Gli articoli riportati danno un quadro di normale civiltà dei rapporti tra europei e musulmani. Fa eccezione ovviamente quello che ha per protagonista il troglodita ubriaco di Verona che, immaginiamo, deve essersi espresso nel linguaggio degli scimmioni meno evoluti. Ci tocca ricordare che quando il regime nazista, per colmare i vuoti aperti nel suo invincibile esercito negli ultimi anni di guerra, si decise ad arruolare divisioni di SS europee formate da non tedeschi. In Italia ne vennero arruolate 5: due erano formate da giuliani, istriani e triestini; delle altre 3 una era costituita da sardi, una da vicentini e una da veronesi.
Questo Blog si propone di dare risposta agli interrogativi e alle polemiche che più frequentemente hanno per oggetto la religione islamica e il Corano. Tale attività è particolarmente necessaria in Italia, data la totale disinformazione che gli italiani hanno sulla religione di un miliardo seicento milioni di musulmani in tutto il mondo.
sabato 29 settembre 2012
venerdì 28 settembre 2012
ONU
Onu, show di Netanyahu sulla Bomba “L’Iran è come Al Qaeda, va fermato”
Abu Mazen: “La Palestina sia riconosciuta come Stato”
NEW YORK. LA LINEA rossa di Obama è troppo sottile per Netanyahu. Il premier israeliano
ringrazia il comandante in capo d’America per l’inasprimento delle sanzioni contro l’Iran: ma gli
rinfaccia che quello che sta facendo non basta.
«È TARDI», dice, gli ayatollah potrebbero «essere in grado di dotarsi dell’atomica entro la
prossima estate o primavera, entro un anno, forse anche meno, forse anche qualche mese».
E se il Presidente si ostina a non capirlo ecco qui un bel grafichetto. «Ho portato un
diagramma» dice, mostrando proprio un disegno della bomba, come quelli che si vedono nei
fumetti, con il nucleo diviso in tre spicchi. Il primo mostra la prima fase e copre due terzi della
bomba disegnata: «E questa è la parte che hanno già completato». Il secondo spicchio mostra
la seconda fase, quella che porta al 90 per cento di atomica: «Sono entrati già in questa». La
terza fase è lo spicchio finale, quello prima dello scoppio. Ed è qui che in diretta,
nell’assemblea generale dell’Onu, Netanyahu traccia letteralmente con un pennarello la sua
linea rossa: dobbiamo fermarli prima che entrino qui.
Non è un colpo di teatro: è l’ultimo tentativo di convincere il mondo, e soprattutto l’amico
americano, che l’Iran si deve fermare «prima che riesca ad arricchire l’uranio». Netanyahu
ringrazia Obama per aver detto due giorni fa, proprio qui, che gli Usa non tollereranno mai un
Iran atomico. Ma chiede appunto «una chiara linea rossa»: come quella, riconosce, tracciata
dagli Usa inviando la flotta nel Golfo dopo le minacce degli ayatollah di bloccare lo stretto di
Ormuz. Il leader israeliano non può rompere con Obama ora che sembra fra l’altro destinato a
restare altri quattro anni a Washington: e il tono del discorso è sembrato molto più conciliante
rispetto alle asprezze degli ultimi tempi. Perfino le polemiche sul mancato incontro a due —
Barack, per gli impegni elettorali, non si è concesso nessun bilaterale — sono state superate
da una lunga telefonata. Ma non basta: «La questione non è quando l’Iran potrà ottenere la
bomba: è a che stadio saremo in grado di fermarlo».
È già troppo tardi, insiste Bibi. E denuncia apertamente chi continua a dire che permettere un
Iran dotato di atomica sia, alla fine, il miglior deterrente contro il suo uso. Sbaglia, dice, chi
riporta l’esempio della Russia sovietica. Tra ideologia e sopravvivenza, ricorda, i russi
scelsero sempre la seconda. L’Iran già adesso sforna centinaia di kamikaze: permettere agli
ayatollah che si dotino dell’atomica sarebbe come permetterlo ad Al Qaeda, agli islamisti
che vivono ancora nel medioevo ideologico mentre Israele e il resto del mondo rappresentano
la modernità.
E in quale era dell’umanità Netanyahu incasella invece la Palestina? Il presidente dell’Anp,
Mohammed Habbas, ha detto pochi minuti prima che proprio Israele sta spingendo la sua
gente «verso la catastrofe», lo ha accusato di «razzismo», ha denuncia le violenze nei Territori
e in Gerusalemme Est. «Non c’è altra patria per noi che la Palestina» ha detto tra gli applausi
«e non c’è altra terra per noi che la Palestina ». E ha rilanciato il cosiddetto piano B alla
dichiarazione di statalità, la richiesta all’Onu — ipotizzata già lo scorso anno — di riconoscerlo
come «Stato non membro». Netanyahu raccoglie a metà. Ricorda che il futuro è in «uno Stato
palestinese demi-litarizzato che accetti uno e un solo Stato ebraico d’Israele». E mette in
guardia: «Non risolveremo i nostri problemi con discorsi calunniosi e dichiarazioni unilaterali
sulla statalità ». Però lo sa benissimo che i problemi di Israele, oggi, sono altri. E che prima
dei confini con la Palestina c’è ben altra linea rossa da tracciare.
Angelo Aquaro
Abu Mazen: “La Palestina sia riconosciuta come Stato”
NEW YORK. LA LINEA rossa di Obama è troppo sottile per Netanyahu. Il premier israeliano
ringrazia il comandante in capo d’America per l’inasprimento delle sanzioni contro l’Iran: ma gli
rinfaccia che quello che sta facendo non basta.
«È TARDI», dice, gli ayatollah potrebbero «essere in grado di dotarsi dell’atomica entro la
prossima estate o primavera, entro un anno, forse anche meno, forse anche qualche mese».
E se il Presidente si ostina a non capirlo ecco qui un bel grafichetto. «Ho portato un
diagramma» dice, mostrando proprio un disegno della bomba, come quelli che si vedono nei
fumetti, con il nucleo diviso in tre spicchi. Il primo mostra la prima fase e copre due terzi della
bomba disegnata: «E questa è la parte che hanno già completato». Il secondo spicchio mostra
la seconda fase, quella che porta al 90 per cento di atomica: «Sono entrati già in questa». La
terza fase è lo spicchio finale, quello prima dello scoppio. Ed è qui che in diretta,
nell’assemblea generale dell’Onu, Netanyahu traccia letteralmente con un pennarello la sua
linea rossa: dobbiamo fermarli prima che entrino qui.
Non è un colpo di teatro: è l’ultimo tentativo di convincere il mondo, e soprattutto l’amico
americano, che l’Iran si deve fermare «prima che riesca ad arricchire l’uranio». Netanyahu
ringrazia Obama per aver detto due giorni fa, proprio qui, che gli Usa non tollereranno mai un
Iran atomico. Ma chiede appunto «una chiara linea rossa»: come quella, riconosce, tracciata
dagli Usa inviando la flotta nel Golfo dopo le minacce degli ayatollah di bloccare lo stretto di
Ormuz. Il leader israeliano non può rompere con Obama ora che sembra fra l’altro destinato a
restare altri quattro anni a Washington: e il tono del discorso è sembrato molto più conciliante
rispetto alle asprezze degli ultimi tempi. Perfino le polemiche sul mancato incontro a due —
Barack, per gli impegni elettorali, non si è concesso nessun bilaterale — sono state superate
da una lunga telefonata. Ma non basta: «La questione non è quando l’Iran potrà ottenere la
bomba: è a che stadio saremo in grado di fermarlo».
È già troppo tardi, insiste Bibi. E denuncia apertamente chi continua a dire che permettere un
Iran dotato di atomica sia, alla fine, il miglior deterrente contro il suo uso. Sbaglia, dice, chi
riporta l’esempio della Russia sovietica. Tra ideologia e sopravvivenza, ricorda, i russi
scelsero sempre la seconda. L’Iran già adesso sforna centinaia di kamikaze: permettere agli
ayatollah che si dotino dell’atomica sarebbe come permetterlo ad Al Qaeda, agli islamisti
che vivono ancora nel medioevo ideologico mentre Israele e il resto del mondo rappresentano
la modernità.
E in quale era dell’umanità Netanyahu incasella invece la Palestina? Il presidente dell’Anp,
Mohammed Habbas, ha detto pochi minuti prima che proprio Israele sta spingendo la sua
gente «verso la catastrofe», lo ha accusato di «razzismo», ha denuncia le violenze nei Territori
e in Gerusalemme Est. «Non c’è altra patria per noi che la Palestina» ha detto tra gli applausi
«e non c’è altra terra per noi che la Palestina ». E ha rilanciato il cosiddetto piano B alla
dichiarazione di statalità, la richiesta all’Onu — ipotizzata già lo scorso anno — di riconoscerlo
come «Stato non membro». Netanyahu raccoglie a metà. Ricorda che il futuro è in «uno Stato
palestinese demi-litarizzato che accetti uno e un solo Stato ebraico d’Israele». E mette in
guardia: «Non risolveremo i nostri problemi con discorsi calunniosi e dichiarazioni unilaterali
sulla statalità ». Però lo sa benissimo che i problemi di Israele, oggi, sono altri. E che prima
dei confini con la Palestina c’è ben altra linea rossa da tracciare.
Angelo Aquaro
Le due vicende che hanno caratterizzato i ruoli dell'Islam nella prima metà di Settembre, nonostante la ferocia della dittatura siriana, possono definirsi due esempi di moderatismo e di senso politico:
I - Nonostante gli esagitati allarmismi dell'occidente e la gravità della provocazione subita, non è successo nessuno dei cataclismi che si temevano: a parte l'iniziale episodio libico e gli incidenti sanguinosi che hanno punteggiato per alcuni giorni le reazioni pakistane che, per altro, sono da considerare scintille tipiche della strisciante guerra civile afghana che si proiettano sul vicino più prossimo, non vi sono state reazioni violente alla "presunta satira" contro la figura del Profeta;
II - Gli interventi dei rappresentanti arabi che si sono svolti nell'ultima assemblea dell'ONU possono essere indicati come esempi di saggezza politica: a cominciare dallo splendido intervento del presidente egiziano Morsi, che fa ben sperare sul futuro dell'Egitto;
III - Il solo intervento minaccioso, per altro sorretto da argomentazioni da caricatura, riguardante i disegnini dell'asserita atomica iraniana sono stati quelli del primo ministro israeliano Netanyahu. Nel vedere gli schizzi della "bomba" ormai pronta, i tecnici che gli hanno visti si sono fatti delle matte risate e hanno detto che quella rappresentata tutto era fuori che un'atomica quasi pronta per l'uso. Qualcosa del genere capitò anche al povero Colin Powell il quale, scarsamente preparato sulla materia, si coprì di ridicolo quando mostrò la fialetta che secondo Bush conteneva pericolosi germi per la guerra batteriologica.
IV - Per non essere da meno rispetto alle sciocchezze di altri suoi colleghi italiani una giornalista del Corriere della Sera, tale Vittoria Mazza, ha stigmatizzato in un articolo il fatto che il governo egiziano ha provveduto con rapidità a cancellare i graffiti della "rivoluzione democratica" che a parte ogni altro giudizio sulla loro scarsa qualità, deturpavano le due piazze più belle del Cairo.
domenica 23 settembre 2012
IL "CORAGGIO" DEI PROVOCATORI
Pochi giorni fa il valoroso direttore del Giornale di Vicenza, prendendo spunto da un fatto di sangue che ha coinvolto in Campo Marzio due nord africani per una questione di droga, ha sostenuto l'ardita previsione che, dopo la caduta dei dittatori nei paesi arabi, vi sarà un'inarrestabile fioritura di organizzazioni terroristiche che saranno naturali alleati della malavita organizzata di casanostra: Mafia, 'Ndrangheta, Sacra Corona Unita e la maggior parte dei partiti italiani.
A distanza di poco tempo a conferma della regola che gli imbecilli non procedono mai in solitaria, un consigliere regionale leghista, tale Ciambretti, già assessore della provincia di Vicenza, ha sviluppato il concetto soffermandosi a ricordare i casi in cui già ai giorni nostri episodi di convergenza operativa tra mafie e terroristi islamici si sono verificati. Il Ciambretti è un esperto in materia e parla per conoscenza diretta. Le cronache hanno infatti più volte riportato episodi di alleanza operativa finalizzata alla spartizione dei bottini tra amministrazioni comunali rette da amministratori leghisti e "ndrine calabresi" (la ndrina è l'equivalente della singola associazione mafiosa).
A distanza di poco tempo a conferma della regola che gli imbecilli non procedono mai in solitaria, un consigliere regionale leghista, tale Ciambretti, già assessore della provincia di Vicenza, ha sviluppato il concetto soffermandosi a ricordare i casi in cui già ai giorni nostri episodi di convergenza operativa tra mafie e terroristi islamici si sono verificati. Il Ciambretti è un esperto in materia e parla per conoscenza diretta. Le cronache hanno infatti più volte riportato episodi di alleanza operativa finalizzata alla spartizione dei bottini tra amministrazioni comunali rette da amministratori leghisti e "ndrine calabresi" (la ndrina è l'equivalente della singola associazione mafiosa).
Naturalmente si tratta di pure idiozie non foss'altro perché le organizzazioni della criminalità vera non dovrebbero prestare molta fiducia per la loro inefficienza a temibili entità come le organizzazioni terroristiche che usano l'islamismo come copertura: ve l'immaginate un gruppo di scalzacani delle campagna cosentine che si guadagna la fiducia di entità che tengono testa ai servizi segreti di mezzo mondo senza poter dire che sono state sconfitte?
Una circostanza sconcerta. Fino a quando i paesi arabi che con sanguinose rivoluzioni (migliaia di morti) sono riuscite a liberarsi da dittature sanguinarie che hanno comandato per decenni, il fenomeno delle vignette blasfeme contro il Profeta Muhammad è stato praticamente isolato e, per quanto è dato ricordare, si è limitato al caso del giornale para-nazista danese che ha avuto come propagandista visivo il deputato leghista ministro della repubblica italiana Calderoli, oltre alla gentil donna lombarda Daniela Santanchè. L'esplosione di satira anti islamica è arrivata ad usare un filmaccio diffuso in tutta internet e rifiutato persino dagli scandenti attori che l'hanno interpretato (i quali hanno dichiarato di essere stati reclutati per girare un film d'avventure ambientato nel deserto): della "opera" provocatoria diffusa in coincidenza o quasi con l'anniversario dell'11 Settembre, sono noti l'ideatore (il noto reverendo americano evangelico amante dei roghi del Corano), uno pseudo regista di religione cristiano copta di origine egiziana e cittadino americano e attori non professionisti quasi tutti di religione ebraica al pari dei finanziatori israeliani che per la bisogna hanno stanziato, sembra, mezzo milione di dollari. Da notare che l'azione di questi eroi dell'anti islamismo è vile sotto due profili:
I - Nessun paese musulmano si sognerebbe di rispondere alle infamie del filmaccio, perché fare un film di satira contro Gesù e contro la Vergine Maria, verrebbe considerato blasfemia come se si girasse un filmato contro uno dei Profeti. Nel Corano infatti Gesù è Profeta di Allah che incarna lo spirito di bontà e di carità nato da donna vergine per volontà diretta del Creatore;
I - Nessun paese musulmano si sognerebbe di rispondere alle infamie del filmaccio, perché fare un film di satira contro Gesù e contro la Vergine Maria, verrebbe considerato blasfemia come se si girasse un filmato contro uno dei Profeti. Nel Corano infatti Gesù è Profeta di Allah che incarna lo spirito di bontà e di carità nato da donna vergine per volontà diretta del Creatore;
II - In questo periodo storico milioni di musulmani, soprattutto giovani affrontano a viso aperto e praticamente disarmati le milizie dei dittatori e dei tiranni tenuti al potere dall'occidente per fare i guardiani dei pozzi di petrolio e i supporter di Israele. Questi giovani hanno vinto le loro battaglie con manifestazioni organizzate all'uscita dalle preghiere del venerdì e al grido di "Allahu Akbar". Alla serie manca soltanto il regime criminale di Assad, che per restare in sella sta consumando un vergognoso genocidio nei confronti del suo popolo. Ma poiché Allah è Clemente e Misericordioso ma anche Giusto, anche Assad finirà come i suoi sanguinari colleghi. Logica vorrebbe che se l'occidente credesse veramente ai valori di democrazia cui dice di tenere tanto, dovrebbe vietare la diffusione di film e vignette blasfeme contro l'Islam e gettarne in galera gli autori, colpevoli di una provocazione che può mettere in pericolo la pace mondiale. Ed invece piovono i distinguo, "Non si può porre limite alla libertà di satira e di stampa, quasi che insultare ciò che di più sacro c'è per un miliardo e mezzo di esseri umani abbia qualcosa a che fare con una cosa nobile come la vera satira". Il fatto è che in occidente i provocatori vengono fuori come i funghi dopo la pioggia: quando si annusa l'odore di una possibile guerra e della conseguente vendita miliardaria di armi di ogni tipo, eccoli in campo sicuri di essere coperti da protettori molto potenti e da imbecilli estremamente numerosi.
P.S: Naturalmente i cataclismi apocalittici temuti dalla stampa occidentale come rappresaglia del fondamentalismo islamico non si sono visti: la torre Eiffel a Parigi è rimasta in piedi e nessuna ambasciate occidentale è stata incendiata.
P.S: Naturalmente i cataclismi apocalittici temuti dalla stampa occidentale come rappresaglia del fondamentalismo islamico non si sono visti: la torre Eiffel a Parigi è rimasta in piedi e nessuna ambasciate occidentale è stata incendiata.
mercoledì 19 settembre 2012
SIRIA
Aleppo, con i leader della rivolta divisi tra Islam, patria e jihad
AAZAZ. NON c’è un capo, non c’è un programma. Ce ne sono troppi. Per questo nessuno sa come sarà il dopo Assad. L’ideale, per chi teme che il Paese cada nelle mani di un regime islamista, sarebbe un cambio della guardia a Damasco.
SE L’ESERCITO, come è accaduto al Cairo con Hosni Mubarak, sacrificasse il rais, sostituisse Bashar al Assad con qualcuno di più presentabile, in grado di avviare trattative con gli insorti, si aprirebbe forse uno spiraglio. Ma le forze a confronto si battono con le spalle al muro, non hanno e quindi non concedono scampo.
