Egitto, Morsi sfida l'esercito licenziato il capo dei militari
GERUSALEMME - Il braccio di ferro tra il presidente egiziano Mohammed Morsi e la giunta militare è arrivato a un passaggio cruciale: in un gesto plateale, Morsi liquida, nientemeno, il generale Hussein Tantawi, il leader della giunta, il simbolo di un passato che il nuovo raìs sembra voler azzerare assieme al dominio militare esercitato per oltre un sessantennio sulla società egiziana. Tantawi era stato da poco nominato ministro della Difesa. Assieme a lui, Morsi licenzia un altro degli "eterni generali": Sami Enan, ex capo delle Forze armate. Lo fa una settimana appena dopo l'attacco a una stazione di polizia nel Sinai, con l'intervento dell'aviazione israeliana e la morte di 16 soldati. Quell'operazione era già costata il posto al ministro dell'Interno, incapace, secondo il presidente, d'aver scongiurato l'attentato nonostante gli avvertimenti dell'Intelligence israeliana.
Già una volta Morsi aveva sfidato la classe militare, quando aveva riunito il Parlamento dissolto per decreto dai generali. In quel caso, la Corte giudiziaria gli aveva bloccato il passo. Aveva ribadito la riduzione dei poteri presidenziali decisa per decreto dalla giunta pochi giorni prima dell'insediamento del rais: lo svuotamento dei suoi poteri, legislativi, finanziari, costituzionali. Ieri il presidente ha azzerato anche quegli emendamenti. Che i rapporti fra il nuovo potere guidato dai Fratelli musulmani, e il regime rimasto ai vertici delle istituzioni dello Stato, si fossero fatti incandescenti era evidente dalla sfida lanciata a Morsi dallo stesso Tantawi. «L'Egitto non cadrà mai», aveva assicurato al segretario di Stato Hillary Clinton in visita al Cairo. «Appartiene a tutti gli egiziani, nona un gruppo specifico...». Cosa intendesse davvero il capo del Consiglio supremo, era chiaro a tutti: il "gruppo specifico" erano i Fratelli musulmani. Tantawi e Enan, deposti dal loro incarico, ora figurano come "nuovi consiglieri" della presidenza. Al loro posto, si avvicendano due rappresentanti della giunta: il generale Abdellatif Sisi alla Difesa, e Sidki Sobhi a capo delle Forze armate.
Non si può dire quali conseguenze avrà l'accelerazione di Morsi. Da un lato, il raìs non può fare a meno della collaborazione dell'esercito.
Il Sinai ieri era di nuovo teatro di volenti scontri, mentre colonne di mezzi blindatie centinaia di soldati continuano ad affluire nel Nord, verso la frontiera con Israele. Uno scontro a fuoco nel villaggio di alGoura ha fatto altri sette morti.
L'emergenza nel Sinai, la prima "prova del fuoco" per Morsi, tuttavia non mette a tacere le critiche indirizzate al suo governo. In particolare, la stampa egiziana è in agitazione da quando alcuni giornali indipendenti sono stati messi sotto inchiesta con l'accusa "d'incitare alla sedizione" e d'avere vilipeso la figura del presidente. Pochi giorni fa, per gli stessi motivi, sono state bloccate le trasmissioni del canale satellitare Al-Faraeen. Un coro di dissensi ha accompagnato anche le nuove nomine nei media controllati dallo Stato: «Tutti nomi presi dai ranghi dell'Ikhwan, la Fratellanza», protesta la stampa laica, «nel tentativo di islamizzare lo Stato». Il presidente Morsi ha aperto più di un fronte di battaglia.
Nel Sinai, come nel Paese.
Alix Van Buren
Il golpe di velluto
di Morsi l'egiziano
LA PRIMAVERA araba, versione egiziana, conosce una nuova, sorprendente fase. Muhammad Morsi era fino a pochi giorni fa un presidente dimezzato. Infatti, nonostante l'elezione al suffragio universale, era relegato in un angolo, privo di reali poteri, dagli onnipotenti generali del Supremo Consiglio delle Forze armate (Scaf). Oggi è un capo dello Stato con ampi, anzi illimitate prerogative, in quanto non precisate da una Costituzione. La quale non esiste. È ancora da scrivere. Non si sa neppure con esattezza quanto debba durare il mandato presidenziale.
Ieri Morsi era un leader più dignitoso del previsto, è vero, più deciso a farsi valere di quanto si pensasse, ma prigioniero di una situazione umiliante, senza via d'uscita. Adesso preoccupa per i troppi poteri senza controllo di cui dispone. In un processo rivoluzionario le regole, le procedure contano poco, vengono stravolte. Esistono per essere violate. E gli effetti dell'insurrezione di piazza Tahrir, esplosa nell'inverno del 2011, si sono tutt'altro che spenti. Se non proprio inaspettati, sono singolari. Provano che la transizione continua.
Senza colpo ferire, come dotato di una bacchetta magica, il borghese disarmato Morsi, un tecnocrate, ha mandato in pensione i principali componenti dello Scaf, li ha decorati (non senza ironia) con il Collare del Nilo, la più alta onorificenza egiziana, li ha declassati a consiglieri ben retribuiti, compiendo quel che è in apparenza un vero colpo di Stato. Non violento. Soffice. Ma vistoso.
