizio amici mia ... ma come si dice, mal voluto non è mai troppo..."; "Solo due?"; "Due neri e un bianco: multiculturalità"; "MA QUANDO CI LEVEREMO DALL´ ITALIA QUESTO SUDICIUME? CI DEVE PENSARE IL POPOLO ??". E anche dopo, la gran maggioranza dei commenti ha tenuto questo tono. Non prendetelo per un paradosso, ma righe come queste non sono solo commenti a un fatto: lo precedono anche, e lo preparano, sono un antefatto. Le persone che così commentano sono ben lungi dal varcare la soglia fra le parole e il massacro, dunque non sono folli, e peraltro, basta contarle, non sono isolate. Ma anche lo sciagurato che ha fatto il suo passo, e si è guadagnato il certificato di follia, non è dunque così isolato. 
Casseri era lucido, ho detto: nello scritto che un anno fa dedicava ai Protocolli e alla "falsificazione sionista", si era ingegnato di giustapporre i paragrafi di quel testo famigerato a brani di autori di sinistra e di estrema sinistra no-global dei nostri giorni, per farne risaltare l´assonanza, e segnalare come i piani dei supposti cospiratori giudaici si vadano compiendo. Nella coincidenza di episodi che infittisce le cronache dei nostri giorni come per una precipitazione chimica, la bufera finanziaria e la sensazione paranoica che l´accompagna, il manipolo segreto di gnomi della finanza che decidono le sorti della terra, giocano una parte importante. Accostare stralci di parole radicali di estrema destra e di estrema sinistra è un gioco troppo facile e spesso infame, ma occorre badare alla miscela esplosiva che sfrenatezza finanziaria e paura dello straniero vanno accumulando. La nostra estrema destra che si vuole sociale, e cui il ragioniere adepto di Lovecraft e Tolkien e Conan aveva aderito (e anche lei non può esser fatta responsabile della sua spregevole bravata) si chiama Casa Pound, e Pound era un grande poeta, ma il suo culto e la sua attualità hanno a che fare assai meno con la poesia e assai più con l´ossessione dell´usura e dell´antisemitismo. Quella miscela spiega anche le digressioni mentali che portano Breivik, nella crociata contro i pervertitori della razza, a fare strage di ragazzi norvegesi, e Casseri a passare dal fantasma ebraico ai corpi dei senegalesi. 
Immagino che in molti diranno, ora, che "Firenze non merita questo". Certo. Il mondo non merita questo. Ma dopo aver pronunciato convintamente e compuntamente questo scongiuro, mordiamoci la lingua. Diciamo che quei nostri fratelli senegalesi non meritano questa Firenze e questo mondo. E ricominciamo a pensare.

Adriano Sofri

"Negri, tocca a voi" e spara all´impazzata far west a Firenze, uccisi due senegalesi

FIRENZE - Li ha cercati e rincorsi. Come un cacciatore con una preda. Per colpirli ha sparato in mezzo alla gente, fra le bancarelle di due mercati affollati. «Un tiro al bersaglio, una cosa mai vista» racconta ancora sotto shock un ambulante. La gente che grida, che scappa, si rifugia sotto i banchi, tra le cassette con i vestiti, dietro le macchine, dove capita. Il primo raid appena passato mezzogiorno, in piazza Dalmazia, zona nord di Firenze. Quattro o cinque colpi di pistola, una 357 Magnum Smith & Wesson calibro 44. A terra restano tre senegalesi, due morti, il terzo è ferito gravemente. Tre ore più tardi altra sparatoria questa volta in San Lorenzo, a due passi dal Duomo. La stessa arma, lo stesso killer che torna a colpire e insegue in mezzo al mercato altri senegalesi: ne ferisce due. Poi fugge verso il parcheggio sotterraneo dove ha sistemato la sua auto, ma viene intercettato dalla polizia, fa in tempo a sedersi in macchina e a spararsi un colpo di revolver alla gola. Muore così Gianluca Casseri, 50 anni, pistoiese, ragioniere neofascista: è lui l´uomo che ieri ha terrorizzato mezza città. Lacrime e rabbia nella comunità senegalese che reagisce, blocca il traffico, rovescia cassonetti, grida tutta la paura: «italiani razzisti». Poi nel corteo arrivano anche i giovani dei centri sociali e nel centro partono le cariche delle forze dell´ordine. 

Il primo agguato
È passato da poco mezzogiorno quando Gianluca Casseri arriva in piazza Dalmazia, parcheggia la sua Polo grigia in doppia fila. C´è un chiosco per i panini, un´edicola e mezzo quartiere con le borse della spesa. L´uomo, secondo alcuni testimoni passa più volte davanti a tre senegalesi che vendono borse, accendini, magliette. Qualcuno parla di una lite avvenuta un paio di ore prima tra lui e gli immigrati. I carabinieri non confermano. Altri raccontano di aver sentito Casseri, che in rete professava il razzismo e attaccava «i negri», dire appena prima di aprire il fuoco: «Adesso tocca a voi». Da una borsa a tracolla l´uomo estrae il revolver e spara almeno quattro colpi. Samb Modou, 40 anni, e Diop Mor, 54 anni, muoiono sul colpo. Ferito Moustapha Dieng, 34 anni, ricoverato in prognosi riservata a Careggi, rischia di restare paralizzato. Casseri si allontana, la gente prova a fermarlo. Qualcuno scatta foto con il cellulare, l´edicolante gli sbarra la strada, «Fermo, fermo». Lui tira fuori la pistola e gliela punta alla faccia, «fossi in te ci penserei» e scappa.