La minoranza alawita (e quindi sciita), nucleo centrale del regime di Damasco, identifica il proprio destino con quello di Assad. E l’insurrezione, dominata dalla maggioranza sunnita, è un mosaico di formazioni e di tendenze ideologiche saldate soltanto da un comune obiettivo: la caduta di Assad. La guerra civile è destinata per ora a continuare, con ferocia crescente, e con il rischio che si espanda, perché la mischia può traboccare nel resto del Medio Oriente al centro del quale imperversa. Essa coinvolge già, indirettamente, Paesi limitrofi o vicini, ma anche lontani: da un lato, con Assad, l’Iran e la Russia; dall’altro, con gli insorti, in misura variabile, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Giordania, la Turchia, e con cautela (accentuata dal dramma di Bengasi) gli Stati Uniti. È una guerra sempre più per procura. Si direbbe, senza forzare troppo la realtà, che è un conflitto in cui l’Iran, tramite l’alleato regime di Damasco, si misura con gli avversari in territorio siriano.
Nel borgo in cui mi trovo sono ben in mostra le ferite inferte dai missili dei Mig 21.
È a una cinquantina di chilometri da Aleppo e in tempi normali a mezz’ora d’automobile da Deir Samaan, dove pensavo di andare. In quel villaggio dovrebbe esserci una comunità cristiana. E i cristiani sono circa il 10 per cento della popolazione, poco meno degli alawiti. Sono una minoranza schiacciata tra il regime, che li ha favoriti e ha conquistato l’appoggio di larga parte del clero, non tutto, e l’insurrezione agitata come una minaccia per la sempre più forte tendenza islamica. L’incertezza
sul futuro ha provocato numerosi espatri. In particolare nella provincia di Homs. Ci sono milizie cristiane armate da Damasco, senza essere direttamente impegnate nella guerra civile, e ci sono anche cristiani favorevoli all’insurrezione. Nelle vicinanze di Deir Samaan c’è il monastero di San Simeone, un santo famoso perché un millennio e mezzo fa passò gran parte della sua vita in cima a una colonna. Ma Deir Samaan è irraggiungibile. L’esercito lealista e le milizie che lo fiancheggiano sono nella zona, e la strada è dunque più che insicura. Non la si può percorrere.
Nell’informarmi sulla situazione interrogo i rappresentanti delle unità ribelli presenti nella provincia. E subito mi appaiono evidenti le divisioni all’interno di quella che Nur, la mia guida di un giorno, chiama la “rivoluzione”, e della quale lei, Nur, è una sintesi. Una sintesi delle varie formazioni militari e delle correnti islamiche e nazionaliste che animano la sua rivoluzione. Quando le chiedo se è molto religiosa scuote la testa; dal suo comportamento traspare un piglio femminista; è laureata in letteratura inglese e tratta gli interlocutori maschi alla pari, a volte con distacco, se avverte la propria superiorità culturale, e questo accade spesso; ma indossa l’hijab, che lascia scoperto soltanto l’ovale del volto, e un abito lungo color cenere.
L’abbigliamento, in evidente contraddizione con il suo comportamento e le sue idee, è imposto dalla situazione. Abdel Aziz Salama, comandante della Divisione Tawhid, ha richiamato all’ordine una donna perché dal suo hijab uscivano ciocche di capelli, coprendole la fronte. Quella frangia, lasciata libera per civetteria o trascuratezza, ha provocato la collera di uno dei più importanti capi della regione “liberata” di Aleppo. Salama, un ex commerciante di spezie, ha raccolto nella Divisione Tawhid uomini provenienti dalle zone rurali, o inurbati di recente, gente semplice, sensibili ai richiami religiosi, e con loro ha formato la più numerosa unità combattente.
La quale partecipa alla battaglia di Aleppo e presidia i territori del Nord, verso il confine turco.
Abdel Aziz Salama è un islamista, vale a dire che l’Islam è il punto centrale della sua azione e auspica la creazione di uno Stato islamico. Ma l’espressione è generica; tante sono infatti le correnti islamiste. Salama non è un estremista. Non è un jihadista. Mi è stato descritto come un uomo semplice e con una capacità di comando eccezionale. Gli riconoscono questa dote anche i nazionalisti, benché perplessi di fronte alla sua forte impronta religiosa e ai suoi modi spicci nel condurre la guerra.
Nella Divisione Tawhid la disciplina lascia desiderare. E la giustizia è piuttosto sbrigativa. L’esecuzione di prigionieri ha sollevato polemiche e proteste nelle formazioni che si distinguono da quelle islamiste. Ma l’abilità e la rapidità con cui Salama ha saputo creare la sua Divisione e la decisione con la quale l’impegna fin dall’inizio nella battaglia di Aleppo, e nella regione, gli danno un grande prestigio, anche tra i concorrenti —alleati.
Il suo comando si sposta da un villaggio all’altro, nelle cantine in cui è più o meno al riparo dai missili dei Mig 21 e degli elicotteri che gli danno la caccia. Penso che le unità di prima linea, in cui mi sono imbattuto ad Aleppo, appartenessero alla Divisione Tawhid. Le ho indicate come reparti del Libero esercito siriano, che è in realtà una nebulosa senza un comando unico a livello nazionale. Le discussioni per crearne uno non sono ancora arrivate a una decisione. Alla frontiera turco-siriana di Kilis c’è un “media center”, qualcosa di simile a un ufficio stampa, che ritengo dipenda dal Consiglio militare della zona di Aleppo. Il quale è stato nominato dopo estenuanti negoziati e non deve essere considerato un comando unico. Abdel Aziz Salama non si assoggetterebbe.
Benché comandi la più importante ed efficiente unità combattente della zona, lui non è comunque stato designato come il responsabile di quel Consiglio. Gli uomini d’affari della regione, quelli che si sono schierati con l’insurrezione e la finanziano, e i rappresentanti dei Paesi che forniscono armi o mezzi di comunicazione, riuniti in territorio turco, hanno preferito Abdel Jabbar al Hughaidy, un ex colonnello dell’esercito di Assad, nato ad Aleppo e diventato il comandante della più disciplinata unità combattente della zona. Il colonnello Hughaidy dà più affidamento. Non è un islamista. È un nazionalista. Non ha la barba come Salama. I suoi uomini sono stati in gran parte reclutati nelle città. Nelle sue unità ci sono studenti e professionisti. E i borghesi di Aleppo, quelli favorevoli alla “Siria libera”, non gli hanno risparmiato gli aiuti.
Chi ne fa il ritratto sostiene che Hughaidy sa essere sprezzante. Gli capita di rimproverare coloro che parlano l’arabo scorretto o lo scrivono con troppi errori. Come militare di carriera è puntiglioso anche sulle regole di guerra. È contrario alla giustizia sommaria applicata ai prigionieri, come la pratica Salama. Capita che i soldati lealisti catturati siano usati come autisti delle autobomba fatte saltare nelle zone governative. Hughaidy non è d’accordo con questo sistema contrario ad ogni etica militare. Un’etica che non è quella di Salama. La differenza di stile tra l’ex colonnello e l’ex commerciante alimenta racconti che sembrano già leggende.
I due capi, ai cui ordini ci sono migliaia di uomini, sono rivali ma impegnati nella stessa lotta. Quindi difficili alleati. Salama dispone di unità numericamente più robuste, Hughaidy dispone di più mezzi. Come responsabile del Consiglio militare deve tuttavia fornire armi anche a Salama. Insieme Hughaidy e Salama prefigurano forse il dopo Assad. E non è facile prevedere quali saranno i loro rapporti. Né del resto sappiamo come vanno esattamente adesso le cose. La realtà non è del tutto accessibile al cronista che si aggira in alcune limitate zone della Siria in preda alla guerra civile, che avrebbe già fatto 23 mila morti, in gran parte civili.
L’uccisione di Abu Muhammad non è tenuta segreta: essa rivela sanguinose dispute interne alla “Siria libera”. Il suo vero nome era Tal al-Kabama ed era un medico. In questa veste e con un atteggiamento a prima vista pacato, adeguato alla sua professione, aveva conquistato la stima della gente. Aveva annunciato l’intenzione di aprire un centro medico nel villaggio di Firas al-Abseh, e questo gli dava prestigio. Ma si è ben presto rivelato un fanatico, un jihadista. Guidava un gruppo di cento uomini chiamato dei “mujahidin siriani”, in cui c’erano molti stranieri. Sono stati loro a rapire in luglio due giornalisti, un olandese e un inglese, poi liberati. A uccidere Abu Muhammad sarebbe stata la Brigata Faruq al-Shamal, presente nella provincia di Homs. Non sono sempre così drammatici i rapporti tra islamisti e nazionalisti. Quest’ultimi li definirei musulmani laici, se l’espressione laici non avesse, per molti arabi, il significato di atei, e quindi non fosse accettabile. Ad Aleppo ho visto unità con le bandiere nere salafite operare a fianco di unità nazionaliste.
La disparità dei mezzi rende difficile valutare l’appoggio della popolazione ai ribelli. Le zone della “Siria libera” sono spopolate perché sottoposte a bombardamenti quotidiani. Ho percorso a lungo la bellissima pianura a Nord di Aleppo. Molte case erano vuote e i campi deserti in una stagione che di solito impegna gli agricoltori. La gente è fuggita in Turchia, o è emigrata nelle zone governative, dove non piovono bombe perché gli insorti non hanno, almeno per ora, un’artiglieria e ancor meno un’aviazione. Lo stesso vale per i commercianti e in generale gli uomini d’affari. Il regime ha inoltre liberalizzato in anni recenti l’economia favorendo la nascita di una classe di imprenditori, sunniti come alawiti. E questa classe teme il dopo Assad, che resta un’incognita.
Bernardo Valli
AAZAZ. NON c’è un capo, non c’è un programma. Ce ne sono troppi. Per questo nessuno sa come sarà il dopo Assad. L’ideale, per chi teme che il Paese cada nelle mani di un regime islamista, sarebbe un cambio della guardia a Damasco.
SE L’ESERCITO, come è accaduto al Cairo con Hosni Mubarak, sacrificasse il rais, sostituisse Bashar al Assad con qualcuno di più presentabile, in grado di avviare trattative con gli insorti, si aprirebbe forse uno spiraglio. Ma le forze a confronto si battono con le spalle al muro, non hanno e quindi non concedono scampo.
La minoranza alawita (e quindi sciita), nucleo centrale del regime di Damasco, identifica il proprio destino con quello di Assad. E l’insurrezione, dominata dalla maggioranza sunnita, è un mosaico di formazioni e di tendenze ideologiche saldate soltanto da un comune obiettivo: la caduta di Assad. La guerra civile è destinata per ora a continuare, con ferocia crescente, e con il rischio che si espanda, perché la mischia può traboccare nel resto del Medio Oriente al centro del quale imperversa. Essa coinvolge già, indirettamente, Paesi limitrofi o vicini, ma anche lontani: da un lato, con Assad, l’Iran e la Russia; dall’altro, con gli insorti, in misura variabile, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Giordania, la Turchia, e con cautela (accentuata dal dramma di Bengasi) gli Stati Uniti. È una guerra sempre più per procura. Si direbbe, senza forzare troppo la realtà, che è un conflitto in cui l’Iran, tramite l’alleato regime di Damasco, si misura con gli avversari in territorio siriano.
Nel borgo in cui mi trovo sono ben in mostra le ferite inferte dai missili dei Mig 21.
È a una cinquantina di chilometri da Aleppo e in tempi normali a mezz’ora d’automobile da Deir Samaan, dove pensavo di andare. In quel villaggio dovrebbe esserci una comunità cristiana. E i cristiani sono circa il 10 per cento della popolazione, poco meno degli alawiti. Sono una minoranza schiacciata tra il regime, che li ha favoriti e ha conquistato l’appoggio di larga parte del clero, non tutto, e l’insurrezione agitata come una minaccia per la sempre più forte tendenza islamica. L’incertezza
sul futuro ha provocato numerosi espatri. In particolare nella provincia di Homs. Ci sono milizie cristiane armate da Damasco, senza essere direttamente impegnate nella guerra civile, e ci sono anche cristiani favorevoli all’insurrezione. Nelle vicinanze di Deir Samaan c’è il monastero di San Simeone, un santo famoso perché un millennio e mezzo fa passò gran parte della sua vita in cima a una colonna. Ma Deir Samaan è irraggiungibile. L’esercito lealista e le milizie che lo fiancheggiano sono nella zona, e la strada è dunque più che insicura. Non la si può percorrere.
Nell’informarmi sulla situazione interrogo i rappresentanti delle unità ribelli presenti nella provincia. E subito mi appaiono evidenti le divisioni all’interno di quella che Nur, la mia guida di un giorno, chiama la “rivoluzione”, e della quale lei, Nur, è una sintesi. Una sintesi delle varie formazioni militari e delle correnti islamiche e nazionaliste che animano la sua rivoluzione. Quando le chiedo se è molto religiosa scuote la testa; dal suo comportamento traspare un piglio femminista; è laureata in letteratura inglese e tratta gli interlocutori maschi alla pari, a volte con distacco, se avverte la propria superiorità culturale, e questo accade spesso; ma indossa l’hijab, che lascia scoperto soltanto l’ovale del volto, e un abito lungo color cenere.
L’abbigliamento, in evidente contraddizione con il suo comportamento e le sue idee, è imposto dalla situazione. Abdel Aziz Salama, comandante della Divisione Tawhid, ha richiamato all’ordine una donna perché dal suo hijab uscivano ciocche di capelli, coprendole la fronte. Quella frangia, lasciata libera per civetteria o trascuratezza, ha provocato la collera di uno dei più importanti capi della regione “liberata” di Aleppo. Salama, un ex commerciante di spezie, ha raccolto nella Divisione Tawhid uomini provenienti dalle zone rurali, o inurbati di recente, gente semplice, sensibili ai richiami religiosi, e con loro ha formato la più numerosa unità combattente.
La quale partecipa alla battaglia di Aleppo e presidia i territori del Nord, verso il confine turco.
Abdel Aziz Salama è un islamista, vale a dire che l’Islam è il punto centrale della sua azione e auspica la creazione di uno Stato islamico. Ma l’espressione è generica; tante sono infatti le correnti islamiste. Salama non è un estremista. Non è un jihadista. Mi è stato descritto come un uomo semplice e con una capacità di comando eccezionale. Gli riconoscono questa dote anche i nazionalisti, benché perplessi di fronte alla sua forte impronta religiosa e ai suoi modi spicci nel condurre la guerra.
Nella Divisione Tawhid la disciplina lascia desiderare. E la giustizia è piuttosto sbrigativa. L’esecuzione di prigionieri ha sollevato polemiche e proteste nelle formazioni che si distinguono da quelle islamiste. Ma l’abilità e la rapidità con cui Salama ha saputo creare la sua Divisione e la decisione con la quale l’impegna fin dall’inizio nella battaglia di Aleppo, e nella regione, gli danno un grande prestigio, anche tra i concorrenti —alleati.
Il suo comando si sposta da un villaggio all’altro, nelle cantine in cui è più o meno al riparo dai missili dei Mig 21 e degli elicotteri che gli danno la caccia. Penso che le unità di prima linea, in cui mi sono imbattuto ad Aleppo, appartenessero alla Divisione Tawhid. Le ho indicate come reparti del Libero esercito siriano, che è in realtà una nebulosa senza un comando unico a livello nazionale. Le discussioni per crearne uno non sono ancora arrivate a una decisione. Alla frontiera turco-siriana di Kilis c’è un “media center”, qualcosa di simile a un ufficio stampa, che ritengo dipenda dal Consiglio militare della zona di Aleppo. Il quale è stato nominato dopo estenuanti negoziati e non deve essere considerato un comando unico. Abdel Aziz Salama non si assoggetterebbe.
Benché comandi la più importante ed efficiente unità combattente della zona, lui non è comunque stato designato come il responsabile di quel Consiglio. Gli uomini d’affari della regione, quelli che si sono schierati con l’insurrezione e la finanziano, e i rappresentanti dei Paesi che forniscono armi o mezzi di comunicazione, riuniti in territorio turco, hanno preferito Abdel Jabbar al Hughaidy, un ex colonnello dell’esercito di Assad, nato ad Aleppo e diventato il comandante della più disciplinata unità combattente della zona. Il colonnello Hughaidy dà più affidamento. Non è un islamista. È un nazionalista. Non ha la barba come Salama. I suoi uomini sono stati in gran parte reclutati nelle città. Nelle sue unità ci sono studenti e professionisti. E i borghesi di Aleppo, quelli favorevoli alla “Siria libera”, non gli hanno risparmiato gli aiuti.
Chi ne fa il ritratto sostiene che Hughaidy sa essere sprezzante. Gli capita di rimproverare coloro che parlano l’arabo scorretto o lo scrivono con troppi errori. Come militare di carriera è puntiglioso anche sulle regole di guerra. È contrario alla giustizia sommaria applicata ai prigionieri, come la pratica Salama. Capita che i soldati lealisti catturati siano usati come autisti delle autobomba fatte saltare nelle zone governative. Hughaidy non è d’accordo con questo sistema contrario ad ogni etica militare. Un’etica che non è quella di Salama. La differenza di stile tra l’ex colonnello e l’ex commerciante alimenta racconti che sembrano già leggende.
I due capi, ai cui ordini ci sono migliaia di uomini, sono rivali ma impegnati nella stessa lotta. Quindi difficili alleati. Salama dispone di unità numericamente più robuste, Hughaidy dispone di più mezzi. Come responsabile del Consiglio militare deve tuttavia fornire armi anche a Salama. Insieme Hughaidy e Salama prefigurano forse il dopo Assad. E non è facile prevedere quali saranno i loro rapporti. Né del resto sappiamo come vanno esattamente adesso le cose. La realtà non è del tutto accessibile al cronista che si aggira in alcune limitate zone della Siria in preda alla guerra civile, che avrebbe già fatto 23 mila morti, in gran parte civili.
L’uccisione di Abu Muhammad non è tenuta segreta: essa rivela sanguinose dispute interne alla “Siria libera”. Il suo vero nome era Tal al-Kabama ed era un medico. In questa veste e con un atteggiamento a prima vista pacato, adeguato alla sua professione, aveva conquistato la stima della gente. Aveva annunciato l’intenzione di aprire un centro medico nel villaggio di Firas al-Abseh, e questo gli dava prestigio. Ma si è ben presto rivelato un fanatico, un jihadista. Guidava un gruppo di cento uomini chiamato dei “mujahidin siriani”, in cui c’erano molti stranieri. Sono stati loro a rapire in luglio due giornalisti, un olandese e un inglese, poi liberati. A uccidere Abu Muhammad sarebbe stata la Brigata Faruq al-Shamal, presente nella provincia di Homs. Non sono sempre così drammatici i rapporti tra islamisti e nazionalisti. Quest’ultimi li definirei musulmani laici, se l’espressione laici non avesse, per molti arabi, il significato di atei, e quindi non fosse accettabile. Ad Aleppo ho visto unità con le bandiere nere salafite operare a fianco di unità nazionaliste.
