lunedì 17 settembre 2012

LA PROVOCAZIONE COSMICA E' FALLITA

"Nel covo dei miliziani di Bengasi: con la sharia ricostruiremo la Libia"
Tornare sul luogo del delitto per verificare un particolare. Ieri a Bengasi era un giorno di festa, il ricordo del martirio di Omar el Mukhtar ucciso dai fascisti italiani. Una celebrazione che adesso si è trasformata nel «ricordo dei martiri della rivoluzione contro Gheddafi». Cavalieri berberi e paracadutisti per celebrare una rivoluzione che fatica a stabilizzarsi. Le strade lontane dalla piazza del tribunale sono vuote, e arrivare fino al consolato americano è abbastanza semplice. Il consolato è bruciato, devastato e saccheggiato come si è visto nelle foto rimbalzate nel mondo. Ma il particolare da verificare era questo: è vero, la casa degli americani è stata attaccata anche dall´alto, a colpi di mortaio, ci sono un bel paio di buchi nel tetto. E se un Rpg o una mitragliatrice pesante sono a disposizione di tutti a Bengasi, il mortaio e il suo corretto utilizzo sono prerogativa di un gruppo paramilitare più o meno addestrato. Proprio come Ansar Al Sharia. Facciamo un passo indietro, torniamo a sabato sera. Mentre la notte di Bengasi iniziava ad avanzare dal mare e dal deserto, entriamo con una guida nel comando militare di Ansar al Sharia, l´ex caserma blindata di Gheddafi in cui il leader si era fatto costruire una finta tenda beduina in cemento armato. Lui il cemento se lo faceva mettere tutt´intorno, ma anche sulla testa. I giovani miliziani di guardia sono sconcertati: un occidentale e un libico - chiaramente laico - provano ad entrare nel loro comando. Ci fanno sedere per un´ora su due sedie di plastica nel cortile pieno come un uomo di "tecniche" attrezzate con kalashnikov e mitragliatrici pesanti. «C´è una troupe francese già dentro, vediamo se riusciamo a farvi parlare con i capi», dice un giovane barbuto che segue la serie A, tifa Inter e quasi compatisce un italiano che non sa nulla di calcio. Intanto iniziamo a parlare con loro: «Siamo libici, siamo tutti libici», dicono smentendo che ci siano Taliban stranieri, « i nostri capi ci hanno detto che con i giornalisti della carta stampata non dobbiamo parlare, perché voi poi potete scrivere quello che volete e cambiare le nostre parole, mentre la tv registra. Chi siamo? Siamo combattenti della rivoluzione che ha cacciato Gheddafi e adesso vogliamo costruire il nostro paese». Ma il popolo libico non vi segue, non vi ha creduto, il 7 luglio i partiti politici sostenuti da voi quasi non sono stati votati. «Noi stiamo in Libia e ci saremo, e tra l´altro noi crediamo che le leggi della politica, le leggi di questi parlamenti non servono: la legge c´è già e si chiama sharia, la legge islamica». Ecco la conferma di quello che Ansar al Sharia aveva già detto a giugno e luglio, «la democrazia non serve, la legge è quella della sharia». E questo è anche un primo elemento per capire come si è arrivati all´attacco al consolato: Ansar ha iniziato a presentarsi in forze a Bengasi all´inizio di giugno, quando con i loro pick-up armati hanno fatto caroselli proprio nel centro in piazza della Rivoluzione. Da allora hanno deciso di far chiudere i parrucchieri per signora e soprattutto hanno iniziato a impossessarsi poco