La reazione
Dietro ai banchi c´è chi piange, la gente è sotto shock. Cominciano ad arrivare decine e decine di senegalesi dai vari quartieri. Anche il fratello di una delle vittime. Lacrime, rabbia e molta paura: c´è un uomo ancora armato che a Firenze va in giro a sparare a chi ha la pelle nera. Un gruppo di immigrati blocca il traffico, poi partono in corteo. Intanto scattano i posti di blocco, si cerca Casseri. Grazie ai tanti testimoni è facile risalire al suo nome dalla targa della macchina. Si sa che è di Pistoia, frequentatore di CasaPound. Posti di blocco e controlli anche in autostrada. Nessuna traccia.

Il raid 
in San Lorenzo
Sono le 15.04 quando il killer torna allo scoperto. Al mercato centrale di San Lorenzo, una delle zone dove lavorano e vivono più immigrati, ma anche una delle zone più frequentate dai turisti. Parcheggia l´auto negli spazi sotterranei e esce con la pistola in borsa. Cerca altri senegalesi, ne trova due. Il primo lo colpisce all´ingresso di una pizzeria, dove viene soccorso dai gestori. Un altro scappa fra i banchi del mercato, lui lo insegue e spara ancora da una decina di metri di distanza. Panico, grida, altre scene di disperazione. «Faceva il tiro a segno da lontano. Lo ha colpito al fianco e alla spalla da dietro», racconta un commerciante. Sirene, ambulanze, un elicottero. I due feriti vengono portati in ospedale.

L´ultimo colpo del killer
Casseri intanto gira intorno alla struttura del mercato e torna alla macchina, si siede al posto del passeggero. È inseguito dagli agenti e dagli investigatori della Digos: «Esci subito» gli urlano. È circondato. Fa appena in tempo a riprendere la pistola e a spararsi alla gola mettendo fine alla sua vita. Anche un poliziotto spara quando lo vedere prendere l´arma, ma non è chiaro se lo colpisce: lo diranno la scientifica e il medico legale. «L´ipotesi è che si sia suicidato quando la polizia stava intervenendo» spiega il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi. 

La rabbia degli immigrati
Mentre sono in corso i rilievi arrivano molti senegalesi. Anche qui grida di rabbia, non credono che il killer sia morto. La polizia porta uno di loro nel parcheggio sotterraneo, a vedere il cadavere di Casseri, per tranquillizzare gli altri. «Ci sono cose che non tornano, vogliamo la verità: perché una persona così pericolosa, che era nei siti neonazisti, era in giro armato?», chiede il portavoce della comunità senegalese, Pape Diaw. Per sabato è stata organizzata a Firenze una manifestazione nazionale «pacifica e non violenta». Più tardi i senegalesi si spostano verso la prefettura e danno vita ad una manifestazione. Si uniscono alcuni giovani dei centri sociali e l´atmosfera si scalda: vengono sparati petardi, colpite macchine, distrutta la telecamera di una tv privata. La polizia carica in piazza Repubblica. 
Intanto il sindaco Matteo Renzi («è un giorno che Firenze non avrebbe mai voluto vivere» e anche «non vedo analogie con i fatti di Torino, è stato un gesto solitario e folle») ha dichiarato per oggi il lutto cittadino e annunciato che il Comune pagherà le spese per il rientro delle salme in Senegal. Sempre oggi è atteso l´arrivo in città del ministro all´Integrazione Andrea Riccardi. L´imam Izzedine Elzir presidente dell´Ucoii accusa: «Un attacco vile frutto di 10 anni di una parte politica fatta di odio, fascismo e razzismo». La giornata si è conclusa con una preghiera degli immigrati davanti al Duomo condotta dallo stesso Elzir.

Michele Montanari

Neofascista al mercato spara sui senegalesi

FIRENZE — Nel posto sbagliato al momento sbagliato. Per questo sono morti. Perché il loro destino ha incrociato quello di Gianluca Casseri, 50 anni, scrittore di miti nordici e novelle dell'orrore, forte contiguità con gli ambienti dell'estrema destra e «neofascista» per autodefinizione. 
Quei venditori ambulanti Casseri non li aveva mai visti prima. Ma lui non cercava un obiettivo conosciuto. Voleva colpire i senegalesi, quali che fossero. E in piazza Dalmazia, immediata periferia nord di Firenze, si è trasformato in uno dei tanti demoni delle sue storie. Ha iniziato a camminare tra le bancarelle del mercato rionale sfiorando centinaia di persone, turisti, ragazzi, bambini. Poi li ha visti. Ecco i senegalesi. Un sorriso strano, la pistola in pugno, quattro colpi secchi. Samb Modou, 40 anni, clandestino, è caduto a terra stringendo nelle mani una felpa. Diop Mor, 54 anni, regolare permesso di soggiorno, ha accennato una fuga impossibile ed è stato freddato mentre con le mani tentava disperatamente di difendersi. Il killer ha sparato ancora ferendone un terzo all'addome, Moustapha Dieng, 34 anni, ricoverato in prognosi riservata all'ospedale di Careggi (rischia di rimanere paralizzato). 
Lui a vagare con la pistola in pugno, la gente a correre per mettersi in salvo, fra grida, terrore e sangue. L'edicolante, Gabriele, un ragazzo coraggioso, lo ha affrontato a pugni chiusi. Casseri ha alzano la sua 357 Magnum al cielo, ha scosso la testa e ha parlato: «Togliti di mezzo o uccido anche te». Due fidanzati hanno scattato al killer due foto con il telefonino, altri hanno preso il numero di targa della sua auto. Ma due ore dopo Casseri ha tentato di uccidere ancora: ha sparato ad altri due venditori ambulati senegalesi di 32 e 42 anni nel vicino mercato di San Lorenzo, centro storico della città. Li ha feriti tutti e due. E poi, braccato dalla polizia nel parcheggio sotterraneo del mercato, dopo una sparatoria, si è puntato la pistola alla gola e ha premuto il grilletto: è morto pochi istanti dopo mentre seicento extracomunitari a pochi metri di distanza manifestavano contro la «barbara follia razzista».
Eccola la cronaca di una giornata mai vissuta prima da Firenze. Una giornata che ha scosso la città e indignato l'Italia. Il presidente Giorgio Napolitano, profondamente turbato, si è fatto interprete del «diffuso sentimento di ripudio di ogni predicazione e manifestazione di violenza razzista e xenofoba» e ieri sera ha espresso in una nota «cordoglio alle famiglie delle vittime di questa cieca esplosione di odio», ricordando «l'impegno urgente di tutte le autorità politiche e della società civile per contrastare sul nascere ogni forma di intolleranza e riaffermare la tradizione di apertura e di solidarietà del nostro Paese». 
Preoccupazione è stata espressa anche dal ministro dell'Integrazione, Andrea Riccardi, che oggi sarà a Firenze per manifestare alla comunità senegalese la vicinanza dello Stato e garantirle il massimo della sicurezza. «Stiamo attenti alla predicazione dell'odio, quando la gente è allarmata lo straniero diventa un capro espiatorio» ha detto.
Il sindaco Matteo Renzi ha proclamato per oggi il lutto cittadino e ha chiesto «a tutte le scuole di promuovere un momento di riflessione su quanto è accaduto — annuncia — per dire "mai più"».