La disparità dei mezzi rende difficile valutare l’appoggio della popolazione ai ribelli. Le zone della “Siria libera” sono spopolate perché sottoposte a bombardamenti quotidiani. Ho percorso a lungo la bellissima pianura a Nord di Aleppo. Molte case erano vuote e i campi deserti in una stagione che di solito impegna gli agricoltori. La gente è fuggita in Turchia, o è emigrata nelle zone governative, dove non piovono bombe perché gli insorti non hanno, almeno per ora, un’artiglieria e ancor meno un’aviazione. Lo stesso vale per i commercianti e in generale gli uomini d’affari. Il regime ha inoltre liberalizzato in anni recenti l’economia favorendo la nascita di una classe di imprenditori, sunniti come alawiti. E questa classe teme il dopo Assad, che resta un’incognita.
Bernardo Valli
martedì 18 settembre 2012
Tra i fantasmi di Chatila, 30 anni dopo “Ostaggi della memoria e della malavita”
Viaggio nel campo profughi libanese dove miliziani falangisti protetti dagli israeliani uccisero migliaia di persone. Tutto è cambiato, resta la disperazione: droga, violenza e disoccupazione condannano gli abitanti a vite senza futuro
CHATILA (Beirut). Il ricordo del massacro soffoca lentamente sotto la polvere del tempo. D’altronde, come si fa a vivere di memorie se ogni giorno devi combattere contro mille insidie per poter tirare avanti? Nulla a Sabra e Chatila è più come era, non le persone che vi abitano, né i luoghi. In trent’anni, il campoprofughi simbolo della sofferenza dei palestinesi s’è trasformato in un inferno di reietti: libanesi indigenti, immigrati clandestini venuti dall’Asia e dall’Africa, trafficanti di poco conto, estremisti religiosi in cerca di proseliti e, da ultimo, palestinesi in fuga dalla guerra civile siriana. I quali, tutti insieme, dice il direttore della Ngo palestinese “Social Care”, Kassem Aina, «assommano ormai ad oltre metà dei sedicimila abitanti del campo».
Avendo raddoppiato la sua popolazione, l’immagine di Chatila (appendice del quartiere di Sabra e da qui il nome di Sabra e Chatila) è cambiata. Non più case ad un piano, come quelle in cui 30 anni fa fecero irruzione i miliziani cristiani della Falange, sotto lo sguardo nella migliore delle ipotesi distaccato, se non accondiscendente, dei soldati israeliani, ma edifici, se così si può dire, di cinque, o sei piani, sorti abusivamente sopra le baracche fatiscenti di allora, per l’inevitabile spintaversol’alto,vistochenonci sono altri aree disponibili, prodotta dalla crescita demografica. Ma quest’esplosione è avvenuta nel caos, nell’anarchia e nell’indifferenza generale. Il risultato è un terrificante stato di abbandono. Andare in giro per le strade fangose e i vicoli asfissianti di Chatila è come camminare sotto una aggrovigliata ragnatela di cavi elettrici e di fili scoperti ad altezza d’uomo, che con le prime piogge si trasforma in una griglia mortale. Nelle case fatiscenti dove si ammassano sei o sette persone per ogni stanza, la luce viene data non più di tre o quattro ore al giorno. L’acqua non è potabile. Le fognature, perennemente intasate, diffondono ovunque un odore insopportabile. Gli effetti di questa situazione sull’igiene pubblica e sulla salute generale sono micidiali.
Pungolato dal senso di colpa collettivo provocato dal massacro dei palestinesi, nella stragrande maggioranza donne, bambini e anziani, l’Occidente, ha cercato timidamente di offrire assistenza e, laddove si richiedevano coraggiose soluzioni politiche, uno strato di malta è stato passato sulle ferite della guerra. Senza, tuttavia, riuscire a cambiare le condizioni di vita del campo, che sono andate costantemente peggiorando.
Se c’è un luogo che riassume questa involuzione è il cosiddetto “Gaza Hospital”, un tempo gioiello del sistema assistenziale dell’Olp (scuole, centri sociali, ospedali: uno “stato nello stato” si diceva a quei tempi) che, degradato adesso a semplice “Gaza building”, sorge ancora all’ingresso di Chatila con i
fori dei proiettili che ne sfregiano la facciata. Solo che non è più l’ospedale di cui andava fiero Arafat, con la sua sala operatoria finanziata dai paesi europei e le corsie dove potevano trovare posto decine di ricoverati, ma un edificio fatiscente che ospita centinaia di stranieri e dove un letto per dormire costa soltanto tre dollari a notte.
Di tutti i paesi del Medio Oriente che ospitano la diaspora palestinese, il Libano è sicuramente il più avaro verso i rifugiati, ai quali, lamenta Kassem Aina, vengono negati i più elementari diritti umani, a cominciare dal diritto al lavoro. «In teoria — racconta Kassem, un volontario orgogliosamente legato alla sua missione — i palestinesi in Libano possono possedere un taxi ma non possono guidarlo, perché non hanno diritto alla licenza. Per non dire dell’accesso negato alle professioni, alla scuola, alle attività commerciali».
«Cosa ci si può aspettare da giovani a cui viene negata la speranza? », risponde Kassem Aina quando gli chiediamo conferma di notizie allarmanti sulla droga che gira nei campi profughi. «La droga c’è dappertutto in Libano — concede — . C’è anche a Dayeh (la roccaforte degli Hezbollah, n. d. r.), come ha denunciato Nasrallah. Noi non abbiamo ospedali e servizi sociali. Solo la Croce rossa e qualche Ong. L’unica cosa che possiamo fare è puntare sull’istruzione, e ci stiamo riuscendo».
«Subinah... Subinah». «Che ne è stato di noi? Cosa ci è successo? », canta in mezzo ad un gruppo di volontarie di “Social Care”, la piccola Yusra, nata nel campo siriano di Yarmuk e arrivata a Chatila due settimane fa, mentre sulla sua casa cadevano le prime bombe dell’esercito di Damasco. La canzone, resa famosa da Fairuz, la diva per eccellenza del bel canto libanese, è dedicata ai profughi dalla Palestina («per carità, riportateci nella nostra terra ») ma qui, attraverso la voce scintillante di questa ragazza di 13 anni, che non ne dimostra più di 8, o 9, diventa l’amara testimonianza di una storia infinita. La quale, nel caso dei palestinesi di Siria, ha preso un altro giro imprevisto: la fuga nella fuga.
Arrivata assieme al padre, la madre e due fratelli, la famiglia s’è subito smembrata. Il padre, tassista, è tornato a Damasco. Yusra ha trovato ospitalità da una zia. La madre e gli altri due figli, si sono sistemati da altri parenti. Ma lei non pensa con nostalgia a Yarmuk. Un campo vale l’altro. Il suo sogno è andare in Palestina, a Jaffa, da cui nel ‘48 erano fuggiti i nonni. Lì è la «vera casa», come ha sempre sentito ripetere in famiglia.
Perché questo è ciò che resiste al degrado di Chatila e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, questo desiderio di giustizia, questa nostalgia della terra tramandata da padre in figlio. Nuove rivelazioni si aggiungono alla storia risaputa del massacro. Un ricercatore americano della Columbia University, Seth Amsiska, scavando negli archivi israeliani, finalmente declassificati, ha scoperto che l’inviato del presidente Ronald Reagan per il Medio Oriente, Morris Draper, avrebbe potuto costringere Ariel Sharon, spietato architetto dell’invasione israeliana del Libano, a fermare i falangisti in procinto di entrare nel campo profughi, sotto il controllo dell’esercito dello Stato ebraico, per compiere la strage. Ma Draper e l’Amministrazione hanno ceduto ai falsi argomenti e alla tattica dilatoria di Sharon, consentendo, di fatto, alle milizie libanesi di compiere il massacro.
Interessante, certo, e forse istruttivo per gli Stati Uniti. Ma queste rivelazioni non cambiano la percezione dei palestinesi di quelle terribili giornate tra il 15 e il 17 settembre del 1982 in cui centinaia, forse migliaia di civili (le stime variano da 800 a 3500 morti) vennero massacrati dai falangisti libanesi. Il ricordo di quei giorni resta indelebile nella memoria di Jamila Khalifa, che adesso ha 50 anni ed allora, sentiti i primi spari, chiese al padre, Mohammed, di portare fuori tutta la famiglia.
«Mio padre aveva paura di lasciare la casa. Ci diceva che era meglio restare nel rifugio e aspettare. Appena fuori, un falangista vestito da cowboy puntò il mitra sullo stomaco di mia madre. Un soldato israeliano intervenne. Mia madre capiva l’ebraico. Il soldato disse che donne e bambini non dovevano essere toccati. Ci lasciarono andare, ma trattennero mio padre. Lo trovammo così due giorni dopo» e mostra la copia sbiadita di una pagina di giornale dove campeggia la foto di un corpo cadavere rannicchiato per terra, contro un muro. Uno dei tanti.
Alberto Stabile
Viaggio nel campo profughi libanese dove miliziani falangisti protetti dagli israeliani uccisero migliaia di persone. Tutto è cambiato, resta la disperazione: droga, violenza e disoccupazione condannano gli abitanti a vite senza futuro
CHATILA (Beirut). Il ricordo del massacro soffoca lentamente sotto la polvere del tempo. D’altronde, come si fa a vivere di memorie se ogni giorno devi combattere contro mille insidie per poter tirare avanti? Nulla a Sabra e Chatila è più come era, non le persone che vi abitano, né i luoghi. In trent’anni, il campoprofughi simbolo della sofferenza dei palestinesi s’è trasformato in un inferno di reietti: libanesi indigenti, immigrati clandestini venuti dall’Asia e dall’Africa, trafficanti di poco conto, estremisti religiosi in cerca di proseliti e, da ultimo, palestinesi in fuga dalla guerra civile siriana. I quali, tutti insieme, dice il direttore della Ngo palestinese “Social Care”, Kassem Aina, «assommano ormai ad oltre metà dei sedicimila abitanti del campo».
Avendo raddoppiato la sua popolazione, l’immagine di Chatila (appendice del quartiere di Sabra e da qui il nome di Sabra e Chatila) è cambiata. Non più case ad un piano, come quelle in cui 30 anni fa fecero irruzione i miliziani cristiani della Falange, sotto lo sguardo nella migliore delle ipotesi distaccato, se non accondiscendente, dei soldati israeliani, ma edifici, se così si può dire, di cinque, o sei piani, sorti abusivamente sopra le baracche fatiscenti di allora, per l’inevitabile spintaversol’alto,vistochenonci sono altri aree disponibili, prodotta dalla crescita demografica. Ma quest’esplosione è avvenuta nel caos, nell’anarchia e nell’indifferenza generale. Il risultato è un terrificante stato di abbandono. Andare in giro per le strade fangose e i vicoli asfissianti di Chatila è come camminare sotto una aggrovigliata ragnatela di cavi elettrici e di fili scoperti ad altezza d’uomo, che con le prime piogge si trasforma in una griglia mortale. Nelle case fatiscenti dove si ammassano sei o sette persone per ogni stanza, la luce viene data non più di tre o quattro ore al giorno. L’acqua non è potabile. Le fognature, perennemente intasate, diffondono ovunque un odore insopportabile. Gli effetti di questa situazione sull’igiene pubblica e sulla salute generale sono micidiali.
Pungolato dal senso di colpa collettivo provocato dal massacro dei palestinesi, nella stragrande maggioranza donne, bambini e anziani, l’Occidente, ha cercato timidamente di offrire assistenza e, laddove si richiedevano coraggiose soluzioni politiche, uno strato di malta è stato passato sulle ferite della guerra. Senza, tuttavia, riuscire a cambiare le condizioni di vita del campo, che sono andate costantemente peggiorando.
Se c’è un luogo che riassume questa involuzione è il cosiddetto “Gaza Hospital”, un tempo gioiello del sistema assistenziale dell’Olp (scuole, centri sociali, ospedali: uno “stato nello stato” si diceva a quei tempi) che, degradato adesso a semplice “Gaza building”, sorge ancora all’ingresso di Chatila con i
fori dei proiettili che ne sfregiano la facciata. Solo che non è più l’ospedale di cui andava fiero Arafat, con la sua sala operatoria finanziata dai paesi europei e le corsie dove potevano trovare posto decine di ricoverati, ma un edificio fatiscente che ospita centinaia di stranieri e dove un letto per dormire costa soltanto tre dollari a notte.
Di tutti i paesi del Medio Oriente che ospitano la diaspora palestinese, il Libano è sicuramente il più avaro verso i rifugiati, ai quali, lamenta Kassem Aina, vengono negati i più elementari diritti umani, a cominciare dal diritto al lavoro. «In teoria — racconta Kassem, un volontario orgogliosamente legato alla sua missione — i palestinesi in Libano possono possedere un taxi ma non possono guidarlo, perché non hanno diritto alla licenza. Per non dire dell’accesso negato alle professioni, alla scuola, alle attività commerciali».
«Cosa ci si può aspettare da giovani a cui viene negata la speranza? », risponde Kassem Aina quando gli chiediamo conferma di notizie allarmanti sulla droga che gira nei campi profughi. «La droga c’è dappertutto in Libano — concede — . C’è anche a Dayeh (la roccaforte degli Hezbollah, n. d. r.), come ha denunciato Nasrallah. Noi non abbiamo ospedali e servizi sociali. Solo la Croce rossa e qualche Ong. L’unica cosa che possiamo fare è puntare sull’istruzione, e ci stiamo riuscendo».
«Subinah... Subinah». «Che ne è stato di noi? Cosa ci è successo? », canta in mezzo ad un gruppo di volontarie di “Social Care”, la piccola Yusra, nata nel campo siriano di Yarmuk e arrivata a Chatila due settimane fa, mentre sulla sua casa cadevano le prime bombe dell’esercito di Damasco. La canzone, resa famosa da Fairuz, la diva per eccellenza del bel canto libanese, è dedicata ai profughi dalla Palestina («per carità, riportateci nella nostra terra ») ma qui, attraverso la voce scintillante di questa ragazza di 13 anni, che non ne dimostra più di 8, o 9, diventa l’amara testimonianza di una storia infinita. La quale, nel caso dei palestinesi di Siria, ha preso un altro giro imprevisto: la fuga nella fuga.
Arrivata assieme al padre, la madre e due fratelli, la famiglia s’è subito smembrata. Il padre, tassista, è tornato a Damasco. Yusra ha trovato ospitalità da una zia. La madre e gli altri due figli, si sono sistemati da altri parenti. Ma lei non pensa con nostalgia a Yarmuk. Un campo vale l’altro. Il suo sogno è andare in Palestina, a Jaffa, da cui nel ‘48 erano fuggiti i nonni. Lì è la «vera casa», come ha sempre sentito ripetere in famiglia.
Perché questo è ciò che resiste al degrado di Chatila e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, questo desiderio di giustizia, questa nostalgia della terra tramandata da padre in figlio. Nuove rivelazioni si aggiungono alla storia risaputa del massacro. Un ricercatore americano della Columbia University, Seth Amsiska, scavando negli archivi israeliani, finalmente declassificati, ha scoperto che l’inviato del presidente Ronald Reagan per il Medio Oriente, Morris Draper, avrebbe potuto costringere Ariel Sharon, spietato architetto dell’invasione israeliana del Libano, a fermare i falangisti in procinto di entrare nel campo profughi, sotto il controllo dell’esercito dello Stato ebraico, per compiere la strage. Ma Draper e l’Amministrazione hanno ceduto ai falsi argomenti e alla tattica dilatoria di Sharon, consentendo, di fatto, alle milizie libanesi di compiere il massacro.
Interessante, certo, e forse istruttivo per gli Stati Uniti. Ma queste rivelazioni non cambiano la percezione dei palestinesi di quelle terribili giornate tra il 15 e il 17 settembre del 1982 in cui centinaia, forse migliaia di civili (le stime variano da 800 a 3500 morti) vennero massacrati dai falangisti libanesi. Il ricordo di quei giorni resta indelebile nella memoria di Jamila Khalifa, che adesso ha 50 anni ed allora, sentiti i primi spari, chiese al padre, Mohammed, di portare fuori tutta la famiglia.
«Mio padre aveva paura di lasciare la casa. Ci diceva che era meglio restare nel rifugio e aspettare. Appena fuori, un falangista vestito da cowboy puntò il mitra sullo stomaco di mia madre. Un soldato israeliano intervenne. Mia madre capiva l’ebraico. Il soldato disse che donne e bambini non dovevano essere toccati. Ci lasciarono andare, ma trattennero mio padre. Lo trovammo così due giorni dopo» e mostra la copia sbiadita di una pagina di giornale dove campeggia la foto di un corpo cadavere rannicchiato per terra, contro un muro. Uno dei tanti.
Alberto Stabile
Due degli articoli che precedono sono collegati molto strettamente al primo.
Chissà se un pensiero su quanto avvenne qualche decennio fa a Savra e Chatila, dove i fondamentalisti cattolici maroniti massacrarono 3600 musulmani, profughi palestinesi, quasi tutti donne e bambini. Il sito sorgeva alla periferia di Beirut.
E chissà se ad Obama sarà passato per la testa se il potere mondiale degli Stati Uniti d'America non fu quello che autorizzò Reagen a dare mano libera al criminale Ariel Sharon, comandante dell'esercito israeliano, invasore del Libano, che ordinò a grandi impianti di illuminazione del suo esercito di illuminare a giorno il luogo dove i suoi alleati maroniti sgozzavano donne e bambini.
