giovedì 2 agosto 2012

SIRIA

La caccia all’uomo degli insorti sulla strada che porta a Damasco “Qui non passate, vi uccidiamo”

DAMASCO — Nella Siria dilaniata da una guerra civile che sembra non finire mai, l’ultimo rischio è quello di una deriva fondamentalista e settaria. Lo dimostra anche un rustico check-point dei ribelli alle porte di Qusayr, verso Homs: dietro un filare di pioppi, due bidoni arrugginiti e un pneumatico nel mezzo bloccano la viuzza laterale. C’è aria di caccia all’uomo, in particolare di alawiti, la minoranza al potere. «Ruh!», forza, muovetevi, fuori! Strepita uno scugnizzo gesticolando con un AK-47 alto quasi quanto lui. Bisogna uscire dall’automobile. «Dove andate, chi siete, fuori la carta d’identità». All’ombra di un capanno sotto un tetto di foglie di palma, s’indovinano le sagome di una dozzina di adulti e dei caricatori a serpentina in terra. «Fermi qui, aspettate il capo». Spunta un uomo, barba lunga senza baffi, berretto calcato sulla fronte, maglietta nera sopra le brache mimetiche, Kalashnikov in spalla. Andiamo a Qusayr. «Perché?»: dai cristiani. «Siete Masihiyya, cristiani?». Elias, l’autista, conferma. «Non l’ho chiesto a te», abbaia quello. «Certificato di battesimo ». Elias balbetta che gli stranieri non lo portano con sé. Lui lo azzittisce col fucile in faccia. «Recita il Libro». Vorrà dire il Vangelo? Difficile ricordarlo, figurarsi in arabo. La catenina al collo ha l’immagine della Vergine. Non la riconosce. «Recita!». Nella mente si affastellano l’Ave Maria, i Dieci comandamenti. Bisogna mostrarsi calmi. Il Padre nostro, ecco, tante volte ascoltato in arabo:«Abana alladhi fi as Samawati…Padre nostro che sei nei cieli…». Funziona. Tocca a Elias. Dallo specchietto retrovisore della Honda, visibili dall’esterno, pendono un rosario con i grani bianchi di plastica, e una grossa croce di metallo. Per loro è un simbolo di comodo. Elias ha anche una croce tatuata all’interno dell’avambraccio, lunga dall’incavo del gomito al polso. «Sei druso, ismailita, alawita?», impreca il capo: «Gli alawiti sono senza Dio, infedeli peggio degli ebrei e dei cristiani». Gli tende un trabocchetto linguistico. Dove si combatte a Damasco? Elias esita: «Nel Rif», in campagna. «T’ho chiesto dove»: pretende il nome dei luoghi. Vuole fargli pronunciare Qaboun, con la “q” iniziale. Gli alawiti, infatti, la aspirano un po’ come i toscani. Elias supera l’esame. «Va bene, andate». Restituisce i documenti con una sfilza di improperi: «Tornate a Damasco e dite che adesso arriviamo, e tutti quelli che ci hanno voltato le spalle, e fra loro e gli alawiti non faremo differenza, li passeremo al tritacarne per darli in pasto ai cani». Sono parole già sentite nei deliranti sermoni di uno sceicco, Adnan al Arur, osannato dai ribelli nella regione di Homs e di Aleppo, trasmessi dalla Wesal tv, un canale saudita. «E tu», fissa gli occhi sullo straniero, «portati via i tuoi amici. Qualche cristiano di meno, tanto meglio».
D’improvviso Elias, coi suoi baffi pettinati e l’abbigliamento modesto, i sandali cuciti, sembra uscito da un’epoca diversa al cospetto dei barbuti con le Nike taroccate ai piedi. Figurante di un tempo, appena poco fa, quando alla Grande Moschea degli Omayyadi accanto al sacrario con la testa del Giovanni Battista si prostravano assieme sunniti, sciiti, cristiani. E la fonte battesimale era rimasta per il sacramento dei cristiani. Capitava di vedere il Gran Mufti Hassoun cedere il palco al Patriarca Isidoro, con questo saluto: «Io mi rispecchio in te. Tu sei dentro di me. Senza di te io non esisterei», in riferimento ai cristiani “fratelli maggiori”.
Il figlio del Mufti è stato ucciso lo scorso ottobre. Hassoun predica ancora la riconciliazione.
Ma ora s’ascolta un nuovo linguaggio. La geografia sociale scaturita dalla militarizzazione della rivolta rischia di frantumare il Paese in tribù: più s’avvicina lo scontro finale ad Aleppo, più si combatte nelle periferie, e più si sente distinguere fra sunniti, alawiti, drusi, cristiani, ismaeliti, kurdi, palestinesi. Affiorano nuove identità a sottolineare le rivalità: i baathisti, fedeli al governo, gli
Shwam, i damasceni accusati di non sostenere la rivolta, gli Umalaa, i traditori, i Mushriqiyyn ossia gli infedeli. Da un po’ s’aggiungono i “senza scarpe”, gli Abu Shahhata, padri delle ciabatte per indicare nella propaganda classista chi può permettersi soltanto le pantofole, la concentrazione della rivolta nelle zone rurali contrapposte alle città e alla media borghesia.
«Io», si stringe nelle spalle Elias, «vorrei dirmi semplicemente siriano, come fate voi italiani, i francesi, gli inglesi. C’è gente di ogni comunità fra oppositori e lealisti». Il buon autista esprime in parole più semplici quel che vanno ammonendo gi studiosi. Ad esempio Patrick Seale, occhiuto conoscitore di questo Paese: «Soltanto un cessate il fuoco, un negoziato e un governo nazionale che guidi la transizione eviterà questo incubo e la distruzione della Siria». Ma mentre torniamo in città, arriva il boato di quattro esplosioni dalle periferie di Mouadamiyeh e di Qaboun. Per ora, sul terreno, non c’è tregua: come Sansone alla battaglia decisiva, costi quel che costi.

