lunedì 27 agosto 2012

SIRIA

Massacro alle porte di Damasco donne e bambini nelle fosse comuni

A Daraya oltre 300 vittime tra i civili, regime e ribelli si accusano a vicenda

L’IMMAGINE della Madonna di Daraya, la mamma inginocchiata a terra, il suo corpo a far da scudo al figlioletto, il suo grembo a fargli da tomba, è da ieri l’icona della guerra siriana. Entra nell’immaginario universale delle sporche guerre, appaiata alla Madonna di Algeri, lo strazio di una donna dopo il massacro a Bentalha nel 1997. Pochi fotogrammi più di quello riassumono la cruda insensatezza della strage consumata nella cittàsatellite alla periferia di Damasco. Una Pompei contemporanea: 320 corpi umani fissati nell’attimo in cui li ha colti la morte: la testa di un anziano penzola dal finestrino del furgone, colpito mentre era alla guida. Poco distante, un uomo ha il piede ancora sul pedale della bicicletta. Una famigliola — moglie, marito, due figli — è accatastata fuori dell’ingresso di un negozio. Una giovane ha la guancia posata sul gradino di una tomba, nel vano riparo di un cimitero. La nonna, ferita, non sa dire «chi è stato, né da dove hanno sparato». File di uomini sono sfigurati dai colpi. Tutto restituisce la rappresentazione impietosa di un’umanità: centinaia di adulti, vecchi, donne, bambini, falciati, a volte giustiziati, senza che alcuno possa aggiudicarsi la vittoria. E allineati in fosse comuni scavate alla porte della città.
S’incrudelisce anche la propaganda da entrambe le parti. Governo e militanti si addebitano l’un l’altro la responsabilità. La tv di Stato denuncia l’atrocità «perpetrata dall’Esercito libero siriano e dagli islamisti di Al Qaeda». Gli attivisti gridano all’«ennesima barbarie del regime». L’opposizione si appropria di un filmato di Addounia, il canale indipendente filogovernativo, censurando le voci dei sopravvissuti con le note di un Requiem.
Come in passato, è probabile che anche per Daraya non si riesca a stabilire la verità. Nessuna organizzazione indipendente è rimasta sul terreno a indagare. Del resto, ancor prima della partenza dei caschi blu dell’Onu, Daraya era un territorio esclusivo dei miliziani. L’accesso era stato impedito anche agli osservatori di Kofi Annan, respinti a colpi d’arma da fuoco assieme a una troupe televisiva straniera. Sotto il controllo di tre brigate sostenute da parte della popolazione locale, il sobborgo era da settimane la Bab Amra di Damasco, dal nome del quartiere ribelle di Homs, la città martire al centro del Paese.
Le brigate di Sa’ad Ben Abi Waqass e di al-Faiha e gruppi di combattenti ne avevano fatto una roccaforte, appostati anche ad al-Basateen, i campi e i frutteti da cui era facile colpire coi razzi l’aeroporto militare di Mezzeh. A sua volta, l’esercito ha ricordato che è disposto a impiegare ogni mezzo per riprendere
il controllo delle città. Centinaia di soldati, decine di carri armati e blindati, elicotteri e caccia hanno guidato per cinque giorni l’“offensiva finale”.
Sullo sfondo, il presidente Assad torna a parlare di «complotto ai danni della Siria e dell’intera regione. Il popolo siriano lo impedirà », dice. «Non importa a che prezzo». Al suo fianco compare il vicepresidente Farouk Sha’ara, mettendo a tacere le voci di una sua fuga in Giordania. Tuttavia, quale sia il costo, pesantissimo alla soglia dei 20mila morti in un anno e mezzo, è un interrogativo che tormenta la popolazione, schiacciata fra due fronti che vanno radicalizzandosi. Mentre continuano a infuriare gli scontri a Sud di Aleppo, a Dera’a e nel Nord a Deir Ez Zor, il malumore si fa sentire anche fra i rivoluzionari: tanto più dopo la ritirata dei ribelli venerdì anche da Daraya, lasciando i civili nel fuoco incrociato. Edward, militante di Aleppo, esprime quel che si ascolta più spesso: «La gente di Damasco e di Aleppo comincia a detestare entrambe le parti: seminano tutte e due distruzione gratuita, senza riguardo per la vita dei civili». I metodi dei ribelli, la presenza di stranieri nei loro ranghi, le distruzioni alla Cittadella di Aleppo, alienano in parte il sostegno ai miliziani. Sull’altra sponda, l’uso sproporzionato della forza da parte del regime, allontana i lealisti. «Incolpate quanto vi pare l’Esercito libero», ribatte un attivista, «ma non scordate chi e cosa lo ha creato ». E un altro: «Prima di schierarvi pro o contro, pensate ai civili, ai bambini che stanno morendo».
Dall’estero, gli osservatori avanzano i primi dubbi, prospettano il rischio che i miliziani stiano perdendo la “battaglia per il cuore e le menti della gente comune”. Emile Hokayem, dell’Istituto londinese di studi strategici, conclude che i ribelli hanno alzato troppo la mira portando la battaglia nelle città. «All’inizio, la loro strategia era ragionevole: una guerra d’attrito in linea con le loro capacità», dice all’Economist. «Colpivano strade, avamposti militari, consolidando il controllo delle aree rurali da cui il regime s’era ritirato. Poi si sono dati il progetto di “liberare” le città, consapevoli di non esserne all’altezza». Ad ascoltare i siriani, la domanda esula dalle partigianerie: a che valgono i sacrifici di Daraya, di Damasco e Aleppo, se il risultato che si profila all’orizzonte, è un sanguinoso stallo.

