Massacro alle porte di Damasco donne e bambini nelle fosse comuni
A Daraya oltre 300 vittime tra i civili, regime e ribelli si accusano a vicenda
L’IMMAGINE della Madonna di Daraya, la mamma inginocchiata a terra, il suo corpo a far da scudo al figlioletto, il suo grembo a fargli da tomba, è da ieri l’icona della guerra siriana. Entra nell’immaginario universale delle sporche guerre, appaiata alla Madonna di Algeri, lo strazio di una donna dopo il massacro a Bentalha nel 1997. Pochi fotogrammi più di quello riassumono la cruda insensatezza della strage consumata nella cittàsatellite alla periferia di Damasco. Una Pompei contemporanea: 320 corpi umani fissati nell’attimo in cui li ha colti la morte: la testa di un anziano penzola dal finestrino del furgone, colpito mentre era alla guida. Poco distante, un uomo ha il piede ancora sul pedale della bicicletta. Una famigliola — moglie, marito, due figli — è accatastata fuori dell’ingresso di un negozio. Una giovane ha la guancia posata sul gradino di una tomba, nel vano riparo di un cimitero. La nonna, ferita, non sa dire «chi è stato, né da dove hanno sparato». File di uomini sono sfigurati dai colpi. Tutto restituisce la rappresentazione impietosa di un’umanità: centinaia di adulti, vecchi, donne, bambini, falciati, a volte giustiziati, senza che alcuno possa aggiudicarsi la vittoria. E allineati in fosse comuni scavate alla porte della città.
S’incrudelisce anche la propaganda da entrambe le parti. Governo e militanti si addebitano l’un l’altro la responsabilità. La tv di Stato denuncia l’atrocità «perpetrata dall’Esercito libero siriano e dagli islamisti di Al Qaeda». Gli attivisti gridano all’«ennesima barbarie del regime». L’opposizione si appropria di un filmato di Addounia, il canale indipendente filogovernativo, censurando le voci dei sopravvissuti con le note di un Requiem.
Come in passato, è probabile che anche per Daraya non si riesca a stabilire la verità. Nessuna organizzazione indipendente è rimasta sul terreno a indagare. Del resto, ancor prima della partenza dei caschi blu dell’Onu, Daraya era un territorio esclusivo dei miliziani. L’accesso era stato impedito anche agli osservatori di Kofi Annan, respinti a colpi d’arma da fuoco assieme a una troupe televisiva straniera. Sotto il controllo di tre brigate sostenute da parte della popolazione locale, il sobborgo era da settimane la Bab Amra di Damasco, dal nome del quartiere ribelle di Homs, la città martire al centro del Paese.
Le brigate di Sa’ad Ben Abi Waqass e di al-Faiha e gruppi di combattenti ne avevano fatto una roccaforte, appostati anche ad al-Basateen, i campi e i frutteti da cui era facile colpire coi razzi l’aeroporto militare di Mezzeh. A sua volta, l’esercito ha ricordato che è disposto a impiegare ogni mezzo per riprendere
il controllo delle città. Centinaia di soldati, decine di carri armati e blindati, elicotteri e caccia hanno guidato per cinque giorni l’“offensiva finale”.
Sullo sfondo, il presidente Assad torna a parlare di «complotto ai danni della Siria e dell’intera regione. Il popolo siriano lo impedirà », dice. «Non importa a che prezzo». Al suo fianco compare il vicepresidente Farouk Sha’ara, mettendo a tacere le voci di una sua fuga in Giordania. Tuttavia, quale sia il costo, pesantissimo alla soglia dei 20mila morti in un anno e mezzo, è un interrogativo che tormenta la popolazione, schiacciata fra due fronti che vanno radicalizzandosi. Mentre continuano a infuriare gli scontri a Sud di Aleppo, a Dera’a e nel Nord a Deir Ez Zor, il malumore si fa sentire anche fra i rivoluzionari: tanto più dopo la ritirata dei ribelli venerdì anche da Daraya, lasciando i civili nel fuoco incrociato. Edward, militante di Aleppo, esprime quel che si ascolta più spesso: «La gente di Damasco e di Aleppo comincia a detestare entrambe le parti: seminano tutte e due distruzione gratuita, senza riguardo per la vita dei civili». I metodi dei ribelli, la presenza di stranieri nei loro ranghi, le distruzioni alla Cittadella di Aleppo, alienano in parte il sostegno ai miliziani. Sull’altra sponda, l’uso sproporzionato della forza da parte del regime, allontana i lealisti. «Incolpate quanto vi pare l’Esercito libero», ribatte un attivista, «ma non scordate chi e cosa lo ha creato ». E un altro: «Prima di schierarvi pro o contro, pensate ai civili, ai bambini che stanno morendo».
Dall’estero, gli osservatori avanzano i primi dubbi, prospettano il rischio che i miliziani stiano perdendo la “battaglia per il cuore e le menti della gente comune”. Emile Hokayem, dell’Istituto londinese di studi strategici, conclude che i ribelli hanno alzato troppo la mira portando la battaglia nelle città. «All’inizio, la loro strategia era ragionevole: una guerra d’attrito in linea con le loro capacità», dice all’Economist. «Colpivano strade, avamposti militari, consolidando il controllo delle aree rurali da cui il regime s’era ritirato. Poi si sono dati il progetto di “liberare” le città, consapevoli di non esserne all’altezza». Ad ascoltare i siriani, la domanda esula dalle partigianerie: a che valgono i sacrifici di Daraya, di Damasco e Aleppo, se il risultato che si profila all’orizzonte, è un sanguinoso stallo.
Alix Van Buren
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