Marco Gasperetti

«Italiani assassini, vergogna» La rivolta degli ambulanti

FIRENZE — Il fratello minore di Samb Modou si accovaccia a terra, le mani chiuse tra i capelli crespi, altri senegalesi arrivano e si stringono intorno a lui cercando di proteggerlo, consolarlo. Ma il ragazzino è disperato e singhiozza forte tra le bancarelle di piazza Dalmazia: «Adesso io devo trovare la forza di alzare il telefono e chiamare nostra madre in Africa», grida ai suoi amici mentre il corpo di suo fratello è già stato portato via insieme a quello di Diop Mor, l'altro ambulante ucciso dal pazzo di CasaPound. «Capito? — continua il ragazzino — Devo dirle che Samb Modou non c'è più, che il suo figliolo più grande è morto e non tornerà. Lui lavorava come me, tutti i giorni dalle 8 del mattino alle 7 di sera, al mercato, per riuscire a mandare un po' di soldi a casa. Ed ecco com'è finita, ammazzato peggio di un animale». 
C'è tanto dolore, un'onda cupa di smarrimento attraversa la piazza dei senegalesi. Un massacro così, chi poteva immaginarlo? «Italiani assassini», «razzisti», «maledetti», «Italia vergogna». Alle tre del pomeriggio da piazza Dalmazia parte un corteo spontaneo.
Intanto si è saputo che a San Lorenzo la mattanza è continuata, altri due immigrati sono stati presi di mira dai colpi di pistola. E allora ecco che la rabbia esplode. Arrivano a centinaia da tutto il circondario: i senegalesi delle concerie di Santa Croce, quelli delle case vinicole del Chianti, gli studenti africani di Pisa, altri ambulanti. Quasi tutti regolari, col permesso di soggiorno e un contratto di lavoro in tasca. «Neri ma non in nero», raccontano orgogliosi, dopo anni di faticosa integrazione. 
In via Cerretani, tra la stazione di Santa Maria Novella e il Duomo, l'indignazione raggiunge il suo apice: alcuni motorini parcheggiati vengono gettati a terra, cestini e cartelli stradali divelti. Sono atti isolati, per fortuna. Man mano che il corteo si avvicina al centro storico, però, i commercianti abbassano le saracinesche, i clienti si riparano nei negozi e le vetrine di lusso dello shopping fiorentino tremano di paura. Immagini che rimandano con la memoria alla marcia del '90 davanti al Battistero, quando centinaia di senegalesi a Firenze proclamarono lo sciopero della fame chiedendo il permesso di soggiorno. Sembrava un tempo ormai remoto. E invece in piazza della Repubblica la polizia carica e un ragazzo nero viene colpito da una manganellata. Vengono a dar manforte gli antagonisti dei centri sociali, quelli del Centro Popolare Autogestito e gli altri di Next Emerson.
«Ma davvero quell'assassino è morto? Vogliamo la verità», grida un ragazzo con i capelli rasta, Diavo Abdore. «Voi italiani quando si è saputa la notizia avete subito parlato di un regolamento di conti — protesta Sylla Matar — Ma i senegalesi sono pacifici, non sono banditi e non s'ammazzano tra di loro. Perciò la nostra protesta non si ferma, sabato in piazza Dalmazia faremo una grande manifestazione e saremo ancora di più». «Anche noi siamo cittadini italiani — aggiunge furibondo Ousmane, infermiere, da 21 anni in Italia — Ma voi non ci trattate alla pari». 
Davanti al Battistero il presidente della Regione, Enrico Rossi, prova a dialogare con quella folla inferocita: «Io vi considero fratelli, la Toscana sarà con voi». Ma viene contestato, fischiato e alla fine costretto a desistere. Pape Diaw, portavoce della comunità senegalese fiorentina (almeno 7 mila unità e altre 10-12 mila sparse tra Pisa e Pontedera), ex consigliere comunale qui a Firenze, prima con Rifondazione e oggi con Sel, racconta che negli ultimi tempi navigando in Rete, su Facebook, aveva percepito un odio crescente verso gli immigrati. «Una destra feroce, fascista e razzista ha avvelenato il clima — accusa —. Abbiamo vissuto dieci anni di politiche sbagliate. E infatti vedete? L'altro giorno è stato bruciato un campo Rom a Torino e ora c'è stato questo massacro a Firenze. Speriamo che sia l'ultima volta».
L'imam Elzir Izzedin, palestinese dell'Ucoii, arriva in piazza Duomo verso le sette di sera, quando i tumulti si sono ormai placati, monta su una balaustra di ferro e arringa la gente con un megafono bianco. Invoca l'aiuto di Allah per guarire i feriti e invita alla preghiera «per i nostri fratelli shahid, martiri e morti innocenti».
Il console onorario della Repubblica del Senegal in Italia non sa darsi pace: «Nel 1962 proprio a Palazzo Vecchio il presidente del Senegal Leopold Sedar Senghor incontrò qui a Firenze il sindaco Giorgio La Pira e insieme annunciarono di voler creare un ponte tra i due popoli. In lingua wolof, la lingua del Senegal, il concetto di accoglienza si esprime con una parola: Teranga. Ecco, mi sento di dire che fino a oggi questa parola a Firenze aveva avuto un senso».