Alix Van Buren

giovedì 23 agosto 2012

SIRIA

Siria, l' Islam mette al bando Assad
NEL giorno in cui il mondo musulmano mette al bando Damasco e in cui il Consiglio di sicurezza annuncia che la missione di monitoraggio Onu in Siria non verrà rinnovata, l' aviazione del presidente Bashar al Assad ha compiuto la sua ennesima strage di civili. Stavolta le bombe dei Mig hanno colpito un villaggio a circa 50 chilometri a nord di Aleppo, Azaz, uccidendo almeno quaranta persone, tra cui molte donne e molti bambini. «Questo orribile attacco ha distrutto un intero quartiere residenziale», ha detto Anna Neistat, direttore di Human Rights Watch per le emergenze. «Ancora una volta le forze del governo siriano hanno attaccato con un cinico disprezzo per la vita civile». Nel timore di altri raid, gli ospedali della cittadina hanno chiuso i battenti e i feriti sono ora costretti a fuggire in Turchia per potersi curare. Da Azaz è una fila continua di uomini e donne in auto, a piedi o in pulmino, che scappano per trovare protezione oltre confine. Poche ore prima era giunta la notizia che l' Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci) ha sospeso la Siria dai Paesi membri. Al termine del summit dell' Organizzazione che si è tenuto alla Mecca, in Arabia saudita, i partecipanti si sono trovati d' accordo sulla «necessità di mettere fine immediatamente agli atti di violenza», dichiarandosi fortemente inquieti per i massacri e gli atti inumani subiti dal popolo siriano. Solo Teheran, alleato storico del regime di Damasco, ha contestato questa sia pur simbolica decisione, dichiarandola «ingiusta». Due giorni fa, il rapporto finale della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite aveva accusato le forze governative siriane e le milizie fedeli al regime di aver commesso crimini di guerra e contro l' umanità, sarebbe a dire omicidi, stupri e torture soprattutto sui civili. Sempre secondo il rapporto, anche gli insorti dell' Esercito libero siriano che combattono il regime di Assad hanno perpetrato crimini di guerra, ma le violazioni «non raggiungono la gravità, la frequenza e l' intensità» di quelli delle truppe lealiste. Riguardo al massacro di Houla, in cui lo scorso maggio si contarono 108 morti, tra cui 49 bambini, e che il regime attribuì agli insorti, o meglio ai «terroristi», la Commissione ha invece decretato che a compierlo furono proprio le milizie fedeli al presidente. Quanto al mandato dell' Onu in Siria, che scade dopodomani, l' ambasciatore francese presso il Palazzo di vetro di New York, Gérard Araud, ha dichiarato che non sarà rinnovato perché «non ci sono le condizioni per il proseguimento della missione». I 101 osservatori militari ancora presenti in Siria lasceranno dunque Damasco nei prossimi giorni. Il Consiglio di sicurezza ha tuttavia trovato un accordo sull' apertura di un ufficio nella capitale siriana per sostenere gli sforzi internazionali destinati a porre fine al conflitto. Sempre ieri, cinque paesi arabi del Golfo hanno chiesto ai loro connazionali di lasciare il Libano a causa dei rischi per la sicurezza legati all' aggravarsi della crisi in Siria. Si tratta di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e Kuwait, che temono possibili rappresaglie di sciiti (vicini agli alauiti di Assad) contro quei cittadini di Paesi sunniti che sostengono gli oppositori al regime di Damasco. E sono ormai 2,5 milioni le persone colpite dall' emergenza umanitaria in Siria: un numero più che raddoppiato negli ultimi quattro mesi. «Le persone sono stanche, vogliono far ritorno alle loro case, ma il dato cruciale che fa la differenza è metter fine ai combattimenti», ha detto l' inviato dell' Onu a Damasco, Valérie Amos.


