martedì 18 settembre 2012

Tra i fantasmi di Chatila, 30 anni dopo “Ostaggi della memoria e della malavita”

Viaggio nel campo profughi libanese dove miliziani falangisti protetti dagli israeliani uccisero migliaia di persone. Tutto è cambiato, resta la disperazione: droga, violenza e disoccupazione condannano gli abitanti a vite senza futuro

CHATILA (Beirut). Il ricordo del massacro soffoca lentamente sotto la polvere del tempo. D’altronde, come si fa a vivere di memorie se ogni giorno devi combattere contro mille insidie per poter tirare avanti? Nulla a Sabra e Chatila è più come era, non le persone che vi abitano, né i luoghi. In trent’anni, il campoprofughi simbolo della sofferenza dei palestinesi s’è trasformato in un inferno di reietti: libanesi indigenti, immigrati clandestini venuti dall’Asia e dall’Africa, trafficanti di poco conto, estremisti religiosi in cerca di proseliti e, da ultimo, palestinesi in fuga dalla guerra civile siriana. I quali, tutti insieme, dice il direttore della Ngo palestinese “Social Care”, Kassem Aina, «assommano ormai ad oltre metà dei sedicimila abitanti del campo».
Avendo raddoppiato la sua popolazione, l’immagine di Chatila (appendice del quartiere di Sabra e da qui il nome di Sabra e Chatila) è cambiata. Non più case ad un piano, come quelle in cui 30 anni fa fecero irruzione i miliziani cristiani della Falange, sotto lo sguardo nella migliore delle ipotesi distaccato, se non accondiscendente, dei soldati israeliani, ma edifici, se così si può dire, di cinque, o sei piani, sorti abusivamente sopra le baracche fatiscenti di allora, per l’inevitabile spintaversol’alto,vistochenonci sono altri aree disponibili, prodotta dalla crescita demografica. Ma quest’esplosione è avvenuta nel caos, nell’anarchia e nell’indifferenza generale. Il risultato è un terrificante stato di abbandono. Andare in giro per le strade fangose e i vicoli asfissianti di Chatila è come camminare sotto una aggrovigliata ragnatela di cavi elettrici e di fili scoperti ad altezza d’uomo, che con le prime piogge si trasforma in una griglia mortale. Nelle case fatiscenti dove si ammassano sei o sette persone per ogni stanza, la luce viene data non più di tre o quattro ore al giorno. L’acqua non è potabile. Le fognature, perennemente intasate, diffondono ovunque un odore insopportabile. Gli effetti di questa situazione sull’igiene pubblica e sulla salute generale sono micidiali.
Pungolato dal senso di colpa collettivo provocato dal massacro dei palestinesi, nella stragrande maggioranza donne, bambini e anziani, l’Occidente, ha cercato timidamente di offrire assistenza e, laddove si richiedevano coraggiose soluzioni politiche, uno strato di malta è stato passato sulle ferite della guerra. Senza, tuttavia, riuscire a cambiare le condizioni di vita del campo, che sono andate costantemente peggiorando.
Se c’è un luogo che riassume questa involuzione è il cosiddetto “Gaza Hospital”, un tempo gioiello del sistema assistenziale dell’Olp (scuole, centri sociali, ospedali: uno “stato nello stato” si diceva a quei tempi) che, degradato adesso a semplice “Gaza building”, sorge ancora all’ingresso di Chatila con i
fori dei proiettili che ne sfregiano la facciata. Solo che non è più l’ospedale di cui andava fiero Arafat, con la sua sala operatoria finanziata dai paesi europei e le corsie dove potevano trovare posto decine di ricoverati, ma un edificio fatiscente che ospita centinaia di stranieri e dove un letto per dormire costa soltanto tre dollari a notte.
Di tutti i paesi del Medio Oriente che ospitano la diaspora palestinese, il Libano è sicuramente il più avaro verso i rifugiati, ai quali, lamenta Kassem Aina, vengono negati i più elementari diritti umani, a cominciare dal diritto al lavoro. «In teoria — racconta Kassem, un volontario orgogliosamente legato alla sua missione — i palestinesi in Libano possono possedere un taxi ma non possono guidarlo, perché non hanno diritto alla licenza. Per non dire dell’accesso negato alle professioni, alla scuola, alle attività commerciali».