Fabrizio Caccia

lunedì 12 dicembre 2011

LE PRIMAVERE ARABE - CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE, II Parte

Nelle cronache dedicate dai giornali nostrani alle vicende riassuntivamente comprese sotto la locuzione "Primavere Arabe", un termine si è ripetuto e le ha percorse come un sottile brivido di paura: "Islam", "islamico", "islamismo" e simili.
Poiché sull'Islam corrono le più indecenti mistificazioni e falsificazioni, ci sembra necessario ritornare in maniera più approfondita sugli autentici contenuti del vero Islam. Per questo ricordiamo all'opera di quello che viene considerato il maggiore filosofo dell'Islam moderno con sede in Europa: ci riferiamo a Tarik Ramadan, professore di filosofia in Svizzera e in Germania, e nipote di Mohammed Al-Bannah, fondatore dei Fratelli Musulmani e impiccato dal re egiziano Faruk, lo squallido monarca servo degli inglesi e famoso soprattutto per essere un accanito bevitore di liquori di lusso e collezionista.

A - Il termine ISLAM richiama due significativi strettamente collegati tra loro:
I - Il primo è quello di "atto di sottomissione" e cioè il riconoscimento, attraverso la coscienza umana, di un essere al di là di tutti gli esseri, Creatore uno e Unico cui si riconosce la pre-esistenza su tutte le cose. Egli è Uno e non v'è nessun Dio al di fuori di Lui;
II - Il secondo significato è quello di "accesso alla pace": nella tradizione musulmana si ha l'idea di doversi proteggere e di mettere un limite a tutto ciò che potrebbe turbare l'accesso allo stato di pace interiore. L'uomo, nella sua dimensione essenziale e cioè come essere di cuore e di interiorità, riconoscendo Dio procura a se stesso la pace interiore: "As-Salam".

B - La religione o la religiosità dell'Islam non si identifica ne con un Profeta, ne con una regola dottrinaria. L'Islam si presenta come un atto di fede e come riconoscimento di una sottomissione cosciente all'Essere Supremo. Da ciò deriva l'idea che il riconoscimento dell'Unico libera da tutto ciò che è contingente e fortuito nella vita; riconoscere Dio significa liberarsi da ogni sottomissione rispetto a tutto ciò che egli ha creato: l'influenza degli esseri umani, i modelli, i conflitti personali, emozionali e materiali. L'Islam, in sintesi può definirsi uno stato di riconoscimento di Dio.
Nell'Europa dell'Illuminismo alcuni filosofi come Voltaire cominciarono a interessarsi all'Islam e parlarono di "maomettani". Questo termine è peraltro un grave errore perché fa riferimento per analogia al rapporto tra Cristianesimo e Cristo. Nell'Islam invece si fa appello ad un atto di riconoscimento del Creatore di tutti gli uomini e non ad un essere umano, anche se costui ci ha permesso di avvicinarci a Dio. Questa precisazione ci consente anche di fare delle puntualizzazioni su alcuni equivoci che sono solo fonte di confusione. Così, ad esempio nel linguaggio corrente si usa credere che Allah è il Dio dei musulmani, o degli arabi. In realtà Allah è la traduzione in arabo del termine "Dio, God, Dieu, Allah". La denominazione varia a seconda della lingua che si usa, ma quel che con le diverse parole si designa è l'Unico Dio, lo stesso per ogni tempo e per tutti i popoli. Egli è Colui che ha parlato a Mosè e ha creato Gesù così come ha creato Adamo e ha stabilito il ciclo dei Profeti. Questo Dio è Unico (Tawhid) e con il termine si designa l'esigente monoteismo islamico: ciò segna la fondamentale differenza tra Islam e tradizione cristiana che riconosce a Dio tre ipostasi o persone che fonderebbero il mistero della Trinità. Ma nella tradizione islamica il concetto di Trinità è assolutamente assente: la specificità di Dio sta nel fatto che nulla gli assomiglia. Nulla, a partire dalla nostra intelligenza, dalla nostra immaginazione perché neanche nel sogno potremmo essere capaci di rappresentarlo. Dio è il Sapiente, Colui che comprende tutto ciò che può essere compreso nella sua totalità al di là del nostro intelletto. Dio è Perfetto e Illimitato nella sua perfezione, e ciò lo rende inaccessibile alla nostra intelligenza che è limitata.
La tradizione islamica è molto esigente su questo punto; non si può dire di Dio se non ciò che Egli ha detto di se stesso. Quando Mosè formula la domanda: "Chi sei?", Dio risponde: "Io sono colui che è". L'essere nella dimensione assoluta non può essere compreso totalmente dall'intelligenza umana e ciò deve indurre il cuore e la mente ad un atteggiamento di umiltà in rapporto al Creatore.
Dopo il termine "Allah" il Corano mette in evidenza, in riferimento a Dio il termine "Ar-Rahman", il Misericordioso. Dio ci dà una qualifica che permette alla nostra limitata intelligenza di guidarci verso la comprensione della sua essenza senza per altro che questa possa essere colta lievemente. Se parliamo di Dio non possiamo parlare della sua generosità perché Egli è in realtà il Generoso.
Possiamo citare anche altri nomi di Dio più spesso ripetuti nella recitazione coranica: "Ar-Rahman" è seguito dal termine "Ar-Rahim". I due nomi hanno la stessa radice ma vi è una piccola sfumatura di significato: Egli è il Misericordioso riferendosi alla totalità della misericordia contenuta nel suo essere, ma è anche Colui che distribuisce queste misericordia al di là di ogni generosità immaginabile.
Dio si presenta all'uomo attraverso i suoi nomi per permettervi di avvicinarsi a Lui, senza che abbia la possibilità di raggiungerlo, ne l'orgoglio di definirlo o di guidarlo. Egli è il Creatore (Al-Khaliq), Colui che da forma a tutte le cose (Al-Musawwir), l'Eterno (Al-Baqi), altri nomi ricordano la sua saggezza (Al-Hakim), la sua bontà (Al-Latif), al suo amore (Al-Wadud).
Queste qualità orientano il nostro cuore e superano il nostro intelletto. Non abbiamo la possibilità di conoscere la perfezione; conosciamo solo la possibilità di camminare verso la perfezione senza mai raggiungerla pienamente.