alla volta di uno spicchio di città. Bengasi è come un grande ventaglio adagiato in riva al Mediterraneo: loro se ne sono presi una fetta centrale, in cui ci sono caserme, uffici politici e anche l´ospedale Al Jalaa, il più importante della città, presidiato dentro e fuori dai suoi miliziani. Poi sono iniziati gli attentati: devastati i santuari sufi, una setta musulmana considerata eretica. Bombe alla Croce rossa, al consolato Usa, contro l´ambasciatore inglese. Jalal el Ghallal, ex portavoce del Cnt, rimasto in politica ma ora fuori dal Cnt, spiega quello che tutti vedono: «In Libia ci sono ancora 300 milizie o brigate, più o meno grandi e potenti. Il governo è debole, ha appaltato la sicurezza del paese a brigate che dipendono dagli Interni o dalla Difesa. Molte sono state infiltrate dagli stessi salafiti, anche da gente vicina ad Al Qaeda, per cui il livello di insicurezza e di inaffidabilità è altissimo». Ma Jalal, uomo d´affari figlio di una ricca famiglia che in Libia fra l´altro importa Benetton, aggiunge un particolare di cui molti parlano: «E´ molto probabile che l´attacco al consolato sia stato organizzato da gente di Ansar al Sharia quando hanno visto che partiva il corteo. Ma io vedo un collegamento tra gli integralisti e i loro ex nemici gheddafiani, che dall´Egitto stanno arrivando con borse cariche di migliaia di dollari per provare a destabilizzare la Libia del dopo elezioni». Molti citano Ahmed Gaddafeddam, l´uomo che per conto del colonnello teneva i contatti col regime di Mubarak: è rifugiato al Cairo, ha conti milionari a disposizione, ha il know-how del perfetto trafficante e destabilizzatore gheddafiano. La manovra è chiara: il voto ha detto che non c´è spazio per gheddafiani e integralisti nella Libia che vuole essere democratica, e che al 90 per cento piange la morte del povero ambasciatore Stevens. E allora meglio far saltare tutto, con le bombe. Il gioco è ben chiaro al presidente del parlamento libico Mohammed al Megaryef, di fatto il capo dello stato: «L´attacco al consolato è un punto di svolta, oggi nel mirino ci sono gli americani, domani ci saranno i libici. Sembra esserci Ansar al-Shariah dietro l´attacco, ma ci sono anche elementi stranieri, abbiamo fatto 50 arresti e perseguiremo chi ha voluto quell´assalto». Megaryef aggiunge un elemento importante: «Per il momento è meglio che gli americani stiano fuori fino a che noi non abbiamo fatto quello che dobbiamo fare». Come dire "aspettate a bombardare", un attacco militare o una squadra dell´Fbi sul campo sarebbero una ulteriore delegittimazione del potere libico, che solo da una settimana ha un nuovo premier, Abu Shagur. I 50 arresti, l´inchiesta di una polizia debole e infiltrata dagli integralisti non hanno grande credibilità, ma Megaryef spera di evitare che gli americani, con uomini a terra o con un bombardamento
dall´alto, rafforzino la campagna elettorale di Barack Obama ma affossino il governo di Tripoli. «Ma gli americani attaccheranno, faranno di duro presto, e magari aiuteranno proprio l´alleanza gheddafiani-integralisti», dice Jalal. Anche stamane e per tutta la notte i droni dell´Usaf hanno fotografato dall´alto Ansar Al Sharia, magari anche il cortile della caserma di Gheddafi che loro hanno conquistato.

