venerdì 28 dicembre 2012

EGITTO

Egitto, la festa dei Fratelli Musulmani Nuova Costituzione, abbiamo vinto noi

IL CAIRO - Per il Fratelli Musulmani le cose sono già decise, anche se sabato prossimo dovranno votare ancora 25 milioni di egiziani.
«Le ruote della democrazia hanno cominciato a girare e nessuno potrà più fermarle» dice Walid Schalabi, portavoce della Guida spirituale Badia. A spoglio non ancora terminato i Fratelli musulmani hanno diffuso domenica sera dei risultati secondo cui il 56 per cento dei votanti aveva risposto "sì" al referendum sulla nuova Costituzione che darà alla religione un ruolo predominante alla negli affari dello Stato. Questa percentuale è destinata ad essere confermata, anzi ad aumentare, nel prossimo turno elettorale nel quale voterà soprattutto la provincia, dove l'influenza dei Fratelli Musulmani è molto più forte che al Cairo o Alessandria dove si è votato domenica.
L'opposizione denuncia frodi e violazioni diffuse. Non solo perché in molti seggi elettorali, nei quartieri più poveri, la povera gente, per lo più analfabeta, è stata minacciata del castigo di Dio se non avesse votato "sì", oppure comprata con qualche elargizione di zucchero tè o latte. La miseria che è sempre stata un flagello in Egitto, è enormemente aumentata dopo la rivoluzione. Il turismo, che era una fonte cospicua di lavoro, è fermo, la disoccupazione dilaga e i prezzi aumentano. Il governo si è dimostrato incapace di prendere qualsiasi provvedimento, oggi decide un aumento delle tasse e due ore dopo fa marcia indietro. La lira egiziana sta perdendo colpi ogni giorno. Ci sono accuse di intere scatole di schede distrutte, gli elettori stessi hanno denunciato più di quattromila violazioni di cui erano stati testimoni. Ma le loro denunce non hanno trovato ascolto tra gli osservatori dei seggi. Ci sono risultati incredibili come voti in massa per il sì in quartieri dove alle presidenziali nessuno aveva votato per Morsi. Solo al Cairo, perfino la propaganda dei Fratelli musulmani ha dovuto arrendersi e ammettere che ha vinto il "no". Nella capitale ieri si erano viste fin dalla mattina presto lunghe file di giovani di tutte le classi sociali che aspettavano pazientemente di dare il loro voto e dire no a quella che sono convinti significhi l'islamizzazione del loro paese. Particolarmente lunghe erano le file delle donne che sanno bene che una costituzione dove la donna è nominata solo in quanto "moglie e madre" restringerà i loro diritti. Secondo i Fratelli al Cairo avrebbero bocciato la Costituzione il 56% degli elettori ma per l'opposizione sarebbero almeno i tre quarti. Anche le organizzazioni per i Diritti umani lamentano gravi violazioni. Ad esempio, dicono, non è vero che in tutti i seggi elettorali fossero presenti dei giudici.
In molti casi c'erano persone che si sono fatte passare per magistrati senza esserlo, messe lì proprio per manipolare il voto. «Come al tempo di Mubarak» dice un portavoce dell'Istituto per i Diritti umani del Cairo, che chiede che il voto venga annullato e ripetuto.
- VANNA VANNUCCINI


MA IL PAESE RESTA SPACCATO

VINCE il "sì" nel primo round del referendum costituzionale in riva al Nilo, anche se non in maniera trionfale. A conferma che la società egiziana è fortemente polarizzata e le fratture politiche e religiose si allargano, minacciando la stabilità del paese. Il risultato, annunciato con enfasi dai Fratelli Musulmani, è comunque contestato dalle opposizioni, che a loro volta rivendicano un marcato successo del "no". Il Fronte Nazionale di Salvezza aveva fatto sapere alla vigilia che avrebbe accettato l'esito del voto, un impegno destinato a cadere in presenza di brogli o palesi illegalità.
E' prevedibile che ora l'opposizione invochi nuovamente la sospensione, se non il ripetizione del primo turno, della consultazione. La regolarità del voto è denunciata anche dagli attivisti dei diritti umani, che hanno evocato un clima da era Mubarak ai seggi.
Una valutazione così diversa sulla correttezza della competizione spinge maggioranza e opposizione sul terreno della delegittimazione reciproca, con ovvie conseguenze sulla radicalizzazione del conflitto. Morsi e i Fratelli Musulmani confidavano sulla favorevole risposta popolare, contrapponendo legittimità della Costituzione a quella della rivoluzione: almeno quella della prima piazza Tahrir. La Fratellanza conosce bene il paese, il suo radicamento nell'Egitto profondo, dove i seguaci della Guida Badie e i salafiti esercitano grande influenza, è un dato di fatto. Non è causale che il "no" abbia prevalso al Cairo e a Alessandria, e il "sì" nel governatorato di Sonhag o nel Nord del Sinai, dove Fratelli e salafiti sono storicamente molto forti. Tenendo conto della geografia politica egiziana, il voto nella prossima tornata nelle restanti province, rurali e tradizionaliste, dovrebbe premiare ulteriormente gli islamisti.
Morsi cercava il conforto delle urne, dopo la prova di forza della dichiarazione costituzionale e la parziale marcia indietro seguita alle reazioni di piazza. Un conto era ritirare la dichiarazione, altro accettare il rinvio sine die del referendum: alla leadership della Fratellanza è parso chiaro sin dall'inizio che avrebbe voluto dire farsi imporre l'agenda politica dagli avversari.
E questoi Fratelli Musulmani, pressati dall'inquieta concorrenza degli alleati-rivali salafiti sul versante islamista, non avrebbero potuto accettarlo.
Il "sì" alla Costituzione è un passaporto per indebolire le ultime resistenze dalla magistratura, in attesa che lo spoil system in campo giudiziario consenta una più marcata egemonia islamista. La Fratellanza, un tempo teorica della sovranità divina, è oggi la principale fautrice della sovranità popolare.
Se la situazione non precipitasse, all'opposizione, unita dopo le divisioni del passato, non resta che preparare le elezioni legislative che dovrebbero seguire la fine del travagliato processo costituzionale. Potrebbe essere l'ultima prova d'appello per evitare che il cerchio islamista si chiuda.
- RENZO GUOLO


Una notte di scontri e arresti le due anime dell' Egitto invadono le vie del Cairo
IL CAIRO - Si chiama Ahmad,è un giovane alto e magro e senza barba, potrebbe essere uno dei manifestanti che presidiano il palazzo presidenziale per chiedere il ritiro della bozza costituzionale che minaccia di trasformare l' Egitto in una società islamizzata. Invece è qui, davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya, con migliaia di salafiti con le barbe lunghe e i pantaloni alla zuava come si crede li portasse Maometto, con i jihadisti e i Fratelli musulmani del presidente Morsi. Si sentono i rappresentanti di tutto l' Egitto, se non addirittura il popolo di Dio. «Sono qui per difendere Morsi» dice. «Morsi è stato eletto. Anche Obama è stato eletto con il 51 per cento ma nessuno ha protestato. Questa è la democrazia». «Sì alla legittimità democratica» era la parola d' ordine della manifestazione dei sostenitori di Morsi. A poche miglia di distanza da qui altri giovani, liberali, di sinistra e delle minoranze cristiane, aprivano con gesto di sfida brecce tra i blocchi di cemento messi dall' esercito e si avvicinavano al palazzo presidenziale, protetto dai carri armati. I militari, che ieri avevano ricevuto da Morsi poteri da stato di emergenza che li autorizza ad arrestare i civili, li hanno lasciati fare. Due mondi, due campi divisi, sono sfilati ieri per le strade del Cairo. Due narrazioni contrapposte delle vicende di questi giorni: quella di Ahmad, che era presente con i suoi amici agli scontri di mercoledì scorso quando morirono otto persone, e che afferma che le vittime apparteneva alla Fratellanza; e quella dei giovani che mostrano i video in cui si vedono chiaramente gruppi di islamisti disciplinati e ben organizzati che aggrediscono i manifestanti. Come è successo ancora la notte scorsa a piazza Tahrir, dove una decina di persone sono state ferite quando degli incappucciati muniti di coltelli e bastoni hanno fatto irruzione nelle tende in cui gli oppositori di Morsi mantengono i loro presìdi. Le Forze armate, che nei giorni scorsi aveva affermato «che non lasceranno precipitare il paese nella catastrofe» cercano una mediazione. Il ministro della Difesa Al Sissi, che è anche il capo di Stato maggiore, ha chiesto ieri a tutti i partiti politici, ai rappresentanti dell' Università Al Azhar, la massima autorità teologica del mondo sunnita, e a quelli della società civile di riunirsi per avviare immediatamente un dialogo nazionale. L' incontroè fissato per il pomeriggio di oggi al Villaggio Olimpico. La Fratellanza musulmana ha già risposto che parteciperà al colloquio. «L' invito viene dalle Forze armate con il permesso del presidente. È chiaro che parteciperemo» ha detto il portavoce Mahmud Ghozlan. L' opposizione, riunita nel Fronte di Salvezza nazionale presieduto da El Baradei e dall' ex capo della Lega araba Amr Moussa, darà la sua risposta stamani. Anche la magistratura, che deve supervisionare le operazioni di voto per il referendum, è divisa. La partecipazione dei magistrati era stata garantita nei giorni scorsi dal Consiglio superiore della Giustizia, l' organo di governo dei giudici legato alla Fratellanza musulmana, ma ieri il presidente dell' Associazione magistrati, El Zend, ha annunciato che i magistrati diserteranno al 90 per cento la supervisione del referendum perché la bozza costituzionale «contiene attacchi contro l' amministrazione della giustizia». Il numero due del Consiglio di Stato, Magdi al-Gahri, ha precisato che il numero dei giudici non sarebbe perciò sufficiente a supervisionare le operazioni di voto. Dalla decisione dei magistrati l' opposizione aveva fatto dipendere la decisione se chiedere agli egiziani di boicottare il referendum o di votare per il no. Gli Usa, principali alleati dell' Egitto, sono tornati a far sentire la loro voce avvertendo che non si può tornare ai "giorni bui" dell' era di Mubarak e chiedendo alle forze armate di esercitare moderazione nel «mantenere l' ordine, rispettando i diritti di quanti manifestano pacificamente».
VANNA VANNUCCINI


Noi cristiani abbiamo paura temiamo una svolta autoritaria
CAIRO - Della commissione che ha approvato la bozza di Costituzione facevano parte originariamente due membri delle chiese cristiane, che insieme a laici e liberali hanno abbandonato la commissione fidando che la magistratura ne avrebbe riconosciuto l' illegittimità. Morsi invece ha decapitato la magistratura, dato un colpo d' acceleratore ai lavori della commissione e indetto per il 15 dicembre un referendum che confida di vincere. Padre Rafic Greiche è il Direttore dell' Ufficio stampa della Chiesa cattolica egiziana che, con le altre sei chiese che fanno parte della Conferenza patriarcale, aveva partecipato inizialmente alla stesura del testo costituzionale. Ora Morsi dà a voi la colpa di impedire lo svolgimento della vita democratica. Perché vi siete ritirati? «Perché, detto senza peli sulla lingua, è un testo che se verrà approvato consacrerà un regime fascista. Non solo è pericoloso per i cristiani che sono il 10-12 per cento della popolazione, e di cui i cattolici sono una piccola minoranza. Contraddice lo spirito degli egiziani e tutte le speranze che erano nate dalla rivoluzione. Per mesi i fondamentalisti hanno promesso di inserire le nostre modifiche ma riproponevano ogni volta lo stesso testo camuffato. Alla fine abbiamo perso la pazienza». L' islam è, come dicono i riformatori, una questione d' interpretazione? «Troppo facile. I testi islamici danno sempre un comandamentoe il suo contrario, anzi teorizzano che proprio questa è "la grazia di Dio". Il metodo dei fondamentalisti è passare dalla politica alla religione, per cui chi fa una critica diventa un amorale. Il loro islam è pura politica, i loro occhi sono sul potere. Ma la situazione in Egitto è molto grave».


Egitto, la scommessa di Morsi Nuova Costituzione e stabilità
IL CAIRO - Domani si vota. Il presidente Morsi è andato avanti per la sua strada. A furia di decreti e di bluff è arrivato a due passi dall'obbiettivo: la nuova Costituzione. In ultima battuta ha decretato perfino che il referendum si terrà in due rate, per ovviare alla mancanza di giudici che devono supervisionare i seggi ma rifiutano di farlo ritenendo il voto incostituzionale. Sabato voteranno le grandi città e il sabato successivo il resto del paese, ha deciso il presidente. Né le manifestazioni, né le contestazioni dei giudici, né le dichiarazioni del capo della più prestigiosa autorità teologica sunnita, il gran imam El Tayeb, nemmeno i jet dell'aviazione che hanno sorvolato il Cairo l'hanno fermato.
Dopo esser riuscito con finti o parziali cedimenti a spiazzare l'opposizione ha avuto la meglio anche sulle Forze Armate, che mercoledì hanno ritirato il loro invito al "dialogo nazionale". Proprio mentre l'opposizione si era finalmente decisa a dire che vi avrebbe partecipato, i militari hanno rimandato il dialogo sine die. La settimana scorsa avevano parlato di "catastrofe" dentro cui l'Egitto minaccia di scivolare. Ieri il capo di Stato Maggiore el Sissi ha concordato con il presidente il dispiegamento di 120.000 soldati e 6.000 blindati per garantire la sicurezza intorno ai seggi.
Gli obbiettivi di Morsi sono quelli della Fratellanza musulmana. Questo è chiaro a tutti.
Quando incontra Badia, il presidente dei Fratelli musulmani, è Morsi che gli bacia la mano, non viceversa, dice la gente. Ma Morsi sembra sicuro di poterla convincere a votare sì. La parola d'ordineè stabilità. Solo la Costituzione garantisce la stabilità che può rimettere in moto l'economia e solo i Fratelli Musulmani possono assicurarla, viene martellato nelle moschee. La gente sa che i Fratelli musulmani non sono quello che sembrano, sa che hanno milizie armate, ma teme anche che l'opposizione- sempre un po' sparpagliata e con un leader, El Baradei, incapace di avere un orecchio per la gente - non sappia riportare l'ordine e la sicurezza.
Nei 23 mesi dalla rivoluzione la disoccupazione è salita alle stelle, i prezzi anche, il turismo è paralizzato. Davanti alle piramidi di Giza, una lunga fila di carrozzelle cammelli aspettano invano qualche turista. Dobbiamo dimostrare che è proprio la Fratellanza che ha portato instabilità, mi dice lo scrittore Salmawy. Forsei giovani manifestanti saranno capaci di farlo.