Kurdistan, l' altra guerra di Assad Arma l' offensiva del Pkk in Turchia
KILIS (Confine turco-siriano) - I carri armati turchi sono schierati in ordine sparso, nascosti tra gli alberi di una collina che sovrasta un' ampia pianura. Hanno il cannone puntato verso Aleppo, anche se il loro obiettivo non è né l' Esercito libero siriano né quello fedele al regime di Damasco. I tank di Ankara mirano altri nemici, più interni e più insidiosi: i ribelli curdi del Pkk che, dopo aver trovato rifugio in Siria, hanno lanciato una grande offensiva con centinaia di miliziani nel Kurdistan turco. Il rincrudirsi di quest' annosa guerra all' ombra del recente e sanguinoso conflitto siriano ha già provocato, in Turchia, centocinquanta morti dal 23 luglio scorso. Due giorni fa, per la prima volta dall' inizio della rivolta armata del Pkk, i ribelli hanno sequestrato un parlamentare turco, il deputato dell' opposizione socialdemocratica Huseyin Aygun. L' ultimo attacco armato della "primavera curda" risale al 5 agosto, e s' è svolto proprio lungo questo confine, quando alcuni miliziani hanno assaltato tre avamposti militari e ucciso 8 soldati turchi. Di questo risveglio militare, Ankara accusa Damasco, sostenendo che gli attacchi sono stati perpetrati dai ribelli curdi con lanciarazzi Rpg7 forniti dai servizi siriani. Sempre secondo le autorità turche, il regime del presidente Bashar al Assad avrebbe consegnato al partito curdo siriano Pyd, vicino al Pkk, il controllo di cinque province del nord lungo la frontiera con la Turchia. E lo avrebbe fatto per contrastare la ribellione degli oppositori locali al regime. «Durante le manifestazioni contro Assad, ci capita spesso di essere aggrediti da esponenti del Pkk armati da Damasco», racconta Hossam Sayda, uno degli organizzatori delle proteste. «Tra gli attivisti curdi ce ne sono molti di estrazione pacifista ma la maggior parte sostiene l' Esercito libero siriano, che già controlla le aree di alcune città. Non si capisce se quelle regioni "liberate" siano già un pezzo della Siria post-Assad o un tassello di un possibile, nuovo Kurdistan». La prima conseguenza internazionale della guerra civile in Siria è dunque l' inasprirsi di un conflitto mai sopito, quello tra Ankara e il braccio armato dei secessionisti del "Kurdistan turco", una lotta che dura da 28 anni e che ha mietuto almeno 40 mila vittime, per lo più curde. La risposta del premier turco Recep Tayyip Erdogan non si è fatta attendere, soprattutto alla luce della nuova alleanza che il Pkk ha stretto in chiave antiturca con il potere siriano. Un' Alleanza che molti analisti interpretano anche come la vendetta dell' appoggio turco alla ribellione siriana sunnita contro il regime alauita di Assad. Dopo aver minacciato di inseguire i "terroristi" curdi anche oltre il confine siriano, il premier turco ha dispiegato mezzi corazzati e tank lungo quel tratto di frontiera. Il suo governo ha anche chiuso ai civili sette aree della provincia di Hakkari, nell' Anatolia orientale, teatro di violenti scontri nelle ultime due settimane. Queste "zone militari" sono state vietate anche ai giornalisti e ai deputati dell' opposizione. Alcuni testimoni raccontano che l' esercito turcoe il Pkk combattono in queste ore una battaglia con diverse centinaia di uomini per parte. Dal 1979, quando Abdullah Ocalan, assieme ai vertici del Pkk che aveva appena fondato, trovò per vent' anni ospitalità a Damasco, la Siria era governata da Hafez al Hassad, padre di Bashar. Oggi come allora, il regime sembra utilizzare i ribelli curdi per punzecchiare il Paese confinante. Venerdì scorso, Ankara ha ricevuto l' appoggio di Washington: in visitaa Istanbul, il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha detto che la Siria non deve diventare un «santuario per i terroristi del Pkk». E del sostegno degli Stati Uniti, lo Stato turco ha gran bisogno: se Assad rimanesse al suo posto, Ankara avrebbe per vicino un Paese sempre pronto a proteggere e armare i suoi storici nemici; se invece il regime di Damasco cadesse, il Consiglio nazionale siriano, diretto dal curdo Abdel Basset Sayda, farebbe di tutto per offrire alla minoranza l' autonomia che rivendica da decenni.


Siria, la minaccia di Obama al regime Pronti a intervenire se usa armi chimiche
IL PRESIDENTE americano Barack Obama rompe gli indugi e torna a minacciare Assad. «L' uso di armi chimiche e biologiche sarebbe una linea rossa per un possibile intervento militare in Siria», ha detto durante una conferenza stampa a sorpresa alla Casa Bianca, rispondendo a una domanda sul possibile uso di armi chimiche o batteriologiche da parte del regime di Damasco. Intanto, sempre ieri, è apparsa una notizia alquanto ghiotta, sebbene a pubblicarla sia stato il sito web di una televisione russa in lingua araba, il quale cita una fonte coperta da anonimato. Eccola: «Un alto ufficiale dell' esercito siriano è morto in un ospedale di Mosca e il suo corpo è stato portato a Damasco nel fine settimana a bordo di un volo speciale». Appena apparsa online su Russia Today, la nuova ha scatenato una ridda di ipotesi che convergono tutte verso la seguente congettura: la salma rientrata a Damasco sarebbe quella di Maher al Assad, fratello del presidente e capo della feroce Guardia repubblicana, rimasto gravemente ferito nell' attentato del 18 luglio a Damasco. Da settimane corrono voci secondo cui in quell' attacco Maher avrebbe perso entrambe le gambe e che da allora starebbe lottando «tra la vita e la morte». Voci mai smentite dal regime siriano, il quale ieri ha tuttavia negato la morte di alto ufficiale dell' esercito in un ospedale di Mosca: una nota del ministero dell' Informazione di Damasco giudica la notizia riportata dalla tv russa «infondata e riconducibile alla guerra psicologica contro la Siria». Ad infittire il giallo ci hanno però pensato altri media arabi, confermando la morte del fratello del presidente. Fatto sta che dal 18 luglio Maher non è mai apparso in pubblico. In serata, l' esplosione di un' autobomba attivata a distanza nella città turca di Gaziantep, nell' Anatolia Sud Orientale, non lontano dal confine siriano, ha provocato almeno 8 morti e diversi feriti. Nessuno ha ancora rivendicato l' attentato, ma la polizia non esclude nessuna pista, neanche quella dei ribelli curdi del Pkk, che hanno trovato rifugio nella Siria di Assad. La tv panaraba Al Jazeera ha riportato di una giornalista giapponese rimasta gravemente ferita nel corso di un bombardamento dell' artiglieria dell' esercito lealista nel quartiere Suleimaniye di Aleppo. La reporter di cui non si conoscono ancora le generalità sarebbe stata subito trasportata in ospedale. Dal marzo 2011, tre giornalisti stranieri sono stati uccisi in Siria: Gilles Jacquier, reporter di France 2 deceduto l' 11 gennaio a Homs, la statunitense Marie Colvin del Sunday Times e il francese Remi Ochlik, fotografo, entrambi morti il 22 febbraio sempre a Homs, nel bombardamento di un centro stampa improvvisato dagli insorti. Intanto, mentre i Mig del regime continuano a mietere vittime a Damasco, Aleppo e Daraa (dove solo nella giornata di domenica si sono contati 170 morti), la Turchia fa sapere che ha già accolto quasi settantamila profughi dalla Siria e che se tale cifra supererà le centomila unità non ci sarà più spazio per ospitarne altri. Il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu, ha quindi sollecitato le Nazioni Unite a creare una zona-cuscinetto direttamente in territorio siriano dove allestire campi per gli sfollati interni.

