mercoledì 25 gennaio 2012

SIRIA

In strada a Homs, la città-fantasma "I salafiti a caccia di noi cristiani"

HOMS - L´unica certezza sono i morti, a decine, a centinaia da quando è esplosa la protesta, e la paura che si taglia a fette mentre camminiamo per le stradine di Hamidiyeh, il centro storico abitato da una maggioranza di cristiani i quali, anche se non lo dicono apertamente, cominciano a sentirsi nel mirino. Per il resto Homs appare come una città di fantasmi, spaccata in due non soltanto dall´Oronte ma dal fiume di sangue che da un mese a questa parte l´attraversa. Metà delle scuole sono chiuse, metà dei negozi devono tenere le saracinesche abbassate, metà degli uffici non funzionano. E metà dei suoi ottocentomila abitanti vive nell´incubo di un doppio assedio: quello della guerriglia che detta legge su interi quartieri, come Bab Amr, Bab Assiyeh, Talbissiyeh, e quello delle forze di sicurezza che, non potendo riprendere il controllo di queste zone, cercano almeno di bloccare le sortite del nemico.
Si deve parlare di guerriglia, ad Homs, perché qui la protesta popolare da cui tutto è cominciato, dieci mesi fa, ha perduto le sue caratteristiche originali. Ed anche la repressione, come dire, s´è adeguata. Certo, continuano le manifestazioni di massa nei quartieri dell´insurrezione, ma adesso sono "protette" da milizie armate di incerta provenienza, che il governo di Damasco rapidamente liquida "come bande terroristiche". Così come spesso, nella parte della città rimasta sotto controllo governo centrale, si organizzano raduni di fedelissimi del presidente Assad.
Racconta Maher, 41 anni, tecnico di una multinazionale energetica, incontrato ad Amidyeh assieme ad un gruppetto di amici: «Ogni giorno è così, da mesi, con il lavoro a giorni alterni e i bambini costretti a stare a casa. Perché in alcune scuole si sono presentati i barbudos (così li chiama Maher, con una chiara allusione allo stile integralista islamico ostentato da alcuni militanti della rivolta, ndr) costringendo gli insegnanti a presentarsi ogni mattina da soli, per onorare lo stipendio che guadagnano, ma impedendo agli alunni di frequentare le lezioni». Fra gli amici di Maher è un coro di «così non si può più andare avanti» e di «cosa aspetta il presidente a fare piazza pulita di questi banditi?».
Ma non è soltanto la militarizzazione dello scontro ad affiorare per le strade di Hamidiyeh, dove ad ogni angolo c´è un soldato armato di mitragliatrice dietro una postazione di sacchetti di plastica blu pieni di sabbia. Da certi accenni, da certi discorsi lontano dai microfoni, trapela la paura che la spirale della violenza possa innescare uno scontro settario, una guerra di religione. 
Pubblicamente, i cristiani di Hamidiyeh negano che vi siano problemi di sorta con i sunniti, corrente religiosa maggioritaria dell´Islam e nella società, politicamente rappresentata dai Fratelli Musulmani. Invece, e con una certa dose di dettagli raccapriccianti, preferiscono alludere alla faida esplosa tra i sunniti e gli alawiti, detti anche sciiti della montagna, la setta eterodossa della fede sciita da cui culturalmente e socialmente proviene la famiglia Assad e gran parte dei vertici del regime.
Rapimenti, oltraggi, cadaveri orrendamente mutilati e gettati nella spazzatura non senza aver impresso sui corpi scritte in omaggio a questo o a quel leader fondamentalista che equivalgono ad altrettante rivendicazioni. Secondo questi racconti, i miliziani sunniti, siriani o d´importazione, come molti ritengono, starebbero cercando di consumare la loro vendetta per il massacro di Hama del 1982, quando la violenta contestazione contro il regime di Hafez Al Assad, padre dell´attuale presidente, Bashar Al Assad, venne brutalmente repressa ad Hama, dove le forze corazzate guidate dal fratello del Presidente, Rifaat, da decenni in esilio dorato a Londra, avrebbero ucciso fino a ventimila persone.
In conciliaboli più ristretti, tuttavia, alcuni cristiani di Homs, ammettono di sentirsi nel mirino come gli alawiti. Dina, un medico che ha studiato in Europa, ha parole durissime contro i "salafiti", gli integralisti islamici sunniti che, secondo i governanti di Damasco, avrebbero infiltrato la protesta secondo un disegno che ricondurrebbe il "complotto contro la Siria" ad un piano saudita.
«I salafiti - dice Dina con una nota d´emozione nella voce - sono soltanto terroristi e spacciatori di droga. Cristiani, alawiti, o altre minoranze, per loro non c´è differenza, sono tutti nemici dell´Islam, infedeli da eliminare perché corrompono la terra islamica con la loro stessa presenza. Nel mio quartiere vanno in giro armati e a viso scoperto. Le tuniche e i kalashnikov. La gente ha paura. Io devo andare a lavoro scortata dai miei parenti».
È sulla base di questi timori, che la comunità cristiana s´è finora schierata con il presidente Assad. Persino con alcune clamorose prese di posizione del clero locale, in cui prevale, in sostanza, l´accettazione dello status quo sull´incertezza del futuro. Più articolata la posizione degli alawiti, fra i quali un folto gruppo di intellettuali ha preso le distanze dal regime.
E tuttavia, nel massacro che giorno dopo giorno si consuma ad Homs, è difficile, se non impossibile, attribuire una precisa identità alle vittime quanto tracciare un profilo certo dei carnefici. E tanto più in quel concentrato del dolore umano che è il grande Ospedale militare alle porte della città, dove la pietà talvolta viene offuscata dalla rabbia e dalla polemica di parte.
Corpi sofferenti nelle corsie. Corpi carbonizzati nella morgue che non saranno mai riconosciuti. Corpi freddi e irrigiditi, recuperati dopo l´ultima sparatoria di ieri, allineati sul pianale di un´autoambulanza. La statistica, ufficiosa, vuole che in media, ogni giorno, 24, 25 persone vengano trasportate all´ospedale militare di Homs. Poi ci sono quelli ricoverati all´Ospedale civile. Tre-quattro morti al giorno, decine di feriti, alcuni dei quali destinati a morire. Ecco un corteo sotto la pioggia gelida, con tanto di banda e marcia funebre di Chopin, per tre ufficiali. Un parente urla improperi contro Al Jazeera e Al Arabiya che, dice ripetendo le accuse dei governanti di Damasco, "falsificano la realtà". Poi la verità amara che il generale Issam Osman, direttore del nosocomio, ammette a denti stretti: «Sì, lo Stato ha perso il controllo di alcune zone della città».

Alberto Stabile

martedì 24 gennaio 2012

IRAN

Embargo totale sul petrolio l´Europa sfida gli ayatollah Teheran: "Bloccheremo Hormuz"

Lo scontro fra Occidente e Iran sale a un livello che non era mai stato raggiunto. Da ieri l´Unione europea ha deciso un embargo petrolifero totale contro Teheran, nella speranza che gli iraniani rinuncino ai loro progetti nucleari. Piani che, secondo le valutazioni dell´Aiea e le risoluzioni dell´Onu, sono contrari alle leggi internazionali. E´ una sfida strategica al potere iraniano, un attacco al cuore del sistema industriale ed economico del regime: assieme al blocco del petrolio ci sono sanzioni finanziare, il divieto di transazioni con la Banca centrale e quello di vendere oro, metalli preziosi, diamanti e materiali sensibili agli iraniani. 
Una sfida durissima, a cui Teheran ha reagito con una minaccia che potrebbe essere applicata con grave danno per l´Occidente: chiudere lo stretto di Hormuz, fermare quel flusso del 20% del petrolio mondiale che esce dal Golfo Persico.
Vediamo in maggior dettaglio le sanzioni: innanzitutto il petrolio. Da oggi gli Stati europei non potranno comprare, importare o trasferire petrolio iraniano. I contratti già in essere dovranno essere esauriti entro il 1° luglio, mentre compagnie come l´italiana Eni potranno continuare a godere dei diritti di buy-back, ovvero potranno ricevere versamenti già previsti dagli accordi con l´Iran per lavori petroliferi già effettuati. L´Iran deve pagare ancora 2 miliardi di dollari alla compagnia italiana per lo sviluppo dei giacimenti South Pars e Darquain.
La decisione europea è arrivata dopo settimane e settimane di negoziati, ma soprattutto dopo anni di attesa che qualcosa si sbloccasse nella grande trattativa fra l´Iran e il "5+1", il gruppo formato dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania. Anni che sono serviti all´Iran a rinviare una resa dei conti mentre il progetto nucleare segretamente andava avanti. Un tempo che però anche gli americani hanno utilizzato, utilizzato per rafforzare le loro sanzioni, per convincere gli europei, le loro compagnie petrolifere e le loro banche ad abbandonare progressivamente il paese degli ayatollah. 
Ieri tre leader europei, Merkel, Sarkozy e Cameron, hanno lanciato un appello all´Iran che è una minaccia politica: «Chiediamo ai dirigenti iraniani di sospendere immediatamente le attività nucleari sensibili, non avete rispettato i vostri obblighi internazionali e avete esportato violenza nella regione», hanno scritto i leader di Germania, Francia e Gran Bretagna. 
L´Italia sostiene con convinzione l´embargo, dopo essere stato per decenni uno dei paesi più aperti al dialogo politico con Teheran: il ministro degli Esteri Giulio Terzi ieri a Bruxelles ha detto che «ci sono indicazioni che forse potrebbe arrivare una risposta positiva all´invito a riprendere il dialogo» sul nucleare, un invito fatto con una lettera spedita dal capo della diplomazia Ue Catherine Ashton il 23 ottobre.
Per ora in verità arrivano solo i primi segnali di reazione rabbiosa: il vice-capo della Commissione Esteri del Parlamento iraniano ha detto che «se arrivano le sanzioni la chiusura dello stretto di Hormuz sarà certa». Le sanzioni «sono destinate al fallimento» dice il portavoce del ministero degli Esteri Ramin Mehmanparast, che poi fa un ragionamento che non è soltanto propaganda: «Il mondo non può fare a meno di un Iran al secondo posto nel mondo per le riserve di gas e al quarto per quelle di petrolio. E comunque, chi si priva del greggio iraniano sarà subito sostituito da altri». Il vice-ministro degli Esteri Abbas Aragchi assicura, «le minacce sono inutili, noi andremo avanti col nucleare». Solo dall´Aiea, l´agenzia Onu per il nucleare, potrebbe arrivare una speranza: da domenica una missione torna a Teheran, incontreranno i capi del progetto nucleare per capire se c´è anche un solo modo per salvare il mondo da questo scontro.