C - La tradizione islamica, come quella ebraica e quella cristiana, da un significato religioso al lato della creazione dell'uomo: è Dio che ha creato Adamo ed Eva, il primo uomo e la prima donna, dai quali discende tutta l'umanità, ma mentre nell'Ebraismo e nel Cristianesimo viene spesso messa in discussione con l'atto della creazione, la religione islamica non la rifiuta, perché in molti testi si ritrova l'idea dell'evoluzione della specie. Questa è una teoria ammissibile purché non si metta in discussione una creazione specifica dell'essere umano, anche perché non esistono ancora risposte definitive sull'origine dell'uomo.
Ogni essere umano, nell'interiorità del suo essere e del suo cuore, possiede un soffio originario, che lo lega alla  trascendenza e alla ricerca di spiritualità. Secondo l'Islam un soffio anima il cuore di ogni essere, e lo spinge a cercare in modo spontaneo e naturale un'espressione di spiritualità: "Qualcosa che è al di là". Questo impulso naturale (Fitra), ovvero questo soffio, è un'aspirazione innata di cui Dio ha dotato l'essere umano, ed è un impulso che sentiamo in noi prima ancora che la nostra stessa coscienza ce ne parli. Questa dimensione è espressa con la luce, "An-Nur", un soffio essenziale che anima gli esseri umani: "Allah è la luce dei cieli e della terra. La sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, e la lampada è in un cristallo, e il cristallo è come un astro brillante il cui combustibile viene da un albero benedetto, un ulivo ne orientale ne occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato da fuoco. Luce su luce. Allah guida verso la sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore luminose perché Egli è Onnisciente".
Questa rivelazione vive in ciascuno di noi e si sviluppa man mano che se ne prende progressivamente coscienza. Dio, attraverso i suoi Angeli, invia una rivelazione che rinforza questo soffio interiore. In tal modo si incontrano due luci, quella del Messaggio rivelato, che incontra e risveglia quel soffio intimo. Abu Hamid Al-Ghazali ha avviato una profonda riflessione intorno ad un versetto coranico che evoca questo aspetto delle due luci complementari: "Nurun Ala Nur", "Luce su Luce".
La luce della profondità originaria incontra quella della coscienza e del cuore. Ognuno dovrebbe cercare di coltivare questo seme e lasciarlo poi sbocciare perché sia testimone della presenza di Dio. Nella visione musulmana la ragione conferma e continua ciò che la fede afferma; il processo è dunque visto al contrario: la fede è innata e la ragione l'arricchisce. Va quindi rovesciata la famosa formula di Pasqal secondo la quale "il cuore ha le sue ragioni che la ragione ignora"; nell'ordine spirituale dell'Islam la formula va espressa dicendo: "Il cuore ha le sue ragioni che la ragione riconoscerà e rafforzerà".
Il soffio precede la ragione e quest'ultima riconosce ciò che esiste nel cuore attraverso una presa di coscienza che matura con i mezzi che Dio ci ha dato per giungere alla sua conoscenza.

