giovedì 16 agosto 2012

SIRIA







Nell’inferno di Aleppo
“Ecco il massacro di Assad”

ALEPPO - I cadaveri che ingombrano le strade non li raccoglie più nessuno, neanche i combattenti più intrepidi osano farlo. Perciò, come provvisorio sudario, i morti di Aleppo devono accontentarsi della polvere che da giorni e giorni rende l'aria della città irrespirabile.

Tra le vittime, molte sono uomini delle brigate d'opposizione. Ma vediamo anche numerosi civili: una donna orrendamente sfigurata dalla scheggia di una granata, un anziano che sembra essersi addormentato tra due cumuli di calcinacci, il corpo disarticolato di un bimbo che, come un grottesco bambolotto, s'affaccia dal buco di una casa colpita da un carro armato. Pochi giorni fa, quando in tv proclamò che avrebbe ripulito la città dai "terroristi", il presidente siriano Bashar al Assad faceva sul serio. Salvo che, tra ciò che rimane dei quartieri sventrati dal fuoco dei suoi caccia, di "terroristi", magari ceceni o pachistani, non ce n'è neanche l'ombra. Questi corpi, ci dice Issam Mohammed, il comandante dell'Esercito siriano libero che ci accompagna, hanno tutti un nome, e appartengono tutti a ragazzi di Aleppo: "Ahmed, 22 anni, studente di informatica, Talah, 20 anni, panettiere, Khaled, 24 anni, ex poliziotto... ".

Entriamo in città alle prime luci dell'alba. La nostra visita precede di poco la ritirata degli insorti dalla loro roccaforte, il quartiere di Salaheddin, colpito da mercoledì scorso da un bombardamento violentissimo e ininterrotto dell'aviazione, i tank e i mortai delle forze lealiste. "La nostra è una ritirata strategica", dirà più tardi un generale del braccio armato dell'opposizione. Ma è difficile credergli, vista la quantità di piombo che su questa porzione della città continua a piovere.

Il risultato dell'offensiva del regime di Damasco, o piuttosto della sua feroce repressione, ricorda altre, apocalittiche distruzioni, quelle di spaventosi terremoti o di tsunami. Tra palazzi scapitozzati o ampiamente mutilati dagli obici del regime fuoriesce di tutto: televisori, letti, credenze, cucine, valige, abiti, tinozze. E cadaveri, ovviamente. "Ma quante bombe può assorbire una città come questa? Quante tonnellate di proiettili servono per cancellarla dalle mappe?", mi chiede il comandante Mohammed. Il pezzo di cielo giallognolo che si staglia tra le rovine delle case è improvvisamente rigato dal passaggio di un Mig. Vola sorprendentemente basso. È nero, grifagno, veloce come un insetto impazzito. Le sue bombe le sgancia però su un altro quartiere, non lontano da dove siamo appostati noi. Esplodendo provocano una deflagrazione sorda e potente, ogni volta seguita dagli scaramantici "Allah akbar" dei combattenti che mi circondano. La base militare che saranno costretti ad abbandonare dopo poche ore è nel seminterrato di un palazzo miracolosamente ancora intatto. Ospita una trentina di uomini. Alcuni dormono un sonno così profondo che neanche le bombe li disturbano. Molti sono giovanissimi e ricordano i loro coetanei di Bengasi, quelli che nel febbraio dell'anno scorso si fecero i protagonisti della "primavera" libica.

I siriani, tuttavia, pur essendo anch'essi ignoranti in fatto di strategia militare e altrettanto impreparati all'uso delle armi, sembrano avere una consapevolezza diversa. Non ostentano, come invece facevano i bengasini, la vocazione al martirio. Si direbbe che questi portino con più fatica il peso della loro missione. Prima di organizzare il loro ripiegamento "strategico", il comandante vuole assicurarsi che qualcuno mi riaccompagni fuori città. Gli insorti devono occuparsi anche di sgomberare i civili che sono ancora intrappolati tra quelle rovine. Da un portone sbuca un combattente con il kalashnikov a tracollo che porta sulle spalle un uomo grasso e visibilmente sofferente. Altri insorti evacuano altrove i feriti di precedenti bombardamenti, alcuni direttamente sul loro materasso.

Arrivando in periferia di Aleppo incrociamo gli sfollati più recenti, quelli che hanno resistito fino ad oggi, ma che l'infittirsi delle granate o l'assoluta mancanza di cibo e di acqua o ancora la puzza delle fogne sfondate hanno finalmente costretto alla fuga. È incredibile costatare quante famiglie abbiano vissuto fino ad ora l'incubo della guerra, quante donne e quanti bambini erano rimasti nei quartieri che il regime bombarda ciecamente dal 20 luglio scorso.

I primi villaggi che attraversiamo sulla strada che ci riporta verso il confine turco, forse per evitare che diventassero preziose retrovie per l'Esercito libero siriano, sono stati anch'essi rasi al suolo dall'aviazione delle forze fedeli ad Assad. Nei campi che li circondano, così come vicino alle fattorie o al centro degli abitati, scorgiamo quei crateri che, fotografati dal satellite, avevano pochi giorni fa provocato la denuncia di Amnesty International sulla brutalità degli scontri in corso.

Ci fermiamo in una cittadina a trenta chilometri dal centro di Aleppo. Troviamo distruzione anche qui. Un commerciante ci dice che tutti i pomeriggi, dopo le cinque, l'esercito lealista la bersaglia con colpi di mortaio. Un ragazzetto che mastica due parole d'inglese, e che per questo s'improvvisa addetto stampa degli insorti, mi trascina in un ospedale che da giorni, sostiene, dovrebbe servire a smistare i malati. È appena arrivata una macchina con tre feriti gravi, per i quali mancano letti, sangue e farmaci. Quando ci rimettiamo in cammino verso la Turchia il traffico degli sfollati s'è infoltito. Sono civili che fuggono su camioncini, auto, pullman. Portano con loro coperte, taniche d'olio e cibo in conserva da poter rivendere oltre confine.

La maggior parte di questi fuggiaschi sono donne e bambini, perché i loro mariti e i loro padri hanno preferito rimanere a combattere o a difendere quel che resta delle loro case. A sera, il bilancio stilato dalle organizzazioni umanitarie parla di 92 morti nella sola giornata di ieri. Ma questa guerra dura da troppo tempo perché si faccia menzione anche dei feriti, dei bimbi traumatizzati e delle madri impazzite dal dolore.


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