Vincenzo Nigro

Rasmussen: "La Nato non interverrà queste misure meglio della guerra indeboliranno il regime iraniano"

BRUXELLES - «No, non interverremo militarmente in Iran perché sono convinto che la migliore soluzione resti quella politica, quindi ben venga l´inasprimento delle sanzioni economiche da parte dell´Unione europea», dice il segretario generale della Nato ed ex premier danese, Anders Fogh Rasmussen. «Da quando, nel 1949, l´Alleanza fu creata per contenere eventuali mire espansionistiche del blocco sovietico, il suo ruolo è rimasto lo stesso: difendere i nostri Paesi e i nostri popoli. Ma oggi questa difesa comincia spesso ben al di là delle nostre frontiere. Per questo dobbiamo andare fino in Afghanistan per proteggerci dal terrorismo internazionale e in Libia per prevenire che l´instabilità nel Nord Africa contagi l´Europa».
Segretario generale, non crede che il programma nucleare iraniano possa mettere a repentaglio la nostra sicurezza? Non avete piani per intervenire nella regione?
«No, la Nato non ha nessuna intenzione di interferire con l´Iran. Penso che il modo migliore di agire sia quello di trovare soluzioni politiche e diplomatiche». 
Eppure è da dieci anni che l´Occidente sta cercando di convincere Teheran ad abbandonare il suo sogno nucleare. Lei continua a credere che le sanzioni siano il modo migliore per far cambiare idea agli ayatollah?
«Sì, sono convinto che il rafforzamento delle sanzioni economiche avrà un impatto significativo sull´economia iraniana e anche sulla leadership iraniana. Tra le sanzioni e la soluzione militare io parteggio decisamente per le prime».
È quindi impensabile un vostro intervento in quella regione?
«Sì, da escludere totalmente».
Le sembra possibile un raid israeliano contro gli impianti iraniani potenzialmente più pericolosi? E con quali possibili ripercussioni?
«Al momento un raid israeliano è soltanto un´ipotesi. Preferisco perciò non rispondere a questa domanda».
Passiamo alla Siria. L´organizzazione Human rights watch sostiene che a Homs le forze governative stiano compiendo crimini contro l´umanità. Perché un´azione della Nato in quel contesto sembra tutt´altro che probabile?
«Non interverremo in Siria perché pensiamo che il conflitto debba essere risolto da attori locali. Anche se l´operato della Lega araba non ha ancora portato i suoi frutti sono certo la soluzione al problema la troveranno i Paesi di quella regione»
E allora perché siete intervenuti in Libia?
«Perché in Libia avevamo ricevuto un chiaro mandato da parte del Consiglio di sicurezza dell´Onu e un attivo sostegno da parte della regione. Niente di tutto questo esiste nel caso della Siria. Detto ciò, condanno con fermezza la repressione delle forze di sicurezza siriane nei confronti dei manifestanti».
Veniamo all´Afghanistan. Non le sembra giunto il momento, dieci anni dopo l´inizio della guerra, di cominciare a trattare seriamente con i Taliban?
«Sì, anche lì dobbiamo cercare una soluzione politica. Tuttavia, per il raggiungimento del successo, è necessario che ci siano le condizioni adatte e che siano gli afgani stessi ad avviare un processo di riconciliazione nazionale».
Secondo lei i Taliban non hanno nessuna possibilità di vincere la guerra?
«No, non al momento. Nel 2011 abbiamo per la prima volta registrato una diminuzione di quasi il dieci per cento del numero di attacchi dei Taliban. E i poliziotti e i soldati afgani sono in grado di garantire la sicurezza in metà del Paese».
Quanto sono costate le operazioni militari Nato in Libia?
«Non sono in grado di fornire una sola cifra perché ogni Paese che ha partecipato ha speso di tasca propria. Credo invece che sia stato un evento storico il fatto che il Consiglio di sicurezza ci abbia affidato l´incarico di proteggere la popolazione civile della Libia. È stata la prima risoluzione del genere adottata dell´Onu. E il fatto di aver raggiunto lo scopo della nostra missione è un risultato che non ha prezzo».
Che cosa vorrebbe chiedere il capo la Nato al nuovo ministro Difesa italiano, Giampaolo Di Paola?
«L´ammiraglio Di Paola lo conosco molto bene, il che facilita molto il nostro dialogo. E credo di non dovergli chiedere nulla, perché è nel suo Dna di volere che l´Italia rimanga il forte alleato che è sempre stato da quando la Nato fu fondata, più di sessant´anni fa».

Andrea Bonanni, Pietro del Re

sabato 21 gennaio 2012

L'UNIVERSO COME LIBRO (estratto da "A proposito dell'Islam" di Tariq Ramadan)

Il rigore e la disciplina costituiscono dimensioni essenziali del cammino verso Dio, perché lo sforzo intrapreso per il suo ricordo si custodisce nella via, termine quest'ultimo difficilmente definibile nella tradizione musulmana e che si traduce in arabo con la parola "Sharia". L'uso che i mezzi d'informazione hanno fatto di questo termine ne ha alterato il significato più essenziale, anche se esso ha un posto molto importante nell'Islam come quello dello sforzo spirituale e di resistenza (Jihad). I media ma anche alcuni intellettuali musulmani presentano questi termini nel loro uso più radicale, distorto e malevolo, facendo il gioco di coloro che presentano una visione aggressiva dell'Islam.
La Sharia si traduce letteralmente come "cammino che porta all'acqua", ma molti la intendono come l'applicazione di un sistema di leggi che inizia col tagliare le mani ai ladri o lapidare gli adulteri: è una traduzione utilizzata perfino da alcuni musulmani convinti che una società diventa islamica solo quando inizia una repressione brutale delle colpe; ma questa accezione è lontana da ciò che pensa la maggioranza dei musulmani.
Secondo la tradizione islamica Dio mette a nostra disposizione molti strumenti. Il primo strumento a disposizione della coscienza umana consiste in una rivelazione che si realizza in due modalità riassumibili nella nozione di libro del mondo.
La formula deriva dall'incontro storico tra la tradizione occidentale con l'università islamica e la sua concezione del rapporto con la Rivelazione. Ma questa espressione è in realtà molto più antica in quanto già nel IX secolo dell'Islam si parlava già di "Al Kitab Al Manshur" (Libro Manifestato).
Quando Dio enumera nella rivelazione coranica gli elementi della natura, usa il termine "segno" e ovunque ci sono Segni della sua presenza: "I sette cieli e la terra e tutto ciò che in essi si trova lo glorificano, non c'è nulla che non lo glorifichi lodandolo" (Cor. XVII, 44).
Per esemplificare questa visione immaginiamo un albero. Chi lo guarda non potrà che vedere un semplice albero; ma l'uomo che si è avvicinato alla luce della rivelazione divina, vedrà in questo albero la manifestazione e la presenza del Creatore, vi coglierà un segno, così come in tutti gli altri elementi del Creato se guardati dalla profondità della fede.
Tutta la natura parla di Dio, tutto ci dimostra la sua presenza. La parola araba Aya (plur. Ayat) indica sia il versetto coranico che il segno. Lo stesso termine per due definizioni diverse, come se Dio avesse voluto dire che se la rivelazione coranica è un segno, i segni della natura sono una rivelazione, un libro aperto allo sguardo e alla coscienza dell'uomo. Esistono dunque due rivelazioni: quella della Creazione e quella della Profezia. Il ciclo della Profezia comprende nell'Islam tutti i Profeti da Adamo a Muhammad, passando per Noè, Abramo, Mosè e Gesù e tutti gli altri che sono stati inviati da Dio per trasmettere un messaggio e compiere una missione. Ma nella tradizione islamica tutti i Profeti nonostante siano inviati da Dio, non hanno perduto la loro dimensione umana. La loro esemplarità è legata al fatto che siano umani, e ciò implica che la loro grandezza non si è sviluppata solo attraverso il loro carattere di messaggeri ma anche e soprattutto attraverso il giungere a una padronanza, e una disciplina del loro essere. Nell'Islam i Profeti formano una catena unica e tutti i loro messaggi fanno parte della rivelazione divina, proclamata nella sua forma più completa da Muhammad:
"E in precedenza guidammo Noè; tra i suoi discendenti guidammo Davide, Salomone, Giobbe, Giuseppe, Mosè e Aronne. E guidammo Zaccaria, Elia, Giovanni e Gesù: era tutta gente del bene. A tutti loro concedemmo eccellenza sugli uomini" (Cor. VI, 84-86).
Il Profeta è tra l'altro il modello di chi è riuscito a elevarsi e a trasformare i suoi difetti in pregi, gestendo la sua natura umana, in modo di diventare accessibile agli altri uomini. I Profeti sono stati inviati per insegnare il senso del cammino, il modo di trovare l'equilibrio e la pace interiore tra il corpo e il cuore, saper nutrire l'uno senza dimenticare l'altro, saper ricordarsi di Dio senza tralasciare gli impegni quotidiani.
Questo è stato l'insegnamento di Mohammad che ha insistito sull'importanza della fede e del cuore, mettendo in evidenza che si può essere allo stesso tempo persone pie e nutrirsi, sposarsi e divertirsi, vivere pienamente la propria vita di esseri umani. Accettare l'umiltà della propria condizione umana, rinforza l'idea del rispetto e della sottomissione riconoscente al Creatore.