Prima del concetto di conoscenza c'è quello di riconoscimento e cioè la consapevolezza che siamo suoi, prima ancora di rendercene conto. Attraverso questa concezione si evidenzia quanto possa essere profondo il concetto di mondo e di ordine naturale stabilito.
Il dibattito sull'Islam appare molto superficiale rispetto a questa formulazioni. Nell'Islam la visione dell'essere originario è estremamente positiva ed ottimista, e l'idea di peccato originale non esiste. Prima che si sviluppi il senso di responsabilità tutto si vive nell'innocenza. Ogni bambino è musulmano (muslim) perché porta nel suo essere in modo naturale il riconoscimento di Dio; ma sono musulmane tutte le altre creature. Un uccello che vola e che batte le ali è musulmano perché sottomesso all'ordine naturale cui egli stesso partecipa. L'albero che cresce, il seme che si spezza per far sbocciare la pianta sono musulmani perché manifestano l'ordine della creazione di Dio, al quale sono sottomessi. Contrariamente a tutto il resto del Creato, l'uomo deve fare uno sforzo che lo rende unico: quello di camminare dall'innocenza verso la responsabilità, e in questo percorso egli si distingue dalle altre creature per la sua libertà.
L'accettazione della presenza di Dio da parte della coscienza dell'uomo è come il volare per gli uccelli, ma l'uomo dovrà sviluppare questa ispirazione attraverso un cammino che lo porterà dall'innocenza alla coscienza.
La tradizione islamica offre diversi punti su cui è necessario riflettere: fino all'età della responsabilità nessuno può essere definito peccatore; il concetto di peccato originale presente nella tradizione giudaico-cristiana, è assente in quella islamica; nell'Islam nessuno può pagare per ciò che non ha commesso e nessuno deve sopportare il peso degli errori altrui.
Nel Corano il racconto di Adamo ed Eva (sura II) presenta due aspetti che è necessario sottolineare. Il primo è che fu Adamo a commettere il peccato e non Eva, e ciò assolve Eva da ogni colpa, anche perché Dio perdonò entrambi del loro errore. Il secondo è che ognuno è responsabile unico e diretto delle sue azioni e non deve rispondere dell'altro e quindi i figli di Adamo ed Eva non portano il peccato dei loro progenitori. Da tutto ciò deriva una visione dell'uomo profondamente ottimista, perché si basa sul principio dell'innocenza originaria. Nella vita l'uomo passa da una fase di innocenza che fa di lui un musulmano per natura, ad una fase di responsabilità che lo rende musulmano per coscienza in base alla testimonianza di fede: "Non c'è Dio al di fuori di Allah e Muhammad è il Messaggero di Allah".

L'uomo attesta in piena coscienza esercitando la libertà di scelta che lo caratterizza. E' attraverso questo cammino che passa dall'ordine originario del cuore che ci spinge verso Dio, all'ordine della coscienza, confermata dalla ragione. Con la Shahada il musulmano testimonia che Dio è Uno e che non vi è altro Dio al di fuori di Lui. In tal modo si passa dall'innocenza alla responsabilità, dall'impulso del cuore alla conferma della ragione, perché la fede può essere completa solo se è confermata da una ragione attiva e ragionante. Nell'Islam non vi è contraddizione tra cuore e ragione, tra liberazione e intelligenza: l'uomo ha bisogno della fede come soffio e della ragione come radicamento, e vi è bisogno di entrambe le dimensioni per trovare l'equilibrio del proprio essere.
La tradizione musulmana evoca la fede come un soffio che precede una ragione che rinforza e conferma la certezza intima che ha nel profondo del cuore umano. Esiste una formula coranica che ritorna in modo sistematico sul tema delle responsabilità dell'uomo, tra l'innocenza che diventa responsabilità e la ragione che conferma l'ispirazione fondamentale: "Nessuno porterà il peso di un altro" (Cor XVII, 17).
Ci si deve a questo punto interrogare sulla reale autonomia dell'individuo presso le comunità musulmane, tenendo presente il grande radicato peso della "Umma". I musulmani debbono vivere in una dimensione collettiva ma con una coscienza spirituale ben sviluppata. La comunità permette di alleggerire il peso dell'individualità in modo costante; essa è lo spazio propizio per la dignità degli individui, ma mai per l'individualismo. Questa concezione della Umma permette lo sbocciare della propria individualità senza mai cadere negli eccessi dell'egocentrismo.

venerdì 9 dicembre 2011

LE PRIMAVERE ARABE - CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Abbiamo dedicato gran parte degli ultimi post a raccogliere i più significativi articoli che sull'argomento sono stati pubblicati negli ultimi mesi sulla guerra libica, sulla rivolta siriana e su la guerra di Libia, non mancando di accennare al crescente ruolo della Turchia nella vicenda medio orientale e sull'estendersi dell'influenza di un Islam "politico", in larga misura collegabile al movimento dei Fratelli Musulmani.
Per uscire dalla genericità e per inquadrare il fenomeno delle cosiddette primavere arabe in una dimensione spazio temporale più ampia, ci sembra a questo punto opportuno fornire taluni interessanti approfondimenti, giustificati dal fatto che il sommovimento che ha scosso dalle fondamenta l'intera sponda sud del Mediterraneo, dal Marocco fino alla Siria, non ha mancato di influenzare anche realtà esterne al mondo islamico e, comunque, per il fatto di aver attraversato la quasi totalità dei paesi arabofoni (circa 300 milioni di abitanti) non ha mancato di estendere le sue onde più esterne molto oltre gli stretti confini geografici del mondo arabo: non a caso si parla di "primavera russa" per definire la sempre più massiccia ondata di contestazione contro il potere oligarchico di Putin e della sua cerchia.