«Cosa ci si può aspettare da giovani a cui viene negata la speranza? », risponde Kassem Aina quando gli chiediamo conferma di notizie allarmanti sulla droga che gira nei campi profughi. «La droga c’è dappertutto in Libano — concede — . C’è anche a Dayeh (la roccaforte degli Hezbollah, n. d. r.), come ha denunciato Nasrallah. Noi non abbiamo ospedali e servizi sociali. Solo la Croce rossa e qualche Ong. L’unica cosa che possiamo fare è puntare sull’istruzione, e ci stiamo riuscendo».
«Subinah... Subinah». «Che ne è stato di noi? Cosa ci è successo? », canta in mezzo ad un gruppo di volontarie di “Social Care”, la piccola Yusra, nata nel campo siriano di Yarmuk e arrivata a Chatila due settimane fa, mentre sulla sua casa cadevano le prime bombe dell’esercito di Damasco. La canzone, resa famosa da Fairuz, la diva per eccellenza del bel canto libanese, è dedicata ai profughi dalla Palestina («per carità, riportateci nella nostra terra ») ma qui, attraverso la voce scintillante di questa ragazza di 13 anni, che non ne dimostra più di 8, o 9, diventa l’amara testimonianza di una storia infinita. La quale, nel caso dei palestinesi di Siria, ha preso un altro giro imprevisto: la fuga nella fuga.
Arrivata assieme al padre, la madre e due fratelli, la famiglia s’è subito smembrata. Il padre, tassista, è tornato a Damasco. Yusra ha trovato ospitalità da una zia. La madre e gli altri due figli, si sono sistemati da altri parenti. Ma lei non pensa con nostalgia a Yarmuk. Un campo vale l’altro. Il suo sogno è andare in Palestina, a Jaffa, da cui nel ‘48 erano fuggiti i nonni. Lì è la «vera casa», come ha sempre sentito ripetere in famiglia.
Perché questo è ciò che resiste al degrado di Chatila e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, questo desiderio di giustizia, questa nostalgia della terra tramandata da padre in figlio. Nuove rivelazioni si aggiungono alla storia risaputa del massacro. Un ricercatore americano della Columbia University, Seth Amsiska, scavando negli archivi israeliani, finalmente declassificati, ha scoperto che l’inviato del presidente Ronald Reagan per il Medio Oriente, Morris Draper, avrebbe potuto costringere Ariel Sharon, spietato architetto dell’invasione israeliana del Libano, a fermare i falangisti in procinto di entrare nel campo profughi, sotto il controllo dell’esercito dello Stato ebraico, per compiere la strage. Ma Draper e l’Amministrazione hanno ceduto ai falsi argomenti e alla tattica dilatoria di Sharon, consentendo, di fatto, alle milizie libanesi di compiere il massacro.
Interessante, certo, e forse istruttivo per gli Stati Uniti. Ma queste rivelazioni non cambiano la percezione dei palestinesi di quelle terribili giornate tra il 15 e il 17 settembre del 1982 in cui centinaia, forse migliaia di civili (le stime variano da 800 a 3500 morti) vennero massacrati dai falangisti libanesi. Il ricordo di quei giorni resta indelebile nella memoria di Jamila Khalifa, che adesso ha 50 anni ed allora, sentiti i primi spari, chiese al padre, Mohammed, di portare fuori tutta la famiglia.
«Mio padre aveva paura di lasciare la casa. Ci diceva che era meglio restare nel rifugio e aspettare. Appena fuori, un falangista vestito da cowboy puntò il mitra sullo stomaco di mia madre. Un soldato israeliano intervenne. Mia madre capiva l’ebraico. Il soldato disse che donne e bambini non dovevano essere toccati. Ci lasciarono andare, ma trattennero mio padre. Lo trovammo così due giorni dopo» e mostra la copia sbiadita di una pagina di giornale dove campeggia la foto di un corpo cadavere rannicchiato per terra, contro un muro. Uno dei tanti.

Alberto Stabile




Due degli articoli che precedono sono collegati molto strettamente al primo.
Chissà se un pensiero su quanto avvenne qualche decennio fa a Savra e Chatila, dove i fondamentalisti cattolici maroniti massacrarono 3600 musulmani, profughi palestinesi, quasi tutti donne e bambini. Il sito sorgeva alla periferia di Beirut.
E chissà se ad Obama sarà passato per la testa se il potere mondiale degli Stati Uniti d'America non fu quello che autorizzò Reagen a dare mano libera al criminale Ariel Sharon, comandante dell'esercito israeliano, invasore del Libano, che ordinò a grandi impianti di illuminazione del suo esercito di illuminare a giorno il luogo  dove i suoi alleati maroniti sgozzavano donne e bambini.

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