L'uomo che ha capito il senso di questo equilibrio può percorrere in modo individuale il cammino della vita con serenità, applicando tutti gli insegnamenti e le regole dettate da Dio, senza mai dimenticarsi però di essere parte di una comunità, anche quando compie gli atti della donazione. Ognuno dei 5 Pilastri dell'Islam favorisce un cammino spirituale che è in rapporto con la comunità di fede.
Molteplici sono le dimensioni nell'adorazione: prima di tutto la purificazione dell'essere attraverso la preghiera (Salat), essere con Dio da soli cinque volte al giorno, lasciando fuori il mondo per non percepire altro che la sua realtà attraverso l'elevazione spirituale. La preghiera si può fare da soli, perché essa è espressione dell'intimità del cuore che si rivolge al Creatore ma che è più meritoria fare in gruppo. Essere nella solitudine della propria interiorità, ma allo stesso tempo con la comunità, rinforza questo atto spirituale e mostra come la comunità rinforzi l'uomo così come l'uomo arricchisce la comunità.
Il digiuno (Sawm) evidenzia una dimensione che è insieme purificazione del cuore nell'ambito spirituale ma è anche purificazione del corpo che dura un mese all'anno. Questa purificazione si fa da soli, perché ogni persona soffre la fame e la sete personalmente, ma anche collettivamente perché tutti i musulmani digiunano nello stesso periodo. Lo stesso discorso vale per il pellegrinaggio (Hajj): ogni persona sopporta da sola lo sforzo di andare verso la casa di Dio, ma contemporaneamente milioni di persone si dirigono verso lo stesso luogo.
La Zakat, imposta sociale purificatrice, consiste nel prelevare dal denaro di ogni persona una somma pari al 2,5% della sua ricchezza, che servirà sia come purificazione individuale, sia come un segno di solidarietà sociale nei confronti dei bisognosi.
La purificazione del patrimonio attraverso la Zakat, del cuore attraverso la preghiera, del corpo attraverso il digiuno, si riflette in tutti gli atti dell'adorazione, affinché l'uomo possa avvicinarsi sempre di più alla sua natura originaria di adoratore dell'Unico che lo ha creato. E questa sistematica purificazione facilita il cammino dell'uomo verso la libertà nel modo in cui Dio ha stabilito.

giovedì 19 gennaio 2012

IRAQ

Bagdad città bunker dove la democrazia vive in trincea

Non è un muro. È una muraglia. Ruvida e irta di sbarre di ferro conficcate nel cemento armato.
Alta come quella di un castello medievale. Costruita di fretta. Una sagoma sinistra, anche sotto
il limpido, lenificante cielo invernale della valle del Tigri. Ad innalzarla è stata la paura, che
ancora stringe alla gola la metropoli dove si è appena conclusa l´era americana. Nelle strade
del centro adesso si affacciano indifese, scoperte, le vetrine dei negozi, e gli edifici pubblici, per
anni, quelli di intenso terrorismo, in particolare nel 2006 e 2007, nascosti dietro muri e muretti di
protezione: goffe barricate di mattoni, incompiute, lasciate spesso a metà, senza
preoccupazioni estetiche. Negli ultimi mesi ne sono state demolite tante. Ed è come se il cuore
di Bagdad si fosse spalancato, avesse cessato di essere una trincea. A parte la naturale
maestà del Tigri e le statue di personaggi delle Mille e una Notte, sparse qua e là, eleganti,
sofisticate, su piazze appena disegnate, la città non esibisce meraviglie. Non c´è traccia
dell´antichità gloriosa. Allora, negli anni delle barricate, assomigliava a un cantiere
abbandonato. La ricomparsa dei negozi e di qualche pubblico palazzo è stato il timido segnale
di un lento ritorno alla normalità. La Zona verde, dove è rintanato il potere (parlamento,
governo, ambasciate), resta avvolta in una grande muraglia lunga chilometri, molto più curata,
più rifinita di quelle dei sobborghi. E nessuno si sogna di abbatterla. Il bunker dei Vip è una
cassaforte. Protegge l´autorità, dei valori, non soltanto semplici vite umane. Diversa è la paura
che spinge la popolazione a ghettizzarsi, a mettersi al riparo, a erigere muraglie. Nei sobborghi
del Sud della metropoli ti accorgi quanto sia viva forte ed estesa la diffidenza, l´ostilità, l´odio. E
come questi sentimenti inquinino la vita quotidiana e la stessa democrazia, vale a dire il
maggior lascito dell´America che se ne è andata dopo nove anni di presenza armata. 
Fare l´inventario di quel che la super potenza ha creato, sulle rovine della guerra, è l´inevitabile,
ambizioso compito di chi visita l´Iraq un mese dopo la partenza dell´ultimo marine. E l´immagine
della periferia meridionale, dove vivono folte comunità sunnite, ancora raggruppate e trincerate
dietro grandi muraglie, consente una prima valutazione. Alle loro spalle gli occupanti-liberatori
hanno lasciato profonde divisioni etniche, ritagliate sulle comunità religiose, al punto da
spingere i pessimisti a temere che una guerra civile sia sempre in agguato. Quelle muraglie
rozze, spesso incompiute, di cemento armato, in cui ti imbatti seguendo il corso zigzagante del
Tigri, sono i concreti simboli dell´instabilità, dell´insicurezza. A un forestiero viene sconsigliato di
inoltrarsi nel quartiere di Dora, e nei sobborghi vicini, chiusi come fortezze. I sunniti di quell´area
della metropoli diffidano degli estranei, e in particolare del governo a maggioranza sciita, quindi
anche dell´esercito e della polizia ai suoi ordini. «Peccato che gli americani se ne siano andati,
mantenevano l´ordine», mi dice una donna che incontro proprio a Dora, dove mi inoltro
rendendomi conto che i rischi annunciati sono più leggenda che realtà. Immaginazione e paura

vanno d´accordo. La donna è sunnita e non è escluso che nel passato abbia aiutato
l´insurrezione contro gli americani ora rimpianti. 
L´atteggiamento può apparire paradossale, dal momento che i sunniti partecipano (con sei
ministri) al governo di cui diffidano, e contano perfino qualche generale nelle forze armate
considerate ostili. La democrazia è senz´altro la più importante e meritevole realizzazione degli
americani. Ma essa presenta alcune sostanziali singolarità. È imprevedibile. Il dialogo, anche
tra alleati formali, può degenerare nel terrorismo. Come se la deflagrazione di una bomba fosse
l´eco naturale di una polemica politica. Il carattere comunitario dei partiti enfatizza le divisioni
etnico-religiose. Le quali, più che alla teologia, sono dovute a una tradizione carica di
superstizioni, capace di sprigionare puntuali vampate di odio. Quelle divisioni, in cui l´affiliazione
religiosa determina un conflitto etnico, fanno pensare alle frontiere, disegnate sbrigativamente
nelle giungle o nei deserti, in un remoto momento della storia, e che poi nessuno osa
correggere, cancellare, e che finiscono con l´essere considerate naturali e quindi difese con un
alto costo di sangue, quasi fossero sacre. Tracciate da Dio. 
Esiste in Iraq la libertà di opinione; tanti sono i giornali e le radio di tendenze diverse; c´è
soprattutto un parlamento in cui sono rappresentati vari partiti, secondo i risultati elettorali. E
nessuno vieta di crearne dei nuovi. Non pochi giornalisti sono finiti e finiscono tuttavia in
prigione perché invisi al primo ministro sciita, Nuri el-Maliki, o al suo gruppo di potere. E molti
deputati sunniti non mettono piede in parlamento per protestare contro i soprusi di cui sono
vittime gli esponenti del loro partito o della loro comunità. Per le stesse ragioni alcuni ministri
sunniti non partecipano al consiglio dei ministri presieduto da el-Maliki. Al fine di ricucire il
governo si studia la possibilità di riunire una conferenza nazionale, considerata dai pessimisti
l´ultima occasione per salvare quel che c´è di democratico. 
Comunque, almeno per ora, la Costituzione redatta sotto la tutela americana, su cui si basa la
democrazia parlamentare, non è stata rinnegata, anche se il primo ministro vorrebbe riformarla
per darle un´impronta presidenziale. Un´intenzione giudicata dai sunniti come un passo verso
una dittatura. La corruzione è dilagante a tutti i livelli del potere e i tribunali compiono i loro riti
non tartassando troppo la procedura ma senza curarsi troppo della loro indipendenza nei
confronti del primo ministro, che ha di fatto il monopolio dei servizi di sicurezza, e una mano
pesante sulla giustizia.
Il principale handicap della democrazia irachena risiede nel fatto che i partiti non sono nazionali,
ma sono lo specchio del mosaico etnico: venti per cento curdi, venti per cento sunniti, sessanta
per cento sciiti. Ciascuna di queste comunità ha partiti che la rappresentano. Quasi tutti gli
iracheni hanno votato in sostanza per il gruppo etnico-religioso cui appartengono. Non hanno
contato i programmi politici, né hanno influito, se non in minima parte, le idee progressiste o
conservatrici dei candidati. I partiti sono curdi, sunniti o sciiti. Questa è la loro identità. Con le
muraglie in cemento armato, dietro la quale si trincerano, i sunniti della periferia di Bagdad
trasferiscono le divisioni della società politica nella concreta realtà quotidiana. Non restano
chiusi nella fortezza, escono, partecipano alla vita comune, ma prendono le loro precauzioni.
Vogliono avere alle spalle un rifugio. La loro aspirazione è un Iraq federale, in cui i sunniti, come
già i curdi, possano avere zone autonome, ad esempio nella provincia centrale di Anbar, dove
l´insurrezione anti americana e stata più intensa che altrove fino al 2007. Lo sciita Nuri el-Maliki
vuole l´esatto contrario, è per un potere centrale forte; e si dice pronto a guidare un governo
"maggioritario", vale a dire autoritario, nel caso i sunniti rifiutassero di partecipare a quello
attuale. 
Partiti gli americani, la democrazia irachena rischia di sgretolarsi. Essa è stata la principale