I - Vogliamo iniziare la disamina facendo un salto indietro nel tempo per dedicarci ad illustrare il vecchio precedente degli studi del conte Leone Caetani, discendente di un'antichissima famiglia di nobiltà romana, che ancora agli inizi del secolo XX e fino agli anni della guerra di Libia si dedicò con passione allo studio del mondo arabo con opere che ne fanno probabilmente il più grande orientalista italiano. L'originalità del suo pensiero, una riuscita combinazione di positivismo e di spirito religioso molto influenzato dalle opere di Leone Tolstoi emerge in tutta la sue nettezza in un'affermazione che è una sorta di premessa ideale a tutta la sua opera:
"Noi europei non possiamo e non dobbiamo volere la distruzione dell'Oriente. Esso per le più sacre ragioni di umana giustizia, ha diritto a una vita propria, a un proprio sviluppo lungo le tracce segnate da una tradizione più antica della nostra. Ciò è conforme alle leggi della vita, che sono alte e complesse, anche se per noi si perdono nelle nebbie del mistero. Siccome esistono e sono più forti di noi, se le ignoreremo esse agiranno lo stanno e a nostro grande smacco e danno. Cooperiamo quindi con esse perché la loro azione non può che essere per il bene, a beneficio del continuo illimitato progresso del genere umano".

Il Caetani condusse lunghissimi viaggi in Oriente, padroneggiò la lingua araba e quella persiana, si dotò di una delle biblioteche orientaliste più grandi dell'occidente e si cimentò fin da giovanissimo in un'opera ambiziosissima dal titolo "Gli annali dell'Islam", dalla quale riportiamo i passaggi più significativi:
A - "L'arabo è un uomo sostanzialmente tendente al sacrificio. In ogni momento della vita sembra gravare su di lui il peso mentale dell'atabico conflitto tra popoli semiti del cuore dell'Arabia e i popoli ariani d'origine indo europea e persiana. Sabbia e desolazione si possono ancora leggere nei suoi occhi...Le genti semitiche hanno sviluppato una tenace affezione per il loro paese e arrivano addirittura a preferirlo a tutti gli altri paesi della Terra...Il deserto è stato il vero fortificatore ed educatore della razza araba. Viaggiare per giorni senza acqua e dissetarsi a miseri pozzi d'acqua amara e malsana solo la tempra ferrea dell'arabo può assorbire senza danno. Per l'ostilità dell'ambiente circostante l'arabo ha sempre vissuto in uno stato continuo di guerra, sempre pronto a difendersi contro gli uomini, le belve, la natura ostile, fondendo l'ardire più temerario con la più preveggente prudenza. Gli arabi, per natura irrequieti e aggressivi, vivendo in paesi sconfinati e senza leggi, divennero amanti assoluti della libertà, intolleranti anche alla forma più mite di autorità. Egli può essere a volte mirabilmente ospitale e generoso, ma nessun nemico è più temibile di lui quando è mosso dalla sete di vendetta";
B - "L'Arabia ai tempi di Maometto era un immenso campo di battaglia nel quale le infinite unità vivevano in uno stato di guerra perenne. La guerra era, dopo la pastorizia, l'occupazione prediletta, l'essenza stessa della vita. La fine più ambita di ogni uomo era quella di morire sul campo di battaglia coperto di gloria. Armi, poesia, gloria, bottino, amore sensuale, furono forse questi gli ingredienti che propiziarono la nascita dell'Islam, una fede che, nata come dottrina morale, si tramutò rapidamente in un ordinamento politico e militare capace di fondere in un unico fascio le molteplici tribù in perpetuo conflitto intestino e fratricida. Il moto di espansione araba poté paragonarsi all'ora alle molecole d'acqua che, condensandosi improvvisamente per l'azione di un fattore fortuito, rapidamente precipitano in pioggia e, cadendo lungo i fianchi di un monte si uniscono in rigagnoli, confluiscono in ruscelli, si raccolgono in torrenti e infine irrompono in un fiume impetuoso che sommerge il piano e travolge ogni cosa";
C - "Il Profeta Maometto fu il più grande uomo d'Arabia, il grande riformatore, il fondatore di una fede forte, semplice e ardita. L'Islam sorse come una rivoluzione, uno stretto connubio tra socialismo e religione. Il Profeta disprezzò sempre la ricchezza e tra le sue ultime dichiarazioni vi è la condanna assoluta di ogni forma di lusso, la minaccia della pena eterna per chi accumula tesori. Egli stesso morì povero e raccomandò ai suoi di dare ai più bisognosi tutto ciò che possedevano oltre allo stretto necessario. Maometto fu un vero socialista, nel pensiero e nell'azione, sia quando era un misero nullatenente sia quando divenne un autocrate assoluto. Fu un uomo onesto e sincero che mantenne saldi i suoi principi fin sulle rette più vertiginose del potere, quando l'Arabia si inchinava dinanzi a lui. Al pari di Gesù venne additato come pazzo e mentecatto dai mercanti della Mecca che, nel periodo pagano, avevano fatto del santuario della Kaaba un crocevia per i loro guadagni e per i loro commerci. Vivissima si accese l'opposizione di questi mercanti ai precetti religiosi, che dovevano avere anche valenza di legge sociale imprescindibile e in particolare al dovere di beneficenza portata quasi alla spoliazione dei propri beni e alla condanna del capitale considerato dal Profeta un bene sottratto alla collettività. Terribili furono le persecuzioni di questi mercanti ai danni del Profeta che dovette trasferirsi 50enne dalla Mecca a Medina per poter attuare il suo piano riformatore. Il Profeta non poté ottenere il potere se non combattendo, dopo aver organizzato a Medina una schiera di seguaci armati che si moltiplicarono in maniera miracolosa. Maometto, tuttavia ebbe sempre in odio la violenza e il dover ricorrere a mezzi sanguinari lo spiegava così: gli fu indispensabile agire in modo violento all'inizio della sua ascensione, quando era circondato da nemici e da pericoli, ma abbandonò ogni violenza quando nessuno poté opporsi alla sua volontà";
D - "Le istituzioni sociali del Profeta, i suoi insegnamenti, la sua dottrina furono la forza generatrice di un movimento umano, morale, politico, economico e religioso senza eguali nella storia e che sconvolse quasi tutta la faccia del mondo conosciuto. Le schiere dei seguaci varcarono rapidi i confini d'Arabia e irruppero irresistibili sui due imperi di Persia e di Costantinopoli. I cristiani, travagliati da scismi ed eresie, opprimevano l'Oriente con una religione ben lontana dalla predicazione di Gesù. Le genti d'Oriente, condannando i dogmi della Chiesa di Cristo, e sostenendo che il Cristianesimo del clero non era la fede rivelata da Gesù, ma una manipolazione di preti e di tiranni, cercò salvezza in un nuovo credo, con pochi dogmi, senza sacerdoti, senza gerarchie e senza ordini monastici. Milioni di cristiani in Asia, in Africa e in Spagna, al comparire delle schiere dell'Islam, abbandonarono la fede nei padri e si fecero musulmani, fedeli che il Cristianesimo non recuperò mai più."