Come volevasi dimostrare, ancora una volta, quanti a casa nostra puntavano sulla sconfitta di Morsi e dei Fratelli Musulmani hanno preso una botta sui denti.
Allahu Akbar

martedì 18 dicembre 2012

EGITTO

Morsi come Mubarak piazze in fiamme in Egitto contro il golpe istituzionale
GERUSALEMME - «Morsi come Mubarak», «Morsi, il nuovo faraone», «Morsi vai via!». In un crescendo di slogan e d' invettive che rimandavano al tempo della rivolta contro il vecchio regime, gli oppositori di Mohammed Morsi, il presidente eletto dopo la caduta di Hosni Mubarak, si sono ritrovati a piazza Tahrir, per denunciare il colpo di mano istituzionale con cui il nuovo raìs si è in sostanza dotato di poteri straordinari, sottraendoli ad ogni controllo della magistratura. Lui, Morsi, parlando ad una folla di fedelissimi su un palco allestito fuori dal palazzo presidenziale, lontano molti chilometri da piazza Tahrir, ha difeso il suo operato affermando di aver agito per salvare il Paese dai nemici della rivoluzione e per garantire che il processo costituente, impantanato da dispute interminabili, si concluda rapidamente. Ma le sue prevedibili rassicurazioni non hanno convinto le decine di migliaia di egiziani che, raccogliendo l' appello alla protesta lanciato dai principali partiti laicie liberali, sono scesi ieri in piazza non soltanto al Cairo, ma anche ad Alessandria, Porto Said, Asyut. La mobilitazione è degenerata in scontri particolarmente violenti ad Alessandria, dove sostenitori e oppositori di Morsi si sono affrontati per le strade del centro e sul lungomare (25 feriti, 100 in tutto il Paese) e dove alcune sedi del partito "Libertà e Giustizia", l' organizzazione politica paravento dei Fratelli Musulmani, trionfatori alle elezioni generali, al cui vertice Morsi appartiene, sono state saccheggiate e date alle fiamme. A piazza Tahrir, o per meglio dire, in un viale laterale che conduce alla piazza, gli incidenti con la polizia schierata in forze per evitare che il luogo simbolo della rivoluzione egiziana diventasse teatro dell' ennesima battaglia, sono cominciati quando il neo presidente ha iniziato a parlare dal palco di Heliopolis. E mentre la folla dei seguaci, 80 mila persone, applaudiva e scandiva slogan alla maniera degli islamisti, alzando il dito indice ammonitore verso il cielo, dai ranghi dei contestatori (anche lì diverse decine di migliaia) partivano bottiglie molotov verso le truppe in assetto antisommossa che rispondevano coi lacrimogeni. Una ventina le persone contuse, decine i fermati. Gli argomenti del presidente sembrano non avere convinto neanche il suo assistente Samir Morcos, copto, responsabile per la transizione democratica, che ieri in serata ha dato le dimissioni. E subito si è dimessa anche Sekina Fouad, consigliera per la Cultura, argomentando: «Tutti vogliono il giudizio degli assassini dei manifestanti, ma rifiutano che la Costituente e il consiglio consultivo del Parlamento siano al riparo di ogni giudizio sul loro scioglimento». A giudicare dalle risposte date a quanti lo hanno attaccato dopo i decreti emessi in questi giorni, Morsi non si è lasciato intimidire dalla mobilitazione. «L' opposizione non mi preoccupa - ha detto - ma deve essere una vera e forte opposizione». Se ha deciso di dotarsi del potere straordinario di prendere qualsiasi decisione e istituire qualsiasi procedura, per giunta sottraendosi al sindacato della magistratura, è «per difendere la rivoluzione» dai suoi nemici, «una minoranza», certo, ma pericolosa,e per garantire la stabilità del paese, non per istituire una dittatura personale. Al contrario, Morsi ha aggiunto di credere nella divisione dei poteri. Ma il processo che dovrebbe portare ad adottare la nuova Costituzione, rischiava di impantanarsi in interminabili diatribe. L' Assemblea Costituente stava per esaurire il mandato, in scadenza a dicembre, senza aver adempiuto il suo compito. «Ho deciso di dare all' Assemblea altri due mesi di tempo perché approvi la nuova Costituzione che sarà sottoposta a referendum popolare, e nuove elezioni politiche seguiranno». Ma ha preferito ignorare le critiche dei liberali che hanno, nella sostanza, deciso di scendere in piazza per protestare anche contro gli orientamenti di parte emersi in seno ad un' Assemblea Costituente dominata dagli islamisti, orientamenti che non garantiscono la tutela dei diritti delle donnee delle minoranze. Morsi s' è limitato ad affermare di essere il presidente di «tutti gli egiziani», un presidente che non si schiererà mai contro i diritti di nessun cittadino, uomo o donna, ricco o povero, musulmano o cristiano che sia.

Alberto Stabile

La battaglia di Al Azhar l'Università che decide sulla Sharia in Egitto

IL CAIRO - A chi appartiene Al Azhar? Tra i tanti paradossi a cui ci sta abituando la "primavera araba" c'è anche quello che la massima autorità teologica del mondo sunnita possa cessare di essere un polo moderato dell'islam, com'è stata fino ad oggi, e diventare un fortino dell'islam più radicale. «Liberare istituzioni come al Azhar, che determina ciò che è islamico e ciò che non lo è, è per noi più importante che vincere le elezioni o riscrivere la costituzione» afferma Mohammed Nour, portavoce del partito salafita. I salafiti e i Fratelli musulmani usano la parola "liberare" perché mirano a spingere alle dimissioni l'attuale gran Imam Ahmed el Tayeb per impadronirsi della prestigiosa Università, accampando come pretesto che el Tayeb era stato nominato da Mubarak (nel 2010, alla morte del precedente gran Imam) come tutti i grandi sceicchi di Al Azhar prima di lui, tradizionalmente nominati (a vita) dal presidente egiziano.
Solo quest'anno, prima di lasciare il potere, i militari avevano decretato che in futuro la nomina del gran Imam sarà riservata a una commissione di 40 teologi interni all'Università.
Nel grande campus di al Azhar, dove studiano migliaia di studenti, la settimana è cominciata come al solito. La crisi, percepibile dovunque nella capitale, qui sembra ancora lontana. Gli uffici del gran Imam e dei suoi consiglieri sono al secondo piano di un palazzo non distante dall'ingresso principale del campus. Al pianoterra, due persone pregano inginocchiate verso la Mecca, altre aspettano la liberatoria per contrarre matrimonio (vengono qui soprattutto chi sposa stranieri o persone di altre religioni). El Tayeb ha partecipato al colloquio con il presidente dal quale sono rimasti lontani i partiti dell'opposizione. Ma se Morsi ha fatto un passo indietro sui poteri eccezionali, non ha però ceduto di un millimetro sulla data del referendum sulla nuova costituzione.
Sul referendum la Fratellanza musulmana punta tutte le sue carte per islamizzare il paese e farne una quasi teocrazia di tipo iraniano.
Il testo costituzionale stabilisce che le leggi approvate dal parlamento dovranno aderire ai princìpi stabiliti dalle quattro scuole dell'islam (inclusa quella wahabita).
Potrebbe significare l'obbligo delle donne di coprirsi il capo, la separazione dei sessi, il matrimonio per le bambine di nove anni e la creazione di una polizia religiosa per proteggere i valori della "vera famiglia egiziana", "promuovendo la virtù e mettendo al bando il vizio". Chi avrà l'ultima parola insindacabile su che cosa è vizio e che cosa è virtù sarà appunto Al Azhar.
«L'opinione dei massimi teologi dell'onorevole Istituto sarà decisiva in tutte le questioni che riguardano il diritto islamico», afferma l'articolo 4, e il linguaggio del testo costituzionale è stato lasciato volutamente ambiguo per permettere in futuro anche interpretazioni molto restrittive.
La battaglia per Al Azharè già cominciata e el Tayeb siede ormai su una poltrona pericolante. Il partito salafita Al Nour chiede che il prossimo gran Imam venga eletto direttamente dagli studenti e dal corpo insegnante, che ormai proviene sempre più spesso dall'Arabia Saudita (l'Imam el Tayeb ha una laurea in filosofia islamica presa alla Sorbona). «El Tayeb potrebbe essere presto costretto a dimettersi» ci dice un suo stretto consigliere. L'ambasciatore Mahmud Abdel Gawad ci riceve con molta cordialità e un buon caffè arabo nel suo studio al secondo piano. È il consigliere diplomatico e uno dei più stretti collaboratori del gran Imam. Parla un italiano perfetto che è stato lodato perfino da Monti durante la sua visita in Egitto.
Spiega che il riferimento alla Sharia c'è sempre stato nella costituzione egiziana, ma come sempre nell'islam il problema è l'interpretazione. Nessuna religione come l'islam, che a differenza del cristianesimo non ha avuto una Riforma, viene interpretata in modi che non hanno nulla a vedere con il Corano e la tradizione del Profeta. Mi racconta una storia della vita del Profeta che gli ha appena raccontato il gran Imam. Maometto rimproverò aspramente i suoi fedeli che uccisero un uomo perché si era allontanato dalla fede, dopo che lui aveva detto di lasciarlo in pace. «La vita umana è sacra. I fanatici invece continuano ad uccidere».
Al Azhar è stata sempre orgogliosa della sua moderazione, equidistante dagli estremisti radicali ma anche dai modernisti. «Se questo ruolo cambiasse, cambierebbero molte cose nel mondo islamico». Gawad s'indigna che i salafiti vadano dicendo che al Azhar è d'accordo sul matrimonio delle bambini a nove anni. «Semplicemente non è vero». E aggiunge: «Con una costituzione così il giorno dopo il referendum l'Egitto sarà ancora più ingovernabile di oggi». Di politica l'ambasciatore Gawad non vuole parlare, non è questo il suo ruolo, dice. Ma crede che, in tutto l'Egitto, molta gente che aveva votato per Morsi oggi non lo rifarebbe.
L'ignoranza, dicono qui, è la causa principale della crescita dell'estremismo. Gli egiziani sono più ottanta milioni e quasi il quaranta per cento della popolazione è analfabeta. È facile abbindolarli.
Bisognerebbe diffondere il vero islam, ma come? I mezzi finanziari per farlo li hanno solo gli estremisti. Fuori dall'università sono riprese le manifestazioni e i presidi di piazza Tahrir e davanti al palazzo presidenziale restano pieni di gente. Il testo costituzionale «reprime le nostre libertà e i nostri diritti» ha detto El Baradei, invitando tutti a proseguire la protesta.

Vanna Vannuccini

La Rivoluzione contesa tra laici e Fratelli musulmani

NELLE rivoluzioni il compromesso, soluzione principe della politica, tarda ad arrivare. È quel che accade in queste ore in Egitto dove due forze si contendono in aperta tenzone, a muso duro, la «primavera » cominciata nel gennaio dell’anno scorso in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Entrambe rivendicano di fatto, separatamente, il diritto di esercitare il potere, poiché ciascuna si considera appunto l’unica autentica rappresentante della rivoluzione da cui quel potere deriva.
DA UN lato i laici, i liberali, i cristiani, raccolti in un Fronte nazionale di salvezza dai confini incerti, accusano il presidente Mohammed Morsi, espressione di un vago, ampio fronte islamico, di essere un usurpatore; dall’altro i Fratelli musulmani difendono la legittimità di Morsi e delle prerogative che si attribuisce, in quanto capo dello Stato eletto al suffragio universale.
L’esercito avrebbe gli strumenti per decidere la sorte della rivoluzione contesa. Ma a parte l’inevitabile impegno di alcune unità d’élite, incaricate della protezione del capo dello Stato, rafforzate per l’occasione da qualche carro armato parcheggiato davanti alla presidenza, nel quartiere di Heliopolis, al fine di tenere a distanza i manifestanti, a parte queste essenziali precauzioni, i militari sono rimasti fuori dalla mischia. Si sono ben guardati dall’intervenire in appoggio di una delle parti a confronto.
In agosto i generali più giovani hanno esautorato i loro colleghi anziani, compromessi col vecchio regime, hanno concluso un’alleanza con i Fratelli musulmani, e quindi hanno appoggiato Mohammed Morsi appena eletto alla presidenza della Repubblica. In cambio hanno conservato, e conserveranno, i privilegi riservati da più di sessant’anni alla società militare. Ma non hanno venduto del tutto la loro anima. Un’anima tutt’altro che omogenea, poiché nel corpo ufficiali prevale un tradizionale spirito laico, risalente ai primi anni Cinquanta, quando fu proclamata la repubblica; mentre la truppa, in cui sono in maggioranza i coscritti provenienti dalle diseredate periferie urbane, e dalle province ancora rurali, è sotto una forte, altrettanto tradizionale influenza religiosa. Quindi i soldati
sono tendenzialmente per i Fratelli Musulmani, o per i salafiti, più estremisti. Insomma l’esercito, per ora, resta un enigma.
E’ invece evidente che la «primavera araba» data per morta, sommersa dall’ondata islamica, è ancora rovente, e non solo nella sua versione egiziana. La Tunisia, che ha conosciuto la prima rivolta contro i raìs, e che poi è rimasta prigioniera di un prepotente, inquietante risveglio islamico, sarà influenzata, come altre società arabe, dagli avvenimenti del Cairo, principale capitale mediorientale. Dove i laici, i liberali, i progressisti, all’origine della insurrezione di piazza Tahrir, dopo essere stati emarginati dalla tardiva ma incontenibile irruzione sulle sponde del Nilo dei Fratelli musulmani, sono adesso riemersi in forza per far valere le loro esigenze democratiche. E contrastare la svolta autoritaria di Mohammed Morsi. Il quale, in attesa di una Costituzione, si è aggiudicato poteri definiti dai laici «uguali o superiori a quelli che aveva Mubarak», il raìs destituito.
Adesso i promotori della «primavera araba» vorrebbero ridarle i colori iniziali. Il loro programma è vasto e di difficile applicazione. E’ tuttavia la prova che la rivoluzione continua. La posta in gioco è la futura Costituzione. Vale a dire la natura politica dell’Egitto di domani. I due fronti, il laico e l’islamico, non usano le stesse armi. I primi, i laici, all’inizio chiedevano libere elezioni, ma si sono accorti molto presto che essendo frantumati in numerosi movimenti sarebbero stati facilmente sopraffatti
nelle urne dai Fratelli musulmani, dotati di un partito ben organizzato (Libertà e giustizia), e di una rete sociale che abbraccia l’intero Egitto.
Sono stati dunque gli islamici, non per vocazione democratica ma per motivi tattici, ad adottare le elezioni come armi politiche. Ed infatti hanno vinto tutte le consultazioni, quelle parlamentari annullate, come quelle presidenziali che hanno portato Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato.
Morsi è tuttavia un presidente senza Costituzione, poiché quella del vecchio regime è stata annullata, e quella nuova dovrebbe essere sottoposta il 15 dicembre a un referendum. Al quale il fronte laico si oppone; e sul quale i giudici, indignati dai poteri giudiziari che il presidente si è attribuito, non vogliono soprintendere come la legge esigerebbe. Non è dunque sicuro che lo si possa tenere.
Il testo costituzionale preparato dai Fratelli musulmani, nel caso si dovesse votare tra una settimana, non correrebbe comunque troppi rischi, perché sul terreno elettorale i Fratelli musulmani sono imbattibili. I numeri sono per loro. Per questo i laici, i progressisti, i cristiani si oppongono a un voto che renderebbe legittima la svolta islamica del paese attraverso la nuova Costituzione.
Secondo Human Rights Watch il progetto di magna charta presentato da Morsi è difettoso e contraddittorio, ma non catastrofico. È ambiguo. Si presta a varie letture. La nuova Costituzione non disegna uno Stato teocratico, ma lascia aperte molte porte a un’evoluzione conservatrice rigorosa. Le libertà individuali sono garantite, ma al tempo stesso si affida a un’autorità religiosa, l’università islamica di Al Azhar, le decisione di interpretare, senza appello, i principi della sharia (le leggi coraniche) da applicare. Viene così esclusa curiosamente da questo compito qualsiasi altra autorità, giuridica o legislativa. E abbandonata alle variabili tendenze teologiche, agli umori religiosi, la facoltà di regolare le libertà dei cittadini. Per il capitolo essenziale delle donne è stata abbandonata una prima versione salafita, che puntava sulla lettura più intransigente del Corano. Ed è stata adottata la generica formula che riconosce «l’uguaglianza tra tutti gli egiziani». Anche se poi si esplicita che la donna «deve trovare un equilibrio tra i suoi doveri familiari e professionali». La libertà di culto è assicurata alle tre religioni monoteistiche, ma non è estesa a tutte le religioni.
Mohammed Morsi non può agire come i vecchi raìs. Lui è condizionato dai salafiti, ala radicale dell’islamismo e concorrenti dei Fratelli musulmani. Non può disporre liberamente, almeno per ora, dell’esercito che vuole tenersi fuori dalla mischia. Non può usare con spregiudicatezza la polizia e annessi per reprimere le manifestazioni perché è sotto sorveglianza del Fondo Monetario internazionale dal quale aspetta quattro miliardi e mezzo di dollari, che dovrebbero impedire il fallimento economico del paese. E deve tener conto dello sguardo, sia pur non troppo severo degli americani, che danno un miliardo e mezzo all’anno alle forze armate.
Il 22 novembre Mohammed Morsi ha tuttavia compiuto quel che può essere considerato un colpo di Stato. Ha proibito qualsiasi tipo di ricorso contro le sue decisioni e contro la Costituente, assumendosi così tutti i poteri. Compreso quello di scrivere una Costituzione su misura. Si è messo al di sopra delle leggi e ha eliminato via via tutti gli ostacoli alla conquista del potere da parte dei Fratelli musulmani. L’operazione ha colpito anche numerosi uomini del vecchio regime, in particolare nell’amministrazione della giustizia, spingendo verso l’opposizione funzionari epurati perché un tempo al servizio del deposto raìs. Questo non favorisce l’immagine del movimento laico e liberale.