E chissà se ad Obama sarà passato per la testa se il potere mondiale degli Stati Uniti d'America non fu quello che autorizzò Reagen a dare mano libera al criminale Ariel Sharon, comandante dell'esercito israeliano, invasore del Libano, che ordinò a grandi impianti di illuminazione del suo esercito di illuminare a giorno il luogo dove i suoi alleati maroniti sgozzavano donne e bambini.
lunedì 17 settembre 2012
LA PROVOCAZIONE COSMICA E' FALLITA
"Nel covo dei miliziani di Bengasi: con la sharia ricostruiremo la Libia"
Tornare sul luogo del delitto per verificare un particolare. Ieri a Bengasi era un giorno di festa, il ricordo del martirio di Omar el Mukhtar ucciso dai fascisti italiani. Una celebrazione che adesso si è trasformata nel «ricordo dei martiri della rivoluzione contro Gheddafi». Cavalieri berberi e paracadutisti per celebrare una rivoluzione che fatica a stabilizzarsi. Le strade lontane dalla piazza del tribunale sono vuote, e arrivare fino al consolato americano è abbastanza semplice. Il consolato è bruciato, devastato e saccheggiato come si è visto nelle foto rimbalzate nel mondo. Ma il particolare da verificare era questo: è vero, la casa degli americani è stata attaccata anche dall´alto, a colpi di mortaio, ci sono un bel paio di buchi nel tetto. E se un Rpg o una mitragliatrice pesante sono a disposizione di tutti a Bengasi, il mortaio e il suo corretto utilizzo sono prerogativa di un gruppo paramilitare più o meno addestrato. Proprio come Ansar Al Sharia. Facciamo un passo indietro, torniamo a sabato sera. Mentre la notte di Bengasi iniziava ad avanzare dal mare e dal deserto, entriamo con una guida nel comando militare di Ansar al Sharia, l´ex caserma blindata di Gheddafi in cui il leader si era fatto costruire una finta tenda beduina in cemento armato. Lui il cemento se lo faceva mettere tutt´intorno, ma anche sulla testa. I giovani miliziani di guardia sono sconcertati: un occidentale e un libico - chiaramente laico - provano ad entrare nel loro comando. Ci fanno sedere per un´ora su due sedie di plastica nel cortile pieno come un uomo di "tecniche" attrezzate con kalashnikov e mitragliatrici pesanti. «C´è una troupe francese già dentro, vediamo se riusciamo a farvi parlare con i capi», dice un giovane barbuto che segue la serie A, tifa Inter e quasi compatisce un italiano che non sa nulla di calcio. Intanto iniziamo a parlare con loro: «Siamo libici, siamo tutti libici», dicono smentendo che ci siano Taliban stranieri, « i nostri capi ci hanno detto che con i giornalisti della carta stampata non dobbiamo parlare, perché voi poi potete scrivere quello che volete e cambiare le nostre parole, mentre la tv registra. Chi siamo? Siamo combattenti della rivoluzione che ha cacciato Gheddafi e adesso vogliamo costruire il nostro paese». Ma il popolo libico non vi segue, non vi ha creduto, il 7 luglio i partiti politici sostenuti da voi quasi non sono stati votati. «Noi stiamo in Libia e ci saremo, e tra l´altro noi crediamo che le leggi della politica, le leggi di questi parlamenti non servono: la legge c´è già e si chiama sharia, la legge islamica». Ecco la conferma di quello che Ansar al Sharia aveva già detto a giugno e luglio, «la democrazia non serve, la legge è quella della sharia». E questo è anche un primo elemento per capire come si è arrivati all´attacco al consolato: Ansar ha iniziato a presentarsi in forze a Bengasi all´inizio di giugno, quando con i loro pick-up armati hanno fatto caroselli proprio nel centro in piazza della Rivoluzione. Da allora hanno deciso di far chiudere i parrucchieri per signora e soprattutto hanno iniziato a impossessarsi poco alla volta di uno spicchio di città. Bengasi è come un grande ventaglio adagiato in riva al Mediterraneo: loro se ne sono presi una fetta centrale, in cui ci sono caserme, uffici politici e anche l´ospedale Al Jalaa, il più importante della città, presidiato dentro e fuori dai suoi miliziani. Poi sono iniziati gli attentati: devastati i santuari sufi, una setta musulmana considerata eretica. Bombe alla Croce rossa, al consolato Usa, contro l´ambasciatore inglese. Jalal el Ghallal, ex portavoce del Cnt, rimasto in politica ma ora fuori dal Cnt, spiega quello che tutti vedono: «In Libia ci sono ancora 300 milizie o brigate, più o meno grandi e potenti. Il governo è debole, ha appaltato la sicurezza del paese a brigate che dipendono dagli Interni o dalla Difesa. Molte sono state infiltrate dagli stessi salafiti, anche da gente vicina ad Al Qaeda, per cui il livello di insicurezza e di inaffidabilità è altissimo». Ma Jalal, uomo d´affari figlio di una ricca famiglia che in Libia fra l´altro importa Benetton, aggiunge un particolare di cui molti parlano: «E´ molto probabile che l´attacco al consolato sia stato organizzato da gente di Ansar al Sharia quando hanno visto che partiva il corteo. Ma io vedo un collegamento tra gli integralisti e i loro ex nemici gheddafiani, che dall´Egitto stanno arrivando con borse cariche di migliaia di dollari per provare a destabilizzare la Libia del dopo elezioni». Molti citano Ahmed Gaddafeddam, l´uomo che per conto del colonnello teneva i contatti col regime di Mubarak: è rifugiato al Cairo, ha conti milionari a disposizione, ha il know-how del perfetto trafficante e destabilizzatore gheddafiano. La manovra è chiara: il voto ha detto che non c´è spazio per gheddafiani e integralisti nella Libia che vuole essere democratica, e che al 90 per cento piange la morte del povero ambasciatore Stevens. E allora meglio far saltare tutto, con le bombe. Il gioco è ben chiaro al presidente del parlamento libico Mohammed al Megaryef, di fatto il capo dello stato: «L´attacco al consolato è un punto di svolta, oggi nel mirino ci sono gli americani, domani ci saranno i libici. Sembra esserci Ansar al-Shariah dietro l´attacco, ma ci sono anche elementi stranieri, abbiamo fatto 50 arresti e perseguiremo chi ha voluto quell´assalto». Megaryef aggiunge un elemento importante: «Per il momento è meglio che gli americani stiano fuori fino a che noi non abbiamo fatto quello che dobbiamo fare». Come dire "aspettate a bombardare", un attacco militare o una squadra dell´Fbi sul campo sarebbero una ulteriore delegittimazione del potere libico, che solo da una settimana ha un nuovo premier, Abu Shagur. I 50 arresti, l´inchiesta di una polizia debole e infiltrata dagli integralisti non hanno grande credibilità, ma Megaryef spera di evitare che gli americani, con uomini a terra o con un bombardamento
dall´alto, rafforzino la campagna elettorale di Barack Obama ma affossino il governo di Tripoli. «Ma gli americani attaccheranno, faranno di duro presto, e magari aiuteranno proprio l´alleanza gheddafiani-integralisti», dice Jalal. Anche stamane e per tutta la notte i droni dell´Usaf hanno fotografato dall´alto Ansar Al Sharia, magari anche il cortile della caserma di Gheddafi che loro hanno conquistato.
Vincenzo Nigro
La Tunisia a caccia di Iyadh il nuovo sceicco del terrore
KAIROUAN (Tunisia) — Hanno cominciato a dargli la caccia quando ancora dall’ambasciata americana a Tunisi si levavano le colonne di fumo nero provocate da una sessantina di macchine incendiate nel parcheggio. Nella sua casa a poche decine di metri dalla moschea Fatah su avenue de la Liberté, in pieno centro di Tunisi, sono arrivati decine di po-liziotti, ma di Abou Iyadh non c’era più nessuna traccia. Il quarantacinquenne sceicco, che in realtà si chiama Seifallah Benhassine ed è considerato il capo dei salafiti jihadisti (i salafiti, come ci diranno molti di loro, appartengono a tendenze e militanze diverse) è accusato dalle autorità tunisine di aver organizzato l’attacco all’ambasciata venerdì e da allora la polizia ha lanciato, per così dire, la caccia all’uomo.
Ingiustamente, dice Abdelbasset, uno dei tanti venditori ambulanti che intorno alla moschea vendono galabia e hejab, profumi e libri sacri, rosari e foulard. Il corteo dei dimostranti, è vero, era partito da qui (altri da altre parti della città), dice, ma la violenza non era prevista, è cominciata per colpa dei poliziotti e di facinorosi che con i salafiti non c’entravano per nulla. Abou Iyadh aveva lasciato la manifestazione non appena erano cominciate le violenze, dicono. Ma il governo è imbarazzato per aver dato un’ennesima manifestazione di incompetenza (ormai proverbiale, tanto da essere oggetto di sketch comici nelle tv private, ai quali il governo ha reagito mettendo in carcere l’autore). Intorno ad Abdelbasset si forma un capannello, tutti sono interessati a spiegare, con gentilezza disarmante, che l’immagine che si ha all’estero dei salafiti non corrisponde alla realtà. Anche loro erano andati alla manifestazione, dicono, per testimoniare pacificamente il loro sdegno per un film indegno, ma la situazione è sfuggita di mano, per colpa di poliziotti allo sbando, di provocatori del vecchio regime e di qaedisti abili a cogliere ogni occasione per provocare incidenti. In altre parole di infiltrati.
La calma è ormai tornata in città. Del “giorno dell’ira”, che ha fatto ben quattro vittime oltre a una cinquantina di feriti, non sono rimasti che qualche esile filo di fumo che ancora si leva dalle decine di auto mandate a fuoco e il muro annerito della scuola americana di fronte. Ma Washington non si fida, teme che la calma non durerà a lungo e ha annunciato che ritirerà i propri diplomatici dalla Tunisia.
A Kairouan, due ore di macchina a sud di Tunisi, i salafiti hanno il loro centro. È qui che Abou Iyadh organizzò all’inizio dell’estate una manifestazione davanti alla moschea di Zitouna, la più antica del paese e della Tunisia. Kairouan è una bellissima città che l’Unesco ha dichiarato patrimonio culturale dell’umanità, e che era stata nel 630 d. C il primo insediamento islamico in Tunisia. Durante il regime di Ben Ali i salafiti venivano pesantemente controllati e perseguitati. «Allora non avrei potuto star seduto qui al caffè accanto a lei, il regime me l’avrebbe impedito con il pretesto di proteggere la sicurezza degli stranieri», dice Rafi Trade, uno dei salafiti che organizzò a fine maggio il raduno di Abou Iyadh, di cui è amico. Il padre di Rafi, Mohamed, un professore di Francese e letteratura comparata, figlio a sua volta di un accademico arabista, ci fa una lezione sul salafismo, cominciando dalla radice: «“Salaf” vuol dire gli antenati, i contemporanei del Profeta, mentre “halaf” siamo noi, gli eredi, che il messaggio di Maometto l’abbiamo in parte travisato, corrotto. Ecco — spiega — i salafiti vogliono tornare alle parole del Profeta, alla sharia,
ma con il convincimento, non con la violenza». Di come la sharia si possa applicare in una democrazia, quale sia l’autorità suprema in un Paese in cui viga la legge divina, nessuno ha un’idea chiara. Le risposte vanno da citazioni del Corano e storie dimostrative della compassione del Profeta ad aneddoti sulla generosità e l’innocenza di questi ragazzi che a Kairouan garantiscono che non ci siano né ladri né profittatori. Pregando di tenere a mente che Allah protegge tutti gli esseri umani, nessuno escluso: perché l’Islam, dicono, è una religione che unisce. Mentre la politica divide.
Vanna Vannuccini
Tornare sul luogo del delitto per verificare un particolare. Ieri a Bengasi era un giorno di festa, il ricordo del martirio di Omar el Mukhtar ucciso dai fascisti italiani. Una celebrazione che adesso si è trasformata nel «ricordo dei martiri della rivoluzione contro Gheddafi». Cavalieri berberi e paracadutisti per celebrare una rivoluzione che fatica a stabilizzarsi. Le strade lontane dalla piazza del tribunale sono vuote, e arrivare fino al consolato americano è abbastanza semplice. Il consolato è bruciato, devastato e saccheggiato come si è visto nelle foto rimbalzate nel mondo. Ma il particolare da verificare era questo: è vero, la casa degli americani è stata attaccata anche dall´alto, a colpi di mortaio, ci sono un bel paio di buchi nel tetto. E se un Rpg o una mitragliatrice pesante sono a disposizione di tutti a Bengasi, il mortaio e il suo corretto utilizzo sono prerogativa di un gruppo paramilitare più o meno addestrato. Proprio come Ansar Al Sharia. Facciamo un passo indietro, torniamo a sabato sera. Mentre la notte di Bengasi iniziava ad avanzare dal mare e dal deserto, entriamo con una guida nel comando militare di Ansar al Sharia, l´ex caserma blindata di Gheddafi in cui il leader si era fatto costruire una finta tenda beduina in cemento armato. Lui il cemento se lo faceva mettere tutt´intorno, ma anche sulla testa. I giovani miliziani di guardia sono sconcertati: un occidentale e un libico - chiaramente laico - provano ad entrare nel loro comando. Ci fanno sedere per un´ora su due sedie di plastica nel cortile pieno come un uomo di "tecniche" attrezzate con kalashnikov e mitragliatrici pesanti. «C´è una troupe francese già dentro, vediamo se riusciamo a farvi parlare con i capi», dice un giovane barbuto che segue la serie A, tifa Inter e quasi compatisce un italiano che non sa nulla di calcio. Intanto iniziamo a parlare con loro: «Siamo libici, siamo tutti libici», dicono smentendo che ci siano Taliban stranieri, « i nostri capi ci hanno detto che con i giornalisti della carta stampata non dobbiamo parlare, perché voi poi potete scrivere quello che volete e cambiare le nostre parole, mentre la tv registra. Chi siamo? Siamo combattenti della rivoluzione che ha cacciato Gheddafi e adesso vogliamo costruire il nostro paese». Ma il popolo libico non vi segue, non vi ha creduto, il 7 luglio i partiti politici sostenuti da voi quasi non sono stati votati. «Noi stiamo in Libia e ci saremo, e tra l´altro noi crediamo che le leggi della politica, le leggi di questi parlamenti non servono: la legge c´è già e si chiama sharia, la legge islamica». Ecco la conferma di quello che Ansar al Sharia aveva già detto a giugno e luglio, «la democrazia non serve, la legge è quella della sharia». E questo è anche un primo elemento per capire come si è arrivati all´attacco al consolato: Ansar ha iniziato a presentarsi in forze a Bengasi all´inizio di giugno, quando con i loro pick-up armati hanno fatto caroselli proprio nel centro in piazza della Rivoluzione. Da allora hanno deciso di far chiudere i parrucchieri per signora e soprattutto hanno iniziato a impossessarsi poco alla volta di uno spicchio di città. Bengasi è come un grande ventaglio adagiato in riva al Mediterraneo: loro se ne sono presi una fetta centrale, in cui ci sono caserme, uffici politici e anche l´ospedale Al Jalaa, il più importante della città, presidiato dentro e fuori dai suoi miliziani. Poi sono iniziati gli attentati: devastati i santuari sufi, una setta musulmana considerata eretica. Bombe alla Croce rossa, al consolato Usa, contro l´ambasciatore inglese. Jalal el Ghallal, ex portavoce del Cnt, rimasto in politica ma ora fuori dal Cnt, spiega quello che tutti vedono: «In Libia ci sono ancora 300 milizie o brigate, più o meno grandi e potenti. Il governo è debole, ha appaltato la sicurezza del paese a brigate che dipendono dagli Interni o dalla Difesa. Molte sono state infiltrate dagli stessi salafiti, anche da gente vicina ad Al Qaeda, per cui il livello di insicurezza e di inaffidabilità è altissimo». Ma Jalal, uomo d´affari figlio di una ricca famiglia che in Libia fra l´altro importa Benetton, aggiunge un particolare di cui molti parlano: «E´ molto probabile che l´attacco al consolato sia stato organizzato da gente di Ansar al Sharia quando hanno visto che partiva il corteo. Ma io vedo un collegamento tra gli integralisti e i loro ex nemici gheddafiani, che dall´Egitto stanno arrivando con borse cariche di migliaia di dollari per provare a destabilizzare la Libia del dopo elezioni». Molti citano Ahmed Gaddafeddam, l´uomo che per conto del colonnello teneva i contatti col regime di Mubarak: è rifugiato al Cairo, ha conti milionari a disposizione, ha il know-how del perfetto trafficante e destabilizzatore gheddafiano. La manovra è chiara: il voto ha detto che non c´è spazio per gheddafiani e integralisti nella Libia che vuole essere democratica, e che al 90 per cento piange la morte del povero ambasciatore Stevens. E allora meglio far saltare tutto, con le bombe. Il gioco è ben chiaro al presidente del parlamento libico Mohammed al Megaryef, di fatto il capo dello stato: «L´attacco al consolato è un punto di svolta, oggi nel mirino ci sono gli americani, domani ci saranno i libici. Sembra esserci Ansar al-Shariah dietro l´attacco, ma ci sono anche elementi stranieri, abbiamo fatto 50 arresti e perseguiremo chi ha voluto quell´assalto». Megaryef aggiunge un elemento importante: «Per il momento è meglio che gli americani stiano fuori fino a che noi non abbiamo fatto quello che dobbiamo fare». Come dire "aspettate a bombardare", un attacco militare o una squadra dell´Fbi sul campo sarebbero una ulteriore delegittimazione del potere libico, che solo da una settimana ha un nuovo premier, Abu Shagur. I 50 arresti, l´inchiesta di una polizia debole e infiltrata dagli integralisti non hanno grande credibilità, ma Megaryef spera di evitare che gli americani, con uomini a terra o con un bombardamento
dall´alto, rafforzino la campagna elettorale di Barack Obama ma affossino il governo di Tripoli. «Ma gli americani attaccheranno, faranno di duro presto, e magari aiuteranno proprio l´alleanza gheddafiani-integralisti», dice Jalal. Anche stamane e per tutta la notte i droni dell´Usaf hanno fotografato dall´alto Ansar Al Sharia, magari anche il cortile della caserma di Gheddafi che loro hanno conquistato.
Vincenzo Nigro
La Tunisia a caccia di Iyadh il nuovo sceicco del terrore
KAIROUAN (Tunisia) — Hanno cominciato a dargli la caccia quando ancora dall’ambasciata americana a Tunisi si levavano le colonne di fumo nero provocate da una sessantina di macchine incendiate nel parcheggio. Nella sua casa a poche decine di metri dalla moschea Fatah su avenue de la Liberté, in pieno centro di Tunisi, sono arrivati decine di po-liziotti, ma di Abou Iyadh non c’era più nessuna traccia. Il quarantacinquenne sceicco, che in realtà si chiama Seifallah Benhassine ed è considerato il capo dei salafiti jihadisti (i salafiti, come ci diranno molti di loro, appartengono a tendenze e militanze diverse) è accusato dalle autorità tunisine di aver organizzato l’attacco all’ambasciata venerdì e da allora la polizia ha lanciato, per così dire, la caccia all’uomo.