Vincenzo Nigro


La Tunisia a caccia di Iyadh il nuovo sceicco del terrore

KAIROUAN (Tunisia) — Hanno cominciato a dargli la caccia quando ancora dall’ambasciata americana a Tunisi si levavano le colonne di fumo nero provocate da una sessantina di macchine incendiate nel parcheggio. Nella sua casa a poche decine di metri dalla moschea Fatah su avenue de la Liberté, in pieno centro di Tunisi, sono arrivati decine di po-liziotti, ma di Abou Iyadh non c’era più nessuna traccia. Il quarantacinquenne sceicco, che in realtà si chiama Seifallah Benhassine ed è considerato il capo dei salafiti jihadisti (i salafiti, come ci diranno molti di loro, appartengono a tendenze e militanze diverse) è accusato dalle autorità tunisine di aver organizzato l’attacco all’ambasciata venerdì e da allora la polizia ha lanciato, per così dire, la caccia all’uomo.
Ingiustamente, dice Abdelbasset, uno dei tanti venditori ambulanti che intorno alla moschea vendono galabia e hejab, profumi e libri sacri, rosari e foulard. Il corteo dei dimostranti, è vero, era partito da qui (altri da altre parti della città), dice, ma la violenza non era prevista, è cominciata per colpa dei poliziotti e di facinorosi che con i salafiti non c’entravano per nulla. Abou Iyadh aveva lasciato la manifestazione non appena erano cominciate le violenze, dicono. Ma il governo è imbarazzato per aver dato un’ennesima manifestazione di incompetenza (ormai proverbiale, tanto da essere oggetto di sketch comici nelle tv private, ai quali il governo ha reagito mettendo in carcere l’autore). Intorno ad Abdelbasset si forma un capannello, tutti sono interessati a spiegare, con gentilezza disarmante, che l’immagine che si ha all’estero dei salafiti non corrisponde alla realtà. Anche loro erano andati alla manifestazione, dicono, per testimoniare pacificamente il loro sdegno per un film indegno, ma la situazione è sfuggita di mano, per colpa di poliziotti allo sbando, di provocatori del vecchio regime e di qaedisti abili a cogliere ogni occasione per provocare incidenti. In altre parole di infiltrati.
La calma è ormai tornata in città. Del “giorno dell’ira”, che ha fatto ben quattro vittime oltre a una cinquantina di feriti, non sono rimasti che qualche esile filo di fumo che ancora si leva dalle decine di auto mandate a fuoco e il muro annerito della scuola americana di fronte. Ma Washington non si fida, teme che la calma non durerà a lungo e ha annunciato che ritirerà i propri diplomatici dalla Tunisia.
A Kairouan, due ore di macchina a sud di Tunisi, i salafiti hanno il loro centro. È qui che Abou Iyadh organizzò all’inizio dell’estate una manifestazione davanti alla moschea di Zitouna, la più antica del paese e della Tunisia. Kairouan è una bellissima città che l’Unesco ha dichiarato patrimonio culturale dell’umanità, e che era stata nel 630 d. C il primo insediamento islamico in Tunisia. Durante il regime di Ben Ali i salafiti venivano pesantemente controllati e perseguitati. «Allora non avrei potuto star seduto qui al caffè accanto a lei, il regime me l’avrebbe impedito con il pretesto di proteggere la sicurezza degli stranieri», dice Rafi Trade, uno dei salafiti che organizzò a fine maggio il raduno di Abou Iyadh, di cui è amico. Il padre di Rafi, Mohamed, un professore di Francese e letteratura comparata, figlio a sua volta di un accademico arabista, ci fa una lezione sul salafismo, cominciando dalla radice: «“Salaf” vuol dire gli antenati, i contemporanei del Profeta, mentre “halaf” siamo noi, gli eredi, che il messaggio di Maometto l’abbiamo in parte travisato, corrotto. Ecco — spiega — i salafiti vogliono tornare alle parole del Profeta, alla sharia,
ma con il convincimento, non con la violenza». Di come la sharia si possa applicare in una democrazia, quale sia l’autorità suprema in un Paese in cui viga la legge divina, nessuno ha un’idea chiara. Le risposte vanno da citazioni del Corano e storie dimostrative della compassione del Profeta ad aneddoti sulla generosità e l’innocenza di questi ragazzi che a Kairouan garantiscono che non ci siano né ladri né profittatori. Pregando di tenere a mente che Allah protegge tutti gli esseri umani, nessuno escluso: perché l’Islam, dicono, è una religione che unisce. Mentre la politica divide.

Vanna Vannuccini


                                                                  * * * * *  

Il tentativo di provocare una generalizzata esplosione bellica contro i musulmani è fallita. Il film (si fa per dire) confezionato con scopi di insopportabile provocazione da un regista copto di origine egiziana e residente in America, con attori anch'essi di porno che non sapevano neanche i contenuti del copione che stavano recitando, i tentativi di diffusione organizzati da un fondamentalista cristiano evangelico statunitense specializzato in roghi del Corano, il tutto finanziato da miliardari israelo-statunitensi, ha provocato nei paesi islamici qualche limitato scoppio di collera di dimensioni molto inferiori a quelle che si aspettavano i promotori.
In qualche quartiere arabo più arrabbiato per le condizioni di miseria e di emarginazione che per le scemenze disgustose confezionate nello pseudo film, è stato un risultato ben diverso delle attese: nessuna guerra generale ha coinvolto il Medio Oriente e gli israeliani e i loro soci americani non sono riusciti a creare la miccia per un bel bombardamento sull'Iran.
Sarà per un'altra volta. Papa Benedetto XVI, in pellegrinaggio nel Libano, ha ricordato che i fondamentalismi di ogni religione sono causa di guerre: chissà se quando lo diceva si è ricordato che pochi anni fa, proprio nel Libano, i fondamentalisti cattolici cristiano-maroniti sostenuti dall'illuminazione a giorno dell'esercito israeliano, ammazzarono circa 3000 donne e bambini profughi palestinesi nei campi profughi di Beirut. 
La vicenda che sempre con maggiore insistenza viene attribuita a un'iniziativa dell'FBI, ha offerto tuttavia l'occasione a qualche nostro "principe della penna" di prodursi in qualche cialtronata. Così il Giornale di Vicenza grazie alla penna del suo direttore, Dott. Alfio Gervasutti, prendendo a spunto da un fatto di sangue legato al traffico di droga e che ha avuto nella nostra città per protagonisti un marocchino e un tunisino, ha elaborato una originale tesi: la responsabilità del fatto di sangue è di quanti hanno permesso alle rivoluzioni arabe di cacciare via i dittatori che mantenevano la disciplina. Quando ci imbatteremo nel prossimo omicidio commesso da un americano ne ascriveremo la responsabilità a quanti organizzarono la Rivoluzione Americana. Un vecchio proverbio dice:
"La madre degli imbecilli è sempre incinta!".

Nessun commento:

Posta un commento