Bernardo Valli


Al Aswani: Ci hanno mentito non è il governo del popolo
«SARÀ un lungo braccio di ferro. Ma sarà decisivo. I Fratelli musulmani hanno chiesto il supporto della gente, promettendo riformee giustizia, però hanno fallito. Gli egiziani vedono bene che sono stati imbrogliati: e non ci stanno. Se votassimo ora i Fratelli perderebbero. Invece li stiamo affrontando in strada, non nelle urne: ma è lo stesso, vogliamo toglierceli di torno una volta per tutte». In queste ore Ala al Aswani, il più importante scrittore egiziano, è in Germania: nella sua stanza di hotel, in sottofondo, si sente la televisione che trasmette gli eventi del Cairo. Signor al Aswani, cosa è quello a cui stiamo assistendo? «La seconda onda della rivoluzione. Nessun dubbio a proposito. Abbiamo eletto un presidente che non risponde alla gente, ma alla struttura piramidale dell' organizzazione politica a cui appartiene. È stato Shater (il leader dei Fratelli musulmani, ndr) ad ordinare di sparare sulla folla e Morsi ha avallato. Il presidente pensa di poter governare il paese così: la gente gli sta dicendo di no. È uno sviluppo utile: anche se sanguinoso. Gli egiziani hanno capito che i Fratelli musulmani hanno cattive intenzioni». Lei parla come se Morsi non si fosse dimesso dalla Fratellanza subito dopo essere stato eletto: invece lo ha fatto. «La mia risposta è solo una: ah ah ah». Vuole spiegare meglio? «Ho incontrato Morsi qualche tempo fae gli ho detto chiaramente che così non poteva andare, che un presidente non poteva rispondere a un gruppo di cui non si sa nulla a livello di finanziamenti o di decisioni interne. Mi ha risposto "ha ragione, concordo con lei". Poi mi ha sorriso edè andato via. Come se nulla fosse». Però anche l' opposizione ha molte responsabilità: una fra tutte, quella di non essere riuscita a presentarsi unita alle elezioni presidenziali. «È stato un enorme errore. Se lo avessimo fatto, avremmo vinto noi. Ma dagli errori si impara. Oggi in piazza a dire "no" a Morsi c' è tutto l' Egitto che non è schierato con i Fratelli musulmani. Siamo uniti di fronte al pericolo: e lo resteremo. Morsi sarà obbligato a fare un passo indietro. Ed è meglio che lo faccia presto. Dovrebbe aver imparato la lezione della rivoluzione: se Mubarak si fosse fermato in tempo, se avesse ascoltato la folla dall' inizio, forse sarebbe ancora al potere. Ha aspettato troppo e la gente ha alzato le sue richieste: è finita come avete visto». Lei oggi è in Germania: nello scenario che delinea, che ruolo hanno i paesi occidentali? «I governi occidentali si stanno comportando in modo riprovevole: hanno dato mano libera a Morsi. Cercano un nuovo Mubarak, qualcuno che esegua i loro ordini: lo hanno trovato in Morsi. In cambio gli hanno dato mano libera sul piano interno».

Francesca Caferri

Perché i film sull’Islam sacrificano la verità

UN TEMPO andavamo al cinema per sognare, per invitare Ava Gardner o Sofia Loren a entrare a far parte delle nostre fantasie. Ci piacevano quelle storie d’amore che finivano male, eravamo felici di aver potuto vivere per un’ora o due tra le braccia immaginarie delle donne più belle del mondo. Questo accadeva prima che la politica s’impadronisse della settima arte per fare propaganda a colpi di effetti speciali, con inseguimenti di macchine sui tetti di Istanbul o esplosioni nei mercati popolari di Kabul o Islamabad.
Abbandonati i sogni meravigliosi e il «glamour», si punta sul tema del «pianeta in pericolo». E questo pericolo oggi è l’Islam. Evidentemente, quello sfigurato da Al Qaeda, o esibito da terroristi e trafficanti di droga per giustificare la loro barbarie, come sta avvenendo anche in questo momento nel Nord del Mali. Nella celebre serie «Homeland » si assiste alla visita di un agente della Cia a Beirut. Una caricatura. Fin dall’aeroporto, nient’altro che donne velate di nero, come in un feudo dei Taliban. Si dà il caso che io sia nato a Beirut alla fine di ottobre, poco dopo l’assassinio di Wissam al Hassan. E ho avuto modo di constatare la modernità, il dinamismo di questa città che non ha perduto nulla della sua energia e delle sue speranze, dove le donne sono vestite come le europee; e se alcune portano il velo, non hanno nulla a che vedere con l’immagine diffusa dal serial americano.
Bene ha fatto il ministro del Turismo a denunciare il modo in cui «Homeland» descrive la capitale libanese. Ha certamente ragione, anche perché questo serial, celebrato e premiato con vari Oscar, è distribuito in tutto il mondo e sta appassionando centinaia di milioni di telespettatori. Ma una denuncia contro una produzione di così grande portata e potenza non basta certo a ricostituire un’immagine veritiera del mondo arabo.
Nell’immaginario americano, oggi l’Islam e il mondo arabo hanno preso il posto del comunismo. In passato si combatteva con ogni mezzo contro il pericolo comunista (tanto che tuttora il popolo cubano soffre nella propria carne per l’embargo economico imposto dall’America, che neppure un presidente come Obama ha osato ammorbidire, e men che meno abolire). Ai bambini si diceva che il diavolo veniva dai Paesi comunisti. Ma poiché ormai l’Unione Sovietica si è dissolta, il muro di Berlino è caduto e il comunismo è relegato in Cina e nella Corea del Nord, ci si è rivolti a un nuovo diavolo:
l’arabo, il musulmano.
Evidentemente, non mancano gli arabi e i musulmani che si impegnano notte e giorno per accreditare nel mondo intero quest’immagine odiosa e devastante, propagando un terrorismo atroce, le cui principali vittime sono gli stessi musulmani. Certo, dall’11 settembre 2001 è stato fatto di tutto per dirigere la lotta contro il mondo islamico e arabo. Al Qaeda è il migliore alleato di quell’America che ha reso tutti gli arabi sospetti, e vede in ogni musulmano un potenziale terrorista.
Chi, come me, viaggia parecchio nel mondo ha avuto occasione di constatare fino a che punto un nome arabo su un passaporto (il mio è francese) susciti diffidenza e sospetti. Nel 2003 mi è capitato di essere trattenuto per varie ore in un box dell’aeroporto di Newark, senza aver fatto nulla di strano o di illegale, e senza che nessuno mi abbia dato spiegazioni. Il mio crimine era quello di essere arabo. Casi del genere si verificano tutti i giorni, ai danni di centinaia di migliaia di viaggiatori.
Abbiamo una cattiva reputazione. Siamo percepiti come lo erano i comunisti ai tempi della guerra fredda.
In un recente film americano di grande successo, «Argo», con Ben Affleck che ne è anche il regista, si racconta come nel 1979 la Cia riuscì a far uscire dall’Iran sei funzionari dell’ambasciata americana che si erano rifugiati presso quella canadese: una vicenda realmente accaduta.
L’Iran vi è rappresentato nel modo più orrendo possibile. Può darsi che all’epoca i guardiani della rivoluzione fossero veramente individui fanatici e brutali. Ma ciò che questo film suggerisce allo spettatore in maniera molto efficace è l’immagine di un Islam selvaggio, sanguinario e violento. Mi ha ricordato un altro film: «Midnight Express», che tanto male aveva fatto a suo tempo alla Turchia.
Non provo alcuna simpatia per il regime iraniano e la sua rivoluzione. Ma il mio pensiero va a quella popolazione, già costretta a subire il regime degli ayatollah. Perché penalizzarla ancora rappresentandola in un modo che non corrisponde affatto alla realtà? Viviamo in un sistema privo di sfumature, che rifiuta la complessità: bianco o nero, vero o falso, buono o cattivo, il bene o il male.
Ogni cosa è vista attraverso un prisma che sacrifica la verità. Ma non lamentiamoci, non accusiamo gli americani se non ci rispettano. Sta a noi, agli arabi coscienti di questa situazione lottare all’interno delle nostre società, contro gli impostori, i falsificatori, i bugiardi, gli inquinatori che corrompono la nostra immagine e la nostra storia, sacrificando il futuro dei nostri figli. Fintanto che i nostri Paesi non saranno divenuti Stati di diritto, con istituzioni realmente democratiche e con una cultura della libertà, saremo sempre soggetti ai perturbatori che ci confinano nell’arretratezza, nel pauperismo, nel sottosviluppo intellettuale. C’è tanto da fare nei nostri Paesi per ristabilire un’immagine veritiera e rispettata della nostra identità, della nostra religione e del nostro essere. Ma finché continuerà l’ingerenza della religione nella politica, finché regnerà la confusione tra la ragione e la fede, offriremo agli americani, e agli occidentali in genere, le migliori occasioni possibili per rappresentarci come caricature, o come marionette.

Ben Jelloun



lunedì 10 dicembre 2012

EGITTO, LE SOMMOSSE CONTRO IL PRESIDENTE DEMOCRATICAMENTE ELETTO

A partire dal 24 Novembre, i giornali italiani hanno dato ampia pubblicità a non si sa quanto inventate rivoluzioni democratiche contro il presidente Morsi e contro la maggioranza eletta dei Fratelli Musulmani. Tali rivolte sarebbero state determinate dai tentativi dittatoriali del presidente che avrebbe modificato al di fuori delle procedure costituzionali l'assetto del neo regime egiziano.
Particolarmente virulenta è stata la campagna organizzata da alcuni giornali italiani all'indomani del ruolo decisivo che Morsi, per riconoscimento degli stessi Stati Uniti d'America, ha svolto per spegnere l'incendio di una nuova exalation sionista contro la popolazione di Gaza.
Forniamo qui un'informativa esaustiva sui testi di tali articoli:

I - Assalto al palazzo presidenziale Egitto, Morsi costretto alla fuga

DIVERSI dimostranti erano riusciti a sfondare un doppio cordone di poliziotti e stavano scalando i muri di protezione del palazzo presidenziale di Heliopolis, quando sono stati fermati dai loro compagni di fede politica. Il capo dello stato Mohamed Morsi è stato costretto a dileguarsi e a rifugiarsi nella sua elegante casa di New Cairo, nella periferia orientale della megalopoli. «Il presidente se n'è andato», ha comunicato un suo portavoce. Gli agenti delle Forze centrali di sicurezza, che avevano a lungo tentato di non essere sopraffatti con la consueta pioggia di lacrimogeni, sono stati rischierati allo Sporting club del quartiere. Diversi poliziotti si erano uniti ai manifestanti e avevano gridato i loro slogan. Diciotto dimostranti sono stati ricoverati in ospedale con sintomi di intossicazione. Nel Palazzo sono rimasti solo i membri della Guardia Repubblicana.

LA CAPITALE egiziana è stata sconvolta da una nuova giornata di protesta di massa contro il decreto che ha attribuito enormi poteri a Morsi e contro la nuova bozza di costituzione approvata in 19 ore il 30 novembre. La manifestazione di ieri era stata ribattezzata «Ultimo avvertimento». Due grandi cortei partiti dai rioni Korba e Abbasseya e da due moschee, decine di migliaia di persone, si sono radunati in piazza Tahrir e poi davanti al palazzo della Presidenza in viale el-Mirghani. Uno striscione accusava la Guida dei Fratelli Musulmani Mohamed el-Badie di aver «svenduto la rivoluzione». Dodici giornali e cinque canali televisivi hanno proclamato per ieri uno sciopero contro «il nuovo faraone» e la bozza di Costituzione che sarà sottoposta a un referendum il 15 dicembre.