realizzazione della spedizione militare degli Stati Uniti nel grande paese medio orientale. Non
pochi intellettuali lo riconoscono. Un noto cardiochirurgo, con un lunga esperienza londinese, il
dottor Akeel Salman, non esita a esprimere per questo la sua riconoscenza, aggiungendo che
per altri aspetti l´occupazione americana ha invece calpestato l´indipendenza nazionale. Se la
già traballante democrazia crollasse il fallimento dell´operazione militare promossa da Bush
junior sarebbe completo. Avrebbe abbattuto una dittatura per crearne un´altra. 
Non siamo ancora a questo, ma una digressione storica mi sembra consentita. Affidarsi alla
storia per spiegare il presente è spesso un esercizio arbitrario. Lo spunto viene da una
discussione tra esperti e diplomatici, svoltasi nella Zona verde. Il paragone cui si è arrivati è
audace: ha accostato la Vienna del 1683, dove cominciò il riflusso dall´Europa degli ottomani
sconfitti, e la Bagdad del 2011 dove è cominciato il ripiegamento della superpotenza
occidentale (cristiana) dall´Oriente musulmano. In entrambi i casi le ambizioni di due grandi
imperi sono state frustrate. A più di quattro secoli di distanza le due superpotenze hanno subito
un´umiliazione, destinata a contare nel loro lungo, lento, inevitabile declino. Per il cronista
impegnato nella modesta caccia ai dettagli, e impigliato nella fragile verità del momento,
l´ambizioso e sommario ricorso alla storia è un´evasione stimolante. Che lo spinge a cercare se
quel paragone, tra la battaglia del ‘600 alle porte di Vienna e la partenza occidentale senza
fanfare nel primo decennio del 2000 da Bagdad, ha un fondamento. Vale a dire se l´America è
stata veramente respinta dalla valle dell´Eufrate e del Tigri. Insomma, cacciata. 
Oggi una potenza, e ancor più una super potenza, viene sconfitta quando non riesce a
dominare un confronto asimmetrico: ossia con un avversario infinitamente più debole ma
inafferrabile, grazie anche all´aiuto della popolazione, per natura diffidente verso lo straniero
invasore, sia pure arrivato con buone intenzioni. Se non ce la fa a realizzare quel che si
proponeva avviando l´azione militare, la super potenza deve svignarsela al più presto.
Un´occupazione costa in vite umane, in denaro e in prestigio. Pesa politicamente. Tra gli
obiettivi americani dichiarati c´era di creare una democrazia in Mespotamia. Onestamente il
risultato non è brillante. E il rischio che lo sia sempre di meno è grande. 
Dopo nove anni gli invasori del 2003 non hanno lasciato un paese che ispira fiducia. A causa
della sicurezza e della corruzione, la prima precaria e la seconda rigogliosa, gli investimenti
stranieri tanto invocati sono arrivati a gocce. Al di là del petrolio, di cui l´Iraq è uno dei grandi
produttori, e che ha attirato come ovvio le maggiori società internazionali (compresa l´Eni),
pochi imprenditori hanno osato atterrare sulle sponde del Tigri e dell´Eufrate. Gli introiti del
petrolio rappresentano il 93 per cento del bilancio; 72 miliardi dei quali, circa la metà, servono a
pagare i funzionari, i militari e la polizia. I salari di due milioni seicentomila impiegati dello Stato,
cinque milioni e mezzo se si aggiungono soldati e poliziotti, sono garantiti dalle ricchezze del
sottosuolo. Questo significa che almeno i due terzi delle famiglie, più di venti milioni di iracheni
(su circa trentadue) campano con gli incassi del greggio. Agricoltura e industria non
rappresentano molto più del cinque, sei per cento. 
Il fiume di automobili nuove, di frigoriferi, di televisori, di strumenti elettronici e di generatori (che
suppliscono la mancanza dell´elettricità pubblica) proviene dal progressivo aumento della
produzione del petrolio. La quale ha quasi raggiunto quella dei tempi di Saddam Hussein, prima
dell´invasione americana. Oggi siamo a due milioni settecentomila barili al giorno contro i tre
milioni centoquarantamila di un tempo. Un´ultima cifra: il novanta per cento dei prodotti di
consumo sono importati. E i commercianti che controllano questo flusso di beni dall´estero
costituiscono la classe dei nuovi ricchi. L´alta borghesia vive ancora all´estero. Non si fida a
ritornare. Il consistente aumento dei salari del settore pubblico, grazie alla crescita della

produzione petrolifera, è all´origine degli evidenti segni di benessere. Quasi il venti per cento
della popolazione vive comunque sotto la soglia di povertà. Questo arido panorama
social-contabile, ricostruito pazientemente, raccogliendo dati da funzionari affidabili, mostra una
società nelle mani della classe politica al potere, che si confonde con lo Stato e che dispone del
reddito petrolifero.

Bernardo Valli

domenica 15 gennaio 2012

IL SENSO DELLA VITA NELL'ISLAM

Riprendiamo la pubblicazione del saggio di Tariq Ramadan "A proposito dell'Islam" dal punto in cui l'avevamo interrotta per soffermarci sui tragici fatti di Firenze.
"Bisogna ora porsi la domanda di dove si collochi la sfida della vita per l'essere umano per cercare di scoprire quale sia il senso della sua prova: Dio ha creato la morte e la vita per mettere alla prova chi di voi meglio opera" (Cor. LXVII, 2).
Nel cuore di ogni essere umano coesistono sia il soffio originale sia l'amore per il bene ("Allah vi ha fatto amare la fede e l'ha resa bella ai vostri occhi", sura XLIX, 7).
Tutti gli esseri, nella dimensione della fede, e nella pace della loro interiorità col Creatore sentono questo soffio e in esso trovano il benessere spirituale. In ogni essere umano, quando dice la verità si stabilisce uno stato di pace interiore che egli avverte come una profonda serenità. Dio ha fatto si che gli esseri umani amino questo sentimento di armonia con se stessi che scaturisce quando si vive nella trasparenza del cuore, dell'anima e delle azioni. Dio ha infuso nell'uomo l'amore e la ricerca di questo stato.
Il peccato è un turbamento ed un ostacolo a questa pace. In un hadith è riportato che un uomo che andò dal Profeta per interrogarlo sul peccato, il Profeta disse: "E' ciò che sta nel tuo cuore, che lo agita, e che tu non vorresti che gli altri conoscessero".
Ogni persona porta nel suo essere segreti più o meno confessabili, cose di cui non è fiero e che vorrebbe nascondere, cose che lo agitano e lo mettono a disagio anche con se stesso, perché egli sa che ciò che ha fatto non è in armonia con la profondità del suo essere e che così agendo è entrato in contraddizione con la sua "Fitra"  che è la sua natura umana originaria: "Il cuore dell'uomo contiene il seme delle doti migliori e nello stesso tempo i loro opposti difetti".
L'uomo prende forma in questa ricerca innata dell'amore e della pace, ma nello stesso tempo è agitato dai conflitti e subisce inclinazioni e tentazioni negative. Questo non significa che l'uomo sia peccatore per natura, ma che deve intraprendere una lotta e fare uno sforzo su se stesso per non cedere al peccato. Nell'Islam l'essere umano non viene considerato né totalmente buono, né totalmente malvagio; egli può compiere il bene ma può compiere anche il male. Nel suo cuore convivono il seme delle qualità migliori e i difetti loro opposti. Ogni individuo deve saper gestire la propria interiorità cercando di trovare un equilibrio personale. Il Corano da un importante esempio di tale conflitto: "Non portare la mano al collo ma non distenderla neppure con troppa larghezza, perché ti ritroveresti biasimato e ridotto in povertà" (Cor. XVII, 29).
Bisogna quindi saper provare il giusto equilibrio nel gestire le doti che Dio ha profuso in noi badando a non trascurarci, restando generosi e sapendo far godere anche agli altri le nostre qualità e le nostre ricchezze.