Alix Van Buren


“Non basta cacciare il regime senza un vero cambiamento”

NEW YORK — L’uomo che combatteva con Albert Einstein per la pace guarda alla Siria e dall’alto della sua storia guarda ovviamente più in là. «Accadde lo stesso in Russia: la rivoluzione del 1905» dice Gene Sharp, 84 anni, il padre della Primavera Araba, l’uomo che la Cnn ha definito «l’incubo peggiore dei dittatori», il professore finito in galera a 30 anni per l’obiezione alla guerra di Corea, l’autore di veri e propri manuali (“198 metodi di azione non violenta”) che hanno ispirato le rivolte di mezzo mondo, dalla Serbia di Slobodan Milosevic all’Egitto di Hosni Mubarak. «Allora, nel 1905, l’esercito dello zar sparò sui soldati che avevano disertato. Un massacro. Ma poi a disertar furono gli stessi soldati che spararono sui disertori. Qui invece il grande errore dei militari in rivolta è stato di rivoltare le armi contro gli stessi compagni: dando il via a una guerra civile che il regime è stato pronto a schiacciare ».
Ma perché in Siria sembra tutto così più complicato?
«La prima difficoltà è nelle differenze etniche e nella natura del regime. C’è una lunga storia di crudeltà estrema e di massacri di centinaia di migliaia di persone: e ciononostante la protesta non violenta è andata avanti con straordinaria disciplina. Ma eccoci al secondo punto: non si aiuta la rivoluzione prendendo le armi, il regime ne ha sempre di più».
Qui in America crescono le critiche a Obama: sta lasciando affogare la Siria nel sangue. Perché il mondo non interviene come in Libia?
«Quell’intervento è stato un errore. Credete davvero che la Nato e
gli Usa abbiano salvato la popolazione? Le vittime in Libia sono state immense».
Scusi professore: ma lei crede davvero che i movimenti spontanei, da soli, possono far cadere regimi che lei stesso definisce sanguinari?
«Ma l’Arab Spring non è stato per niente un movimento spontaneo. Qui in Occidente abbiamo una falsa percezione ma lì la gente ha studiato, pianificato, s’è preparata per anni: altro che spontaneo. Ma sono battaglie che non si vincono all’istante. Richiedono tempo. Pianificazione».
Insomma un anno dopo e malgrado il caos dall’Egitto in giù lei pensa che l’Arab Spring resti un successo.
«Una conquista straordinaria: paragonabile alle battaglie dell’Europa dell’est, al successo della rivoluzione in Polonia, negli Stati baltici».
Quali rischi vede adesso?
«I soliti dei cambi di regime. Quelli che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: le élite militari che vogliono imporre il loro governo, per esempio. Per questo non basta ribaltare il regime: bisogna vigilare sostenere il cambiamento».
In un cable da Damasco trafugato da WikiLeaks si legge che la resistenza siriana studiava sui suoi testi: che contatti ha?
«Negli anni abbiamo ospitato diversi esponenti. Ma il centro Einstein non dà istruzioni e ogni paese è un caso a sé: non si può entrare nel merito di ogni singola lotta. Noi spingiamo all’azione: ma l’azione è loro».
Sulla Siria pesa l’incognita Iran. E di un intervento occidentale per impedire che si faccia l’atomica.
«In Iran spediscono chi protesta in galera anche con l’accusa di leggere i miei libri. Lì sì che temono la non violenza. Sanno di cosa è capace: è così che loro stessi hanno abbattuto lo scià. Sì, anche loro guardano alla Siria. Ma a costo di ripetermi: spetta all’opposizione calcolare anche questo e muoversi di conseguenza. Spetta a loro solo. Certo un intervento armato nel Golfo non aiuterebbe».
Ancora pochi anni i Fratelli Musulmani erano per l’America dei pericolosi sovversivi. Ora il segretario di stato Hillary Clinton siede al Cairo di fronte al presidente Morsi. C’è una lezione da trarne?
«I Fratelli Musulmani hanno rilanciato per anni sui loro siti i nostri manuali. Se avessero avuto intenzione, saliti al potere, di instaurare
un regime, sarebbe stato folle mettere su Internet le istruzioni per abbatterlo. I Fratelli Musulmani sono stati continuamente travisati».
Albert Einstein scrisse l’introduzione al suo primo libro e una lettera per denunciare il suo arresto. A lui ha intitolato il suo centro. Che cosa direbbe lo scienziato pacifista guardando al mondo di oggi?
«Sto scrivendo proprio su questo il nuovo libro: il pensiero di Einstein su pace, guerra, giustizia sociale. Già allora diceva che quello di Gandhi era l’unico metodo da seguire. E sono convinto che rimarrebbe piacevolmente sorpreso a scoprire come sta cambiando il mondo anche nel suo nome».

Angelo Aquaro

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