NELLE STRADE sono scesi, in maglia nera e armati di fischietti, il Movimento giovanile 6 aprile, i socialdemocratici, il partito della Costituzione di Mohammed el-Baradei, ex direttore del'agenzia dell'Onu contro la proliferazione atomica, e il Movimento della Corrente Popolare dell'ex candidato nasseriano alla presidenza Hamdeen Sabbahi. Il nuovo procuratore generale Talaat Abdullah, appena nominato da Morsi, ha accusato i due capi dell'opposizione e l'ex segretario della Lega Araba Amr Moussa di essere «Spie al soldo di Israele» e di «voler rovesciare le istituzioni dello stato, in particolare l'Assemblea Costituente». L'imputazione è alla base di una formale denuncia alla Suprema corte per la sicurezza nella quale Abdullah, a sostegno della sua ipotesi, cita un recente faccia a faccia fra Moussa e l'ex ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni. Ieri il capo della diplomazia egiziana ha convocato l'ambasciatore israeliano al Cairo e gli ha contestato la decisione di costruire 4700 nuovi alloggi a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupata.

DUE GIORNALISTE del secondo canale della tv di stato, Bossaina Kamel e Hala Fahmy, sono state sospese dal servizio e messe sotto inchiesta per aver «ridicolizzato» il presidente Morsi e i Fratelli Musulmani nelle trasmissioni «Notizie di 24 ore» e «La coscienza». Heba Morayef, ricercatrice di Human Rights Watch, annota che il governo, sulla base della bozza di Costituzione approvata il 30 novembre, avrebbe il diritto di autorizzare o meno i canali tv e i siti internet, di proteggere «la vera natura della famiglia egiziana», e di limitare il diritto di cronaca sulla base di concetti vaghi come la «moralità» e «l'insulto».

Lorenzo Bianchi


II - Assedio al palazzo di Morsi “L’Egitto non è tuo, vattene”

IL CAIRO — Per l’opposizione era il giorno della sfida, dopo che il Presidente Morsi nel suo «il discorso alla grande nazione egiziana », come l’avevano annunciato i suoi collaboratori, non aveva fatto nulla per venire incontro agli oppositori politici e riportare la calma nel paese. La sola offerta di colloquio («alle 12.30 di sabato» aveva precisato, ed era sembrata una presa in giro), senza la minima concessione nei fatti, era apparsa subito ai manifestanti che avevano ascoltato il discorso per strada dalle autoradio unicamente una manovra propagandistica. Così come aveva fatto pessimo effetto la sua abilità a simulare, a rovesciare le carte in
tavola. Morsi nel discorso aveva addossato tutta la responsabilità delle violenze dell’altra notte all’opposizione — anche se testimonianze e video raccontano il contrario. Il presidente aveva anche accusato gli oppositori di far parte di un complotto al soldo di misteriose ma potenti «forze straniere » e degli amici del vecchio regime.
«La faccia era quella di Morsi ma le parole erano identiche a quelle pronunciate da Mubarak», commenta Shahira Mehrez, una
storica dell’arte egiziana che fin dai primi giorni delle manifestazioni contro Mubarak era a piazza Tahrir e oggi è in prima fila davanti al palazzo presidenziale. I partiti dell’opposizione hanno respinto l’offerta di dialogo: «Morsi ha chiuso la porta», ha detto Mohammed el Baradei, il premio Nobel che è il coordinatore del Fronte di Salvezza Nazionale in cui si sono riuniti i fino a poco fa molto diversi partiti dell’opposizione. «Non ci sono le basi per un dialogo se manca qualsiasi disponibilità al compromesso ».
Baradei aveva lanciato l’altro ieri sera agli egiziani l’appello a scendere di nuovo in piazza. E per tutto il pomeriggio, subito dopo la fine della preghiera delle una, migliaia di persone, soprattutto giovani sono sfilate da diversi quartieri verso il palazzo presidenziale a Heliopolis. «Vattene», «Il nostro paese non è di tua proprietà », scandivano i manifestanti. Ormai gli slogan ritmati che animano le manifestazioni sono diretti personalmente contro Morsi più che contro il progetto di Costituzione (criticato anche dall’Organizzazione per i Diritti umani per la sua ambiguità). Morsi lo vorrebbe far approvare a tambur battente con un referendum popolare il 15 dicembre, prima ancora che il 16 la Corte costituzionale si pronunci sulla legalità dell’Assemblea costituente (dubbia, anche perché vi erano solo i partiti islamisti).
Il discorso del presidente ha invece infiammato i suoi seguaci (che ormai la gente ormai chiama “Fratelli” senza aggettivo, perché, sostiene, «musulmani siamo tutti e il loro è un trucco per far credere che musulmani sono solo loro). Morsi li aveva confermati nel ruolo di vittime di forze laiche che vorrebbero delegittimare il risultato elettorale di cinque mesi fa e trasformare l’Egitto in un paese senza religione. In migliaia sono andati ieri mattina alla moschea di al Aqsa ad assistere alla sepoltura di due vittime degli scontri. «L’Egitto sarà islamico, né laico né liberale», gridavano.
Una folla immensa è rimasta per tutta la sera davanti al palazzo presidenziale, protetto dai carri armati dell’esercito e della Guardia Repubblicana e da blocchi di cemento e rotoli di filo spinato. I soldati schierati immobili dietro il filo spinato non hanno battuto ciglio nemmeno quando qualcuno cominciava prima a spingere le bandiere di là dal filo spinato, e poi a srotolarlo per passare dall’altra parte, trattenuto però dalla gente che non voleva provocazioni. Dopo il calare della notte però molti manifestanti hanno deciso di scavalcare il filo spinato e si sono avvicinati al palazzo presidenziale. I soldati della Guardia Repubblica li hanno lasciati passare senza opporre resistenza. Dagli altoparlanti dei manifestanti intanto arrivava il messaggio del Fronte di Salvezza Nazionale che invitava la gente a non ritirarsi e organizzare un sit-in intorno al palazzo presidenziale fino alle dimissioni del presidente.
Alle nove di sera la prima vittoria. La commissione elettorale ha annunciato che per i cittadini che vivono all’estero il voto sul referendum costituzionale, che avrebbe dovuto iniziare domani, è stato posticipato a mercoledì 12 dicembre. Potrebbe essere il segno di una prima apertura. L’opposizione vede il referendum come il momento cruciale su come sarà il futuro del paese. «Il presidente potrebbe considerare il rinvio del referendum — ha detto il vicepresidente Mahmud Mekki — se l’opposizione assicurerà di non usare questo atto per annullare la consultazione». Alla tv Baradei ha rivolto un appello a Morsi: «Chiedo al presidente di cancellare questa sera il referendum in modo da avere una intesa nazionale e scrivere una nuova Costituzione».
Dimostranti e militari intorno al palazzo presidenziale fanno di tutto per mantenere la situazione calma. Ma in una moschea vicina dopo le voci di rinvio del referendum si sono riuniti gli islamisti. E i dimostranti si sono subito organizzati per proteggersi.

Vanna Vannuccini


III - Egitto, i tank a difesa di Morsi assalto ai Fratelli musulmani il presidente in tv: Dialogo
IL CAIRO - I segni dell' orgia di violenza che per undici ore ha opposto migliaia di Fratelli musulmani e di salafiti, sostenitori del presidente Morsi, contro un numero meno imponente ma non meno determinato di oppositori, sono ancora visibili nel quartiere di Heliopolis, dov' è il palazzo presidenziale circondato dai tank dell' esercito. Vetrate a pezzi, stazioni di benzina saccheggiate, macchine bruciate, cassonetti di spazzatura usati come barricate. Nell' aria resta l' odore della plastica bruciata e sui portoni grandi macchie di sangue. Sette morti e più di settecento feriti è il bilancio degli scontri, i più sanguinosi da quando il popolo egiziano scese in piazza contro Mubarak nel gennaio del 2011. In giornata i seguaci dei Fratelli musulmani si sono poi ritirati, obbedendo a un ordine dall' altro e l' esercito insieme alla Guardia repubblicana hanno blindato il quartiere. Per tutta la giornata era atteso un discorso del presidente, più volte annunciato dai media e poi smentito. E finalmente alle dieci di sera Morsi si è presentato davanti alle telecamere per dirsi pronto a un dialogo con l' opposizione convocato per sabato. Dopo questo confronto con l' opposizione, ha detto, le parti più controverse della sua recente "dichiarazione costituzionale" (con la quale si è attribuito praticamente pieni poteri) potrebbero venir modificate. La dichiarazione sarà comunque nulla dopo il referendum sul progetto di costituzione fissato per il 15 dicembre, ha detto. «Il diritto alla protesta pacifica va riconosciuto ma in molti casi la violenza era stata programmata da gente pagata per fomentarla». Morsi ha espresso cordoglio per le vittime e ha annunciato che 80 persone «implicate in atti di violenza» sono state arrestate. Gli oppositori che anche ieri sera, sia pure in numero inferiore alla notte precedente, si erano riuniti nella piazza Tahrir, simbolo della rivoluzione, e nelle vicinanze del palazzo presidenziale hanno ascoltato il discorso del presidente ma non ne sono rimasti impressionati. Hanno continuato a scandirei loro slogan: «Morsi se ne deve andare», «Libertà libertà» «Abbasso i Fratelli musulmani". Dopo le violenze della notte scorsa le posizioni si sono irrigidite, il tetto delle rivendicazioni si è alzato. I manifestanti chiedono che Morsi revochi tutti i decreti e convochi una nuova Assemblea costituente che rifletta la pluralità della società egiziana. «Eravamo pronti a intavolare un dialogo, ma dopo la violenza che abbiamo sperimentato ieri notte non ci fidiamo più» dice una giovane donnaa Piazza Tahrir. Nel ricordo della rivoluzione che ha portato alla caduta di Mubarak tutto sembra possibile. Entrambi i campi si accusano a vicenda di aver provocato la brutale escalation di violenza di ieri notte. La manifestazione degli oppositori riuniti nel Fronte di salvezza nazionale era infatti cominciata pacificamente, sugli striscioni era scritto: «Non più dittatura». Chiedevano al presidente di revocare la dichiarazione costituzionale con cui si attribuisce praticamente un potere assoluto e il progetto di Costituzione redatto in fretta e furia unicamente dagli islamisti e per gli islamisti, di rinviare il referendum fissato per il 15 dicembre e di avviare un dialogo con l' opposizione. Richieste sostenute anche dal gran imam Ahmed el Tayyeb, capo del prestigioso centro teologico sunnita del Cairo Al Azhar che oggi ha chiesto più esplicitamente al Presidente di «sospendere il decreto e cessare di usarlo». Ma la violenza di ieri notte ha spaventato. Un giornalista è stato colpito da una pallottola esplosa a un metro di distanza, ha riferito un suo collega, perché i Fratelli musulmani volevano impedirgli di riprendere alcuni episodi di violenza. Per tutta la notte i Fratelli musulmani hanno tenuto in ostaggio 60 manifestanti - «i nostri prigionieri» - e impedito ai giornalisti di avvicinarsi. Dopo l' orgia di violenza hanno celebrato "la vittoria" e minacciato la jihad. «Difendere Morsi è difendere l' Islam», scandivano. Un noto predicatore televisivo, Abdullah Badr, ha accusato i cristiani di guidare la protesta: «Se tolgono un capello a Morsi caveremo loro gli occhi». E per tutta risposta circa 200 dimostranti hanno dato alle fiamme il quartier generale dei Fratelli musulmani. Il paese è elettrizzato. I laici si organizzano, gli islamisti si mobilitano, tutti sono su posizioni intransigenti. Di fronte allo spettro di una guerra civile che vanificherebbe i risultati della rivoluzione, ieri sera si sono moltiplicati gli appelli alla calma. L' ex capo della Lega araba Amr Moussa, uno dei leader del Fronte di Salvezza nazionale, ha detto di aver preso contatto con i Fratelli musulmani e con il partito dei salafiti Al Nour per «porre fine allo spargimento di sangue». «La legittimità del presidente dipenderà molto dal suo grado di saggezza» ha aggiunto, con riferimento all' annunciato discorso di Morsi. Esam el-Eryane, un notabile della Fratellanza musulmana, è partito ieri alla volta degli Emirati e di Washington. Anche Teodoro II, il nuovo papa dei cristiani copti, ha dichiarato su Twitter: «Abbiamo bisogno di saggezza nel cammino delle nostre vite». Il capo dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie, ha lanciato un appello all' unità del popolo egiziano. E ieri sera è poi arrivato il discorso del presidente. Ma una soluzione della crisi sembra ancora lontana.

Vanna Vannuccini


IV - Il Cairo, la retromarcia di Morsi

IL CAIRO - Il presidente egiziano Mohamed Morsi, secondo Al Arabiya ha annullato il decreto con il quale si era aumentato i poteri. Intanto, dopo esser rimasti fuori della mischia nella crisi di questi giorni, i militari rientrano nella politica egiziana con l´autorità di cui hanno goduto per sessant´anni. «Solo il dialogo può impedire la catastrofe. Altrimenti l´Egitto entrerà in un tunnel buio. Non lo permetteremo». Le tv hanno interrotto i programmi per mandare in onda la dichiarazione con cui l´esercito afferma che «la legittimità e le regole della democrazia non devono essere contraddette» e che «non sarà tollerato l´uso della violenza». Secondo il giornale al Ahram Morsi si prepara a varare una specie di legge marziale che autorizzerà i militari ad arrestare e processare i civili - potere nelle società democratiche riservato alla polizia.
Una doccia fredda per i giovani che venerdì hanno manifestato in massa sotto il palazzo presidenziale per chiedere al presidente di andarsene - una richiesta che andava oltre quella ufficiale dell´opposizione che vuole il ritiro dei decreti con cui Morsi si è attribuito poteri straordinari e la revisione del testo costituzionale varato in fretta e furia dagli islamisti prima del referendum fissato per il 15 dicembre. Sabato la massa che aveva partecipato alle manifestazioni davanti al palazzo presidenziale non c´era più, ma alcune centinaia di oppositori proseguono il sit-in davanti a due blindati parcheggiati davanti al palazzo su cui qualcuno ha issato uno striscione con la scritta: «Morsi via».
La dichiarazione dei militari ha subito fatto temere agli egiziani che l´esercito stia per riprendersi il potere come aveva fatto l´anno scorso dopo la caduta di Mubarak, ma fonti militari hanno minimizzato, le forze armate non pensano a un intervento diretto, hanno fatto sapere. La dichiarazione tuttavia lascia capire che l´esercito è pronto a intervenire perché il referendum si tenga il 15 dicembre come vogliono i Fratelli musulmani. Secondo il giornale al Ahram la legge marziale "light" durerà fino al referendum e all´elezione di un nuovo parlamento due mesi dopo, ma a discrezione del presidente potrebbe venir estesa anche oltre. La storia si vendica. Per decenni i presidenti egiziani - tutti provenienti dalle forze armate - avevano usato la legge marziale come pretesto contro l´insorgere dell´islamismo, ora sono i Fratelli musulmani a farvi ricorso. In agosto Morsi aveva concluso un´alleanza con i generali meno compromessi con il regime di Mubarak assicurando che nella nuova costituzione sarebbero stati garantiti i privilegi di cui la società militare ha goduto per più di sessant´anni.
Venerdì il vicepresidente Mekki aveva detto che il presidente era pronto, a certe condizioni, a rinviare il referendum per avviare il dialogo con l´opposizione. E il premier Kandil aveva aggiunto che Morsi era «disponibile a modificare il decreto con cui si è attribuito poteri illimitati». Ma ieri i Fratelli musulmani e diversi gruppi salafisti hanno pronunciato il loro categorico no. «Non ci devono essere né rinvii né cambiamenti» hanno affermato in un comunicato. La parola d´ordine è che il referendum va fatto subito «per difendere la legittimità di un presidente eletto dal popolo». «L´opposizione non rispetta la democrazia» mi spiega uno degli islamisti che presidiano la moschea Rabaa el Adaweya, da dove venerdì sera erano pronti ad attaccare i manifestanti (ma erano stati fermati all´ultimo momento da un ordine dall´alto). «Fanno parte di un complotto internazionale che vuole impedire l´arrivo al potere degli islamici e riportare le cose come prima della rivoluzione. Al testo costituzionale non si deve cambiare una virgola. Non vogliamo che le donne prendano a modello l´occidente, la donna deve essere rispettata come madre e moglie come appunto afferma il testo costituzionale che gli egiziani voteranno tra una settimana».


