venerdì 14 settembre 2012

IL TEMPO LUNGO DELLE PRIMAVERE

È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il
giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di
guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale », uno dei tanti gruppi in guerra
contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco,
hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro
quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a
occhio nudo.    Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio
l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma
che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ».
Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che
specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati.
Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati
Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era
forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere,
non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con
una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano.
Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho
chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è
stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo
musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla
sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi.
L’interrogativo li ha lasciati perplessi.  Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è
abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra,
ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la
mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel
mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra
civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E
di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti.
Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così,
a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono
in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica
illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite,
appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti
agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia,
non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di
un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno
chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la
rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il sangue a Bengasi e ad
Aleppo.  Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo.
Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era
un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla
Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al
mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il
sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una
profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il
problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana
nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata
rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita.  Insomma l’impegno
iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti
si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno
inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non
intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli
americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché
non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di
sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini.
E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza
attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili.  A poche settimane
dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti
con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è
ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato
repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione
auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante
Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America
garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a
caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con
Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è
uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere
stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi
interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed
Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a
Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha
telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa
d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere
a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava
comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le condoglianze
di un alleato.

Bernardo Valli

Il Cairo, la rabbia contro l’America assedio all’ambasciata: centinaia di feriti

Esplode il mondo arabo per il film blasfemo: un morto in Yemen     IL CAIRO — Una nebbia
venefica avvolge le strade di Garden City, il quartiere delle ambasciate che si trova alle spalle di
Piazza Tahrir, la piazza della rivoluzione, la piazza del popolo egiziano. Dalla prima mattina
gruppi di giovani musulmani, molti jeans e poche barbe salafite, hanno cercato nuovamente di
raggiungere l’ambasciata americana, già assaltata martedì scorso. I famigerati gas lacrimogeni
“Made in Usa”, già tristemente noti durante la rivoluzione del febbraio 2011, sparati senza
risparmio hanno tenuto a distanza di sicurezza i gruppetti di ragazzi che armati di pietre
cercavano di raggiungere la Tawfik Diab, la strada da cui si accede all’ingresso del vasto
compound che ospita i diplomatici americani.  Blindati e cavalli di frisia sbarrano ogni possibilità
di passaggio, la sede diplomatica del resto è vuota già da qualche giorno. La polizia
anti-sommossa controlla che la rabbia non si avvicini più di tanto, ha ricevuto l’ordine di avere
la “mano leggera” ma ferma: nessuno scontro con la folla se non ci sono tentativi di assalto alla
ambasciata, ma soprattutto nessun uso delle armi. A fine giornata fra agenti e manifestanti ci
saranno “solo” 224 feriti. Il nuovo potere egiziano della Fratellanza musulmana vuole dimostrare
di poter far fronte all’emergenza, di poter garantire la sicurezza senza mandare i tank per le
strade. Senza un eccessivo uso della forza come invece è accaduto a Sanaa nello Yemen dove
la polizia è stata costretta a sparare, e un manifestante è stato ucciso, per tenere lontana
dall’ambasciata Usa la folla che voleva assaltarla. L’offesa al Profeta Maometto, con il film
blasfemo “L’Innocenza dei musulmani” prodotto negli Stati Uniti messo in rete doppiato anche in
lingua araba, scuote tutte le Piazze arabe e asiatiche, da Kabul al Cairo.  Mentre i manifestanti
lanciavano sassi e qualche molotov contro le forze dell’ordine che rispondevano con un fitto
lancio di lacrimogeni, Morsi — che in questo momento si trova in Italia per la sua prima visita
ufficiale in un Paese europeo — è apparso in video alla televisione pubblica subito dopo una
telefonata col presidente Usa Barack Obama. Morsi ha detto chiaramente di respingere
qualsiasi tipo di insulto al profeta Maometto, ma allo stesso tempo ha ribadito che il diritto di
espressione e di manifestare non deve arrivare all’aggressione delle ambasciate e alla violenza.
Il profeta Maometto è una «linea rossa intoccabile», ha detto il presidente, facendosi pubblico
difensore dei valori islamici in un paese come l’Egitto dove si fa sempre più sentire la presenza
della componente più integralista dei salafiti (il secondo Partito nel Parlamento), che hanno
chiesto a Morsi di rompere qualsiasi collaborazione con gli Usa, fino a quando non arriveranno
le loro scuse formali.  Attento a calibrare il suo messaggio verso l’estero, Morsi sostiene che
l’Egitto farà di tutto per proteggere i cittadini stranieri sul suo territorio. E’ la richiesta esplicita
venuta dal presidente Usa Barack Obama che ha definito l’Egitto al momento «né alleato né
nemico», eppure per gli aiuti finanziari e militari che il Cairo riceve da Washington è secondo
solo a Israele con più di 2 miliardi di dollari l’anno. «Noi condanniamo ciò che è accaduto a
Bengasi » ha affermato Morsi, perché «sappiamo che uccidere persone innocenti è contrario
all’Islam; garantiamo il diritto di manifestare e di esprimere opinioni, ma senza attaccare
proprietà pubbliche o private, missioni diplomatiche o ambasciate».  Ieri sera la maggior parte
degli scontri si limitava alle strade nei pressi della moschea di Omar Makram e Piazza Simon
Bolivar Square, mentre nella vicina Piazza Tahrir si montavano tende per un presidio notturno.
«Noi da qui non ce ne andiamo», spiega Ahmed Khalil, uno delle decine di ragazzi che hanno
deciso di passare la notte in piazza. «Puoi scriverlo: non sono né della Fratellanza né sono un
salafita, ma il Profeta non si tocca, nessuno se ne andrà se non ci chiedono scusa ».
Manifestanti e squadre antisommossa si fronteggiano così per la prima notte in attesa della
annunciata protesta di oggi, all’uscita dalla preghiera di mezzogiorno, quando inizierà la grande
manifestazione convocata dal partito dei Fratelli musulmani contro il film blasfemo e le offese al Profeta. Appelli alla calma sono stati ripetuti dalle radio e dalle tv per una protesta pacifica
mentre il ministro dell’Interno ha ordinato moderazione alle forze dell’ordine. Ma molti movimenti
salafiti, hanno annunciato altre manifestazioni e proteste dopo la preghiera del venerdì. La
tensione è palpabile, su questa prova di piazza il “nuovo Egitto” del presidente Morsi e della
Fratellanza musulmana si giocano molta della loro credibilità come partner affidabili per l’intero
Occidente.

Fabio Scuto

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