Pietro Del Re


Siria, gli insorti resistono ad Aleppo
CARRI armati, colpi d' artiglieria, cecchini. Non risparmiano nulla del loro arsenale le truppe di Bashar Assad per cercare di riprendersi i quartieri di Aleppo in cui si nascondono ancora i ribelli, che nonostante la pressione sempre più forte delle forze regolari, mantengono disperate sacche di resistenza. I combattenti dell' Esercito libero siriano, quasi a corto di munizioni e armati perlopiù di fucili e lanciagranate, restano ad al-Shaar, Hananu, Saif-al Dawla, Salaheddin. E, anche se hanno rafforzato il controllo dei villaggi "liberati" verso il confine turco, come quello di Azaz, cruciali nel garantire l' approvvigionamento di farmaci e armi, i lealisti continuano a straziare di bombe Dara' a e Homs. È qui, nella città occidentale da cui ieri è fuggito verso la Giordania il vice-comandante della polizia, che si consuma la «carneficina» del giorno denunciata dall' opposizione. Accompagnate dalle temibili milizie shabiha, le forze di Assad si fanno strada a suon di bombe. Per ore. Poi, dagli altoparlanti dei muezzin chiedono ai cittadini di radunarsi di fronte alla moschea di Bilal. Dei 350 che arrivano, dieci vengono giustiziati. Sommariamente, davanti a tutti. «Un massacro avvenuto con la partecipazione dell' Iran», accusa l' Esercito libero siriano promettendo una rappresaglia che «colpirà al cuore» il regime, alleato di Teheran. Magari con un attacco similea quello che il 18 luglio straziò quattro alti funzionari della sicurezza siriana, cognato di Assad compreso. Eppure, di fronte alla potenza di fuoco del regime, i ribelli iniziano ad arretrare. Non a caso, il capo del Consiglio nazionale siriano, Abdelbasset Sida, accoglie con favore le aperture di Usa e Turchia sulla possibilità di una "no-fly zone" per aiutarli contro l' aviazione di Damasco. Una soluzione più incisiva, rispetto al fallito piano di pace di Kofi Annan, è auspicata con ogni probabilità anche dalla Lega Araba. Che ieri, a causa dell' assenza per un intervento chirurgico del cruciale capo della diplomazia saudita, ha rinviato la riunione in cui avrebbe dovuto esprimersi sulla nomina da parte dell' Onu del nuovo inviato speciale per la Siria, l' algerino Lakhdar Brahmini. Nella capitale i ribelli cercano di resistere con metodi da guerriglia, come quelli che ieri hanno innescato intense battaglie nel centro e nel sobborgo settentrionale di al-Tal. Tra i 15 civili morti, c' era anche un ex militare diventato freelance per Al Arabiya. Un altro cronista è stato invece ucciso nella sua casa: la sua "colpa" era di lavorare per l' agenzia ufficiale Sana, megafono di Assad. Con loro sale a cinque il bilancio dei giornalisti uccisi da gennaio in questa guerra in cui informazione e disinformazione sono parte integrante degli arsenali in campo. Reporters sans Frontières ha lanciato un appello perché non siano più presi di mira i giornalisti.

Valeria Fraschetti


Navi spia, droni e commando la guerra segreta di Londra e Berlino per abbattere il regime siriano
BERLINO - Generazioni or sono, furono nemici giurati in due guerre mondiali, poi alleati nella Nato durante la guerra fredda. Oggi sono in prima linea insieme per l' Europa, nella guerra di spie tra la dittatura di Assade il mondo civile. Sembra una trama degna di John Le Carré o di Ian Fleming, ma qui gli eroi in azione restano senza nome né volto. Agli ordini di David Cameron e di Angela Merkel. Parliamo del leggendario MI5, il servizio segreto di Sua Maestà britannica, e del Bundesnachrichtendienst (Bnd), l' intelligence tedesca. Le loro informazioni, raccolte con le tecnologie più sofisticate, forniscono agli insorti siriani notizie preziose,e secondo i media dei due Paesi anche addestramento. È una guerra segreta, con a fianco i droni da spionaggio della U.S. Air Force, ed è difficile immaginare che il dittatore di Damasco possa vincerla. «Il regime di Assadè vicino alla fine». Con toni insolitamente espliciti, ci ha pensato Gerhard Schindler, il giurista nuovo presidente del Bnd, a fornire l' analisi della situazione. Il suo collega Jonathan Evans, direttore dell' MI5, sicuramente la condivide, i due si conoscono e si stimano. L' alleanza è operativa, sul posto. Una nave-spia della Bundesmarine, la marina federale, ufficialmente registrata come Flottendienstboot, nave di servizio e assistenza, incrocia per il Bnd al largo della costa siriana. Ha a bordo gli apparati di sorveglianza lontana più moderni, sviluppati dai tedeschi insieme al Regno Unito. Può controllare ogni movimento delle truppe di Assad, fino a seicento chilometri in profondità nel territorio siriano. In tempo reale, le trasmette ai colleghi britannici, e agli americani. E a un altro alleato-chiave, che ci tiene a mantenere un profilo basso di facciata: la Turchia. Nella base Nato di Adana, uno dei siti più importanti della modernissima aviazione turca nell' area sono ormai stazionati, rivela Bild, specialisti del Bnd. A un passo dalle piste dove gli F16 ultima versione di Erdogan sono pronti al decollo su allarme per annientare ogni minaccia siriana, i tedeschi intercettano telefonate e comunicazioni radio, e mantengono i contatti con i ribelli. «Nessun altro servizio segreto occidentale ha fonti così buone in Siria come il Bnd», dichiara un ufficiale dell' intelligence Usa. Il Bnd ricambia la cortesia: «Siamo fieri di dare un contributo importante alla caduta del regime». Insieme ai tedeschi, i britannici operano da Akrotiri e Dhekelia, le loro basi a Cipro. E sui monti c' è il potentissimo centro di ascolto britannico, "l' occhio dell' Inghilterra" lo chiamanoi ciprioti da decenni. Ci sarebbero anche Droni da ricognizione. L' operazione non finisce qui. Veterani dello Special air service, il mitico corpo speciale britannico, secondo quando hanno raccontato i media inglesi e tedeschi addestrano i migliori reparti delle forze ribelli siriane. Ufficialmente non sono più in servizio, lavorano per aziende di vigilanza e sicurezza private, ma la competenza è quella, e l' appoggio politico è tutto con loro. Gli 007 del Regno Unito, rivela il Times, hanno aiutato e dato supporto logistico ai rivoluzionari in azioni contro le truppe di Assad, compresa un' imboscata contro 40 mezzi blindati diretti verso una città. Infiltrare, prevenire, dissimularsi, puntare sul doppio gioco di agenti locali, sono sempre stati i segreti del successo dello MI5, che il Bnd ha imparato a dovere. Partendo da Cipro, gli agenti speciali inglesi raggiungono le basi turche, poi penetrano in territorio siriano ed entrano in azione. E centinaia di soldati delle forze speciali britanniche, Usa, israeliane si tengono pronte, quando il regime cadrà, a prendere il controllo del micidiale arsenale chimico del regime del presidente siriano Assad.