Chi legga con un minimo di attenzione e di obbiettività gli articoli che abbiamo pubblicato (sono solo una parte di quanti hanno riversato il loro livore contro chi ha vinto le prime libere elezioni egiziane) può facilmente rendersi conto che gli autori degli attacchi eversivi contro le istituzioni liberamente elette in Egitto sono in realtà quei "signori" di appartenenza politico-ideologica eterogenea, accomunati soltanto dall'odio contro chi ha liberato l'Egitto da partiti più o meno vicini al regime corrotto dell'ex faraone Mubarak. A dimostrazione di tale ipotesi c'è il fatto che ad essere assalite con violenza dai presunti rivoltosi "democratici" sono state le sedi dei Fratelli Musulmani, che hanno contato nelle loro file decine di morti e feriti, mentre gli amanti della libertà e della democrazia hanno avuto solo qualche lieve ferito dovuto a poche bombe lacrimogene. Significativa la foto pubblicata da La Repubblica che ritrae un "eroe democratico lievemente ferito e portato in giro da altri "democratici" come lui come se fosse un Cristo in Croce. In realtà l'eroe ha solo qualche lieve scalfitura e se non si dovesse inscenare un macabro spettacolo egli potrebbe camminare tranquillamente con le proprie gambe. Ma come si giustificherebbe allora il truculento titolo "Ancora sangue in Egitto". Che dire allora delle centinaia di feriti che hanno insanguinato le città della Grecia, dell'Italia e della Spagna, vittime di una feroce repressione poliziesca, purtroppo destinata ad intensificarsi.
I giornalisti e giornali servi dei tiranni e dei loro amici hanno questo in comune: non sanno neanche costruire seri fotomontaggi.
Gli amici delle ex dittature che hanno oppresso il mondo arabo per decenni, sostenute dai vari governi americani ed europei "se la debbono incartare". La bandiera della libertà sventola oggi in Egitto, Tunisia, Turchia e presto anche sulle mura di Damasco. E contro i delitti del macellaio Assad le grida delle oche starnazzanti contro il regime di Morsi non impiegano molte parole traboccanti di sdegno.


domenica 2 dicembre 2012

PALESTINA LIBERA

Il voto simbolico per la Palestina che divide l'Europa

C'è molto di surreale e di tragico nel rito che l'Assemblea generale dell'Onu si appresta a compiere nelle prossime ore. È scontato che una cospicua maggioranza del vasto campionario mondiale raccolto nel Palazzo di Vetro si pronunci in favore della promozione della Palestina da semplice organismo osservatore a Stato osservatore; ed è altrettanto scontato che la Palestina continui poi a essere l'entità territoriale militarmente occupata, qual è dal 1967; e che lo Stato tanto auspicato, promesso e temuto resti un miraggio.

In concreto, con i due tempi che scandiranno il rito dell'Onu, la Palestina passerà dallo strapuntino di semplice osservatore a un sedile riservato agli Stati che non lo sono sul serio. Il Vaticano, animato da altre ambizioni, se ne accontenta. Per la Palestina è una promozione piuttosto simbolica, anche se il voto dell'Assemblea generale ha in realtà un peso tutt'altro che insignificante, sul piano politico e morale. A dargli valore sono anche le promesse mancate. Quante volte è stato auspicato, annunciato uno Stato palestinese?

In questo senso il voto è una prima, timida riparazione. Denuncia l'incapacità di ieri e di oggi di chi conta nel mondo. Basta osservare come ci si è dati da fare nelle ultime ore per impedirlo. Ed è evidente l'angoscia dei paesi europei, il cui voto farà la differenza nella qualità del risultato. La loro scelta riguarda la giustizia, non solo la politica.

Surreale è senz'altro la procedura e tragico il risultato se li si mette a confronto con le aspirazioni degli abitanti di quella Terra troppo santa e troppo contesa. Nell'autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, aveva chiesto che il suo paese, fino allora presente all'Onu con l'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nella veste di semplice osservatore, diventasse uno Stato membro a pieno titolo. Ma quel tentativo è fallito perché, dopo il voto dell'Assemblea generale spettava al Consiglio di Sicurezza decretare l'ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gli Stati Uniti avrebbero posto il veto.

Washington riteneva e ritiene infatti che si debba arrivare al riconoscimento di uno Stato palestinese attraverso negoziati con Israele e non con "un colpo di mano" alle Nazioni Unite. L'esigenza della Casa Bianca coincide con quella israeliana, e blocca la situazione, perché la società politica di Gerusalemme vive una stagione di grande intransigenza. La quale assomiglia a un rifiuto a vere trattative. Alla vigilia delle elezioni politiche, previste per gennaio, nel Likud, principale partito al governo, ha prevalso alle primarie la corrente meno incline a un autentico dialogo con i palestinesi.

Un anno dopo, Abu Mazen comunque ci riprova, ma con una richiesta meno impegnativa. All'Assemblea generale, dove il veto americano non conta, chiede appunto, oggi, che la Palestina sia promossa da entità osservatrice a Stato osservatore (e non a Stato membro, come richiesto nel 2011). Votare l'ammissione di un paese a quel titolo non significa riconoscere diplomaticamente lo Stato, e quindi dichiarare ambasciata la rappresentanza che i palestinesi hanno già in tante capitali.

All'interno delle Nazioni unite il nuovo status aprirebbe tuttavia a loro alcune porte. Ad esempio quella dell'Organizzazione mondiale della sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penale internazionale comporta più problemi, perché in quella sede i palestinesi potrebbero denunciare gli israeliani e quindi promuovere processi scomodi per lo Stato ebraico. C'è stato un fitto andirivieni tra Washington, Gerusalemme e Ramallah, dove risiede Abu Mazen, per convincere quest'ultimo a impegnarsi su alcuni punti: in particolare a non ricorrere alla Corte Penale internazionale, quando ne avrà acquisito il diritto.

In proposito americani e israeliani avrebbero ottenuto una vaga promessa: i palestinesi hanno detto che non usufruiranno di quella possibilità durante i primi sei mesi. Poi si vedrà. Saeb Erekat, principale negoziatore palestinese, ha respinto un invito a Washington per evitare le pressioni americane. Quando nell'ottobre 2011 la Palestina fu ammessa all'Unesco come Stato membro, gli Stati Uniti sospesero i finanziamenti all'agenzia incaricata della cultura e dell'educazione. Finanziamenti pari a più del venti per cento del suo bilancio. Quali rappresaglie saranno adottate in questa occasione?

Gli israeliani ne hanno agitate parecchie: abrogazione degli accordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra Israele e l'Autorità palestinese; aumento degli insediamenti in Cisgiordania che contano già più di seicentomila coloni; confisca dei diritti di dogana; proibizione ai dirigenti palestinesi di uscire dalla Cisgiordania: ma di fronte alla tenacia di Abu Mazen il governo di Gerusalemme ha abbassato i toni. E non si parla più di sanzioni. Dice Yigal Palmor, portavoce del ministero degli esteri, che nulla accadrà se i palestinesi si accontenteranno di fare festa a Ramallah per celebrare la loro vittoria simbolica, e poi ritorneranno sul serio al tavolo dei negoziati. Ma Abu Mazen sa che non può andare a trattative alle condizioni poste dagli israeliani.

Il suo non è soltanto un confronto con Gerusalemme. La battaglia di Gaza, dove gli avversari palestinesi di Hamas celebrano la vittoria che si sono aggiudicati, ha ridotto il suo già scarso prestigio. Gli esaltati combattenti di Hamas considerano la moderazione Abu Mazen come una forma di collaborazionismo. L'iniziativa all'Onu è la sua battaglia incruenta. È l'offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l'uso delle armi. Questo è un motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tende la mano a chi lo rifiuta.

Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore. Il voto di New York interessa Gaza, dove si è imparato che le armi servono a sfogare la collera, a combattere i soprusi, ma non a risolvere i problemi. Alla vigilia dell'appuntamento di New York, Khaled Meshaal, uno dei leader (Mohammed Morsi, il presidente egiziano, l'ha voluto al suo fianco durante la crisi di Gaza) ha dato un pubblico appoggio a Abu Mazen. Lo ha fatto in aperta polemica con Ismail Haniye, il primo ministro. Entrata in società dopo un lungo isolamento, grazie agli alleati e ispiratori egiziani, i Fratelli musulmani al potere al Cairo, e lusingata dai gesti d'amicizia della Turchia di Erdogan, la gente di Gaza seguirà il voto all'Assemblea generale come se fosse una battaglia. L'esito potrebbe contribuire col tempo a demolire le mura del loro ghetto.

Sugli europei incombe nelle prossime ore una grossa responsabilità. Come al solito non sono riusciti a prendere una decisione comune. E quindi vanno dispersi al voto. Ma devono sapere che il loro parere contrario o anche una astensione, con l'inevitabile sapore di viltà, significherebbe una sconfitta per Abu Mazen, e in generale per i palestinesi che come lui rifiutano la violenza e ricorrono alla politica. Decine di ministri arabi visitano Gaza, dove si festeggia un'azione militare che ha appena fatto decine di morti, e migliaia nel passato. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armato della sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma anche obiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia.

Bernardo Valli


L'amarezza di Israele: L'Italia ci ha deluso

ROMA - «Non ce l'aspettavamo. L'Italia, uno dei migliori amici di Israele, ci ha molto deluso: da voi proprio non ce l'aspettavamo». Naor Gilon, l'iperattivo ambasciatore di Israele a Roma, parla chiaro. Perché lui stesso, i suoi colleghi a Gerusalemme, il governo di Bibi Netanyahu fino all'ultimo hanno creduto che l'Italia non si sarebbe schierata per il "sì" alla Palestina all'Onu. «È uno sbaglio, ci avete detto che lo fate per dare un sostegno politico, per aiutare Abu Mazen: ma questo indebolisce le relazioni tra israeliani e palestinesi fondate sugli Accordi di Oslo».
Ieri è stata una giornata difficile per la piccola ambasciata di via Mercati: rassicurati dai contatti del ministro degli Esteri Giulio Terzi, che da molti però è considerato troppo filo-israeliano per essere un referente credibile per Monti, gli inviati di Israele in Italia si preparavano a fronteggiare al massimo l'astensione dell'Italia.
Nelle decisioni di Monti sicuramente hanno pesato anche le pressioni dei partiti che sostengono il suo governo. Innanzitutto il Pd: Pierluigi Bersani l'aveva chiesta apertamente durante il dibattito in tv con Matteo Renzi. Il segretario dei Democratici aveva chiesto a Lapo Pistelli, responsabile esteri del partito, di seguire il lavoro di Palazzo Chigi. E adesso applaude, anzi rivendica un ruolo: «Credo di avere avuto qualche voce in capitolo in questa scelta:è ora di dire basta alla violenza, ora si incoraggino le forze moderate da entrambe le parti».
Dalla comunità ebraica e da molti settori di quello che era il Pdl arrivano e proteste, anche dure. Andrea Ronchi, dice che «fino a ieri l'Italia aveva deciso di astenersi sul voto all'Onu.
Che cosa è cambiato? È la prima conseguenza del confronto Bersani-Renzi? La posizione italiana è inaccettabile». Come lui, che aveva partecipato ad organizzare la visita di Gianfranco Fini a Gerusalemme, molti del centrodestra. Fabrizio Cicchitto e Margherita Boniver dicono che «la scelta del governo italiano all'Onu è un errore, dall'Autorità palestinese non è venuta mai una reale volontà di pace».
Franco Frattini, ex ministro degli Esteri e grande amico di Israele, già ragiona su come gestire la scelta del governo Monti: «Non bisogna dare ai palestinesi la sensazione sbagliata che questa risoluzione faccia nascere il loro Stato. E non dobbiamo gestire questa risoluzione come un colpo contro Israele». Chi crede che sia un colpo contro Israele e gli ebrei è invece Riccardo Pacifici, presidente della Comunità di Roma: «Una svolta improvvisa, visto che fino a ieri sera, prima del dibattito in tv tra Bersani e Renzi, l'Italia era nella prudente linea dell'astensione. Siamo dispiaciuti e amareggiati».

Bernardo Valli



Palestina all’Onu, la risposta di Israele:
tremila nuove case per i coloni

Gli Usa a Tel Aviv: così si ostacolano
i negoziati. L’alt delle Nazioni Unite
Dopo il si dell’Assemblea generale dell’Onu alla Palestina «Stato non-membro» del Palazzo di vetro, è il giorno della rappresaglia israeliana, preparata da tempo e mirata al cuore di uno Stato esistente solo sulla carta e negli organismi delle Nazioni Unite: il territorio. In particolare, quello tra Gerusalemme est e la Cisgiordania, dove saranno costruite 3.000 nuove abitazioni di coloni. La decisione è stata rivelata da un tweet di Barak Ravid, corrispondente diplomatico di Haaretz: «Le nuove case», scrive, «sorgeranno in aree già oggetto di un forte contenzioso con i palestinesi, come El, tra Maaleh Adumim e Gerusalemme, con una edificazione che separera’ la Cisgiordania del sud da quella del nord. Tutto ciò, nonostante Netanyahu abbia assicurato in passato a Barack Obama che il progetto di El sarebbe stato congelato» in base a quanto stabilito dalla roadmap siglata nel 2003.

Il progetto, che creerà un corridoio che di fatto pregiudicherebbe la continuità territoriale in vista della creazione di uno Stato indipendente, ha visto nel corso degli anni una dura opposizione da parte dell’Autorità nazionale palestinese. «È un atto di aggressione israeliana contro uno Stato e il mondo deve assumersi le sue responsabilità».

La preoccupazione per la nuova decisione israeliana è arrivata alla Casa Bianca, che pur condannandola come dannosa per i «negoziati diretti», è a questi ultimi che si affida per far ripartire il processo di pace: «Restano il nostro obiettivo e incoraggiamo tutte le parti a redere più facile un percorso che porti alla soluzione due popoli-due Stati», ha detto Tommy Vietor, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale. Così è anche per l’Onu: «Il segretario generale, Ban Ki-moon, ha più volte ripetuto che le nuove colonie non aiutano il processo di pace», ha dichiarato, Farhan Haq, uno dei portavoce del Palazzo di Vetro.