Non ci si aspettava un'azione tanto decisa, audace, da un notabile giudicato di seconda mano. La stessa Confraternita dei Fratelli Musulmani, di cui fa parte, l'aveva scelto come un candidato di ripiego alle presidenziali. Invece soldati prestigiosi, ritenuti inamovibili, hanno accettato senza fiatare le sue decisioni. Il Feldmaresciallo Muhammad Tantaui, da anni ministro della difesa e di fatto l'uomo forte del Paese, dopo la destituzione di Hosni Mubarak, del quale era stato un devoto subordinato, non ha battuto ciglio. Ha chinato la testa e ha abbandonato la carica che sembrava dovesse incarnare fino alla morte. E insieme a lui si sono ritirati senza protestare tanti altri generali, dal capo dello Stato maggiore ai comandanti delle varie armi.
In sostanza l'intoccabile Supremo Consiglio delle Forze armate è stato cancellato. Non esiste più. Morsi ha ottenuto quel che gli insorti di piazza Tahrir hanno chiesto invano per settimane, per mesi, pagando la protesta con decine di morti. Il presidente ne ha ereditato anche i poteri, poiché si è dichiarato comandante supremo delle Forze armate, e ha abolito la decisione con la quale i militari si erano arrogati il diritto di rivedere, di correggere la nuova Costituzione, ancora da redigere. E nessuno tra i militari ha finora fiatato. Sopravvive soltanto una Corte suprema, che funziona da Corte costituzionale basandosi sulle volontà dei militari dai quali è stata nominata.
I militari però non si sono volatilizzati come i vecchi generali mandati in pensione. La bacchetta magica che ha consentito a Muhammad Morsi di sbarazzarsi senza colpo ferire del soffocante Supremo Consiglio delle Forze armate, in sostanza della giunta militare, è stata l'alleanza, l'intesa, con i generali più giovani, con la nuova generazione di militari impaziente di scalzare la vecchia, ormai giudicata bolsa, inefficiente. Insomma c'è stato un cambio della guardia. Il quale è avvenuto attraverso una trattativa tra i giovani generali e i Fratelli musulmani, principale forza politica nel Paese. Il processo di transizione dunque continua, a tappe.
Per placare piazza Tahrir i vecchi generali hanno destituito Hosni Mubarak, l'hanno mandato in prigione e davanti a un tribunale, garantendogli la vita salva. E adesso i giovani ufficiali hanno mandato in pensione con onori e prebende i loro superiori, per risolvere il conflitto di potere tra il presidente, rappresentante dei Fratelli musulmani, e la vecchia giunta militare. Il pretesto è stato offerto dagli scontri nel Sinai, dove le bande che lo percorrono hanno ucciso giorni fa diciassette soldati egiziani. L'inefficienza dei comandi è stata scaricata sui vecchi generali, in età di pensione.
I giovani generali avevano bisogno della legittima autorità del presidente eletto al suffragio universale per esautorare i loro superiori. E avevano l'appoggio, non tanto discreto, degli americani, per i quali l'esercito egiziano è una pedina essenziale in Medio Oriente, in quanto garante degli accordi di Camp David (1979), e quindi della pace tra l'Egitto, principale Paese arabo, e Israele. Un esercito che costa agli Stati Uniti un miliardo e trecento milioni di dollari l'anno, senza contare l'altro miliardo garantito allo Stato egiziano. Nel corso delle recenti visite al Cairo, il segretario di Stato, Hillary Clinton, e il capo del Pentagono, Leon Panetta, hanno certo fatto notare quanto stesse diventando insostenibile la spaccatura del potere, tra la giunta militare e il presidente, tra esercito e Fratelli musulmani. I loro interventi hanno affrettato il cambio della guardia, favorito anche dalla stanchezza dei vecchi generali e dall'ansia dei giovani di prendere il loro posto.
Il successo di Muhammad Morsi si riverbera inevitabilmente sui Fratelli musulmani, che adesso possono sperare di esercitare il potere senza i veti dei militari. Quest'ultimi, come risulta con chiarezza dalle dichiarazioni distensive del presidente, non rischiano di perdere i privilegi acquisiti nei sessant'anni in cui la società militare si è imposta in Egitto. Per la prima volta il capo dello Stato non è uno di loro, ma il borghese Morsi non mette in discussione gli interessi economici della Forze Armate (industrie, ospedali, alberghi, raffinerie..), che dovrebbero aggirarsi sul dieci per cento del Pil. Forse più.
I rischiosi problemi della transizione restano tuttavia da risolvere. Morsi ha conquistato negli ultimi giorni poteri quasi dittatoriali e resta un'incognita l'uso che ne farà. Si tratta anzitutto di scrivere la nuova Costituzione, la quale dovrà essere approvata da un referendum, destinato ad aprire la strada a nuove elezioni legislative (dopo che la Corte suprema ha invalidato quelle tenute nel corso dell'anno). Insomma il presidente dovrà legittimare i suoi poteri. Non può diventare un raìs. Piazza Tahrir potrebbe riaccendersi. Non può essere un altro Mubarak. Ma quale sarà il suo profilo politico? Altro capitolo è la disastrosa situazione economica, sulla quale i Fratelli musulmani, ormai pienamente al governo, subiranno il primo decisivo esame.
Non pochi egiziani, forse la maggioranza, sono favorevoli a un ridimensionamento del ruolo dei militari. Ma molti li considerano un'utile barriera allo strapotere degli islamisti, anche se tra i nuovi generali non mancano i simpatizzanti dei Fratelli musulmani. Tra una settimana, il 24 agosto, il presidente non più dimezzato, anzi con troppi poteri, dovrà comunque affrontare un grande rischio: una manifestazione di protesta è stata infatti indetta quel giorno dai nostalgici del vecchio regime, e quindi dei vecchi generali.
Bernardo Valli
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