Andrea Tarquini


“Aiuti umanitari e mediazione politica così stiamo costruendo il dopo-Assad” 

La crisi siriana è giunta ad un punto di svolta. E può essere una svolta tanto per il popolo siriano che ha subito sofferenze e violenze intollerabili, quanto per la regione.
Il regime di Assad, infatti, dopo aver provato invano, per contenere l'opposizione, a giocare sul "divide et impera" interno e sullo spauracchio del fondamentalismo islamico (ma i siriani sono in maggioranza musulmani moderati) e del terrorismo (sponsorizzato di frequente dal regime stesso) è ricorso al tentativo di regionalizzare la crisi alimentando scontri al confine con Giordania, Libano e Turchia. Il Libano, proprio in quanto esempio di democrazia interconfessionale in Medio Oriente è esposto a costanti tentativi di destabilizzazione, come indicano la spirale di "rapimenti settari" sotto la regia Teheran-Damasco ed il caso di Samaha, l'ex ministro per l'informazione libanese, recentemente arrestato, che programmava attentati terroristici nel nord del suo Paese su istruzioni di Damasco.
La liberazione del popolo siriano e una maggiore distensione regionale vanno, quindi, di pari passo. E sempre più evidente che solo una Siria unita e democratica può diventare un fattore di rassicurazione e stabilità per l'intero Medio Oriente; viceversa una transizione democratica incompiuta condannerebbe la Siria ad una instabilità prolungata che lascerebbe campo libero alle interferenze esterne da parte di forze interessate al caos permanente (è il caso dei gruppi terroristici) o alla modifica in chiave egemonica, degli equilibri regionali (Iran). Per non parlare del pericolo della proliferazione di armi di distruzione di massa (la Siria possiede il maggior arsenale di armi chimiche e biologiche in Medio Oriente).
Con una posta in gioco così alta, che include la nostra "responsabilità di proteggere" e la stabilità regionale, è fortemente sentito, nella comunità internazionale e soprattutto tra i Paesi like minded (il Gruppo dei Paesi "Amici del popolo siriano" di cui l'Italia è parte) il senso di urgenza, la necessità di accelerare i tempi per fermare il conflitto e consentire alla Siria di voltare pagina. La strategia comune si sta sviluppando su due fronti tra loro sempre più interconnessi. Nell'immediato, l'assistenza, in tutte le maniere possibili, con la sola eccezione dell'intervento militare, al popolo e all'opposizione siriani per aiutarli a resistere al regime e a prepararsi alla transizione; l'avvio, allo stesso tempo, dei piani su come aiutare la Siria nel dopo — Assad, nel "day after", per la sua piena stabilizzazione politica ed economica. La crisi dell'attuale regime è ormai un dato irreversibile. Lo indicano la crescente "fatigue" dell'esercito e il ricorso non più solo alle milizie interne, le shabiha, ma anche alle 'legioni straniere' (tra i quarantotto sciiti iraniani rapiti a Damasco il 4 agosto vi sarebbero, asseritamente, anche diversi pasdaran ed ex-militari), il numero crescente di defezioni "eccellenti", la resistenza ad oltranza dell'opposizione armata, malgrado la sua inferiorità militare. I tempi quindi si avvicinano per una transizione ormai inevitabile, che dovrà essere guidata dal popolo siriano, ma che la comunità internazionale ha il dovere morale, oltre che l'interesse, a sostenere.
L'Italia sta operando in maniera attiva su entrambi questi fronti. Stiamo offrendo concretamente, in varie forme, il nostro sostegno al popolo e all'opposizione siriani. Abbiamo mantenuto un rapporto stretto con il Syrian National Council, l'organizzazione "ombrello" dell'opposizione siriana, i cui responsabili abbiamo ospitato più volte a Roma. Stiamo allo stesso tempo impegnando nel dialogo anche le altre componenti della variegata opposizione siriana, rappresentative delle diverse realtà locali all'interno del Paese, con le quali abbiamo in programma una serie di incontri politici in settembre a Roma. Continuiamo, in raccordo con la Lega Araba ed i nostri principali partner, la nostra azione di persuasione sull'opposizione permettere da parte le restanti rivalità e costituire un cartello politico che possa diventare la base di riferimento per avviare la transizione. Stiamo inoltre considerando, sulla scia di alcuni nostri principali alleati, la fornitura all'opposizione di strumenti di comunicazione utili per poter prevenire attacchi contro civili, soprattutto donne e bambini. Sul piano umanitario abbiamo realizzato e stiamo preparando numerose iniziative in favore dei rifugiati e feriti siriani nei paesi limitrofi, dal Libano, alla Giordania e alla Turchia e, da ultimo, in favore della popolazione di Aleppo.
Stiamo inoltre impostando la nostra azione per il dopo-Assad. Abbiamo al riguardo proposto l'iniziativa di una riflessione informale a Roma nei prossimi giorni con un gruppo di alleati e Paesi partner per approfondire ruolo e responsabilità internazionali nella Siria del dopo-Assad. Una riflessione che toccherà gli aspetti della sicurezza, dell'institution building, la ricostruzione economica e gli aspetti umanitari. L'Unione europea dovrà a nostro avviso svolgere un ruolo di primo piano soprattutto sul fronte umanitario e del consolidamento delle istituzioni della Siria democratica. Ma dobbiamo essere pronti a partire subito anche sul piano bilaterale, con iniziative per il consolidamento delle istituzioni e la ricostruzione economica. Ho per questo motivo deciso l'istituzione di una Task Force sulla Siria all'interno del Ministero degli Esteri e proposto la creazione di un apposito Tavolo interministeriale. La crisi siriana è un'assoluta priorità della nostra politica estera e dobbiamo continuare ad essere all'altezza della sfida.