Nei Territori, per il momento, la gioia per il risultato raggiunto fa dimenticare le conseguenze in arrivo. Perfino Hamas, reduce da una breve guerra con Israele, si è unita all’esultanza della rivale Anp e di Abu Mazen per quella che he definito «una nuova vittoria sulla via della liberazione della Palestina e del ritorno dei profughi».
Il governo Netanyahu, che si era affidato ai successi dell’offensiva militare per riprendere fiato nei sondaggi in vista delle elezioni, si trova isolato anche in patria. La stampa di Israele è unanime nel definire una dura sconfitta il voto all’Onu, che ha visto contrari alla risoluzione solo 9 paesi: Haaretz ha parlato di «campanello d’allarme» perché anche Paesi amici europei hanno mandato un messaggio che «la pazienza per l’occupazione si sta esaurendo». Anche il più conservatore Yediot Ahronot ha definito il voto del Palazzo di Vetro «una debacle politica».

La diplomazia riparte, ma il voto ha riposizionato diversi Paesi, tra i quali l’Italia, che con i precedenti governi aveva espresso posizioni molto vicine a Israele. «È stata una decisione sicuramente ponderata», ha spiegato il ministro degli Esteri, Giulio Terzi. «L’Italia è fortemente convinta del suo rapporto di amicizia con Israele e con i palestinesi», ha assicurato Terzi che ha ribadito la richiesta all’Anp di accettare di sedersi «al tavolo dei negoziati senza precondizioni».

L’Unione europea, che al voto si era presentata divisa, sembra non riuscire a trovare un minimo di filo comune strategico e si affida all’inviato per il Medio Oriente, Andreas Reinicke, che ha chiesto laconicamente di «guardare al futuro» e di concentrarsi per far ripartire «il prima possibile» i negoziati tra israeliani e palestinesi.






martedì 27 novembre 2012

Gaza festeggia la vittoria ora Hamas oscura Abu Mazen
GAZA - Il giorno della "vittoria" ha l' aroma del caffè al cardamomo e l' odore delle shawarma che dai ristorantini invadono la Shuada Street, nel cuore di Gaza City, ai pochi bancomat ancora funzionanti si vedono file lunghissime. «Sembra che i soldi li regalino oggi», commenta secco Yusef Adal sulla porta del vicino negozio di casalinghi, che ha riapertoi battenti dopo otto giorni di bombardamenti, ma si sbaglia. Il "giorno della vittoria", proclamato festa nazionale nella Striscia, ha per caso coinciso con il pagamento degli stipendi arretrati dei dipendenti pubblici. Due porte più avanti Alì, commerciante di televisori, ne ha messo fuori uno - alimentato col generatore perché in città non c' è luce pubblica se non poche ore al giorno - acceso a tutto volume mentre il premier di Hamas Ismail Haniyeh indirizza un discorso alla «sua nazione». Si forma subito un capannello. «I combattenti della resistenza hanno cambiato le regole del gioco, hanno sconvoltoi piani di Israele. L' opzione di invadere Gaza dopo questa vittoria è svanita e non tornerà mai più», dice Haniyeh nel suo discorso, e promette che «difenderà questo accordo fino a quando Israele lo rispetterà». Nelle strade intanto il rumore dei caccia F-16 che sfrecciavano in cielo ha lasciato il posto all' abituale caos di auto e clacson. In piazza è un tripudio di bandiere sventolate dalle auto, dalle moto, appese alle finestre: quelle verdi di Hamas, quelle rosse dei Comitati popolari. Ci sono i miliziani della Jihad islamica, delle Brigate Al Quds, solo per citare i principali gruppi della galassia delle fazioni armate a Gaza. Persino simpatizzanti di Fatah, la fazione rivale fedele al presidente dell' Anp, sono scesi in strada a festeggiare. Ma è stato anche il giorno delle sepolture degli ultimi morti. Nel quartiere di Redwan - fra i più colpiti dai bombardamenti - centinaia di combattenti mascherati delle Brigate Ezzedin al Qassam hanno sfilato al funerale di cinque compagni morti. La "colonna d' onore" di Hamas era impressionante, a bordo di oltre cento pickup nuovi di zecca, i miliziani erano armati di lanciagranate, fucili d' assalto, mitragliatrici. Il movimento integralista non sembra fiaccato da questi otto giorni di bombardamenti e quasi 2500 raid contro obiettivi giudicati strategici dagli israeliani, che hanno provocato 161 morti - oltre metà dei quali civili - e più di 1500 feriti. Perché dopo l' uccisione di Ahmad Jabari - il capo militare di Hamas - l' intera leadershipè entrata in clandestinità, al sicuro nel sistema di gallerie collegate fra loro, rifugi sicuri che possono essere usati per settimane e non ha subito altre perdite significative. I suoi missili, ne ha sparati più di mille, sono arrivati a Tel Aviv e Gerusalemme, dimostrando una potenza di fuoco impressionante che ha sorpreso la Difesa israeliana. Dopo la caduta di Mubarak e di Gheddafi il contrabbando di armi verso la Striscia non solo è aumentato, ma è diventato più sofisticato. Oltre missili Grad (40 km di raggio) Hamas dispone adesso dei razzi anticarro Kornet che possono perforare la corazza dei tank israeliani. I missili Fajr-5 di fabbricazione iraniana, che arrivano invece via nave dal Sudan, con la loro gittata di 75 chilometri hanno cambiato lo scenario della guerra, dando al movimento integralista un minaccioso potere strategico nella regione. Anche il premier Benjamin Netanyahu ha dovuto prenderne atto e scegliere la tregua. Ma Israele non potrà accettare a lungo questa situazione, è difficile sentirsi al sicuro con ventimila missili puntati contro. Intanto, i servizi di sicurezza israeliani hanno arrestato a Ramallah il presunto autore dell' attentato di mercoledì contro un autobus a Tel Aviv. Gaza in questi otto giorni ha accolto visite a ripetizione di ministri arabi, del capo della Lega Araba, del premier egiziano, i ripetuti segni di stima e solidarietà del presidente Mohammed Morsi, l' artefice dello sdoganamento di Hamas. Israele e gli Usa, poi, sono stati costretti a ingaggiare con il gruppo, considerato un' organizzazione terroristica, negoziati seppure indiretti. «La primavera araba ci ha consegnato la vittoria e gli Stati Uniti stanno ascoltando (dagli arabi) parole nuove», dice Haniyeh in tv, conscio che in questi giorni Hamas ha oscurato la scena per l' Anp di Abu Mazen - costretto ieri addirittura a una formale telefonata di congratulazioni per la "vittoria"; la leadership laica moderata che incarna il presidente palestinese ne è uscita ridimensionata. La Striscia di Gaza, soprattutto adesso, si dimostra un' entità distinta dalla Cisgiordania. Un mini-Stato islamico nelle mani della Fratellanza musulmana palestinese dove si applica la Sharia, che non riconosce l' Olp come unico rappresentante dei palestinesi, che non crede nel processo di pace avviato a Oslo. Il sogno di una Palestina unica guidata da una leadership moderata sembra svanito. Nel futuro ci sarà "Hamastan" a Gaza e "Fatahland" in Cisgiordania, con seri pericoli però che nel futuro anche Ramallah possa essere risucchiata dall' onda islamica che sta cambiando gli equilibri mediorientali.

Fabio Scuto


Netanyahu ha emarginato l' Olp non vuole uno Stato palestinese
«DUE elementi emergono con nitidezza all' indomani della tregua fra Israele e Hamas. Punto primo, Hamas risulta rafforzato con un ruolo da protagonista e una forma di riconoscimento. Punto secondo, il premier israeliano Netanyahu ha forse raggiunto uno dei suoi obiettivi: emarginare il presidente palestinese Abu Mazen e la sua richiesta di riconoscimento della Palestina all' Onu. Lo suggerisce il tempismo dell' operazione militare». Yossi Alpher, 12 anni al Mossad, ex consulente di Barak per i negoziati di pace israelo-palestinesie direttore del Centro Jaffee di studi strategici, legge in controluce il quadro che va delineandosi. Alpher, secondo lei Netanyahu è disposto a concedere, nientemeno, una parte di rilievo a Hamas? «Perché tanta sorpresa? Uno degli effetti più evidenti dell' offensivaè la statura conquistata da Hamas, sia a Gaza che sulla scena internazionale. In questi giorni tutti erano a colloquio coi suoi leader: dal presidente egiziano Morsi al premier turco Erdogan agli inviati del Qatar. E nella stanza accanto c' era il Mossad. Questa è una forma di riconoscimento indiretto. A Gaza Hamas può presentarsi con gli allori di chi è sopravvissuto. Ha acquistato peso in tutto il Medio Oriente». Questo a scapito dell' Olp e del presidente palestinese Abu Mazen? E cioè del primo interlocutore di pace d' Israele? «Basta riflettere sulle azioni del governo israeliano nell' ultimo quadriennio per capire che Netanyahu non ha alcuna intenzione di trattare con Abu Mazen. Non lo interessa la soluzione dei due Stati, la restituzione del 95 per cento della Cisgiordania e di parte di Gerusalemme. Il suo desiderio è tutt' altro: appropriarsi della Cisgiordania e di Gerusalemme. Perciò preferisce Hamas come interlocutore al posto di Abu Mazen, tanto più che la sua richiesta di riconoscimento all' Onu era prevista entro pochi giorni». Lei vede una coincidenza fra l' offensiva israeliana e la richiesta dell' Olp? «Come non riconoscerla? Il 29 novembre Abu Mazen avrebbe depositato all' Onu la domanda di adesione della Palestina in qualità di Stato non membro. Questo preoccupa Israele: darebbe la possibilità all' Olp di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia, esponendo una serie di accuse e reclami contro Israele. È probabile che uno degli obiettivi di Netanyahu fosse di minimizzare l' evento, di distrarre l' attenzione internazionale».

Alix Van Buren


Morsi come Mubarak piazze in fiamme in Egitto contro il golpe istituzionale
GERUSALEMME - «Morsi come Mubarak», «Morsi, il nuovo faraone», «Morsi vai via!». In un crescendo di slogan e d' invettive che rimandavano al tempo della rivolta contro il vecchio regime, gli oppositori di Mohammed Morsi, il presidente eletto dopo la caduta di Hosni Mubarak, si sono ritrovati a piazza Tahrir, per denunciare il colpo di mano istituzionale con cui il nuovo raìs si è in sostanza dotato di poteri straordinari, sottraendoli ad ogni controllo della magistratura. Lui, Morsi, parlando ad una folla di fedelissimi su un palco allestito fuori dal palazzo presidenziale, lontano molti chilometri da piazza Tahrir, ha difeso il suo operato affermando di aver agito per salvare il Paese dai nemici della rivoluzione e per garantire che il processo costituente, impantanato da dispute interminabili, si concluda rapidamente. Ma le sue prevedibili rassicurazioni non hanno convinto le decine di migliaia di egiziani che, raccogliendo l' appello alla protesta lanciato dai principali partiti laicie liberali, sono scesi ieri in piazza non soltanto al Cairo, ma anche ad Alessandria, Porto Said, Asyut. La mobilitazione è degenerata in scontri particolarmente violenti ad Alessandria, dove sostenitori e oppositori di Morsi si sono affrontati per le strade del centro e sul lungomare (25 feriti, 100 in tutto il Paese) e dove alcune sedi del partito "Libertà e Giustizia", l' organizzazione politica paravento dei Fratelli Musulmani, trionfatori alle elezioni generali, al cui vertice Morsi appartiene, sono state saccheggiate e date alle fiamme. A piazza Tahrir, o per meglio dire, in un viale laterale che conduce alla piazza, gli incidenti con la polizia schierata in forze per evitare che il luogo simbolo della rivoluzione egiziana diventasse teatro dell' ennesima battaglia, sono cominciati quando il neo presidente ha iniziato a parlare dal palco di Heliopolis. E mentre la folla dei seguaci, 80 mila persone, applaudiva e scandiva slogan alla maniera degli islamisti, alzando il dito indice ammonitore verso il cielo, dai ranghi dei contestatori (anche lì diverse decine di migliaia) partivano bottiglie molotov verso le truppe in assetto antisommossa che rispondevano coi lacrimogeni. Una ventina le persone contuse, decine i fermati. Gli argomenti del presidente sembrano non avere convinto neanche il suo assistente Samir Morcos, copto, responsabile per la transizione democratica, che ieri in serata ha dato le dimissioni. E subito si è dimessa anche Sekina Fouad, consigliera per la Cultura, argomentando: «Tutti vogliono il giudizio degli assassini dei manifestanti, ma rifiutano che la Costituente e il consiglio consultivo del Parlamento siano al riparo di ogni giudizio sul loro scioglimento». A giudicare dalle risposte date a quanti lo hanno attaccato dopo i decreti emessi in questi giorni, Morsi non si è lasciato intimidire dalla mobilitazione. «L' opposizione non mi preoccupa - ha detto - ma deve essere una vera e forte opposizione». Se ha deciso di dotarsi del potere straordinario di prendere qualsiasi decisione e istituire qualsiasi procedura, per giunta sottraendosi al sindacato della magistratura, è «per difendere la rivoluzione» dai suoi nemici, «una minoranza», certo, ma pericolosa,e per garantire la stabilità del paese, non per istituire una dittatura personale. Al contrario, Morsi ha aggiunto di credere nella divisione dei poteri. Ma il processo che dovrebbe portare ad adottare la nuova Costituzione, rischiava di impantanarsi in interminabili diatribe. L' Assemblea Costituente stava per esaurire il mandato, in scadenza a dicembre, senza aver adempiuto il suo compito. «Ho deciso di dare all' Assemblea altri due mesi di tempo perché approvi la nuova Costituzione che sarà sottoposta a referendum popolare, e nuove elezioni politiche seguiranno». Ma ha preferito ignorare le critiche dei liberali che hanno, nella sostanza, deciso di scendere in piazza per protestare anche contro gli orientamenti di parte emersi in seno ad un' Assemblea Costituente dominata dagli islamisti, orientamenti che non garantiscono la tutela dei diritti delle donnee delle minoranze. Morsi s' è limitato ad affermare di essere il presidente di «tutti gli egiziani», un presidente che non si schiererà mai contro i diritti di nessun cittadino, uomo o donna, ricco o povero, musulmano o cristiano che sia. PER SAPERNE DI PIU' www.aljazeera.com www.haaretz.com