                                                                        * * * * *

Spesso, quando ci sentiamo al centro del mondo, siamo portati ad avere tendenze egoistiche e l'ego può tendere ad occupare una posizione esclusiva. Quando l'ego si manifesta troppo, esso si traduce in orgoglio e, nella vanità espressa dalla cupidigia e dall'amore per il possesso, ma anche nella violenza. Non siamo non violenti per natura e ogni persona che sia a contatto con i bambini lo sa. Intorno al tema della non violenza oggi ci sono molte riflessioni che spesso ci portano a guardare ai bambini come se fossero anormali. Nella normalità dell'essere, invece, c'è una certa violenza innata ed è lavoro della coscienza controllarla per giungere al suo superamento.
La prova dell'uomo è quindi in questa battaglia tra l'amore per la trasparenza e l'attrazione verso le tentazioni negative come la violenza, la cupidigia e l'amore per il proprio io. La vanità e l'orgoglio negano Dio e si allontanano dal Creatore per lasciare posto esclusivamente all'ego. L'essere umano deve bilanciare continuamente i due stati del suo essere, il poeta francese Baudelaire ha scritto: "Restare in armonia con se stessi rispettando la Creazione e rispondere alle tentazioni che sconvolgono l'equilibrio del nostro essere".
Nella tradizione islamica, quando il Creatore ordinò agli angeli di prosternarsi davanti all'uomo per mostrare il proprio rispetto davanti al sapere e alla libertà che lo rendevano unico, tutti obbedirono tranne Iblis che si ribellò affermando: "Io sono migliore di lui". Se Dio ha chiesto agli Angeli di prosternarsi è stato per mettere in evidenza che l'uomo ha il potere di accedere alla conoscenza e ha la capacità di compiere delle scelte, mentre gli Angeli sono stati creati nell'obbedienza assoluta.
La dimensione della scelta è fondamentale nell'Islam perché permette all'uomo di elevarsi o viceversa di degradarsi fino a sprofondare sotto lo stato animale. L'uomo si trova tra queste due strade. Il Corano paragona coloro che mangiano in misura esagerata a esseri peggiori delle bestie: essi hanno dimenticato sia il significato del nutrirsi, sia il perché si nutrono, ma si ingozzano ignorando che il loro potrebbe essere un gesto di adorazione se fosse fatto nel rispetto e nel buon senso. Nell'Islam si afferma che dimenticare Dio è come dimenticare se stessi: "Non siate come coloro che dimenticano Allah e cui Dio fece dimenticare se stessi" (Cor. LIX, 19).
Quando ci si dimentica di Dio si finisce per vivere solo per se stessi e si finisce nella prigione del proprio ego. L'essere umano è sempre in bilico tra l'oblio e il ricordo perché ha una propensione naturale a dimenticarsi di Dio.
Il senso della nostra esistenza sta nel compiere uno sforzo continuo su noi stessi per passare da uno stato di negligenza allo stato di dignità del ricordo (Adh dhikr). Nell'Islam il ricordo ha una grande importanza: il ricordo di Dio esige costanza e necessità di un lavoro intenso di meditazione interiore, di educazione spirituale del proprio essere. Invece di mangiare nell'oblio, il musulmano si ricorderà di Dio cominciando a mangiare con l'invocazione del suo nome, e lo ringrazierà dopo ogni pasto. Ogni azione umana dovrebbe cominciare con le parole "Bismillah Ar Rahman Ar Rahim" (Nel nome di Dio, il Compassionevole e il Misericordioso), ricordando che ogni azione si svolge alla luce e sotto la protezione della trascendenza.

                                                                        * * * * *

Saper trovare un equilibrio tra ciò che dovrebbe essere e ciò che noi siamo è certamente la battaglia più difficile e lodevole dell'essere umano, ed è ciò che nella tradizione musulmana viene chiamato Jihad:
"Il Jihad è anzitutto lo sforzo spirituale che ci eleva a una maggiore umanità davanti a Dio". In lingua araba Jihad An-Nafs significa lo sforzo che ogni uomo deve compiere su se stesso per essere degno della sua umanità, lottando contro la propria violenza, la collera, la cupidigia e l'egoismo.
Le crociate erano considerate guerre sante sia dai crociati, sia dai musulmani. I musulmani, che erano stati aggrediti usavano il termine Jihad nel senso di sforzo a resistere contro le aggressioni e gli assedi; e in questo modo si è finito per tradurre la parola Jihad con guerra santa trasponendo il senso delle crociate come era nell'orizzonte cristiano. Se la parola Jihad può voler dire guerra di resistenza essa ha però un significato molto più importante e più ampio e rappresenta verbalmente il combattimento che si attua nel nostro essere tra il soffio che ci richiama a Dio e tutto ciò che vorrebbe farci dimenticare il Creatore.
Da questo concetto di sforzo si sviluppano due punti fondamentali:
I - Il primo è che non si può ignorare il concetto di rigore che esiste presso i musulmani. Il rigore del cuore e quello della coscienza sono due dimensioni fondamentali della vita quotidiana. Il richiamo al rigore si traduce in un profondo senso di responsabilità e in un impegno costante. Bisogna vivere nel mondo e nella società come attori e non come spettatori. Il musulmano è responsabile di un'etica da rispettare, di un messaggio da trasmettere: egli ha un dovere, una missione, un impegno attivo nella società in cui vive e deve saper farsi carico delle esigenze della sua comunità religiosa e, più in generale della comunità di tutti gli esseri umani;
II - Il secondo punto esige un cammino inverso, perché si tratta di consacrare il proprio essere alla vita interiore e all'autodisciplina. L'Islam, contrariamente ad alcune culture che non accettano una simile prospettiva, lo rivendica, come nella tradizione induista e buddhista o come nello yoga.
Nell'Islam questa disciplina si attua nella pratica della preghiera, nel Ramadan, nell'obbligo dell'elemosina (Zakat) e del pellegrinaggio.
Ognuno di questi pilastri della fede esige un controllo del proprio corpo, del proprio denaro e del proprio tempo, e prima ancora del proprio essere. Ciò che l'uomo fa del suo essere rivela il suo modo di essere davanti a Dio.

venerdì 13 gennaio 2012

AFGHANISTAN

L´oltraggio finale dei soldati Usa ai Taliban uccisi

WASHINGTON - Eccoli "the Few, the Proud, the Marines", "i pochi, gli orgogliosi, i marines", come vuole il loro spot per il reclutamento, che urinano sui cadaveri di tre afgani, forse tre Taliban, appena uccisi. «E una buona giornata anche a te, buddy, amico», ride uno di loro irrorando un caduto. Nello sconfinato catalogo degli orrori che ogni guerra produce senza distinzione di epoca, razza, religione, motivi, uniforme, e al quale gli strateghi da editoriale e da tavolino mai pensano al momento di far partire gli altri per il fronte, questa sequenza variamente definita come «abominevole», «ripugnante», «assolutamente intollerabile» dal ministro della Difesa Leon Panetta è invece un sottoprodotto inevitabile di quella oscenità legalizzata che consiste nello scegliere fra uccidere o essere uccisi. «La profanazione dei cadaveri dei caduti è una violazione della Convenzione di Ginevra» ha detto il generale John Allen, comandante del teatro di guerra afgano, come se quel nobile e patetico documento, sempre citato e sempre ignorato, potesse regolare cavallerescamente le guerre mai dichiarate e asimmetriche fra bande di guerriglieri e truppe regolari, consumate nell´odio razziale e religioso reciproco.
In Afghanistan, come fino a ieri in Iraq o mezzo secolo fa nel Sud Est asiatico, è "the horror", la sola legge che domina su campi di battaglia nei quali il nemico è un demonio da bruciare vivo con il napalm o il fosforo. Un infedele, un comunista, un tagliagole, un imperialista da impalare sulle canne acuminate di bambù, da bombardare con aerei robot senza rischio per piloti con il telecomando, da far saltare in aria anche - e soprattutto - mentre porta medicinali e soccorsi ai villaggi. I marines americani che si sono autofilmati mentre sfogavano il proprio odio, ed esorcizzavano la propria paura, sui cadaveri di tre possibili Taliban, sono l´equivalente, mentre si macchiano di quella vergogna, dei "jihadisti" che a Falluja in Iraq il 4 marzo del 2004 arsero vivi dentro un´automobile quattro civili americani, contractors ausiliari delle forze armate regolari, poi ne trascinarono sull´asfalto i resti carbonizzati prima di appenderli ai pali della luce. E la tradizione di tagliare la testa al nemico ucciso per innalzarla su una picca, o di esibirne lo scalpo, come facevano i cacciatori di indiani americani per incassare la taglia e poi gli indiani entusiasticamente copiarono, non è nata in queste scellerate e fallimentari guerre "preventive" per "cambiare regime".
Ciò che rende specialmente demenziale il gesto oscenamente goliardico dei ragazzi americani con l´uniforme dei tiratori scelti marines - l´unità responsabile degli oltraggi sarebbe stata già identificata - è il disastro propagandistico che esso produce. Guerre come quelle combattute in Vietnam, in Iraq, in Afghanistan non hanno obbiettivi di conquista territoriale né di occupazione coloniale. Proprio i Taliban sanno talmente bene chi stia davvero vincendo la guerra in Afghanistan dopo 10 anni da avere, attraverso il loro portavoce Zabihullah Mujahid, minimizzato lo scandalo, per non deragliare negoziati che porteranno a quello che loro vogliono: all´uscita della Nato dal Paese, che tornerà in mano loro. Il territorio da conquistare sono "i cuori e le menti" della gente e questa clip, già vista milioni di volte come le foto dal carcere orribile di Abu Ghraib, è una Caporetto della propaganda, una grande battaglia perduta e irrecuperabili anche se, e quando, i marines saranno radiati e condannati.
Perché sulle "dottrine" e le "teorie" arrivano sempre gli uomini a farci sopra la pipì. Arrivano i soldati che rischiano la propria vita e sono esseri umani spinti oltre i tabù e i comandamenti e le leggi che la vita civile loro impone. Soltanto chi ha vissuto in prima persona l´odio e la paura verso un nemico ombra, chi ha accompagnato l´agonia del commilitone sbudellato da un ordigno piazzato a tradimento, può capire, senza giustificare, quell´orrendo gioco da maschiacci che, come i bambini, fanno a chi la fa più lontano. Specialmente quando il veleno della incompatibile diversità culturale ed etnica si aggiunge alla dinamica di ogni guerra, casi come questo dei marines diventano inevitabili e molto più frequenti di quanto, occasionalmente, una clip video scivoli nel mare di Internet. Dei cuori e delle menti da convertire, a quei marines con le insegne dei cecchini scelti non potrebbe importare di meno. Ogni soldato, dicono tutte le memorie dal fronte, combatte per il proprio "buddy", per l´amico e il commilitone, non per Dio, Bush, Obama, Patria, Famiglia o Libertà. E infatti proprio "buddy" è, con terribile sarcasmo, l´espressione usata da un marine mentre urina.
Scrivono veterani e reduci ai giornali, come il New York Times ieri, che episodi come questi sono molto più diffusi di quanto il solito ritornello della "mele marce" e delle "esemplari punizioni dopo l´inchiesta" ammettano. Già sul fronte del Pacifico, nella guerra contro i "musi gialli" giapponesi, il comandante supremo Chester Nimitz dovette ordinare ai soldati di non decapitare i morti per portarsi a casa i teschi come souvenir, mentre i "giap" si coprivano di infamie contro i prigionieri americani (protetti dalla Convenzione di Ginevra). Soltanto occasionalmente, per il rimorso di un protagonista, o per le foto che filtrano da carceri come Abu Ghraib a Bagdad, affiorano. Si scopre così che, nel 2010, un gruppo di GI, di soldati dell´Esercito si divertiva a sparare a uccidere civili afgani per sport. Ed è ben noto, già dal caso del villaggio di My Lai in Vietnam e del tenente Calley che fece uccidere 347 persone, che la distinzione fra "civili" e "combattenti" è spesso soltanto fiction per i rapporti ufficiali. «Questi Taliban uccisi - ha scritto un altro reduce al New York Times - erano sicuramente assassini e di bambine» e dunque «si meritano soltanto disprezzo ed escrementi addosso». The Horror, appunto. L´orrore subito e inflitto a bersagli di comodo, a puri simboli disumanizzati, che siano morti come i tre Taliban o vivi come i 2.833 sacrificati nelle Torri Gemelle sull´altare della Guerra santa.