Giulio Terzi

lunedì 20 agosto 2012

NORD EST: L'ISLAM "NORMALIZZATO"

Sul Corriere del Veneto, che normalmente pubblica sull'Islam degli articoli di rara faziosità che sfocia, a volte, nella beceraggine, è comparso un titolo che reca il titolo "Nord Est: l'Islam "normalizzato", a firma di Massimiliano Melilli. In linea di massima se ne possono condividere i contenuti come constatazione di fatti; quel che invece non è condivisibile è il retro terra dell'articolo e il suo ottimismo di fondo. L'autore infatti, partendo dalla relativa libertà concessa ai musulmani veneti in occasione delle feste di Ramadan, ritiene che questo potrebbe essere un buon avvio di una stagione nuova di tolleranza e di comprensione. Vorrei condividere tale auspicio ottimista ma poiché io da cittadino italiano vivo all'interno dell'Islam sono convinto che siamo ben lontani dal superare quella gravissima limitazione dei diritti civili e umani dei musulmani dovuta, oltre che una pressoché totale ignoranza che la stragrande maggioranza degli abitanti della penisola e dei veneti in particolare nutre nella religione islamica, vi è alla base dei rapporti una inamovibile convinzione che i musulmani sono e restano stranieri immigrati  anche quando sono nati e cresciuti in Italia, parlano i dialetti della regione di residenza, svolgono una professione funzionale al progresso del nostro paese sono, in breve, un corpo estraneo e potenzialmente ostile alla nazione italiana. Qualcosa del genere è capitato agli ebrei fino a quando l'orrendo crimine del genocidio hitleriano non gli ha liberati da questo stato; anche se non mancano ancora gli imbecilli svasticai che fanno mostra del loro inconsulto antisemitismo in versione anti ebraica. Del resto per comprendere la fondatezza di questa mia convinzione, oltre alle innumerevoli testimonianze personali riportate negli anni del mio status di musulmano, basterebbero alcuni esempi ripresi dai giornali del Veneto e in particolare dal Giornale di Vicenza:
I - Il giorno di inizio del Ramadan un originale signore, ex giornalista del Giornale (Giovanni Zanolo), che si presenta al pubblico dei lettori come musulmano investito della carica di presidente del COREIS Triveneto, sostiene che il problema dei musulmani sarebbe la mancanza di moschee e sostiene la singolare tesi che il problema potrebbe essere risolto se invece di moschee simili a chiese, per dimensioni e visibilità, gli islamici si accontentassero di piccole moschee armonicamente inserite nei quartieri come parrocchie in modo da non urtare la sensibilità di chi non è musulmano. Tesi singolare e difficilmente qualificabile per tasso di intelligenza se si considera che una moschea quasi invisibile non disturberebbe il desiderio di intolleranza dei cattolici, ma ferirebbe gravemente il desiderio di manifestare la propria fede a chi è musulmano. Il signor Zanolo che dice di appartenere alla confraternita dei Sufi, non è nuovo a queste idiozie che mostrano un esemplare di religioso tutto affatto che nuovo: quello dell'opportunista che, per non urtare nessuno, è pronto ad assumere l'invisibilità e a rivendicare non già i diritti previsti dall'Articolo 19 della Costituzione, ma quel che qualche forza politica italiana, ad esempio la Lega, è disposta a concedere ai musulmani che a suo giudizio non sono "estremisti" o "fondamentalisti". E chi decide su tali qualità? Il Dottor. Sandoli? Il presidente della regione, Zaia? Poiché so di creare fastidio a un "benefista", gli rispondo con un'espressione romanesca: "Ma va a magnà er sapone!".
Il Signor Zanolo, del resto, nei numerosi convegni che con la presenza costante di qualche esponente di curia cattolica, illustra una religione islamica che potrebbe al massimo considerarsi una versione solo un pò addolcita del Cattolicesimo del Concilio di Trento;
II - In un dibattito televisivo svoltosi a Radio Tele Padova e al quale ho partecipato come rappresentante dei musulmani "non addomesticati", mi è stato possibile assistere in linea diretta a un sondaggio circa il grado di tolleranza dei veneti alla presenza di moschee nel proprio paese: il 91% degli intervistati ha risposto di essere assolutamente contrario. Qualcuno, più zelante, nel sentire che ci sono in Italia due moschee di cui una a Roma (si noti che i musulmani residenti regolarmente nella penisola sono più di 1 milione e mezzo), ha risposto che se dipendesse da lui eliminerebbe anche le due esistenti. Un radio ascoltatore italiano, ha telefonato da Parigi per dire che non capiva tanta barbarie anti islamica da parte dei suoi concittadini: "Noi a Parigi con i musulmani abbiamo rapporti normali, da persone civili...DA ESSERI UMANI". Timidamente il rappresentante dell'azione cattolica ha ricordato alla camea degli pseudo cristiani che c'è un Articolo 19 nella Costituzione repubblicana;
III - Non mi dilungo sulla serie innumerevole di insulti che mi vengono inviati per via telefonica o sulla strada da coraggiosi interlocutori in bicicletta che dopo avermeli rivolti inforcano una velocità alla Coppi. Voglio invece menzionare in via conclusiva che un ex assessore comunale della giunta Hullweck, ha colto l'occasione dell'inizio del Ramadan per ribadire per l'ennesima volta la necessità di chiudere e di demolire il capannone di via della Vecchia Ferriera dove ha sede una associazione culturale islamica che funziona anche da luogo di culto. Non è bastato a questo cialtrone che da assessore all'edilizia privata dovrebbe sapere che quel capannone e le attività che la comunità vi svolge sono state oggetto di una lettera personale al sindaco del Ministro Maroni il quale, avuta notizia dell'ennesima manifestazione di intolleranza barbarica dei longobardi-veneti, ha risposto che secondo la documentazione in suo possesso, tutto era in ordine.
Forse l'ex assessore in vista delle elezioni pensa di acquisire favori elettorali facendo il forcaiolo senza argomenti. Prendersela con i musulmani è uno sport redditizio dal punto di vista elettorale.