Alberto Stabile


Nella Striscia le prove per una guerra all' Iran così Israele ha testato i suoi sistemi di difesa
WASHINGTON - Il conflitto fra Hamas e Israele, conclusosi con una tregua, è a prima vista l' ennesimo episodio di una resa dei conti ripetuta a cicli regolari. Eppure, secondo Usa e Israele, c' è un' altra chiave di lettura: l' offensiva è servita come prova generale per un eventuale scontro armato con l' Iran. È Teheran la questione più urgente per il premier israeliano Netanyahu e il presidente americano Obama. Divisi dalle tattiche, entrambi concordano che il tempo stringa per risolvere lo stallo sul programma nucleare iraniano: resta solo qualche mese. Un elemento chiave delle simulazioni belliche di Usa e Israele è impedire che l' Iran introduca missili di nuova generazione nella Striscia di Gaza o in Libano, dove Hamas, Hezbollah e la Jihad islamica li lancerebbero su Israele per conto di Teheran nel caso di un attacco israeliano contro l' Iran. Per certi versi Israele ha usato la battaglia di Gaza per capire quali siano le capacità militari di Hamas e della Jihad islamica (il gruppo più vicino all' Iran). Il primo colpo del conflitto fra Hamas e Israele probabilmente è stato sparato quasi un mese prima a Khartoum, in Sudan, in un altro misterioso episodio della guerra ombra con l' Iran. Il 22 ottobre un' esplosione ha distrutto una fabbrica destinata ufficialmente alla produzione di armi leggere; due giorni dopo le autorità sudanesi hanno denunciato un raid militare israeliano. Il governo di Tel Aviv non ha commentato, ma fonti israeliane e americane affermano che il Sudan è uno dei principali punti di transito per il contrabbando di razzi iraniani Fajr, del tipo lanciato da Hamas su Tel Aviv e Gerusalemme. Ovviamente un conflitto con l' Iran sarebbe ben diverso. Poco prima dell' offensiva a Gaza, gli Usa insieme agli alleati Ue e alcuni Paesi arabi del Golfo, hanno condotto esercitazioni di sminamento in mare nell' eventualità che l' Iran dissemini di esplosivi lo Stretto di Hormuz per colpire il traffico commerciale. Ma nei piani israeliani e americani per un conflitto con l' Iran, Israele dovrebbe fronteggiare minacce a più livelli: i missili a corto raggio di Gaza, a medio raggio di Hezbollah dal Libano, e a lungo raggio dall' Iran. Questi ultimi, stando all' Intelligence israelianae americana, potrebbe comprendere gli Shabab-3, in grado di essere armati di testate atomiche qualora l' Iran riuscisse a costruirne. Secondo un ufficiale Usa, le forze armate americane e israeliane hanno ricavato «moltissimi insegnamenti» dalla campagna di Gaza. La sfida è armonizzare i sistemi radar antimissile - e gli intercettori per missili a corto, medio e lungo raggio- per fronteggiare le varie minacce nel prossimo conflitto. L' ufficiale è convinto, al pari di altri esperti, che anche gli iraniani stiano compiendo le loro valutazioni di fronte all' imprecisione dei missili forniti a Hamas, e potrebbero cercare di migliorarne la progettazione. Cupola di ferro, il sistema antibalistico israeliano, ora schiera 5 batterie antimissile, ognuna del costo di circa 50 milioni di dollari; l' obbiettivoè raddoppiarle. In due anni, gli Usa hanno contribuito oltre 275 milioni di dollari di finanziamenti. Solo tre settimane fa, nel corso delle più grandi esercitazioni militari congiunte mai realizzate fra i due Paesi, gli americani hanno manovrato batterie di difesa antimissile terra-aria Patriot, e navi equipaggiate con il sistema antimissile Aegis. Tuttavia, Cupola di ferro ha i suoi limiti. È programmata per contrastare solo i missili a corto raggio, con una gittata di 80 chilometri. «Nessuno ha mai dovuto affrontare prima d' ora questo tipo di battaglia», dice Jeffrey White, analista militare, «con missili che piovono sulla metà del Paese. In più, sono missili tutti diversi».

DAVID E. SANGER THOM SHANKER


Spari al confine, un morto ma a Gaza la tregua regge
GAZA - Forse Awar Qdeih, un giovane contadino di Khan Younis voleva davvero controllare quanti crateri di bombe c' erano nel suo campo coltivato a ridosso della "buffer zone" dopo 8 giorni di bombardamenti, o forse - nella versione israeliana del fatto - voleva appendere una bandiera di Hamas al filo spinato alto sei metri che corre in quel tratto sul confine della Striscia ed era l' avanguardia di un gruppo che si avvicinava minaccioso. I soldati israeliani dopo i colpi in aria di avvertimento hanno aperto il fuoco, uccidendo Anwar e ferendo altri 25 palestinesi. Non sono passate 48 ore dall' entrata in vigore del cessateil-fuoco tra Israele e i gruppi radicali della Striscia di Gaza, che Hamas ne ha già denunciato una prima violazione; certamente non grave e frutto di una manifestazione spontanea. Diverso sarebbe certamente stato se uno dei gruppetti armati che in questi giorni per le strade di Gaza cantano vittoria avesse aperto il fuoco contro una pattuglia israeliana o avesse lanciato un missile. Una violazione flagrante che non sarebbe rimasta senza risposta da parte israeliana. L' intesa mediata dall' Egitto stabilisce solo il cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas e la riapertura dei valichi di frontiera - quello di Rafah con l' Egitto a sud, quello di Erez con Israele nel nord - che ieri infatti erano aperti e non regolamenta l' accesso alle zone vicino alla frontiera durante la sospensione delle ostilità: le relative clausole devono ancora essere messea punto dalle parti nei prossimi giorni per una vera tregua. Hamas pur denunciando la violazione - presentando la protesta formale all' Egitto che ne è il garante - ha la piena consapevolezza che si tratta di un incidente circoscritto e reagire adesso non è nell' interesse del movimento integralista. Perché anche se la versione che Hamas fa passare parla di arsenali e capacità militari intatte, resta il fatto che gli israeliani sostengono di aver distrutto, oltre ai commissariati di polizia di Hamas ridotti in macerie ovunque, anche importanti depositi di armi e missili. Il continuo bombardamento poi dei caccia israeliania sud, durante questi otto giorni di guerra, ha sventrato molti dei tunnel che passano sotto il confine della Striscia con l' Egitto, che sono la "vena giugulare" per i rifornimenti di Gaza ma anche per il traffico dei missili. I tunnel del contrabbando che il presidente egiziano Mohammed Morsi garante dell' accordo si è impegnato a bloccare. Hamas si compiace della "vittoria" e la tv del movimento integralista oggi annunciava con enfasi la prossima visita del premier turco Erdogan, che proprio per il blocco israeliano sulla Striscia, ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele. È l' ennesimo segnale per Hamas della solidarietà del Nuovo Medio Oriente. Nelle moschee affollate di predicatori nella preghiera del venerdì hanno celebrato la "vittoria" nel conflitto, facendo appello all' unità nazionale. Toni duri e accesi ma anche inspirati alla solidarietà: la Striscia piange i suoi 166 morti, fra loro un centinaio di civili, donne, bambini e anziani.

Fabio Scuto


Gran parte dell'opinione pubblica mondiale e dei governi ha avuto parole di elogio per la prova di moderazione e di mediazione svolta dal presidente egiziano Morsi e dai Fratelli Musulmani nella recente vicenda della brutale aggressione che il governo criminale di Tel Aviv ha scatenato contro la martoriata Striscia di Gaza, provocandovi centinaia di vittime. Grazie al paziente lavoro del presidente egiziano si è bloccato il possibile allargamento del conflitto e un pericoloso focolaio di guerra è stato spento. Nonostante ciò i sedicenti mini movimenti "liberali e democratici" di Egitto, ripetutamente sconfitti nelle prime elezioni democratiche a suffragio universale che hanno portato alla elezione di Morsi e alla reintegrazione del parlamento eletto ed esautorato da un mini golpe dell'ex giunta militare di Mubarak, non hanno mancato di mostrare il loro vero volto di nemici della pace e della democrazia assaltando una sede dei Fratelli Musulmani uccidendone a sprangate un militante e accusando il presidente Morsi di golpismo e di vocazioni dittatoriali.
Non è difficile intravedere dietro gli attacchi e la mini mobilitazione dei mini gruppi sedicenti democratici che hanno mandato un centinaio di scalmanati ad agitarsi in piazza Tahrir al Cairo, la longa manus dei servizi segreti israeliani e, magari degli ex seguaci di Mubarak: e ciò non può suscitare grande meraviglia. Quel che sconcerta è che a queste stonate e isolate voci che hanno emanato i loro ragli in Egitto si siano associati i ragli ancora più stonati di qualche giornalaccio italiano per il quale è assolutamente intollerabile che i Fratelli Musulmani e le forze politiche ad essi vicini abbiano definitivamente consolidato il loro potere democratico nei paesi della Primavera araba e seguitino ad esaltare come un campione di democrazia un ambiguo personaggio come Al-Baradei, che non ha avuto il coraggio di presentarsi candidato alle elezioni presidenziali d'Egitto e il cui partito, nelle elezioni parlamentari, non è arrivato neppure al 10%. La concezione della democrazia di chi considera democratici gli "amici" e gli amici degli amici, non è una novità in una parte della stampa italiana e ricorda tanto lo stile della mafia e delle congreghe consimili. Ma piaccia o no ormai il mondo arabo sta marciando con le sue gambe e non ha bisogno dei consigli "interessati" di chi preferisce come amici i signori insediati a Tel Aviv. Non ci stancheremo mai di ripetere: Allahu Akbar, "Dio è il più Grande!", e sia pure a prezzo di dolori e di lutti la causa della giustizia e della libertà, e vincerà anche dove ciò sembrava impossibile.

venerdì 23 novembre 2012

LA GUERRA DI GAZA

Le conseguenze della guerra

QUANDO i conservatori israeliani se la prendono con ragionamenti troppo pacifisti, o con chi in patria critica la politica dell'occupazione, subito tirano in ballo l'Europa: "Questo è un tipico ragionamento ashkenazita; non ha alcun rapporto con il Medio Oriente!", dice ad esempio Moshe Yaalon, già capo dell'esercito, oggi vice premier, rispondendo al giornalista Ari Shavit in un libro appena edito da Haaretz (Does this mean war?). L'ebreo ashkenazita ha radici in Germania e in Europa centrale, parla yiddish.

E lo stereotipo non è diverso da quello usato ai tempi di Bush figlio: l'America è Marte e virile, il nostro continente è Venere e fugge la spada. L'ashkenazi tornò come altri ebrei in Terra Promessa, ma ha i riflessi della vecchia Europa. Lo storico Tom Segev racconta come erano trattati gli ebrei tedeschi, agli esordi. Li chiamavano yekke: erano ritenuti troppo remissivi, cervellotici, e poco pratici. L'Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. Lo scettro decisivo sempre fu affidato all'America.

Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese. Lo stereotipo dell'ashkenazita mente, perché ci sono ashkenaziti di destra e sinistra. Era ashkenazita Golda Meir. Sono ashkenaziti David Grossman, Uri Avnery, Amira Hass, pacifisti, e espansionisti come Natan Sharansky. Ma lo stereotipo dice qualcosa su noi europei, che vale la pena meditare. Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati.

Eppure l'Europa avrebbe cose anche pratiche da dire, sulle guerre infinite che i governi d'Israele conducono da decenni, sicuri nell'immediato di difendersi ma alla lunga distruggendosi. Ne ha l'esperienza, e per questo le ha a un certo punto terminate, unendo prima i beni strategici tedeschi e francesi (carbone, acciaio) poi creando un'unione di Stati a sovranità condivisa.

Le risorse mediorientali sono quelle acquifere in Cisgiordania, gestite dall'occupante e assegnate per l'83% a Israele e colonie. Tanto più l'Europa può contare, oggi che l'America di Obama è stanca di mediazioni fallite. È stato quasi un colpo di fucile, l'articolo che Thomas Friedman, sostenitore d'Israele, ha scritto il 10 novembre sul New York Times: provate la pace da soli, ha detto, poiché "non siamo più l'America dei vostri nonni". Non potremo più attivarci per voi: "Il mio Presidente è occupato-My President is busy". Anche gli ebrei Usa stanno allontanandosi da Israele.

È forse il motivo per cui pochi credono che l'offensiva si protrarrà, ripetendo il disastro che fu l'Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Ma guerra resta, cioè surrogato della politica, e solo all'inizio la vulnerabilità di Israele scema. Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l'Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013.

Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente. Un male evidente, anche se ci s'incaponisce a negarlo. Sono ormai 45 anni - dalla guerra dei sei giorni - che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest'incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d'ingresso e d'uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l'Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l'Unione europea). Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni). I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane.

Se poi l'occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose. Un'architettura dell'occupazione che trasforma le colonie in dispositivi di controllo (in panoptikon), spiega l'architetto Eyal Weizman. È urgente guardare in faccia queste verità, scrive Friedman, prima che la democrazia israeliana ne muoia. Forse è anche giunto il tempo di pensare l'impensabile, e chiedersi: può un arabo israeliano (1.5 milioni, più del 20% della popolazione) riconoscersi alla lunga in un inno nazionale (Hatikvah) che canta la Terra Promessa ridata agli ebrei, o nella stella di Davide sulla bandiera? Potrà dire senza tema: sono cittadino dello Stato d'Israele, non di quello ebraico?

Questo significa che anche per Israele è tempo di risveglio. Di una sconfitta del nazionalismo, prima che essa sia letale. Separando patria e religione nazionale, la pace è supremo atto laico. Risvegliarsi vuol dire riconoscere i guasti democratici nati dall'occupazione. Le menti più acute di Israele li indicano da anni. Ari Shavit evoca i patti convenienti con Bush figlio, gli evangelicali Usa, il Tea Party: "Patrocinato dalla destra radicale Usa, Israele può condurre una politica radicale e di destra senza pagare alcun prezzo". Può sprezzare le proprie minoranze, tollerare i vandalismi dei coloni contro palestinesi e attivisti pacifisti. David Grossman ha scritto una lettera aperta a Netanyahu: l'accusa è di perdere ogni occasione per far politica anziché guerre (Repubblica, 6 novembre 2012). L'ultima occasione persa è l'intervista di Mahmoud Abbas alla tv israeliana, l'1 novembre: il capo dell'Autorità palestinese si dice disposto a tornare come turista a Safad (la città dov'è nato a nord di Israele). "Nelle sue parole - così Grossman - era discernibile la più esplicita rinuncia al diritto del ritorno che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dei negoziati". Abbas s'è corretto, il 4 novembre: la volontà di chiedere all'Onu il riconoscimento dell'indipendenza aveva irritato Netanyahu, e Obama di conseguenza ha sconsigliato Abbas. Quattro giorni dopo, iniziava a Gaza l'operazione "Pilastro della Difesa".

L'abitudine alla guerra indurisce chi la contrae, sciupa la democrazia. In Israele, allarga il fossato tra arabi e ebrei, religiosi e laici. Vincono gli integralisti, secondo lo scrittore Sefi Rachlevsky che delinea così il volto della prossima legislatura: una coalizione fra Netanyahu, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, e ben quattro partiti che vogliono - come l'Islam politico - il primato della legge ebraica (halakha) sulle leggi dello Stato. In tal caso non si tornerebbe solo alle guerre nazionaliste europee, ma alle più antiche guerre di religione. Stupefacente imitazione, per un paese dove l'Europa è sì cattivo esempio.