Ingiustamente, dice Abdelbasset, uno dei tanti venditori ambulanti che intorno alla moschea vendono galabia e hejab, profumi e libri sacri, rosari e foulard. Il corteo dei dimostranti, è vero, era partito da qui (altri da altre parti della città), dice, ma la violenza non era prevista, è cominciata per colpa dei poliziotti e di facinorosi che con i salafiti non c’entravano per nulla. Abou Iyadh aveva lasciato la manifestazione non appena erano cominciate le violenze, dicono. Ma il governo è imbarazzato per aver dato un’ennesima manifestazione di incompetenza (ormai proverbiale, tanto da essere oggetto di sketch comici nelle tv private, ai quali il governo ha reagito mettendo in carcere l’autore). Intorno ad Abdelbasset si forma un capannello, tutti sono interessati a spiegare, con gentilezza disarmante, che l’immagine che si ha all’estero dei salafiti non corrisponde alla realtà. Anche loro erano andati alla manifestazione, dicono, per testimoniare pacificamente il loro sdegno per un film indegno, ma la situazione è sfuggita di mano, per colpa di poliziotti allo sbando, di provocatori del vecchio regime e di qaedisti abili a cogliere ogni occasione per provocare incidenti. In altre parole di infiltrati.
La calma è ormai tornata in città. Del “giorno dell’ira”, che ha fatto ben quattro vittime oltre a una cinquantina di feriti, non sono rimasti che qualche esile filo di fumo che ancora si leva dalle decine di auto mandate a fuoco e il muro annerito della scuola americana di fronte. Ma Washington non si fida, teme che la calma non durerà a lungo e ha annunciato che ritirerà i propri diplomatici dalla Tunisia.
A Kairouan, due ore di macchina a sud di Tunisi, i salafiti hanno il loro centro. È qui che Abou Iyadh organizzò all’inizio dell’estate una manifestazione davanti alla moschea di Zitouna, la più antica del paese e della Tunisia. Kairouan è una bellissima città che l’Unesco ha dichiarato patrimonio culturale dell’umanità, e che era stata nel 630 d. C il primo insediamento islamico in Tunisia. Durante il regime di Ben Ali i salafiti venivano pesantemente controllati e perseguitati. «Allora non avrei potuto star seduto qui al caffè accanto a lei, il regime me l’avrebbe impedito con il pretesto di proteggere la sicurezza degli stranieri», dice Rafi Trade, uno dei salafiti che organizzò a fine maggio il raduno di Abou Iyadh, di cui è amico. Il padre di Rafi, Mohamed, un professore di Francese e letteratura comparata, figlio a sua volta di un accademico arabista, ci fa una lezione sul salafismo, cominciando dalla radice: «“Salaf” vuol dire gli antenati, i contemporanei del Profeta, mentre “halaf” siamo noi, gli eredi, che il messaggio di Maometto l’abbiamo in parte travisato, corrotto. Ecco — spiega — i salafiti vogliono tornare alle parole del Profeta, alla sharia,
ma con il convincimento, non con la violenza». Di come la sharia si possa applicare in una democrazia, quale sia l’autorità suprema in un Paese in cui viga la legge divina, nessuno ha un’idea chiara. Le risposte vanno da citazioni del Corano e storie dimostrative della compassione del Profeta ad aneddoti sulla generosità e l’innocenza di questi ragazzi che a Kairouan garantiscono che non ci siano né ladri né profittatori. Pregando di tenere a mente che Allah protegge tutti gli esseri umani, nessuno escluso: perché l’Islam, dicono, è una religione che unisce. Mentre la politica divide.
Vanna Vannuccini
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Il tentativo di provocare una generalizzata esplosione bellica contro i musulmani è fallita. Il film (si fa per dire) confezionato con scopi di insopportabile provocazione da un regista copto di origine egiziana e residente in America, con attori anch'essi di porno che non sapevano neanche i contenuti del copione che stavano recitando, i tentativi di diffusione organizzati da un fondamentalista cristiano evangelico statunitense specializzato in roghi del Corano, il tutto finanziato da miliardari israelo-statunitensi, ha provocato nei paesi islamici qualche limitato scoppio di collera di dimensioni molto inferiori a quelle che si aspettavano i promotori.
In qualche quartiere arabo più arrabbiato per le condizioni di miseria e di emarginazione che per le scemenze disgustose confezionate nello pseudo film, è stato un risultato ben diverso delle attese: nessuna guerra generale ha coinvolto il Medio Oriente e gli israeliani e i loro soci americani non sono riusciti a creare la miccia per un bel bombardamento sull'Iran.
Sarà per un'altra volta. Papa Benedetto XVI, in pellegrinaggio nel Libano, ha ricordato che i fondamentalismi di ogni religione sono causa di guerre: chissà se quando lo diceva si è ricordato che pochi anni fa, proprio nel Libano, i fondamentalisti cattolici cristiano-maroniti sostenuti dall'illuminazione a giorno dell'esercito israeliano, ammazzarono circa 3000 donne e bambini profughi palestinesi nei campi profughi di Beirut.
La vicenda che sempre con maggiore insistenza viene attribuita a un'iniziativa dell'FBI, ha offerto tuttavia l'occasione a qualche nostro "principe della penna" di prodursi in qualche cialtronata. Così il Giornale di Vicenza grazie alla penna del suo direttore, Dott. Alfio Gervasutti, prendendo a spunto da un fatto di sangue legato al traffico di droga e che ha avuto nella nostra città per protagonisti un marocchino e un tunisino, ha elaborato una originale tesi: la responsabilità del fatto di sangue è di quanti hanno permesso alle rivoluzioni arabe di cacciare via i dittatori che mantenevano la disciplina. Quando ci imbatteremo nel prossimo omicidio commesso da un americano ne ascriveremo la responsabilità a quanti organizzarono la Rivoluzione Americana. Un vecchio proverbio dice:
"La madre degli imbecilli è sempre incinta!".
"La madre degli imbecilli è sempre incinta!".
domenica 16 settembre 2012
CERCHIAMO DI SPIEGARE LA RIVOLTA SU SCALA MONDIALE DEI MUSULMANI
Come è noto a tutti l'Italia è la sede del Vaticano e per i non cristiani è la "capitale" spirituale del Cristianesimo cattolico. Sede del Papa e della Curia romana, si dovrebbe pensare che le percentuali di effettiva adesione non solo formale al credo cristiano e alle sue pratiche religiose, dovrebbero toccare percentuali elevatissime. Non è così.
A Roma la presenza alla messa domenicale tocca a mala pena il 10% dei romani; la percentuale dei cattolici che ammettono di leggere i Vangeli è ancora più bassa, mentre la loro stragrande maggioranza non riconosce la "verità" di alcuni dei dogmi essenziali del credo; abbastanza bassa è anche la percentuale di coloro che, pur professandosi cattolici, nutrono seri dubbi sull'esistenza di Dio, o non ci credono affatto. Le cifre sono ancora più basse in altri paesi d'Europa: Italia e Spagna battono ogni primato in quanti usano la bestemmia come normale intercalare del linguaggio. Il solo paese di cultura europea che pratica effettivamente il Cristianesimo o ne segue i dogmi sono gli Stati Uniti d'America. Il sud America è si in maggioranza cattolico, ma si tratta di un Cattolicesimo fortemente mescolato ad antiche religioni pre-colombiane o a pratiche religiose importate dall'Africa dagli ex schiavi neri.
Questa debolezza numerica e sostanziale del Cristianesimo, sia cattolico che protestante (quello russo greco-ortodosso fa in parte eccezione probabilmente come retaggio della diffusa opposizione ai regimi comunisti ufficialmente atei. Questo spiega perché di fronte alla reazione violenta e manifestata di centinaia di milioni di musulmani in tutto il mondo contro il disgustoso film diffamatorio di Muhammad, la reazione degli europei è sostanzialmente univoca: "I musulmani sono dei fanatici violenti e assetati di sangue cristiano".
Si tratta naturalmente di una delle tipiche manifestazioni di islamofobia che infetta l'Occidente. Il fatto è che i musulmani credono effettivamente all'esistenza di Allah ed è del pari fortemente convinta che il Corano, dettato all'umanità dal Profeta Muhammad, contenga le parole del Creatore. La quasi totalità dei musulmani pratica il digiuno del Ramadan, obbedisce al comandamento dell'elemosina ai poveri e recita le preghiere quotidiane e legge con assiduità il Corano, ne segue i dettami o cura di ascoltarne le parole dalla lettura degli Imam. In breve i musulmani seguono la loro religione, rispettano il libro sacro, quasi sempre lo conoscono e non hanno quell'atteggiamento scettico e superficiale che usano gli europei i quali, se interrogati sulla loro fede in Dio e sulla loro adesione ai Vangeli, rispondono con tono il più delle volte scettico, dubitativo o mondano: "Mah, non ne sono sicuro...Ci devo pensare....Sono convintamente ateo!".
Non può quindi stupire che alle reazioni dei musulmani religiosi restano stupefatti o affermano: "Sono dei fanatici sanguinari". Ci piacerebbe vedere le reazioni che avrebbero gli europei convintamente cattolici se un gruppetto di musulmani, appartenente ad un paese da anni in guerra con l'Islam facesse circolare un film in cui Gesù viene presentato come un pedofilo, omosessuale e libertino, sua madre come una prostituta e lo stesso Gesù raffigurato come un asino. Occorre infatti sottolineare che la quasi totalità delle manifestazioni contro le ambasciate di questi giorni sono nella stragrande maggioranza effettuate contro ambasciate statunitensi che, al di là di ogni islamofobia di carattere religioso, da ormai un trentennio bombardano paesi con popolazione musulmana, ne distruggono le città e impongono dittatori corrotti, feroci e ladri, mandando le loro truppe a fare la loro guardia pretoriana.
Facciamo così a quelli che si scandalizzano per le reazioni anti americane di questi giorni una domanda facile, facile: "Perché nessun musulmano assale le ambasciate francese, scandinave, russe, cinesi, greche e spagnole?". L'ira contro l'Occidente dovrebbe riguardare tutti i paesi non musulmani, mentre invece sembra focalizzarsi contro gli Stati Uniti d'America, sicuramente per alcune loro specificità comportamentali:
I - Gli Stati Uniti sono i soli, con gli inglesi, ad opporsi a qualsiasi tipo di condanna internazionale contro i crimini israeliani ai danni dei palestinesi. Israele seguita ad esistere grazie all'appoggio politico e militare degli Usa; e l'appoggio ad Israele copre anche azioni criminali come il bombardamento di Gaza e ai massacri compiuti ai danni di poveri villaggi indifesi;
II - Gli Stati Uniti d'America, senza voto dell'Onu e senza che vi fosse la minima prova del coinvolgimento dell'Iraq nell'attacco alle Torri Gemelle, hanno iniziato e proseguito una guerra contro il popolo iracheno che ha provocato non meno di 200000 morti civili;
III - La stessa cosa viene fatta in Afghanistan dove, dopo aver appoggiato per qualche decennio i talebani nella loro guerra contro i russi, hanno improvvisamente scoperto che erano dei nemici da distruggere, anche se con Osama Bin Laden non centrava granché (il capo di Al Qaeda era tranquillamente ospitato nel Pakistan che è sempre stato un fedele alleato degli Stati Uniti).
Non ci soffermiamo più di tanto sugli isterici contenuti provocatori dell'islamofobia praticata e seguita da una notevole parte dell'opinione pubblica statunitense: siamo convinti che dietro gli eventi di questi giorni c'è anche lo zampino di qualche servizio segreto o di qualche gruppo statunitense che sta cercando di tutto per creare un "Casus belli" contro l'Iran o per contribuire alla non rielezione di Barack Obama. Del resto è sufficiente leggere le demenziali dichiarazioni del candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti per rendersene conto; ma la cartina di "torna-sole" di quanto affermiamo è data da alcuni articoli di giornali italiani notoriamente iscritti all'elenco delle gazzette filo americane. In uno di questi si è potuto leggere che i musulmani credono a Maometto e al Corano; come dire "i cristiani credono a Gesù e ai suoi Vangeli".
P.S: Ci riserviamo di approfondire in un post successivo la specificità dei comportamenti italiani: in Italia vivono circa un milione e mezzo di musulmani di cui quasi un terzo cittadini italiani. In Italia esistono solo due moschee.
A Roma la presenza alla messa domenicale tocca a mala pena il 10% dei romani; la percentuale dei cattolici che ammettono di leggere i Vangeli è ancora più bassa, mentre la loro stragrande maggioranza non riconosce la "verità" di alcuni dei dogmi essenziali del credo; abbastanza bassa è anche la percentuale di coloro che, pur professandosi cattolici, nutrono seri dubbi sull'esistenza di Dio, o non ci credono affatto. Le cifre sono ancora più basse in altri paesi d'Europa: Italia e Spagna battono ogni primato in quanti usano la bestemmia come normale intercalare del linguaggio. Il solo paese di cultura europea che pratica effettivamente il Cristianesimo o ne segue i dogmi sono gli Stati Uniti d'America. Il sud America è si in maggioranza cattolico, ma si tratta di un Cattolicesimo fortemente mescolato ad antiche religioni pre-colombiane o a pratiche religiose importate dall'Africa dagli ex schiavi neri.
Questa debolezza numerica e sostanziale del Cristianesimo, sia cattolico che protestante (quello russo greco-ortodosso fa in parte eccezione probabilmente come retaggio della diffusa opposizione ai regimi comunisti ufficialmente atei. Questo spiega perché di fronte alla reazione violenta e manifestata di centinaia di milioni di musulmani in tutto il mondo contro il disgustoso film diffamatorio di Muhammad, la reazione degli europei è sostanzialmente univoca: "I musulmani sono dei fanatici violenti e assetati di sangue cristiano".
Si tratta naturalmente di una delle tipiche manifestazioni di islamofobia che infetta l'Occidente. Il fatto è che i musulmani credono effettivamente all'esistenza di Allah ed è del pari fortemente convinta che il Corano, dettato all'umanità dal Profeta Muhammad, contenga le parole del Creatore. La quasi totalità dei musulmani pratica il digiuno del Ramadan, obbedisce al comandamento dell'elemosina ai poveri e recita le preghiere quotidiane e legge con assiduità il Corano, ne segue i dettami o cura di ascoltarne le parole dalla lettura degli Imam. In breve i musulmani seguono la loro religione, rispettano il libro sacro, quasi sempre lo conoscono e non hanno quell'atteggiamento scettico e superficiale che usano gli europei i quali, se interrogati sulla loro fede in Dio e sulla loro adesione ai Vangeli, rispondono con tono il più delle volte scettico, dubitativo o mondano: "Mah, non ne sono sicuro...Ci devo pensare....Sono convintamente ateo!".
Non può quindi stupire che alle reazioni dei musulmani religiosi restano stupefatti o affermano: "Sono dei fanatici sanguinari". Ci piacerebbe vedere le reazioni che avrebbero gli europei convintamente cattolici se un gruppetto di musulmani, appartenente ad un paese da anni in guerra con l'Islam facesse circolare un film in cui Gesù viene presentato come un pedofilo, omosessuale e libertino, sua madre come una prostituta e lo stesso Gesù raffigurato come un asino. Occorre infatti sottolineare che la quasi totalità delle manifestazioni contro le ambasciate di questi giorni sono nella stragrande maggioranza effettuate contro ambasciate statunitensi che, al di là di ogni islamofobia di carattere religioso, da ormai un trentennio bombardano paesi con popolazione musulmana, ne distruggono le città e impongono dittatori corrotti, feroci e ladri, mandando le loro truppe a fare la loro guardia pretoriana.
Facciamo così a quelli che si scandalizzano per le reazioni anti americane di questi giorni una domanda facile, facile: "Perché nessun musulmano assale le ambasciate francese, scandinave, russe, cinesi, greche e spagnole?". L'ira contro l'Occidente dovrebbe riguardare tutti i paesi non musulmani, mentre invece sembra focalizzarsi contro gli Stati Uniti d'America, sicuramente per alcune loro specificità comportamentali:
I - Gli Stati Uniti sono i soli, con gli inglesi, ad opporsi a qualsiasi tipo di condanna internazionale contro i crimini israeliani ai danni dei palestinesi. Israele seguita ad esistere grazie all'appoggio politico e militare degli Usa; e l'appoggio ad Israele copre anche azioni criminali come il bombardamento di Gaza e ai massacri compiuti ai danni di poveri villaggi indifesi;
II - Gli Stati Uniti d'America, senza voto dell'Onu e senza che vi fosse la minima prova del coinvolgimento dell'Iraq nell'attacco alle Torri Gemelle, hanno iniziato e proseguito una guerra contro il popolo iracheno che ha provocato non meno di 200000 morti civili;
III - La stessa cosa viene fatta in Afghanistan dove, dopo aver appoggiato per qualche decennio i talebani nella loro guerra contro i russi, hanno improvvisamente scoperto che erano dei nemici da distruggere, anche se con Osama Bin Laden non centrava granché (il capo di Al Qaeda era tranquillamente ospitato nel Pakistan che è sempre stato un fedele alleato degli Stati Uniti).
Non ci soffermiamo più di tanto sugli isterici contenuti provocatori dell'islamofobia praticata e seguita da una notevole parte dell'opinione pubblica statunitense: siamo convinti che dietro gli eventi di questi giorni c'è anche lo zampino di qualche servizio segreto o di qualche gruppo statunitense che sta cercando di tutto per creare un "Casus belli" contro l'Iran o per contribuire alla non rielezione di Barack Obama. Del resto è sufficiente leggere le demenziali dichiarazioni del candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti per rendersene conto; ma la cartina di "torna-sole" di quanto affermiamo è data da alcuni articoli di giornali italiani notoriamente iscritti all'elenco delle gazzette filo americane. In uno di questi si è potuto leggere che i musulmani credono a Maometto e al Corano; come dire "i cristiani credono a Gesù e ai suoi Vangeli".