Vittorio Zucconi


L'autore dell'articolo vive da molti anni negli Stati Uniti d'America ed è un profondo e appassionato conoscitore della loro storia. Egli, inoltre, è uno spirito romantico non  privo di un naturale realismo: ciò fa di lui un cronista che difficilmente tradisce i profondi ideali  che ne animano l'attività; e questo spiega perché, come me, è un grande appassionato e tifoso degli Indiani d'America. Questo singolare tratto del suo scrivere lo porta a schierarsi sistematicamente dalla parte di coloro che sono oggettivamente "i più deboli" dal punto di vista militare, ma che hanno dalla loro parte le cause più profonde della libertà e della giustizia. Per questo Vittorio descrive in maniera esemplare le cosiddette "guerre asimmetriche", e cioè le guerre nelle quali la parte più potente, normalmente una potenza imperiale, si trova a combattere contro un nemico infinitamente meno dotato dal punto di vista degli armamenti e della consistenza numerica ed economica.
Quasi tutte le guerre coloniali sono state guerre asimmetriche: per tutto il XIX secolo esse sono state quasi sempre vinte dalla potenza maggiore che ha usato ogni mezzo per venirne a capo, praticando torture, deportazioni, decimazioni, rappresaglie, fino ad arrivare allo sterminio e al genocidio dell'avversario. Quest'ultimo ha potuto contrapporre strumenti che ripugnano al cosiddetto senso dell'onore degli avversari civilizzati, ammantato di grandi ideali, spacciatore delle nobili cause della civiltà e della libertà, ma in realtà
 ipocritamente legato ai più bassi interessi economici e di conquista, con i quali ammantare la ferocia dei mezzi bellici usati contro un nemico tecnologicamente arretrato e definito con termini dispregiativi come "selvaggio", "barbaro", "crudele", "disumano" ecc.ecc.
Nel XX secolo a misura che diminuiva la capacità conquistatrice delle potenze imperiali, i cosiddetti "esseri inferiori" hanno cominciato a vincere. Così è stato nella guerra d'Algeria o in quella del Vietnam e in numerose altre guerre di guerriglia che hanno disseminato la storia degli ultimi decenni. Durante la Seconda Guerra Mondiale, del resto, la parte apparentemente più debole militarmente ha ricevuto una ineguagliabile lezione dalla guerra partigiana che è stata una delle fondamentali cause di vittoria contro le potenze nazi-fasciste.
Gli americani sono diventati la potenza mondiale che conosciamo perché, con la sola eccezione della guerra civile combattuta per 5 anni tra nordisti e sudisti, hanno sempre avuto a che fare con guerre asimmetriche, dove gli avversari destinati per la loro debolezza numerica, per la loro scarsità di forze e a causa di malattie infettive contro le quali non avevano nessuna difesa naturale e nessuna efficace cura medica, a subire un quasi totale sterminio. In conseguenza di ciò la cosiddetta epopea del West è stata una squallida operazione di polizia nella quale i cosiddetti vincitori si sono macchiati dei peggiori delitti e hanno dovuto dispiegare un'arma terribile che non concede tregua: l'Odio Razzista e Genocida di quelli che sono diventati i vincitori. Ad essa i "selvaggi" non hanno potuto opporre che il loro disperato valore, la loro grandezza d'animo e, come scrive uno storico americano, la loro nuda e quasi indifesa umanità. E' tuttavia sul modello delle "guerre indiane" 
(una specie di inferno) che gli Stati Uniti hanno forgiato i loro costumi militari e il loro modo di combattere, fatto di spietati massacri, di non combattenti e di manifestazioni di odio ignobili come quello di cui l'ultima "impresa" di sfregio ai cadaveri dei nemici uccisi è stato una sorta di esempio ineguagliabile. Forse gli americani non lo sanno, ma quando un esercito ultra-armato, ben vestito e ben nutrito è costretto a usare l'odio pieno di disprezzo contro un nemico che ha come unico torto quello di combattere in casa propria, esso è destinato ad una inevitabile sconfitta. Così è stato per i francesi in Algeria, per francesi e americani in Vietnam e per gli americani in Iraq ed ora in Afghanistan. Per fornire un saggio di quale sia lo spirito di quelli che sembrano essere i più forti vogliamo ricordare le parole che furono pronunciate da un colonnello della cavalleria americana, John Chivington alla vigilia di uno dei più efferati massacri compiuti nella storia del West, il massacro di Sand Creek, consumato nel 1864 dal corpo dei volontari del Colorado: "Non fate prigionieri, uccidete tutti comprese le donne e i bambini, perché per distruggere i pidocchi bisogna schiacciare anche le uova". La cavalleria si distinse per aver mutilato in tutti i modi gli uomini e i bambini e per aver scotennato donne di ogni età in tutte le parti del corpo in cui era possibile scotennare. Per completezza di informazione vogliamo invece citare un saggio dei metodi di resistenza che vennero opposti ai "civilizzatori" da uno dei più grandi leader della resistenza (Osheala) che una tribù indiana, i Seminole della Florida, oppose per quasi dieci anni contro forze armate americane venti volte superiori:
"Dove i bianchi sono forti noi siamo deboli. Ma dove noi siamo forti essi sono deboli; ed è li che dobbiamo colpirli. La natura, l'acqua, le paludi, i venti, il fuoco, il veleno delle piante e dei serpenti sono i nostri alleati. Noi mostreremo loro cosa significhi avere la natura come nemico mortale. Gli uccideremo, ed essi con gli occhi sbarrati non vedranno un solo Seminole ucciderli. L'esercito americano è goffo come un procione ben pasciuto. Esso si muove lentamente. Noi saremo rapidi come il lupo e come i cerchi dell'acqua in cui è stata gettata una pietra. Gli attireremo nelle paludi, dove le frecce non trovano ostacoli, ne umidità nell'aria e dove la polvere da sparo diventa inservibile. Distruggeremo le loro scorte e gli spingeremo in bocca agli alligatori, quando si aspetteranno di vedere Seminole. Avranno paura di ogni cespuglio, di ogni ramo, di ogni zolla di terra. Ovunque troveranno trappole mortali. Gli tratteremo come bestie feroci e sanguinarie. Non potranno mai dormire ne essere del tutto svegli. La paura li divorerà lentamente, finché essi non avranno che un pensiero: "Via dalla Florida". L'audacia è una virtù guerriera, ma in questo tipo di lotta essa sarebbe fatale per noi. Li attenderemo invisibili ovunque, negli alberi e nell'acqua, come gli alligatori. Persino quando sentiranno respirare accanto a sé un compagno, non dovranno mai essere sicuri che non sia un Seminole. Le donne e i bambini lavoreranno per la guerra e i loro occhi saranno ovunque. Arriveranno ad usare i cani, ma noi sappiamo come trattarli dai combattimenti con i mercanti di schiavi. Fratelli, noi dobbiamo dimenticare la guerra gloriosa e temeraria e imparare quella insidiosa, vile e mortifera. I bianchi diventeranno rossi per il loro sangue versato, ma noi li faremo annerire al sole e alla pioggia. Se i loro prigionieri chiederanno pietà, noi gli uccideremo come animali nocivi".
I Seminole sono la sola tribù del Nord America che è rimasta nelle sue paludi della Florida e non ha mai firmato un trattato di pace con gli americani. Si calcola che della loro tribù sopravvissero poco più di mille persone da oltre 3000 che erano dall'inizio della guerra. Gli americani ebbero oltre 3000 morti tra i militari, più un numero non preciso di civili. 
Il governo degli Stati Uniti costituì il corpo dei Marine per combattere contro i Seminole. 