P.S: Il motivo di tanta ostilità dei confronti del citato capannone è che i residenti sono infastiditi dal continuo salmodiare ad alta voce dei musulmani in preghiera. Peccato di residenti in quella zona non ve ne siano perché il manufatto sorge all'estremo limite del comune di Vicenza ed è quasi circondato da campagna e da fabbriche che di giorno o sono chiuse per cessata attività o perché sono a distanza di sicurezza acustica. Una volta c'era un club privé per scambisti. I carabinieri lo hanno chiuso.

sabato 18 agosto 2012

EGITTO

Egitto, Morsi sfida l'esercito licenziato il capo dei militari

GERUSALEMME - Il braccio di ferro tra il presidente egiziano Mohammed Morsi e la giunta militare è arrivato a un passaggio cruciale: in un gesto plateale, Morsi liquida, nientemeno, il generale Hussein Tantawi, il leader della giunta, il simbolo di un passato che il nuovo raìs sembra voler azzerare assieme al dominio militare esercitato per oltre un sessantennio sulla società egiziana. Tantawi era stato da poco nominato ministro della Difesa. Assieme a lui, Morsi licenzia un altro degli "eterni generali": Sami Enan, ex capo delle Forze armate. Lo fa una settimana appena dopo l'attacco a una stazione di polizia nel Sinai, con l'intervento dell'aviazione israeliana e la morte di 16 soldati. Quell'operazione era già costata il posto al ministro dell'Interno, incapace, secondo il presidente, d'aver scongiurato l'attentato nonostante gli avvertimenti dell'Intelligence israeliana.
Già una volta Morsi aveva sfidato la classe militare, quando aveva riunito il Parlamento dissolto per decreto dai generali. In quel caso, la Corte giudiziaria gli aveva bloccato il passo. Aveva ribadito la riduzione dei poteri presidenziali decisa per decreto dalla giunta pochi giorni prima dell'insediamento del rais: lo svuotamento dei suoi poteri, legislativi, finanziari, costituzionali. Ieri il presidente ha azzerato anche quegli emendamenti. Che i rapporti fra il nuovo potere guidato dai Fratelli musulmani, e il regime rimasto ai vertici delle istituzioni dello Stato, si fossero fatti incandescenti era evidente dalla sfida lanciata a Morsi dallo stesso Tantawi. «L'Egitto non cadrà mai», aveva assicurato al segretario di Stato Hillary Clinton in visita al Cairo. «Appartiene a tutti gli egiziani, nona un gruppo specifico...». Cosa intendesse davvero il capo del Consiglio supremo, era chiaro a tutti: il "gruppo specifico" erano i Fratelli musulmani. Tantawi e Enan, deposti dal loro incarico, ora figurano come "nuovi consiglieri" della presidenza. Al loro posto, si avvicendano due rappresentanti della giunta: il generale Abdellatif Sisi alla Difesa, e Sidki Sobhi a capo delle Forze armate.
Non si può dire quali conseguenze avrà l'accelerazione di Morsi. Da un lato, il raìs non può fare a meno della collaborazione dell'esercito.
Il Sinai ieri era di nuovo teatro di volenti scontri, mentre colonne di mezzi blindatie centinaia di soldati continuano ad affluire nel Nord, verso la frontiera con Israele. Uno scontro a fuoco nel villaggio di alGoura ha fatto altri sette morti.
L'emergenza nel Sinai, la prima "prova del fuoco" per Morsi, tuttavia non mette a tacere le critiche indirizzate al suo governo. In particolare, la stampa egiziana è in agitazione da quando alcuni giornali indipendenti sono stati messi sotto inchiesta con l'accusa "d'incitare alla sedizione" e d'avere vilipeso la figura del presidente. Pochi giorni fa, per gli stessi motivi, sono state bloccate le trasmissioni del canale satellitare Al-Faraeen. Un coro di dissensi ha accompagnato anche le nuove nomine nei media controllati dallo Stato: «Tutti nomi presi dai ranghi dell'Ikhwan, la Fratellanza», protesta la stampa laica, «nel tentativo di islamizzare lo Stato». Il presidente Morsi ha aperto più di un fronte di battaglia.
Nel Sinai, come nel Paese.