Le opere di Leone Caetani videro la luce nel momento in cui il governo italiano si imbarcava nell'avventura della conquista della Libia. Il nome del suo arabismo orientalista, anche se la sua posizione sociale di grosso proprietario terriero avrebbe dovuto collocarlo nella destra nazionalista e reazionaria che appoggiò l'impresa, il Caetani bollò di barbarie colonialiste anti-storiche l'operazione intrapresa da Giolitti. Egli fu attivissimo anche a livello internazionale: la sua profonda cultura lo vedeva impegnato in conferenze in tutti i paesi d'Europa e in particolare in Inghilterra, dove denunciò le atrocità che le truppe italiane avevano compiuto ai danni della popolazione araba della tripolitania. Il suo atteggiamento gli costò la nomina nell'accademia dei Lincei, alla quale aveva donato la sua immensa biblioteca. La presa del potere da parte di Mussolini gli costò continue persecuzioni che culminarono nell'espropriazione delle sue proprietà terriere nell'Agro Pontino: la sua profonda coscienza ecologica lo spinse a bollare l'operazione propagandistica della bonifica pontina che aveva finalità esclusivamente propagandistiche da parte del regime fascista. Sottoposto a procedimenti di esproprio di tutte le sue proprietà e praticamente ridotto in miseria, Caetani emigrò in Canada dove condusse una vita di dignitosa povertà, che non gli impedì tuttavia di proseguire nella sua appassionata ricerca culturale in difesa dell'Islam. In uno dei suoi ultimi scritti Caetani consegnò ai posteri questa sorta di preveggente testamento: "Da secoli le menti più intelligenti si domandano come oriente e occidente possano condividere pacificamente una stessa terra e uno stesso cielo nella consapevolezza che due mondi così lontani e diversi sono contigui e interdipendenti...Si favorisca allora e si fortifichi l'interno sviluppo dell'oriente, si dia libero gioco alle numerose correnti evolutrici che esso nasconde in seno e che dovranno agire conformemente ai veri interessi delle nazioni islamiche. Il più alto compito civile dell'Italia e dell'Europa sarà di dimostrare all'oriente la possibilità che la sua cultura fiorisca a fianco della nostra, in piena libertà e sicurezza, non priva da parte nostra di sinceri gesti di simpatia. Alla luce dei movimenti insurrezionali del mondo arabo dovremmo domandarci se i giovani musulmani riusciranno ad organizzarsi secondo un nuovo ordinamento in grado di conciliare l'Islam con la migliore concessione occidentale della Libertà. L'Islam, con tutta la sua vigoria e il suo spirito combattivo quale mirabile forza morale e passionale, storicamente atta a riscattare milioni di oppressi, si priverà di una intrinseca ragion d'essere politica e militare che lo spinge a combattere la cultura europea".
Venendo ai giorni nostri e confrontando gli eventi che abbiamo descritto con le parole di Leone Caetani, possiamo avere fiducia nella sfida delle giovani generazioni arabe, che sarà quella di riaffermare i sacri precetti del Corano in una veste contemporanea più autentica e liberata dalle impurità che nei secoli l'hanno contaminata. E noi, posti come siamo sull'altra sponda del Mediterraneo e legati ad essi da antiche e gloriose tradizioni, siamo chiamati ad agevolare questa evoluzione al fine di poterne innescare una tutta interna alla nostra civiltà. Dovremmo allora smettere inanzi tutto di dar la caccia "all'islamico radicale", paventandone ovunque il fantasma, che è l'equivalente per noi di giocare a mosca cieca con grande sperpero di denaro che l'Europa non può più permettersi. Tutto questo è ancora più necessario alla luce di altre parole lasciateci da Leone Caetani:
"L'umanità prova oggi inconsciamente il vuoto della sua esistenza, questa mancanza di finalità ideali, riboccante di scettico pessimismo; essa si sente avvilita e tormentata dal fatto di trovarsi in lotta per la conquista di un mezzo senza avere ancora un fine per il quale questo possa servire".
E' trascorso meno di un secolo da quando Caetani costruiva la sua opera appassionata e ignorata, e in occidente come in oriente, si sono susseguiti e tutt'ora vigono dittature, rivoluzioni e tentativi di democrazia. Viste in questo contesto, le primavere arabe sono un segno che a questo esito di progresso non è impossibile avvicinarsi e avanzare.