Barbara Spinelli

Gaza, la lunga attesa della tregua fuga tra le case dalle ultime bombe Un soldato israeliano ucciso dai razzi

GAZA - Gli occhi di tutti ieri a Gaza erano puntati sull'orologio, nella speranza che la mezzanotte fosse "l'ora X" per il cessate-il-fuoco, dopo sette giorni di bombardamenti e raid sulla Striscia, e più di 1200 missili sparati dai miliziani della galassia islamica contro le città israeliane del Sud, ma anche Gerusalemmee Tel Aviv. Ma la lunga vigilia delle "24 ore di calma" che tutti si augurano - grazie ai buoni uffici del presidente egiziano Morsi e alle pressioni internazionali - a Gaza City e nell'intera Striscia è stata un succedersi di esplosioni, con i droni israeliani in cerca "prede", gli F-16 che volavano bassi, i "tuoni" dei grandi cannoni navali che sparano dal mare, e le fiamme che illuminavano la notte. Entrambe le parti hanno cercato di sferrare un ultimo "colpo decisivo" al nemico. In quindici minuti le batterie di Hamas, della Jihad islamicae degli altri gruppi hanno sparato 150 missilia ventaglio contro il Sud d'Israele. Il bilancio di questa "guerra dei sette giorni"è di 150 palestinesi uccisi - oltre la metà sono civili - e più di mille feriti, dal lato israeliano sono 5 le vittime dei missili di Hamas, e fra loro ieri il primo soldato in un kibbutz nel Negev. È ancora presto per dichiarare una "hudna", una vera tregua.
Nessun accordo è stato firmato, si tratterebbe di un cessate-il-fuoco preliminare. Se ci sarà lo stop al lancio di razzi chiesto da Israele per almeno 24 ore si potrà procedere alla sottoscrizione di un'intesa: servirà a mettere alla prova l'affidabilità di Hamas, della Jihad islamica e di tutte le fazioni armate attive a Gaza. Sono trionfalistici i portavoce del premier Ismail Hanyeh: «Abbiamo impartito al nemico una lezione che non dimenticherà mai».
«Lasciamo Hamas rivendicare ciò che vuole. Tutti sanno che ha subito un grossissimo colpo in questi 7 giorni di azione militare», è la replica da Gerusalemme, facendo capire che l'altra "ora X", quella dell'attacco di terra, è stata solo aggiornata di 24 ore. L'imponente dispositivo militare schierato da Israele ai confini della Striscia - 40 mila uomini pronti all'invasione - aspetta solo un ordine del premier Netanyahu che ieri ha parlato «di mano tesa», ammonendo però che nell'altra c'è «la spada di David». Parlava dopo un incontro a Gerusalemme con il segretario generale dell'Onu Ban kiMoon, giunto in Israele per cercare di fermare il focolaio di guerra prima che contamini la regione.
Nella notte è arrivata anche Hillary Clinton, per mettere finalmente il peso americano in questa difficile maratona diplomatica, gestita soprattutto dall'Egitto.
Le ansie degli abitanti di Gaza non si sono placate, e l'attesa della tregua si mescolava con la paura di un'imminente attacco di terra.
Perché oltre ai missili aria-terra d'Israele che hanno colpito la banca di Hamas in pieno centro, l'edificio che ospita la sede dell'agenzia di stampa francese Afp e altri identificati come bersagli dall'intelligence dello Stato ebraico, e dopo l'omicidio mirato di due cameraman della tv Al-Aqsa vicina a Hamas, gli aerei israeliani hanno seminato a pioggia sulla città volantini in lingua araba in cui si intimava a tutti di allontanarsi «immediatamente» da alcuni quartieri della zona Sud. «Per la vostra sicurezza, sgombrate subito le case e spostatevi verso il centro di Gaza», era il messaggio. Molte famiglie terrorizzate sono scese in strada in cerca di un riparo, a centinaia hanno bussato con le coperte in mano alle porte delle scuole dell'Onu per chiedere rifugio, donne e bambini soprattutto.
«Ignoratei volantini israeliani», ordinava in serata una radio di Hamas, ma la gente già cercava di raggiungere il centro.
In una città devastata dalla guerra tutto è possibile, anche la giustizia sommaria. Ieri pomeriggio le brigate Al-Qassam hanno giustiziato nella centralissima Via Nasser sei persone accusate di essere dei "traditori". Una scena agghiacciante, ma non nel racconto dei testimoni: «Alcuni uomini armati sono arrivati a bordo di un minibus, sono entrati nel quartiere, arrivati a quell'angolo lì hanno spinto fuori sei uomini e gli hanno sparato in mezzo alla strada, poi sui corpi dei giustiziati è stato attaccato un messaggio che li chiamava "traditori" per aver "dato informazioni al nemico"». I cadaveri sono stati circondati da una folla di passanti: c'era chi scattava foto col telefonino, chi li prendeva a calci. Alla fine il corpo di uno dei sei è stato trascinato per le strade vicine da un gruppo di miliziani a bordo di motociclette, un messaggio feroce, "stile afghano" come quando a Kabul comandavano i Taliban.

Fabio Scuto

Obama gioca la carta Hillary in Medio Oriente per fermare le armi

PHNOM PENH - Altro che pensionamento. Nel momento della suprema emergenza Barack Obama non può fare a meno di lei. Hillary Clinton non esita un attimo, riveste la divisa di lavoro, scatta verso l'impresa più difficile. Le dimissioni possono aspettare: e questa si chiama grinta.
Ancora due notti in bianco, una qui in Cambogia per lavorare col presidentea tessere le fila del possibile cessate il fuoco tra Hamas e Israele; l'altra sull'aereo di Stato in volo verso il Medio Oriente, per preparare i dossier delle tre tappe cruciali della sua missione di oggi: Israele, Cisgiordania, Egitto.
Ieri sera l'incontro a Gerusalemme con il premier israeliano Netanyahu per cercare di ottenere «un'intesa duratura» che ponga fine alle violenze e riaffermare che l'impegno degli Stati Uniti per difendere la sicurezza d'Israele è «forte come una roccia».
E pensare che proprio ieri, incrociando alcuni giornalisti nel suo albergo qui a Phnom Penh, Hillary si era abbandonata a un momento di emozione, al pensiero che questo vertice Asean dovrebbe essere il suo ultimo viaggio da segretario di Stato con Obama. «È stato bello ma agrodolce, pieno di nostalgie». Aveva parlato troppo presto. Adesso anche la data delle sue dimissioni sembra in dubbio. Voleva andarsene in coincidenza con l'insediamento ufficiale di Obama Due, il 20 gennaio. Ora l'emergenza in Medio Oriente proibisce di fare previsioni. La Clinton, combattente disciplinata come sempre, ha già detto che resterà «fino a quando il presidente non designerà il successore,e il nuovo segretario di Stato supererà la procedura della conferma». Intanto la vera priorità che detta i tempi è spegnere l'incendio israelo-palestinese. La decisione l'hanno presa insieme, in una notte di convulse consultazioni internazionali. Alle due e mezza del mattino fra lunedì e martedì Obama e la Clinton erano ancora svegli, al diavolo il jet-lag, impegnati a sentire tutti gli attori del dramma: almeno tre telefonate al presidente egiziano Mohamed Morsi e al premier israeliano Benjamin Netanyahu. La mattina Obama sbadigliava vistosamente durante il vertice Asean, nonostante il bicchierone di caffè Starbucks sul tavolo. E appena possibile, ad ogni pausa dei lavori del summit asiatico il presidente tornava ad appartarsi. Sempre con lei, Hillary.
Insieme hanno deciso che lei sarebbe partita, subito. La sua presenza nel centro del conflitto è la massima prova di impegno americano, anche se la Casa Bianca è consapevole dei rischi che questo comporta. L'ultima prova dell'indispensabile Hillary, rilancia tutte le scommesse sul suo futuro politico. Nessuno, a cominciare da Obama, sembra disposto a credere alla versione ufficiale che lei diede già un anno fa, quando disse che era davvero stanca di questo mestiere, che voleva dedicare tempo a se stessa, «viaggiare finalmente per puro piacere». Magari fare la nonna. Lei che ha polverizzato il record di tutti i segretari di Stato, visitando 100 nazioni in quattro anni (alcune delle quali più volte), può davvero essere stanca? A 65 anni si considera pensionabile, una donna con questa energia e in una forma così vigorosa? Se il primo a dubitarne è Obama, è perché in quattro anni ha imparato a conoscere Hillary come pochi altri. Non sono diventati amici, perché sono troppo diversi, ma la loro alleanza politica e l'affiatamento sul lavoro, hanno raggiunto vette formidabili. Il merito è soprattutto di lei. Era Hillary ad avere l'orgoglio ferito, per la sconfitta nelle primarie democratiche del 2008.
Era stata lei a farsi pregare con insistenza, prima di accettare un incarico che non voleva. Poi il miracolo: frutto della sua disciplina, dell'autocontrollo, e anche di una lealtà ammirevole.
Questo summit asiatico è ricco di aneddoti. Hillary sempre attenta a non rubare il proscenio, sempre indietro di un passo rispetto al suo presidente. Perfino quando vannoa casa della sua carissima amica Aung San Suu Kyi lei resta in disparte, è la Lady birmana ad accorgersene e a correrle incontro per abbracciarla. E alla conferenza stampa nella villa sul lago di Yangoon, il presidente gioca con questa modestia. Fa finta di non trovare più il suo segretario di Stato, interrompe la dichiarazionee si guarda attorno: «Hillary, dove sei sparita?» Poi c'è la storia del monaco, nel convento buddista Wat Pho di Bangkok, su cui circolano versioni contrastanti. Il monaco avrebbe detto a Obama che il Buddha coricato gli porterà un terzo mandato (vietato per legge in America, ma fu fatta un'eccezione per Franklin Roosevelt). Secondo la stampa thailandese è Obama ad essersi girato verso Hillary, per indicare al monaco il futuro presidente nel 2016.
La base del partito non ha dubbi. L'ultimo sondaggio tra gli elettori democratici la vede favoritissima per la nomination del 2016 con oltre il 60% dei consensi, mentre Joe Biden che arriva secondo non raggiunge il 20%. Un buon piedistallo, per cominciare la raccolta fondi.

Federico Rampini

La scommessa di Obama far ripartire il negoziato di pace In prima fila l´Egitto di Morsi

GERUSALEMME - «Ci sono cittadini israeliani che si aspettano un´azione militare più dura e forse avremo bisogno di farla», dice accigliato Benyamin Netanyahu ai giornalisti convocati poche ore dopo aver accettato la proposta egiziana di fermare la guerra contro Hamas. E non sembra trattarsi soltanto di una minaccia in calce alla tregua, nell´ipotesi di una malaugurata violazione da parte del Movimento islamico. Più realisticamente, il premier israeliano sta semplicemente riferendo ad alta voce un pensiero diffuso nella maggioranza che sostiene il suo governo: Gaza non finirà mai di rappresentare una minaccia per Israele e prima o poi bisognerà rimettere i piedi in quella sabbia.
La tregua che mette fine all´operazione "Colonna di nuvole", nasce dunque con molti "se" e molti "ma". Bisognerà vedere nel dettaglio i termini dell´intesa raggiunta al Cairo per capire se può veramente rappresentare un punto di partenza per un vero negoziato in grado di stabilire una pace duratura, o se lo scetticismo di Netanyahu è destinato ad essere confermato dai fatti. Di sicuro, l´operazione "Colonna di nuvole" ha funzionato come un banco di prova per molti protagonisti sulla scena regionale, mettendo in luce una serie di cambiamenti che già si percepivano.
S´è capito subito che per il presidente Obama spegnere le fiamme della guerra era una condizione irrinunciabile per il futuro del suo nuovo quadriennio. E ieri se n´è avuta conferma. Dopo mesi, anni, di incomprensioni con il premier israeliano, è stato lo stesso Netanyahu a telefonare ad Obama (mai i due leader si sono parlati tanto come in questi ultimi giorni) per comunicargli la decisone di accettare la proposta egiziana. Obama l´ha ringraziato. E questo è un dettaglio rivelatore, di un cambiamento in corso nei rapporti tra i due alleati. Obama avrebbe potuto cogliere l´occasione della guerra di Gaza per saldare i conti con Netanyahu che non ha mai nascosto la sua simpatia per Romney. Invece, il presidente americano non l´ha fatto, preferendo far valere la sua ritrovata leadership quando deciderà di rilanciare il processo di pace, considerato in Israele morto e sepolto, contro un recalcitrante premier israeliano.
Si vedrà. Di certo, in questo momento l´America fa molto affidamento sull´Egitto del presidente Mohammed Morsi, il quale esce da questa vicenda con la corona del vincitore. Dopo aver ricevuto la telefonata di ringraziamento da Obama, Morsi è stato gratificato da Hillary Clinton con una serie di elogi sperticati, quando la signora della diplomazia americana ha affermato, alla conferenza stampa in cui è stata annunciata la tregua, che il governo egiziano aveva acquisito «responsabilità e leadership nella regione».
Sicuramente, nel successo di Morsi, ha pesato il comune legame ideologico e religioso tra i Fratelli Musulmani, cui il presidente egiziano appartiene, e i dirigenti di Hamas, il movimento che può essere considerato una "costola" dell´organizzazione islamista egiziana. Ma anche Morsi, stretto tra l´opinione pubblica egiziana solidale con i palestinesi di Gaza e il bisogno di accreditarsi come un interlocutore affidabile presso l´Amministrazione americana, da cui dipende un sostanzioso contributo alle spese militari, pari a un miliardo e 300 milioni di dollari l´anno, aveva fretta di trovare una soluzione alla crisi.
Lo ha saputo fare in prima persona, senza lasciare spazio al premier turco Erdogan che, precipitatosi al Cairo, ha adoperato nei confronti d´Israele parole molto più dure di quelle adoperate da Morsi, né al dinamismo dei paesi del Golfo, e segnatamente dal Qatar che per convincere Hamas a più miti consigli ha fatto leva sui 400 milioni di dollari promessi un paio di settimane fa ai dirigenti di Gaza per finanziare il loro «progetto nazionale».
Ma il Cairo, ha dimostrato di saper giocare un ruolo decisivo, citando ancora Clinton, come si conviene al paese non solo più popolato ma politicamente più prestigioso del Medio Oriente. E non solo, Morsi sembra proporsi oggi come perno di un´alleanza sunnita, composta da Egitto, Giordania, Tunisia, Paesi del Golfo che, in occasione della crisi di Gaza, ha costretto ai margini il fronte sciita guidato dall´Iran (cui non è rimasto che fare appello ai musulmani di mandare armi a Gaza) e composto da Hezbollah, Siria e in parte Iraq. E chissà che questo non sia già un test per domani.

Alberto Stabile