P.S: Ci riserviamo di approfondire in un post successivo la specificità dei comportamenti italiani: in Italia vivono circa un milione e mezzo di musulmani di cui quasi un terzo cittadini italiani. In Italia esistono solo due moschee.
sabato 15 settembre 2012
Venerdì di rivolta contro il film blasfemo
Ambasciate sotto assedio, massima allerta
ROMA - Venerdì di rabbia in diversi Paesi musulmani dove non si placano le proteste contro il film anti-Islam prodotto negli Usa, che ha scatenato, nella ricorrenza dell'11 settembre, l'assalto al consolato Usa a Bengasi 1 in Libia in cui hanno perso la vita l'ambasciatore Chris Stevens e altri tre funzionari americani. Violente proteste si sono verificate in Giordania, Yemen, Siria, Gaza e Gerusalemme, fino al sud-est asiatico. Alta la tensione anche in Egitto e Tunisia, con le sedi diplomatiche americane di nuovo nel mirino, mentre nella capitale sudanese Khartoum sono state attaccate anche le ambasciate di Germania e Gran Bretagna. Pesante il bilancio delle vittime: due morti a Tunisi, almeno due a Khartoum (ma alcune fonti parlano di tre o quattro), uno al Cairo e uno a Tripoli in Libano, proprio mentre il Papa giungeva nel Paese dei cedri 2 per una visita di tre giorni e lanciava un nuovo appello per la pace. Decine di persone sono rimaste ferite. Dopo quest'ultima ondata di violenze, gli Stati Uniti hanno inviato una squadra speciale di marines per presidiare la sede diplomatica a Sanaa, in Yemen.
Sedi diplomatiche sotto attacco. Oggi i manifestanti hanno nuovamente preso di mira le rappresentanze americane protestando davanti agli edifici e dando vita a scontri con la polizia nei pressi dell'ambasciata
Usa a Khartoum, in Sudan, dove un gruppo di dimostranti è riuscito a fare breccia nel muro di cinta. Dall'interno dell'edificio si sono uditi spari. Il bilancio delle vittime è ancora incerto. Almeno tre persone hanno perso la vita.
Manifestanti hanno fatto irruzione anche nel complesso delle ambasciate di Germania e Gran Bretagna: la folla è riuscita a sfondare il cordone di polizia attorno alle due rappresentanze. La bandiera tedesca è stata ammainata e al suo posto è stato issato un vessillo islamico. IIleso lo staff tedesco, ha reso noto il ministro degli Esteri Guido Westerwelle.
A Tunisi la folla ha sfondato lo sbarramento davanti alla sede diplomatica Usa, mentre la polizia ha lanciato gas lacrimogeni e sparato ad altezza uomo. Una decina di manifestanti si è arrampicata sui muri dell'ambasciata sventolando i drappi neri del movimento salafita. Il personale americano è stato evacuato. La polizia ha reso noto che due dimostranti sono stati uccisi e 28 sono rimasti feriti.
La mappa delle proteste. Le manifestazioni contro il film ritenuto blasfemo hanno interessato moltissimi Paesi, dal Medio Oriente all'Asia. Al Cairo dimostranti hanno lanciato pietre contro i poliziotti che sbarravano la strada verso l'ambasciata Usa. Un'auto è stata ribaltata e data alle fiamme lungo la via che da piazza Tahrir conduce alla rappresentanza diplomatica americana, dove erano stati collocati grandi blocchi di cemento. La piazza simbolo della primavera araba è tornata a infiammarsi e le proteste si sono allargate fino a interessare la zona della "corniche", bloccata dalle forze di polizia. Una persona è morta.
Nel Sinai, in Egitto, islamisti hanno attaccato una base della forza multinazionale: quattro osservatori colombiani sono rimasti feriti. Gli assalitori hanno appiccato un incendio intorno alla struttura e l'hanno circondata con decine di camioncini muniti di armi automatiche. Una volta penetrati all'interno, hanno dato fuoco a un veicolo e alla torre principale, quindi si sono impadroniti sessati di armi e apparecchiature per la comunicazione.
Nel Libano settentrionale, a Tripoli, centinaia di estremisti hanno assaltato e dato alle fiamme un Kentucky Fried Chicken, la catena americana di fast food. Il bilancio delle violenze è di un morto e 25 feriti.
La protesta è arrivata anche a Gaza, dove migliaia di persone hanno sfilato lungo le strade della città e a Rafah, nonostante Hamas avesse ieri invitato i cittadini a non aderire alle manifestazioni attese per il dopo preghiera del venerdì. Impugnando le bandiere di Hamas e dei movimenti della jihad, migliaia di persone hanno urlato "Morte all'America, morte a Israele".
A Teheran migliaia sono scesi in piazza scandendo gli stessi slogan contro gli Stati Uniti e Israele. Ieri la guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, aveva rilasciato pronunciato parole durissime nei confronti degli Stati Uniti e d'Israele al riguardo del film 'blasmefo', ritenendo i "sionisti e il governo Usa" responsabili della produzione della pellicola e delle violenze che ne sono conseguite.
Alta la tensione in Yemen, dove dopo l'attacco sferrato da circa duemila manifestanti all'ambasciata americana a Sanaa gli Stati Uniti hanno deciso di inviare una squadra speciale di marine per proteggere la sede diplomatica.
La rabbia contro il film su Maometto è arrivata anche nel sud-est asiatico: 10mila persone hanno inscenato una manifestazione a Dacca, in Bangladesh, e hanno tentato di raggiungere l'ambasciata statunitense. La folla, riunita davanti alla moschea di Baitul Mokarram Mosque, ha bruciato bandiere americane e israeliane, inneggiando al profeta e lanciando slogan.
Manifestazioni anche sotto l'ambasciata Usa a Giakarta, la capitale dell'Indonesia, dove oltre 350 fondamentalisti, tra cui donne e bambini, hanno condannato la pellicola che "insulta il profeta di Allah", definendola "una dichiarazione di guerra". Un centinaio di dimostranti della minoranza sciita hanno chiesto che il presunto regista, Sam Bacile, sia messo a morte. Proteste più contenute si sono tenute in diverse località della Malaysia. Una trentina di rappresentanti di varie organizzazioni islamiche si sono radunati sotto l'ambasciata Usa a Kuala Lumpur e hanno consegnato una lettera in cui si chiede alle autorità americane di togliere la clip del film da YouTube, impedire che venga diffusa e processare l'autore per "crimini contro i diritti umani".
Negli Usa le salme delle vittime di Bengasi. In serata sono state rimpatriate le salme di Stevens e degli altri tre componenti dello staff americano in Libia uccisi a Bengasi. Alla cerimonia solenne alla base dell'aeronautica militare di Andrews, in Maryland, hanno preso parte il presidente Barack Obama, il segretario di Stato Hillary Clinton e il segretario alla Difesa Leon Panetta. Stevens, ha detto la Clinton, "ha rischiato la vita per aiutare a proteggere i libici e ha dato la sua vita per aiutarli a costruire un Paese migliore. Le persone amavano lavorare con Chris e per Chris. Non era conosciuto solo per il suo coraggio, ma anche per il suo sorriso". E ancora: "I Paesi arabi non hanno lottato contro la tirannia dei dittatori per quella della violenza".
Da parte sua, il capo della Casa Bianca ha lodato il lavoro e il patriottismo dei diplomatici e ha promesso di colpire i responsabili dell'attacco. "Porteremo davanti alla giustizia coloro che ci hanno strappato i nostri compagni. Agiremo con velocità contro la violenza e continueremo a fare di tutto per proteggere gli americani all'estero", ha detto Obama. I leader dei Paesi dove si stanno verificando le proteste, ha incalzato, devono garantire la sicurezza, incalza poi Obama invitandoli a "parlare contro le violenze". Malgrado l'alto prezzo che l'America paga costantemente, "gli Stati Uniti non si ritireranno mai dal mondo, perché questa è l'essenza della leadership americana - ha aggiunto - Anche nel nostro più duro momento di sconforto, resteremo determinati perché siamo americani e andremo a testa alta".
Allerta anche in Italia. A seguito delle proteste nei Paesi islamici, l'allerta è massima anche in Italia. In una circolare indirizzata ai questori si raccomanda di intensificare la vigilanza sugli obiettivi sensibili, in particolare le sedi diplomatiche Usa e israeliane.
Condanna del film su Maometto. Ricevendo il collega egiziano Mohamed Morsi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha definito "un'offesa a qualsiasi credo religioso" e ha invitato a rafforzare la cooperazione "per sgombrare il campo dai pericoli di risposte terroristiche irrazionali". Morsi, da parte sua, ha ribadito di non poter accettare "aggressioni" come quella avvenute a Bengasi e ha avvertito che le violenze "non portano nulla di buono e servono solo a distogliere l'attenzione dai veri problemi come il conflitto in Siria, la sorte dei palestinesi e la mancanza di stabilità in Medio Oriente". Morsi ha ricordato che anche gli americani "respingono i perniciosi tentativi di offendere il Profeta Maometto".
Il Papa in Libano sfida l'integralismo: "Falsifica la fede"
Non ha rinunciato alla visita e nemmeno alla scelta del giorno più difficile: il venerdì di preghiera che si è trasformato in furia in tutto il Medio Oriente.
Il papa Benedetto XVI in visita a Beirut
Ma Benedetto XVI, accolto ieri a Beirut in un clima di festa, ha fatto di tutto per trasformarlo in giorno di dialogo. Anche il Libano è coinvolto nella tempesta scatenata dal film anti islam: nel Nord del Paese una persona è morta durante gli scontri mentre un fast food della catena americana KFC, è stato dato alle fiamme.Per Benedetto XVI, «pellegrino di pace" la visita era «necessaria», viste le fiamme nuovamente divampate in Medio Oriente e la mancata cessazione delle violenze in Siria. Serviva «dare questo segno di fraternità, di incoraggiamento, di solidarietà: invitare al dialogo, alla pace, essere contro la violenza, trovare la soluzione dei problemi». Questo il senso della tappa nel Paese dei Cedri, ha spiegato il Pontefice.Papa Benedetto ha definito la primavera araba «positiva», ma ha dato una strigliata agli estremismi: «Il fondamentalismo è sempre una falsificazione delle religioni». Con questa frase, dettata in aereo, è atterrato. E ad accoglierlo c'erano le massime autorità politiche del Paese con un governo targato Hezbollah: 19 ministri su 30. Gli Stati Uniti considerano il Partito di Dio un movimento terroristico, ma non l'Unione europea. Padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, in merito ha glissato: «Non ho da dirvi una posizione della Santa Sede su Hezbollah», ha spiegato alla vigilia.Il presidente Michel Suleiman, cristiano maronita, ha accolto il Papa come «portatore di pace in una terra di martirio, ma anche di convivenza tra le comunità». In Libano la presenza di cristiani è infatti massiccia, se rapportata agli altri Stati musulmani, ma sono sempre meno inseriti nei gangli del potere politico. Via dunque al secondo richiamo papale: «I cristiani del Medio Oriente devono poter applicare, sia nel matrimonio che altrove, il proprio diritto, senza restrizioni». Hezbollah ha risposto con calore e intelligenza politica, senza incidenti né manifestazioni di dissenso. Il movimento islamico non ha mai rinunciato alla sua ala militare indipendente, le milizie che operano soprattutto a Beirut e nel Sud del Paese al di fuori dei regolamenti delle forze ufficiali libanesi (Laf). Benedetto XVI ha definito «peccato grave» il mercato delle armi (che riguarda tanto la Siria quanto il Libano). La condanna dell'import-export è stato un messaggio per tutti, anche per Hezbollah.A fine agosto, il quotidiano al Joumhouria, descriveva infatti un nuovo schieramento intorno ai villaggi del sud, un'esercitazione di tre giorni con 10 mila militari in previsione di un'offensiva dell'esercito israeliano come ipotetica risposta ai recenti sconfinamenti libanesi. I vertici militari di Hezbollah avrebbero simulato incursioni oltre il confine. Per parte della stampa israeliana, con lo scopo di studiare l'occupazione della Galilea. Benedetto XVI si è dunque rivolto a tutte le religioni: «Dio invita a creare pace nel mondo, e compito delle fedi nel mondo è creare la pace». Nell'Esortazione Apostolica firmata a Beirut, Benedetto XVI ha inoltrato anche un altro richiamo: «Le donne devono impegnarsi ed essere coinvolte nella vita pubblica ed ecclesiale». Anche nei tribunali ecclesiastici, «alla pari dell'uomo e senza ingiustizie».
Non dobbiamo scusarci o vinceranno i fanatici
Le ambasciate americane bruciano in tutto il Medio Oriente e oltre. L'islam jihadista morde la mano che l'ha aiutato nelle rivoluzioni. È ridicolo sposare la tesi che la rabbia omicida di massa sia colpa di un ignorabile filmetto su Maometto sul web. Non si tratta mai solo di vignette, film, affermazioni: l'analisi di quanto sia cara la figura di Maometto all'islam potrebbe essere comparata a quanto sia cara la figura di Gesù a un cristiano. Ma solo dei cristiani pazzi si avventurerebbero, di fronte a eventuali offese, in omicidi e incendi. La tv salafita egiziana ha acceso il fuoco mostrando la misera performance in internet dopo un anno che il film esisteva: un gesto di provocazione. E la folla aveva armi anche pesanti quando si è avventata sull'ambasciata. Non proprio un gesto spontaneo, dunque.È autolesionistico che Hillary Clinton invece di tuonare, come compete a un ministro degli Esteri per la perdita del suo ambasciatore, si sia sbrigata a dichiarare «ripugnante» lo stupido filmetto, come se ciò comportasse conseguenze violente. È pesante che Obama, il difensore designato (...)(...) delle libertà, non abbia colto l'occasione per spiegare che da noi, in Occidente, la libertà di pensiero si estende a tutti i temi. Poteva fare l'esempio di quando la Corte Suprema americana, già nel 1940, assolse un certo Newton Cantwell e i suoi due figli, accusati per la diffusione di materiali anticattolici che avevano provocato reazioni violente (lo ricorda Seth Frantzman sul Jerusalem Post).Tanti casi di liceità delle opinioni estreme si sono susseguiti nella nostra storia. Certo non ci schiereremmo mai con chi bruciava gli eretici per motivi di ordine pubblico. Ci si può scusare e poi ribadire con terribile grandezza che gli ambasciatori sono sacri, sacro è il diritto di opinione, che guai a chi li tocca, e che neppure il più idiota e ignoto degli esibizionisti da noi verrà tacitato. La verità è che vogliamo, senza speranza, essere accettati dagli islamici. Accettiamo qualsiasi equivoco sperando che sorgerà per loro la stella della democrazia, e tutto andrà bene.George Bush pensava che rimuovendo Saddam Hussein l'Irak potesse diventare un'occasione per sciiti e sunniti di sedersi insieme al banchetto della libertà, e ne ha ricavato biasimo mondiale, mentre i morti tribali, religiosi, etnici seguitano a contarsi a migliaia. Obama avrà la stessa sorte. Ha voluto essere l'apprendista stregone delle rivoluzioni arabe, come Carter fu quello della rivoluzione khomeinista: la sua acquiescenza verso l'islam gli ha regalato un'immagine di debolezza in un mondo in cui essa viene considerata sinonimo di stupidaggine e promessa di vittoria vicina per l'islamismo. Kartoum, Tunisi, Gerusalemme, il Libano, oltre a Bengasi e al Cairo sono preda di manifestazioni di odio che sono già costate la vita a svariate persone. L'assassinio di Chris Stevens sarebbe dovuto diventare l'occasione di un altolà decisivo. L'ambasciatore è una figura istituzionalmente intoccabile, eppure Stevens era il meno tutelato, ma il più coraggioso fra i cinquantenni americani alti e biondi che la mattina fanno jogging (e lui lo faceva), sicuro che gli bastassero un paio di persone ai fianchi nel fiato afoso del Medio Oriente. Ma come poteva Stevens ignorare che la Libia è una caldaia ribollente d'odio? È impossibile che non sapesse che nel novembre 2011, quando cadde il regime, le forze ribelli issarono la bandiera di Al Qaida sulla Corte di Giustizia di Bengasi. Molte bande, che si chiamino Al Qaida o quant'altro, le formazioni jihadiste di ogni tipo chiedono quella giustizia, la sharia. La loro scontentezza odierna è legata al fatto che di jihadismo, oltre che di pane, i nuovi governi non ne hanno dato abbastanza; la colpa è sempre degli Usa e di Israele, l'odio è sempre volto all'Occidente. Non c'è in questo niente di personale, dunque niente che possa essere sanato, ed è assurdo non legare concettualmente le nuove rivoluzioni all'ideologia che sembra dominarle, lo jihadismo. È la promessa dell'islam di piegare il mondo alla sottomissione. È onestamente ridicolo il tentativo specialistico di descrivere Al Qaida come un'organizzazione in declino. Non importa se Al Qaida è sbandata, divisa, impoverita. È come quando si dice che da Gaza non è stato Hamas a sparare i missili, e si sa che alla fine i piccoli gruppi non si muovono senza il suo permesso. Gli attacchi sono la grande voce dello jihadismo, in cui Al Qaida ha rinomato spazio. La spontanea suddivisione in rami autonomi non ne fa in alcun modo un'organizzazione debole. Si è fatta un variegato partito combattente dalla Libia alla Siria al Sinai.Ma Obama non vuole riconoscere che esista un pericolo jihadista, l'America ha preferito l'idea che si tratti di un evento minoritario frutto del fanatismo e colpa di un idiota che posta un filmino, e quindi che gli assassini abbiano qualche ragione. Così si creano nuove rivendicazioni, e nuove provocazioni: lo sceicco Yusuf Al Qaradawi, mentre il Papa parte per il Libano, gli chiede in un messaggio ironico e aggressivo le scuse per quel che disse nel 2006 sull'islam politico. Fomenta l'odio contro i cristiani e dice che la colpa è tutta dei cristiani stessi. Stile americano.
Fiamma Nirenstein
venerdì 14 settembre 2012
IL TEMPO LUNGO DELLE PRIMAVERE
È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il
giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di
guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale », uno dei tanti gruppi in guerra
contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco,
hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro
quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a
occhio nudo. Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio
l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma
che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ».
Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che
specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati.
Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati
Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era
forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere,
non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con
una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano.
Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho
chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è
stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo
musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla
sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi.
L’interrogativo li ha lasciati perplessi. Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è
abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra,
ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la
mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel
mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra
civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E
di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti.
Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così,
a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono
in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica
illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite,
appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti
agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia,
non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di
un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno
chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la
rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il sangue a Bengasi e ad
Aleppo. Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo.
Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era
un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla
Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al
mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il
sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una
profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il
problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana
nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata
rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita. Insomma l’impegno
iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti
si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno
inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non
intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli
americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché
non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di
sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini.
E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza
attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili. A poche settimane
dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti
con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è
ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato
repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione
auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante
Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America
garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a
caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con
Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è
uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere
stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi
interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed
Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a
Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha
telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa
d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere
a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava
comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le condoglianze
di un alleato.