giovedì 12 gennaio 2012

SI AGGRAVA LA TRAGEDIA SIRIANA

La morte del primo giornalista occidentale

Aveva vinto lo scorso anno il «Premio Ilaria Alpi» Gilles Jacquier, il giornalista di France 2 ucciso ieri a Homs in circostanze ancora da chiarire. Primo cronista occidentale a morire in Siria dall'inizio delle proteste dieci mesi fa, Jacquier, 43 anni, era giunto in Siria qualche giorno fa, su invito delle autorità di Damasco.
Più parti hanno condannato l'accaduto. Usa e Onu «deplorano». Il ministro degli esteri francese Alain Juppè ha chiesto che venga fatta piena luce sulla morte di Jacquier, ucciso assieme a sette civili da colpi di mortaio, o forse da un razzo «Rpg», sparati contro un edificio e che hanno ferito un altro reporter, Steven Wassenaar (olandese) e 24 persone. Juppé ha puntato l'indice contro il regime ma i primi indizi portano alla direzione opposta, ossia ai disertori del cosiddetto «Esercito siriano libero» che da qualche settimana affrontano in modo aperto le forze armate lealiste. 
A quanto si è saputo il giornalista di France 2 è stato colpito mentre stava visitando Akrama e Al-Nouzha, due quartieri di Homs fedeli a Bashar Assad, dove si stava svolgendo una manifestazione a sostegno del presidente siriano. Un testimone, citato dalla agenzia britannica Reuters, ha detto che ad uccidere Jacquier è stato un razzo «Rpg» sparato durante il corteo pro-Assad. Più completo il resoconto fatto da un fotografo dell'agenzia Afp che ha parlato di tre colpi. «Una granata è caduta su un edificio, quando stavamo intervistando i manifestanti pro-Assad», ha detto il fotografo «allora siamo saliti sul tetto, ho visto un morto e ho iniziato a fotografarlo. Altri giornalisti invece sono scesi a vedere cosa accadeva (in strada). Quelli che sono andati fuori dall'edificio hanno ricevuto in pieno una granata. Scendendo, ho visto Gilles che giaceva in una pozza di sangue». La televisione di stato siriana poco dopo ha accusato un «gruppo terrorista» di aver sparato colpi contro «giornalisti stranieri impegnati in un incontro con cittadini vittime del terrorismo». Gli oppositori a Homs invece hanno attribuito tutte le responsabilità al regime di Assad.
L'accaduto ha reso ancora più teso il quadro della situazione mentre avanza tra molte difficoltà la missione degli osservatori inviati dalla Lega araba e arrivato in Siria il 26 dicembre. Il team è soggetto a forti pressioni, da parte delle autorità e delle opposizioni. A sorpresa un osservatore algerino Anwar Malek ha sospeso il suo incarico e ha subito lasciato la Siria. Ma non ha raggiunto la sede della Lega araba al Cairo per presentare il suo rapporto. Malek invece è andato a Doha ed è apparso negli studi della tv al Jazeera dove ha accusato le autorità siriane di aver deviato appositamente il loro convoglio, due giorni fa, lungo la strada Homs-Damasco, per esporlo a un attacco armato ma non ha fornito elementi concreti a sostegno di questa tesi. «Durante la missione mi sono sentito come se difendessi il regime» ha affermato Malek «ho capito che non appartenevo a nessuna missione indipendente di monitoraggio della situazione, che stavo dando al regime ulteriore tempo per uccidere e che non avevo possibilità di fermare le uccisioni».
Frasi simili a quelle che da giorni pronunciano i rappresentanti dell'opposizione siriana che auspicano la fine (o il fallimento) della missione dei monitors della Lega araba per portare la Siria sul tavolo del Consiglio di sicurezza dell'Onu ed ottenere un voto a favore di un intervento militare internazionale contro Bashar Assad, simile a quello contro Muammar Ghaddafi in Libia. «C'è ora bisogno di un chiaro e deciso intervento del Consiglio di sicurezza Onu», ha detto ieri a Berlino Steffen Seibert, portavoce della cancelliera Angela Merkel.
Nel conflitto mediatico in corso, parallelo a quello armato nelle strade, il regime continua a fare la sua parte. Ieri Bashar Assad è apparso in pubblico a Damasco per rassicurare i suoi sostenitori. «State tranquilli. Siamo alla fase finale e la Siria sconfiggerà il complotto», ha detto in diretta davanti alle telecamere della televisione di stato. Ma sul terreno lo spargimento di sangue continua e le opposizioni denunciano che la repressione attuata dalle forze di sicurezza avrebbe fatto oltre 400 morti da quando è cominciata la missione degli osservatori della Lega araba.

Michele Giorgio

giovedì 5 gennaio 2012

LO SPREAD PIU' GRAVE DI CUI SOFFRE L'ITALIA




Da qualche mese è diventato di uso comune e di moda il termine "Spread", parola inglese che serve a definire il divario esistente tra due entità: in particolare lo spread a cui si fa riferimento in questa fase di grave crisi economica, che, per l'insipienza irresponsabile del governo Berlusconi e per la pochezza delle forze politiche italiane, ha condotto l'Italia sull'abisso di una crisi rovinosa grave quanto una guerra, è la forbice esistente tra i buoni del tesoro tedeschi (Bond) e quelli italiani.
Nessuno ha pensato che lo spread più grave riguardante il nostro paese è quello che esiste tra il livello medio della civiltà europea (fa eccezione l'Ungheria che sta scivolando verso un regime di tipo fascista) e il livello medio di inciviltà italiana, di cui la xenofobia, tradotta in leggi dello stato e in comportamenti delle istituzioni cosiddette democratiche, è il segno più evidente:
Solo in Italia esistono leggi (si fa per dire) che impongono agli immigrati soprusi che dovrebbero suscitare l'indignazione di ogni persona dotata di un minimo senso di umanità.
Caso limite è il balzello da 80 a 200 euro che ogni immigrato deve pagare per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno: una porcata di questo genere, tipica di personaggi come Calderoli, che in porcate sono pregevoli professionisti, non esiste e non è mai esistita in nessun paese d'Europa e del mondo che abbiano conosciuto estesi fenomeni di immigrazione.
Le restrizioni all'immigrazione nel nostro paese furono a suo tempo motivate dalle bande leghiste e forzeitaliote  con la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini dalle orbe  degli immigrati. Si è visto a quali risultati hanno portato le imprese legislative dei leghisti e alleati: negli ultimi 2 anni la cronaca italiana registra centinaia di morti ammazzati, assassinii, stupri, rapine a mano armata. L'aspetto grottesco della questione sta nel fatto che capita a chi come me ha abbracciato l'Islam di sentirsi interpellare da qualche energumeno di stirpe berica con espressioni tipo "Ti che te ghé abbraccià l'Islam te si in compagnia de quei che coppa e donne": negli ultimi 3 anni in Italia circa 400 donne sono state assassinate dai mariti, dai fidanzati, dagli amanti, da aspiranti violentatori tutti o quasi di nazionalità italiana e di presumibile religione cattolica.
L'aspetto grave della questione sta nel fatto che la Lega e i leghisti sono i germi infettivi attivi del fenomeno razzista, ma se si scava in giro si scopre che il morbo barbarico si insinua in maniera più o meno appariscente nella generalità delle persone, anche se assume forme mascherate che trovano riscontro nella sistematica ignoranza anche nella stampa più "nobile": un giornale campione di "democrazia" non si è vergognato di tradurre l'espressione araba "Sharia" con le parole "Guerra Santa". Sono di uso comune i termini "islamico", "islamista", "fondamentalista" e simili per definire i musulmani.
Che siano razzisti confessi personaggi spregevoli come i dirigenti della Lega non può meravigliare: il razzismo più becero è il loro programma politico insieme alle idiozie sul cosiddetto federalismo e sulla Padania. Ma che rigurgiti più o meno razzisti si manifestino anche in partiti politici che si autodefiniscono di sinistra come ad esempio l'Italia dei Valori diretta dal "letterato" Antonio di Pietro, è circostanza certamente inquietante perché sta a significare che il populismo è un morbo molto più diffuso di quello che si pensa. Probabilmente a favorire il contagio è l'ignoranza crassa che caratterizza la cosiddetta gente.
La vicenda della moschea di Genova contro la quale i prodi seguaci dell'ex P.M. di Tangentopoli si sono caratterizzati allineandosi con i leghisti pronti a cortei e gloriose imprese da crociati, è sotto questo profilo estremamente significativa, anche perché si verifica nella città di Fabrizio de André, grande appassionato cantore delle civiltà mediterranee e autore di canzoni come "Sidun" (dedicata a un bambino palestinese ammazzato dai caccia israeliani), o come Giamilah (una prostituta algerina presentata come una antica divinità che ricorda Astarte e le dispensatrici di amore e di piacere).
Vorrei anche richiamare una circostanza che è sfuggita ai più: all'indomani del massacro dei musulmani senegalesi a Firenze tutti hanno fatto a gara nella retorica della grande manifestazione di solidarietà anti razzista di cui avrebbe dato prova la cittadinanza di Firenze. Tutte balle. A onorare le vittime del nazifascista seguace di Julius Evola, c'erano presenti al funerale circa 10 mila persone di cui 9000 senegalesi. I fiorentini saranno stati poco più di un migliaio, su una popolazione di 350 mila abitanti. Un pò pochini per parlare di "Corale "NO" al razzismo".