Bernardo Valli
Il Cairo, la rabbia contro l’America assedio all’ambasciata: centinaia di feriti
Esplode il mondo arabo per il film blasfemo: un morto in Yemen IL CAIRO — Una nebbia
venefica avvolge le strade di Garden City, il quartiere delle ambasciate che si trova alle spalle di
Piazza Tahrir, la piazza della rivoluzione, la piazza del popolo egiziano. Dalla prima mattina
gruppi di giovani musulmani, molti jeans e poche barbe salafite, hanno cercato nuovamente di
raggiungere l’ambasciata americana, già assaltata martedì scorso. I famigerati gas lacrimogeni
“Made in Usa”, già tristemente noti durante la rivoluzione del febbraio 2011, sparati senza
risparmio hanno tenuto a distanza di sicurezza i gruppetti di ragazzi che armati di pietre
cercavano di raggiungere la Tawfik Diab, la strada da cui si accede all’ingresso del vasto
compound che ospita i diplomatici americani. Blindati e cavalli di frisia sbarrano ogni possibilità
di passaggio, la sede diplomatica del resto è vuota già da qualche giorno. La polizia
anti-sommossa controlla che la rabbia non si avvicini più di tanto, ha ricevuto l’ordine di avere
la “mano leggera” ma ferma: nessuno scontro con la folla se non ci sono tentativi di assalto alla
ambasciata, ma soprattutto nessun uso delle armi. A fine giornata fra agenti e manifestanti ci
saranno “solo” 224 feriti. Il nuovo potere egiziano della Fratellanza musulmana vuole dimostrare
di poter far fronte all’emergenza, di poter garantire la sicurezza senza mandare i tank per le
strade. Senza un eccessivo uso della forza come invece è accaduto a Sanaa nello Yemen dove
la polizia è stata costretta a sparare, e un manifestante è stato ucciso, per tenere lontana
dall’ambasciata Usa la folla che voleva assaltarla. L’offesa al Profeta Maometto, con il film
blasfemo “L’Innocenza dei musulmani” prodotto negli Stati Uniti messo in rete doppiato anche in
lingua araba, scuote tutte le Piazze arabe e asiatiche, da Kabul al Cairo. Mentre i manifestanti
lanciavano sassi e qualche molotov contro le forze dell’ordine che rispondevano con un fitto
lancio di lacrimogeni, Morsi — che in questo momento si trova in Italia per la sua prima visita
ufficiale in un Paese europeo — è apparso in video alla televisione pubblica subito dopo una
telefonata col presidente Usa Barack Obama. Morsi ha detto chiaramente di respingere
qualsiasi tipo di insulto al profeta Maometto, ma allo stesso tempo ha ribadito che il diritto di
espressione e di manifestare non deve arrivare all’aggressione delle ambasciate e alla violenza.
Il profeta Maometto è una «linea rossa intoccabile», ha detto il presidente, facendosi pubblico
difensore dei valori islamici in un paese come l’Egitto dove si fa sempre più sentire la presenza
della componente più integralista dei salafiti (il secondo Partito nel Parlamento), che hanno
chiesto a Morsi di rompere qualsiasi collaborazione con gli Usa, fino a quando non arriveranno
le loro scuse formali. Attento a calibrare il suo messaggio verso l’estero, Morsi sostiene che
l’Egitto farà di tutto per proteggere i cittadini stranieri sul suo territorio. E’ la richiesta esplicita
venuta dal presidente Usa Barack Obama che ha definito l’Egitto al momento «né alleato né
nemico», eppure per gli aiuti finanziari e militari che il Cairo riceve da Washington è secondo
solo a Israele con più di 2 miliardi di dollari l’anno. «Noi condanniamo ciò che è accaduto a
Bengasi » ha affermato Morsi, perché «sappiamo che uccidere persone innocenti è contrario
all’Islam; garantiamo il diritto di manifestare e di esprimere opinioni, ma senza attaccare
proprietà pubbliche o private, missioni diplomatiche o ambasciate». Ieri sera la maggior parte
degli scontri si limitava alle strade nei pressi della moschea di Omar Makram e Piazza Simon
Bolivar Square, mentre nella vicina Piazza Tahrir si montavano tende per un presidio notturno.
«Noi da qui non ce ne andiamo», spiega Ahmed Khalil, uno delle decine di ragazzi che hanno
deciso di passare la notte in piazza. «Puoi scriverlo: non sono né della Fratellanza né sono un
salafita, ma il Profeta non si tocca, nessuno se ne andrà se non ci chiedono scusa ».
Manifestanti e squadre antisommossa si fronteggiano così per la prima notte in attesa della
annunciata protesta di oggi, all’uscita dalla preghiera di mezzogiorno, quando inizierà la grande
manifestazione convocata dal partito dei Fratelli musulmani contro il film blasfemo e le offese al Profeta. Appelli alla calma sono stati ripetuti dalle radio e dalle tv per una protesta pacifica
mentre il ministro dell’Interno ha ordinato moderazione alle forze dell’ordine. Ma molti movimenti
salafiti, hanno annunciato altre manifestazioni e proteste dopo la preghiera del venerdì. La
tensione è palpabile, su questa prova di piazza il “nuovo Egitto” del presidente Morsi e della
Fratellanza musulmana si giocano molta della loro credibilità come partner affidabili per l’intero
Occidente.
Fabio Scuto
È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il
giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di
guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale », uno dei tanti gruppi in guerra
contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco,
hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro
quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a
occhio nudo. Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio
l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma
che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ».
Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che
specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati.
Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati
Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era
forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere,
non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con
una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano.
Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho
chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è
stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo
musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla
sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi.
L’interrogativo li ha lasciati perplessi. Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è
abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra,
ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la
mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel
mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra
civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E
di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti.
Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così,
a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono
in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica
illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite,
appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti
agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia,
non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di
un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno
chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la
rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il sangue a Bengasi e ad
Aleppo. Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo.
Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era
un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla
Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al
mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il
sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una
profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il
problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana
nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata
rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita. Insomma l’impegno
iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti
si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno
inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non
intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli
americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché
non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di
sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini.
E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza
attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili. A poche settimane
dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti
con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è
ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato
repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione
auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante
Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America
garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a
caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con
Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è
uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere
stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi
interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed
Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a
Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha
telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa
d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere
a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava
comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le condoglianze
di un alleato.
Bernardo Valli
Il Cairo, la rabbia contro l’America assedio all’ambasciata: centinaia di feriti
Esplode il mondo arabo per il film blasfemo: un morto in Yemen IL CAIRO — Una nebbia
venefica avvolge le strade di Garden City, il quartiere delle ambasciate che si trova alle spalle di
Piazza Tahrir, la piazza della rivoluzione, la piazza del popolo egiziano. Dalla prima mattina
gruppi di giovani musulmani, molti jeans e poche barbe salafite, hanno cercato nuovamente di
raggiungere l’ambasciata americana, già assaltata martedì scorso. I famigerati gas lacrimogeni
“Made in Usa”, già tristemente noti durante la rivoluzione del febbraio 2011, sparati senza
risparmio hanno tenuto a distanza di sicurezza i gruppetti di ragazzi che armati di pietre
cercavano di raggiungere la Tawfik Diab, la strada da cui si accede all’ingresso del vasto
compound che ospita i diplomatici americani. Blindati e cavalli di frisia sbarrano ogni possibilità
di passaggio, la sede diplomatica del resto è vuota già da qualche giorno. La polizia
anti-sommossa controlla che la rabbia non si avvicini più di tanto, ha ricevuto l’ordine di avere
la “mano leggera” ma ferma: nessuno scontro con la folla se non ci sono tentativi di assalto alla
ambasciata, ma soprattutto nessun uso delle armi. A fine giornata fra agenti e manifestanti ci
saranno “solo” 224 feriti. Il nuovo potere egiziano della Fratellanza musulmana vuole dimostrare
di poter far fronte all’emergenza, di poter garantire la sicurezza senza mandare i tank per le
strade. Senza un eccessivo uso della forza come invece è accaduto a Sanaa nello Yemen dove
la polizia è stata costretta a sparare, e un manifestante è stato ucciso, per tenere lontana
dall’ambasciata Usa la folla che voleva assaltarla. L’offesa al Profeta Maometto, con il film
blasfemo “L’Innocenza dei musulmani” prodotto negli Stati Uniti messo in rete doppiato anche in
lingua araba, scuote tutte le Piazze arabe e asiatiche, da Kabul al Cairo. Mentre i manifestanti
lanciavano sassi e qualche molotov contro le forze dell’ordine che rispondevano con un fitto
lancio di lacrimogeni, Morsi — che in questo momento si trova in Italia per la sua prima visita
ufficiale in un Paese europeo — è apparso in video alla televisione pubblica subito dopo una
telefonata col presidente Usa Barack Obama. Morsi ha detto chiaramente di respingere
qualsiasi tipo di insulto al profeta Maometto, ma allo stesso tempo ha ribadito che il diritto di
espressione e di manifestare non deve arrivare all’aggressione delle ambasciate e alla violenza.
Il profeta Maometto è una «linea rossa intoccabile», ha detto il presidente, facendosi pubblico
difensore dei valori islamici in un paese come l’Egitto dove si fa sempre più sentire la presenza
della componente più integralista dei salafiti (il secondo Partito nel Parlamento), che hanno
chiesto a Morsi di rompere qualsiasi collaborazione con gli Usa, fino a quando non arriveranno
le loro scuse formali. Attento a calibrare il suo messaggio verso l’estero, Morsi sostiene che
l’Egitto farà di tutto per proteggere i cittadini stranieri sul suo territorio. E’ la richiesta esplicita
venuta dal presidente Usa Barack Obama che ha definito l’Egitto al momento «né alleato né
nemico», eppure per gli aiuti finanziari e militari che il Cairo riceve da Washington è secondo
solo a Israele con più di 2 miliardi di dollari l’anno. «Noi condanniamo ciò che è accaduto a
Bengasi » ha affermato Morsi, perché «sappiamo che uccidere persone innocenti è contrario
all’Islam; garantiamo il diritto di manifestare e di esprimere opinioni, ma senza attaccare
proprietà pubbliche o private, missioni diplomatiche o ambasciate». Ieri sera la maggior parte
degli scontri si limitava alle strade nei pressi della moschea di Omar Makram e Piazza Simon
Bolivar Square, mentre nella vicina Piazza Tahrir si montavano tende per un presidio notturno.
«Noi da qui non ce ne andiamo», spiega Ahmed Khalil, uno delle decine di ragazzi che hanno
deciso di passare la notte in piazza. «Puoi scriverlo: non sono né della Fratellanza né sono un
salafita, ma il Profeta non si tocca, nessuno se ne andrà se non ci chiedono scusa ».
Manifestanti e squadre antisommossa si fronteggiano così per la prima notte in attesa della
annunciata protesta di oggi, all’uscita dalla preghiera di mezzogiorno, quando inizierà la grande
manifestazione convocata dal partito dei Fratelli musulmani contro il film blasfemo e le offese al Profeta. Appelli alla calma sono stati ripetuti dalle radio e dalle tv per una protesta pacifica
mentre il ministro dell’Interno ha ordinato moderazione alle forze dell’ordine. Ma molti movimenti
salafiti, hanno annunciato altre manifestazioni e proteste dopo la preghiera del venerdì. La
tensione è palpabile, su questa prova di piazza il “nuovo Egitto” del presidente Morsi e della
Fratellanza musulmana si giocano molta della loro credibilità come partner affidabili per l’intero
Occidente.
Fabio Scuto
LA PROVOCAZIONE
Scontri e assalti alle ambasciate. Esplode l’ira contro l’America
Dal Bangladesh alla Tunisia, dal Kashmir al Marocco, dal Sudan all’Iraq, perfino in Israele a Tel Aviv, un’ondata di rabbia ha coinvolto ieri migliaia di musulmani contro il film che offende il Profeta e il Paese dove sarebbe stato prodotto, l’America. Dopo l’assalto al consolato Usa di Bengasi e l’uccisione, martedì notte, di quattro cittadini statunitensi tra cui l’ambasciatore a Tripoli, è stato soprattutto in Yemen e in Egitto che ieri si è temuto. A Sanaa, alleata degli Stati Uniti nella lotta contro Al Qaeda che nel Sud del Paese ha una sua roccaforte, centinaia di persone hanno sfondato i cancelli dell’ambasciata Usa gridando «oh Messaggero di Dio siamo pronti al sacrificio ». All’interno del compound fortificato è scoppiato un incendio, mentre auto venivano date alle fiamme subito fuori, la polizia sparava. Quattro persone sono state uccise, una dozzina ferite. In Egitto, per il terzo giorno davanti all’ambasciata Usa del Cairo, a un passo da piazza Tahrir, si sono viste scene di guerriglia, con centinaia di manifestanti: molotov, lacrimogeni, bandiere bruciate e quella innalzata sull’edificio strappata, scontri con la polizia, almeno trenta feriti. Mentre il presidente Mohammed Morsi volava in Italia, in America la preoccupazione sui rapporti con il Cairo era evidente. Già costretto ad affrontare in piena campagna elettorale la crisi diplomatica con Israele, per via dell’Iran, il presidente ha ammesso che l’instabilità del più importante Paese arabo, se confermata, porrebbe «davvero un problema serio». L’amministrazione Obama ha preso le distanze dal video diffuso su YouTube e bloccato per ora solo in Afghanistan per timore di sollevazioni. Ancora ieri il segretario di Stato Hillary Clinton l’ha definito «disgustoso e riprovevole». Ma non è bastato. Perfino nella piccola Striscia di Gaza ieri sono scesi in piazza in qualche decina: inmancanza di sedi diplomatiche Usa la protesta è avvenuta davanti agli uffici dell’Onu. Lo stesso a Teheran dove è toccato alla Svizzera, che rappresenta gli Usa dalla chiusura della loro ambasciata nel 1979, di assistere alle urla di gruppi inferociti: «Marg-bar Amrìka» (morte all’America). Ieri nessun rappresentante di Washington è stato colpito ma l’allarme è altissimo e Obama ha inviato verso le coste libiche due caccia-torpedinieri con missili, nonché marines e droni. La sicurezza delle sedi Usa è stata rafforzata e l’allerta è massima anche in Europa: a Berlino il consolato americano è stato evacuato dopo il ritrovamento di una busta sospetta, per fortuna un falso allarme. La nuova ondata di violenze antiamericane nel mondo islamico va infatti ben oltre il motivo che in apparenza l’ha scatenata, quell’assurdo quanto ancora misterioso filmato. A lungo soffocato dalle dittature alleate di Washington, il sentimento popolare che vede negli Stati Uniti un nemico soprattutto per l’appoggio a Israele si sta fondendo con l’emergere delle frange islamiche più estremiste. E questo preoccupa non solo Washington, ma il mondo intero, compresi i milioni di cittadini dei Paesi arabi convinti o fiduciosi, solo un anno fa, che la caduta dei loro raìs fosse l’inizio di una vita normale, libera e in pace.
Dal Bangladesh alla Tunisia, dal Kashmir al Marocco, dal Sudan all’Iraq, perfino in Israele a Tel Aviv, un’ondata di rabbia ha coinvolto ieri migliaia di musulmani contro il film che offende il Profeta e il Paese dove sarebbe stato prodotto, l’America. Dopo l’assalto al consolato Usa di Bengasi e l’uccisione, martedì notte, di quattro cittadini statunitensi tra cui l’ambasciatore a Tripoli, è stato soprattutto in Yemen e in Egitto che ieri si è temuto. A Sanaa, alleata degli Stati Uniti nella lotta contro Al Qaeda che nel Sud del Paese ha una sua roccaforte, centinaia di persone hanno sfondato i cancelli dell’ambasciata Usa gridando «oh Messaggero di Dio siamo pronti al sacrificio ». All’interno del compound fortificato è scoppiato un incendio, mentre auto venivano date alle fiamme subito fuori, la polizia sparava. Quattro persone sono state uccise, una dozzina ferite. In Egitto, per il terzo giorno davanti all’ambasciata Usa del Cairo, a un passo da piazza Tahrir, si sono viste scene di guerriglia, con centinaia di manifestanti: molotov, lacrimogeni, bandiere bruciate e quella innalzata sull’edificio strappata, scontri con la polizia, almeno trenta feriti. Mentre il presidente Mohammed Morsi volava in Italia, in America la preoccupazione sui rapporti con il Cairo era evidente. Già costretto ad affrontare in piena campagna elettorale la crisi diplomatica con Israele, per via dell’Iran, il presidente ha ammesso che l’instabilità del più importante Paese arabo, se confermata, porrebbe «davvero un problema serio». L’amministrazione Obama ha preso le distanze dal video diffuso su YouTube e bloccato per ora solo in Afghanistan per timore di sollevazioni. Ancora ieri il segretario di Stato Hillary Clinton l’ha definito «disgustoso e riprovevole». Ma non è bastato. Perfino nella piccola Striscia di Gaza ieri sono scesi in piazza in qualche decina: inmancanza di sedi diplomatiche Usa la protesta è avvenuta davanti agli uffici dell’Onu. Lo stesso a Teheran dove è toccato alla Svizzera, che rappresenta gli Usa dalla chiusura della loro ambasciata nel 1979, di assistere alle urla di gruppi inferociti: «Marg-bar Amrìka» (morte all’America). Ieri nessun rappresentante di Washington è stato colpito ma l’allarme è altissimo e Obama ha inviato verso le coste libiche due caccia-torpedinieri con missili, nonché marines e droni. La sicurezza delle sedi Usa è stata rafforzata e l’allerta è massima anche in Europa: a Berlino il consolato americano è stato evacuato dopo il ritrovamento di una busta sospetta, per fortuna un falso allarme. La nuova ondata di violenze antiamericane nel mondo islamico va infatti ben oltre il motivo che in apparenza l’ha scatenata, quell’assurdo quanto ancora misterioso filmato. A lungo soffocato dalle dittature alleate di Washington, il sentimento popolare che vede negli Stati Uniti un nemico soprattutto per l’appoggio a Israele si sta fondendo con l’emergere delle frange islamiche più estremiste. E questo preoccupa non solo Washington, ma il mondo intero, compresi i milioni di cittadini dei Paesi arabi convinti o fiduciosi, solo un anno fa, che la caduta dei loro raìs fosse l’inizio di una vita normale, libera e in pace.
sabato 8 settembre 2012
SIRIA
Dieci giorni di botte e torture poi la fuga verso il confine l' odissea di due fratelli siriani
REYHANLI (Confine turco-siriano) - Thaled ha un braccio ingessato, il naso rotto e un vasto ematoma sulla parte sinistra del viso. Yasmine mostra invece chiazze rossastre di calvizie sulle tempie, là dove c' erano i capelli che le sono stati strappati, e un occhio ancora pesto. Sono fratello e sorella, hanno 21 e 23 anni. Fuggiti da Aleppo dieci giorni fa, i due si vergognano quasi dei segni delle torture subite nelle carceri del presidente Bashar al Assad. Torture tanto più atroci che sono state loro inflitte nella stessa stanza, prima all' uno poi all' altra, per una decina di giorni di seguito. Durante l' ora e mezzo che trascorriamo assieme, la ragazza tiene sempre il braccio attorno alle spalle del fratello, come se con quel gesto protettivo volesse evitargli chissà quali altri supplizi. Li incontriamo a Reyhanli, a pochi chilometri dal confine turco-siriano, nella casa affittata da uno zio scappato mesi fa. Thaled e Yasmine hanno esitato a lungo prima di raccontare il loro calvario. Ad Aleppo hanno lasciato la famiglia e temono che gli aguzzini del regime possano per rappresaglia accanirsi contro di essa. Dice la ragazza: «Non so come ho potuto sopravvivere a quanto m' hanno fatto, ma sono certa che se dovesse capitare a mia sorella, lei morirebbe. La prego, nel suo articolo non scriva il nostro cognome». I due sono stati arrestati il 20 luglio scorso dagli shabiha, le squadracce pro Assad, pochi giorni prima che le forze lealiste lanciassero la loro mostruosa offensiva aerea per riconquistare i quartieri caduti nelle mani degli insorti. «Hanno sfondato la porta d' ingresso all' alba. Mezz' ora dopo eravamo già in un commissariato dove gli uomini delle forze di sicurezza hanno cominciato a picchiarci, senza neanche spiegarci per quale motivo ci avevano portati lì», racconta Thaled. «Continuavano a dirmi che avrebbero violentato mia sorella in dieci se non avessi denunciato i miei compagni di lotta. Ma io non ho mai fatto politica, non ha mai combattuto contro il presidente né ho mai aiutato o conosciuto nessun soldato dell' Esercito libero siriano». Yasmine non è stata stuprata da dieci soldati, come ci dirà accompagnandoci alla porta lo zio che la ospita. Peggio, i suoi carcerieri l' hanno violentata con un bastone. E' accaduto alla fine della loro detenzione, sotto gli occhi del fratello. «Per lei è stato come se l' avessero segnata col fuoco», ci dice lo zio. «E mentre Yasmine veniva violentata, altri soldati rompevano il braccio di Thaled colpendolo con una spranga. Quei bastardi hanno voluto terrorizzarli per sempre». Durante il nostro incontro nessuno dei due fa menzione dell' accaduto. Yasmine racconta piuttosto di quanto la facesse soffrire vedere il fratello picchiato dagli agenti. Dice: «Cominciavano a schiaffeggiarlo, sempre più violentemente. Poi lo buttavano a terra, e mentre uno dei soldati gli schiacciava la testa con lo scarponcino gli altri lo colpivano a calci in pancia e sulla schiena. Nel frattempo, uno di loro, credo il più alto in grado, mi insultava e mi minacciava tirandomi i capelli. Io non sentivo quasi niente, neanche quando gli restavano delle ciocche in mano. Un paio di volte credo di aver perso i sensi. Ma non è stato per il dolore. Sono svenuta dalla paura, per le botte che davano a Thaled». I ricordi del ragazzo sono più confusi. Salvo quando racconta della stanza dove l' hanno portato il giorno dopo il suo arrivo nel commissariato. «Ho visto tre ragazzi della mia età, appesi per le braccia al soffitto. Sanguinavano. Due sembravano svenuti. Il terzo si lamentava con un filo di voce. L' ho guardato in faccia, ma era tutto gonfio e pieno di tagli. Mi dissero che appena uno dei tre fosse morto, avrebbero appeso a me». Thaled racconta ancora delle urla e di altri spaventosi rumori che udivano attraverso i muri della cella dove erano rinchiusi. E del cibo disgustoso che veniva loro servito. Appena scarcerati, il padre è riuscito a farli sconfinare. Quando sono arrivati in Turchia, Yasmine non ha voluto parlare con la psicologa dell' ospedale doveè stata ricoverata. Suo fratello è stato invece operato al braccio e ingessato. Dice Thaled: «Adesso ho un solo desiderio. Quello di guarire in fretta. Perché voglio tornare ad Aleppo, per combattere contro Assad».
Pietro Del Re
Fra i ribelli nel cuore insanguinato di Aleppo "I caccia di Assad ci stanno decimando"
ALEPPO - C' è sangue ovunque. Imbratta i volti dei feriti, cola dalle barelle, crea ampie gore sul pavimento. E' sui muri, sulle sedie, sulle tende. Lo senti perfino nell' aria, quando il suo odore metallico si mischia alla polvere e al fetore delle immondizie. Il sangue di questo ospedale clandestino, appena approntato in un quartiere conquistato dagli insorti, la dice lunga sulla battaglia che infuria ad Aleppo. Basta contare il numero di corpi straziati che auto impazzite scaricano di continuo. «Le forze del regime ci stanno decimando, solo stamattina sono arrivati diciassette feriti gravi, quattro dei quali non ce l' hanno fatta», dice il chirurgo Hamad Radwan, un omino basso e tondo di 39 anni. «La strategia dei lealisti consiste nel bombardare sistematicamente ogni quartiere, ogni strada, ogni casa nelle mani dell' Esercito libero siriano (Els) per costringerlo a ritirarsi da Aleppo. Per questo ci sono aeree della città sotto un continuo diluvio di missili e di granate». Due giorni fa, a pochi isolati da qui, il dottor Radwan è lui stesso miracolosamente sopravvissuto alla bomba che ha centrato e distrutto il pronto soccorso dove stava operando. Dice: «L' altra spiegazione a questo inferno di fuoco è che il regime di Damasco voglia punirei civili che non combattono contro i ribelli, e che magari li ospitano e li sostengono. Ma non è così: la maggior parte della popolazione non parteggia per nessuno. I pazienti che tento di salvare sono vittime sacrificali schiacciate tra due eserciti». Per arrivare all' ospedale dove lavora Radwan attraversiamo una città che sembra fatta di macerie e, prima ancora, villaggi distrutti, periferie rase al suolo, decine di edifici resi calcinacci affumicati. In questo abominio si aggirano soltanto pochi uomini: camminano lentamente, come storditi, alla ricerca di qualcosa da recuperare tra i calcinacci. Lo spettacolo dello sfacelo operato dai Mig e dai carri armati governativi è cento volte più drammatico di quello che vedemmo un mese fa, prima che su Aleppo cadessero chissà quante altre tonnellate di bombe. «Capita che i caccia colpiscano anche dueo tre volte la stessa casa, come se mirassero alla cieca», spiega Mustafa Assaf, il giovane soldato dell' Els che ci accompagna. «Per noi, il rombo dei loro motori è diventato quasi un suono famigliare», scherza il ragazzo, indicando il cielo costantemente pattugliato dai Mig governativi. Il quartiere dove sorge l' ospedale clandestinoè sorprendentemente trafficato. Molti negozi sono aperti, i marciapiedi gremiti di passanti. Poi, però, a un incrocio ci ferma un ribelle di una brigata d' opposizione. «I cecchini», dice. «Non potete proseguire». Mustafa ci invita a seguirlo a piedi, fino a raggiungere alcuni soldati dell' Els appostati al riparo di sacchi di sabbia. Il silenzio è rotto all' improvviso dalle esplosioni secche dei tiratori scelti. Immediatamente parte la risposta degli insorti, con sventagliate di kalashnikov sparate però verso il nulla, a casaccio, perché su questa linea di fronte i lealisti godono di una migliore visuale. Le raffiche dei ribelli sono quindi brevi, per non sprecare preziose munizioni. «Da quando hanno riconquistato alcune strade del quartiere, l' esercito del presidente Bashar al Assad ha schierato i suoi cecchini, che sparano su chiunque, soprattutto sui civili, per terrorizzarli», spiega Mustafa. Quadro che evoca un déjà vu: il feroce assedio di Misurata, con i plotoni di cecchini gheddafisti che da Tripoli street scaricavano i loro fucili sulla popolazione inerme. Quei lealisti lì, però, non potevano contare sui caccia né sugli elicotteri da combattimento che garantiscono alle forze di Damasco la supremazia del cielo. Anche se generali lealisti giurano che entro la metà del mese avranno ripulito Aleppo dai "terroristi", Mustafa, recitando quando ha sentito dai suoi capi, si dice convinto che gli insorti non indietreggeranno. «Ormai le forze di Damasco non riescono a riprendere il controllo dei quartieri che abbiamo conquistato e si affidano solo all' aviazione», sostiene, confermando poi quanto sostengono molti analisti, ossia che il regime non può rischiare di inviare la fanteria a combattere per le strade delle città ribelli. Infatti, salvo gli alti ufficiali, che come il presidente appartengono per lo più alla minoranza alauita, il grosso delle truppe è composta da sunniti, i quali potrebbero disertare alla prima occasione. O peggio, fraternizzare con gli insorti.
Pietro Del Re
REYHANLI (Confine turco-siriano) - Thaled ha un braccio ingessato, il naso rotto e un vasto ematoma sulla parte sinistra del viso. Yasmine mostra invece chiazze rossastre di calvizie sulle tempie, là dove c' erano i capelli che le sono stati strappati, e un occhio ancora pesto. Sono fratello e sorella, hanno 21 e 23 anni. Fuggiti da Aleppo dieci giorni fa, i due si vergognano quasi dei segni delle torture subite nelle carceri del presidente Bashar al Assad. Torture tanto più atroci che sono state loro inflitte nella stessa stanza, prima all' uno poi all' altra, per una decina di giorni di seguito. Durante l' ora e mezzo che trascorriamo assieme, la ragazza tiene sempre il braccio attorno alle spalle del fratello, come se con quel gesto protettivo volesse evitargli chissà quali altri supplizi. Li incontriamo a Reyhanli, a pochi chilometri dal confine turco-siriano, nella casa affittata da uno zio scappato mesi fa. Thaled e Yasmine hanno esitato a lungo prima di raccontare il loro calvario. Ad Aleppo hanno lasciato la famiglia e temono che gli aguzzini del regime possano per rappresaglia accanirsi contro di essa. Dice la ragazza: «Non so come ho potuto sopravvivere a quanto m' hanno fatto, ma sono certa che se dovesse capitare a mia sorella, lei morirebbe. La prego, nel suo articolo non scriva il nostro cognome». I due sono stati arrestati il 20 luglio scorso dagli shabiha, le squadracce pro Assad, pochi giorni prima che le forze lealiste lanciassero la loro mostruosa offensiva aerea per riconquistare i quartieri caduti nelle mani degli insorti. «Hanno sfondato la porta d' ingresso all' alba. Mezz' ora dopo eravamo già in un commissariato dove gli uomini delle forze di sicurezza hanno cominciato a picchiarci, senza neanche spiegarci per quale motivo ci avevano portati lì», racconta Thaled. «Continuavano a dirmi che avrebbero violentato mia sorella in dieci se non avessi denunciato i miei compagni di lotta. Ma io non ho mai fatto politica, non ha mai combattuto contro il presidente né ho mai aiutato o conosciuto nessun soldato dell' Esercito libero siriano». Yasmine non è stata stuprata da dieci soldati, come ci dirà accompagnandoci alla porta lo zio che la ospita. Peggio, i suoi carcerieri l' hanno violentata con un bastone. E' accaduto alla fine della loro detenzione, sotto gli occhi del fratello. «Per lei è stato come se l' avessero segnata col fuoco», ci dice lo zio. «E mentre Yasmine veniva violentata, altri soldati rompevano il braccio di Thaled colpendolo con una spranga. Quei bastardi hanno voluto terrorizzarli per sempre». Durante il nostro incontro nessuno dei due fa menzione dell' accaduto. Yasmine racconta piuttosto di quanto la facesse soffrire vedere il fratello picchiato dagli agenti. Dice: «Cominciavano a schiaffeggiarlo, sempre più violentemente. Poi lo buttavano a terra, e mentre uno dei soldati gli schiacciava la testa con lo scarponcino gli altri lo colpivano a calci in pancia e sulla schiena. Nel frattempo, uno di loro, credo il più alto in grado, mi insultava e mi minacciava tirandomi i capelli. Io non sentivo quasi niente, neanche quando gli restavano delle ciocche in mano. Un paio di volte credo di aver perso i sensi. Ma non è stato per il dolore. Sono svenuta dalla paura, per le botte che davano a Thaled». I ricordi del ragazzo sono più confusi. Salvo quando racconta della stanza dove l' hanno portato il giorno dopo il suo arrivo nel commissariato. «Ho visto tre ragazzi della mia età, appesi per le braccia al soffitto. Sanguinavano. Due sembravano svenuti. Il terzo si lamentava con un filo di voce. L' ho guardato in faccia, ma era tutto gonfio e pieno di tagli. Mi dissero che appena uno dei tre fosse morto, avrebbero appeso a me». Thaled racconta ancora delle urla e di altri spaventosi rumori che udivano attraverso i muri della cella dove erano rinchiusi. E del cibo disgustoso che veniva loro servito. Appena scarcerati, il padre è riuscito a farli sconfinare. Quando sono arrivati in Turchia, Yasmine non ha voluto parlare con la psicologa dell' ospedale doveè stata ricoverata. Suo fratello è stato invece operato al braccio e ingessato. Dice Thaled: «Adesso ho un solo desiderio. Quello di guarire in fretta. Perché voglio tornare ad Aleppo, per combattere contro Assad».
Pietro Del Re
Fra i ribelli nel cuore insanguinato di Aleppo "I caccia di Assad ci stanno decimando"
ALEPPO - C' è sangue ovunque. Imbratta i volti dei feriti, cola dalle barelle, crea ampie gore sul pavimento. E' sui muri, sulle sedie, sulle tende. Lo senti perfino nell' aria, quando il suo odore metallico si mischia alla polvere e al fetore delle immondizie. Il sangue di questo ospedale clandestino, appena approntato in un quartiere conquistato dagli insorti, la dice lunga sulla battaglia che infuria ad Aleppo. Basta contare il numero di corpi straziati che auto impazzite scaricano di continuo. «Le forze del regime ci stanno decimando, solo stamattina sono arrivati diciassette feriti gravi, quattro dei quali non ce l' hanno fatta», dice il chirurgo Hamad Radwan, un omino basso e tondo di 39 anni. «La strategia dei lealisti consiste nel bombardare sistematicamente ogni quartiere, ogni strada, ogni casa nelle mani dell' Esercito libero siriano (Els) per costringerlo a ritirarsi da Aleppo. Per questo ci sono aeree della città sotto un continuo diluvio di missili e di granate». Due giorni fa, a pochi isolati da qui, il dottor Radwan è lui stesso miracolosamente sopravvissuto alla bomba che ha centrato e distrutto il pronto soccorso dove stava operando. Dice: «L' altra spiegazione a questo inferno di fuoco è che il regime di Damasco voglia punirei civili che non combattono contro i ribelli, e che magari li ospitano e li sostengono. Ma non è così: la maggior parte della popolazione non parteggia per nessuno. I pazienti che tento di salvare sono vittime sacrificali schiacciate tra due eserciti». Per arrivare all' ospedale dove lavora Radwan attraversiamo una città che sembra fatta di macerie e, prima ancora, villaggi distrutti, periferie rase al suolo, decine di edifici resi calcinacci affumicati. In questo abominio si aggirano soltanto pochi uomini: camminano lentamente, come storditi, alla ricerca di qualcosa da recuperare tra i calcinacci. Lo spettacolo dello sfacelo operato dai Mig e dai carri armati governativi è cento volte più drammatico di quello che vedemmo un mese fa, prima che su Aleppo cadessero chissà quante altre tonnellate di bombe. «Capita che i caccia colpiscano anche dueo tre volte la stessa casa, come se mirassero alla cieca», spiega Mustafa Assaf, il giovane soldato dell' Els che ci accompagna. «Per noi, il rombo dei loro motori è diventato quasi un suono famigliare», scherza il ragazzo, indicando il cielo costantemente pattugliato dai Mig governativi. Il quartiere dove sorge l' ospedale clandestinoè sorprendentemente trafficato. Molti negozi sono aperti, i marciapiedi gremiti di passanti. Poi, però, a un incrocio ci ferma un ribelle di una brigata d' opposizione. «I cecchini», dice. «Non potete proseguire». Mustafa ci invita a seguirlo a piedi, fino a raggiungere alcuni soldati dell' Els appostati al riparo di sacchi di sabbia. Il silenzio è rotto all' improvviso dalle esplosioni secche dei tiratori scelti. Immediatamente parte la risposta degli insorti, con sventagliate di kalashnikov sparate però verso il nulla, a casaccio, perché su questa linea di fronte i lealisti godono di una migliore visuale. Le raffiche dei ribelli sono quindi brevi, per non sprecare preziose munizioni. «Da quando hanno riconquistato alcune strade del quartiere, l' esercito del presidente Bashar al Assad ha schierato i suoi cecchini, che sparano su chiunque, soprattutto sui civili, per terrorizzarli», spiega Mustafa. Quadro che evoca un déjà vu: il feroce assedio di Misurata, con i plotoni di cecchini gheddafisti che da Tripoli street scaricavano i loro fucili sulla popolazione inerme. Quei lealisti lì, però, non potevano contare sui caccia né sugli elicotteri da combattimento che garantiscono alle forze di Damasco la supremazia del cielo. Anche se generali lealisti giurano che entro la metà del mese avranno ripulito Aleppo dai "terroristi", Mustafa, recitando quando ha sentito dai suoi capi, si dice convinto che gli insorti non indietreggeranno. «Ormai le forze di Damasco non riescono a riprendere il controllo dei quartieri che abbiamo conquistato e si affidano solo all' aviazione», sostiene, confermando poi quanto sostengono molti analisti, ossia che il regime non può rischiare di inviare la fanteria a combattere per le strade delle città ribelli. Infatti, salvo gli alti ufficiali, che come il presidente appartengono per lo più alla minoranza alauita, il grosso delle truppe è composta da sunniti, i quali potrebbero disertare alla prima occasione. O peggio, fraternizzare con gli insorti.
Pietro Del Re
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