IRAN





LIBIA




TUNISIA

mercoledì 4 gennaio 2012

IRAN

L´Iran sfida le sanzioni di Obama testato un missile "invisibile"

"Haaretz": conflitto probabile prima delle elezioni Usa   Il segretario alla Difesa Panetta ha
ammesso: "Se dobbiamo farlo lo faremo"  Teheran ha anche ostentato la prima barra "fatta in
casa" di uranio arricchito         Provocazione dopo provocazione, il conflitto tra Iran e Occidente
si aggrava ogni giorno e già c´è chi specula dalla data di un futuro conflitto: tra nove mesi,
scrive un commentatore su Haaretz, poco prima delle elezioni americane, quando l´Iran
raggiungerà quella che il ministro della Difesa israeliano Barak ha definito la "zona d´immunità",
oltre la quale l´acquisizione della bomba atomica non potrà essere più fermata. Il Segretario alla
Difesa Usa Panetta ha ammesso: «Se dobbiamo farlo lo faremo».  Per ora si misurano le forze
nel Golfo persico. Teheran ieri ha testato un nuovo missile terra-aria capace di colpire gli aerei
rendendosi invisibile alle loro apparecchiature elettroniche e ha ostentato la prima barra "fatta in
casa" di uranio arricchito al 20 per cento (con cui alimenterà il piccolo reattore sperimentale di
Teheran). Tutto questo poche ore dopo che Obama dalla sua vacanza alle Hawai firmava le
nuove sanzioni che colpiscono la Banca centrale iraniana, e che veniva annunciata una nuova
vendita di armi americane nel Golfo (dopo gli 84 jet da combattimento venduti all´Arabia
Saudita, gli Emirati hanno comprato dagli Usa un sistema antimissile per 3,5 miliardi di dollari).
La Banca centrale iraniana era rimasta l´unico strumento del regime per aggirare le sanzioni
finanziarie e ricevere i pagamenti delle esportazioni di petrolio e l´Iran aveva minacciato di
bloccare lo stretto di Hormuz nel caso di nuove sanzioni.  «Alle minacce risponderemo con le
minacce», aveva detto il leader Khamenei, e il vicepresidente Rahimi aveva avvertito che
«nemmeno una goccia di petrolio» sarebbe più passata dal Golfo Persico, mandando alle stelle
il prezzo del petrolio e provocando così il collasso dell´economia mondiale già provata dalla crisi
finanziaria. In effetti il prezzo del petrolio è subito salito, e secondo molti esperti è questo, per il
momento, l´obiettivo delle provocazioni iraniane: far salire il prezzo del petrolio per fare cassa e
bilanciare le conseguenze delle sanzioni.  Dopo la firma di Obama sulle nuove sanzioni (che
colpiscono anche le banche non americane che abbiano relazioni con la Banca centrale
iraniana) ieri anche il presidente Ahmadinejad ha fatto sentire la sua voce. «Teheran non si
piegherà alle pressioni dei nemici», ha scritto in una lettera alla Banca centrale pubblicata dal
suo sito web. «Dobbiamo difendere la nazione ai complotti dei nemici», ha affermato, pur
aggiungendo che l´economia iraniana è in buona salute e non ha «nessun problema».
Ahmadinejad era stato insolitamente silenzioso da quando erano cominciate le manovre della
Marina iraniana nello Stretto destinate a simulare, come aveva detto il comandante dei
Pasdaran, «una situazione di guerra». Simulare o preparare, non era chiaro.  Allo stesso tempo
però da Teheran sono arrivati anche segnali concilianti. Il capo negoziatore del dossier nucleare
Said Jalili e il ministro degli Esteri Salehi hanno detto che il governo iraniano è pronto a
riprendere il negoziato sul nucleare, congelato da quasi un anno; e l´ammiraglio Mahmud
Moussavi ha annunciato alla tv iraniana che il test missilistico sarebbe stato rinviato (è invece
avvenuto con un solo giorno di ritardo). Da tutti i centri del potere iraniano - inclusi sempre più
frequentemente anche i Pasdaran che sono ormai diventati, oltre che un esercito, un
potentissimo conglomerato finanziario - arrivano segnali contraddittori. Gli iraniani, in patria e
all´estero, lanciano messaggi a Obama perché torni a negoziare. Pensano che un attacco
americano o israeliano potrebbe essere quello che serve al regime, come accadde con Saddam
negli Anni ‘80. Qualsiasi azione militare potrebbe rinviare per anni un processo di cambiamento
della Repubblica islamica dall´interno, mentre il regime è sempre più alle strette tra divisioni
interne e la prospettiva di non poter riportare gli iraniani alle urne il prossimo marzo. I riformatori
- non solo Moussavi e Karroubi dagli arresti domiciliari, ma anche il moderato Rafsanjani -
hanno chiesto agli iraniani di boicottare il voto.


Vanna Vannuccini



L´Iran: "Niente portaerei Usa nel Golfo o agiremo"

Le esercitazioni della Marina militare iraniana nel Golfo persico sono terminate, ma il braccio di ferro con l´Occidente continua. L´Iran ha minacciato di "agire" nel caso che gli Stati Uniti rimandino nel Golfo Persico una portaerei, come era avvenuto in questi giorni. «La portaerei americana è stata trasferita nel Golfo dell´Oman e raccomando vivamente che non torni indietro. Se lo facesse agiremo. E non lo ripeteremo due volte» ha detto il generale Salehi, comandante delle Forze armate di Teheran. È la dichiarazione più aggressiva dopo settimane di provocazioni e minacce cominciate dopo l´annuncio di nuove sanzioni americane ed europee. Puntualmente un portavoce della Difesa americana ha ribattuto che il dispiegamento della marina nel Golfo continuerà: «Si tratta di movimenti programmati per la stabilità della regione». Ma poi il Pentagono ha moderato i toni: «Il nostro interesse è garantire la sicurezza del traffico marittimo, ma nessuno cerca lo scontro su Hormuz. È importante abbassare la temperatura».
Dopo anni di sanzioni morbide, che il regime iraniano ha aggirato senza difficoltà, il provvedimento firmato da Obama il 31 dicembre mette in gioco per la prima volta sanzioni che possono paralizzare l´economia iraniana. L´Iran non esporterebbe più petrolio (che costituisce il 70 per cento dell´export): un blocco dello Stretto di Hormuz alla rovescia. Le nuove sanzioni colpiscono infatti tutte le istituzioni finanziarie che abbiano rapporti con la Banca centrale iraniana, attraverso cui passava ormai il denaro pagato per il petrolio iraniano dai Paesi importatori. In due giorni la moneta iraniana, il rial, è crollato: ce ne vogliono 16.000 per comprare un dollaro, fino a ieri ne bastavano 11.600. A Teheran si sono viste code davanti alle banche per comprare dollari, ma le banche non vendono più valuta. Perfino la Cina, il maggiore acquirente di petrolio iraniano e contraria alle nuove sanzioni, ha ridotto di quasi la metà le sue importazioni di petrolio iraniano sostituendolo con quello russo e vietnamita (e chiedendo all´Iran sconti per quello che continua a comprare).
Il pericolo maggiore è che accanto alla retorica belligerante non ci sia l´ombra di un´azione diplomatica, mai come oggi indispensabile, dice Trita Parsi, presidente dell´Associazione degli iraniani americani e firmatario di un appello a negoziare rivolto a Obama da numerosi esperti e diplomatici: una richiesta utopica nell´attuale campagna elettorale americana. Mentre la Marina sparava missili nel Golfo, esponenti del governo iraniano hanno rilanciato i negoziati con la Ue sul nucleare, interrotti un anno fa, ma l´Ue ha ribattuto che aspetta la risposta a una lettera inviata agli iraniani. Alain Juppé ha chiesto all´Europa di allinearsi con le sanzioni americane (la decisione europea è attesa a fine mese) e gli Usa hanno cominciato a riarmare i Paesi arabi amici, o comunque nemici del nemico.
La situazione può sfuggire di mano anche a causa delle crescenti tensioni politiche interne al regime, provocate da una lotta senza quartiere tra fautori del Leader supremo Khamenei (primo fra tutti il comandante dei Pasdaran Qassem Suleimani) e sostenitori di Ahmadinejad (che sembra aver perso terreno negli ultimi mesi), mentre si preparano le legislative che il regime considera una prova della propria legittimità. Ieri Faezeh Rafsanjani, figlia dell´ex presidente ed ex deputata che nel 2009 era stata vicina ai riformatori, è stata condannata "per propaganda contro il regime" a sei mesi di carcere e al divieto di attività politica per cinque anni. Il giorno prima il sito web del padre era stato bloccato dal regime, una misura impensabile fino a poco fa. Il boicottaggio delle elezioni (auspicato dai riformatori) sarà considerato un reato penale, ha detto la magistratura, mentre i Pasdaran hanno annunciato che anche loro, dopo la Marina, daranno il via a esercitazioni nel Golfo.

Vanna Vannuccini