Alix Van Buren



Il golpe di velluto
di Morsi l'egiziano

LA PRIMAVERA araba, versione egiziana, conosce una nuova, sorprendente fase. Muhammad Morsi era fino a pochi giorni fa un presidente dimezzato. Infatti, nonostante l'elezione al suffragio universale, era relegato in un angolo, privo di reali poteri, dagli onnipotenti generali del Supremo Consiglio delle Forze armate (Scaf). Oggi è un capo dello Stato con ampi, anzi illimitate prerogative, in quanto non precisate da una Costituzione. La quale non esiste. È ancora da scrivere. Non si sa neppure con esattezza quanto debba durare il mandato presidenziale.

Ieri Morsi era un leader più dignitoso del previsto, è vero, più deciso a farsi valere di quanto si pensasse, ma prigioniero di una situazione umiliante, senza via d'uscita. Adesso preoccupa per i troppi poteri senza controllo di cui dispone. In un processo rivoluzionario le regole, le procedure contano poco, vengono stravolte. Esistono per essere violate. E gli effetti dell'insurrezione di piazza Tahrir, esplosa nell'inverno del 2011, si sono tutt'altro che spenti. Se non proprio inaspettati, sono singolari. Provano che la transizione continua.

 Senza colpo ferire, come dotato di una bacchetta magica, il borghese disarmato Morsi, un tecnocrate, ha mandato in pensione i principali componenti dello Scaf, li ha decorati (non senza ironia) con il Collare del Nilo, la più alta onorificenza egiziana, li ha declassati a consiglieri ben retribuiti, compiendo quel che è in apparenza un vero colpo di Stato. Non violento. Soffice. Ma vistoso.

Non ci si aspettava un'azione tanto decisa, audace, da un notabile giudicato di seconda mano. La stessa Confraternita dei Fratelli Musulmani, di cui fa parte, l'aveva scelto come un candidato di ripiego alle presidenziali. Invece soldati prestigiosi, ritenuti inamovibili, hanno accettato senza fiatare le sue decisioni. Il Feldmaresciallo Muhammad Tantaui, da anni ministro della difesa e di fatto l'uomo forte del Paese, dopo la destituzione di Hosni Mubarak, del quale era stato un devoto subordinato, non ha battuto ciglio. Ha chinato la testa e ha abbandonato la carica che sembrava dovesse incarnare fino alla morte. E insieme a lui si sono ritirati senza protestare tanti altri generali, dal capo dello Stato maggiore ai comandanti delle varie armi.

 In sostanza l'intoccabile Supremo Consiglio delle Forze armate è stato cancellato. Non esiste più. Morsi ha ottenuto quel che gli insorti di piazza Tahrir hanno chiesto invano per settimane, per mesi, pagando la protesta con decine di morti. Il presidente ne ha ereditato anche i poteri, poiché si è dichiarato comandante supremo delle Forze armate, e ha abolito la decisione con la quale i militari si erano arrogati il diritto di rivedere, di correggere la nuova Costituzione, ancora da redigere. E nessuno tra i militari ha finora fiatato. Sopravvive soltanto una Corte suprema, che funziona da Corte costituzionale basandosi sulle volontà dei militari dai quali è stata nominata.

I militari però non si sono volatilizzati come i vecchi generali mandati in pensione. La bacchetta magica che ha consentito a Muhammad Morsi di sbarazzarsi senza colpo ferire del soffocante Supremo Consiglio delle Forze armate, in sostanza della giunta militare, è stata l'alleanza, l'intesa, con i generali più giovani, con la nuova generazione di militari impaziente di scalzare la vecchia, ormai giudicata bolsa, inefficiente. Insomma c'è stato un cambio della guardia. Il quale è avvenuto attraverso una trattativa tra i giovani generali e i Fratelli musulmani, principale forza politica nel Paese. Il processo di transizione dunque continua, a tappe.

Per placare piazza Tahrir i vecchi generali hanno destituito Hosni Mubarak, l'hanno mandato in prigione e davanti a un tribunale, garantendogli la vita salva. E adesso i giovani ufficiali hanno mandato in pensione con onori e prebende i loro superiori, per risolvere il conflitto di potere tra il presidente, rappresentante dei Fratelli musulmani, e la vecchia giunta militare. Il pretesto è stato offerto dagli scontri nel Sinai, dove le bande che lo percorrono hanno ucciso giorni fa diciassette soldati egiziani. L'inefficienza dei comandi è stata scaricata sui vecchi generali, in età di pensione.

I giovani generali avevano bisogno della legittima autorità del presidente eletto al suffragio universale per esautorare i loro superiori. E avevano l'appoggio, non tanto discreto, degli americani, per i quali l'esercito egiziano è una pedina essenziale in Medio Oriente, in quanto garante degli accordi di Camp David (1979), e quindi della pace tra l'Egitto, principale Paese arabo, e Israele. Un esercito che costa agli Stati Uniti un miliardo e trecento milioni di dollari l'anno, senza contare l'altro miliardo garantito allo Stato egiziano. Nel corso delle recenti visite al Cairo, il segretario di Stato, Hillary Clinton, e il capo del Pentagono, Leon Panetta, hanno certo fatto notare quanto stesse diventando insostenibile la spaccatura del potere, tra la giunta militare e il presidente, tra esercito e Fratelli musulmani. I loro interventi hanno affrettato il cambio della guardia, favorito anche dalla stanchezza dei vecchi generali e dall'ansia dei giovani di prendere il loro posto.

Il successo di Muhammad Morsi si riverbera inevitabilmente sui Fratelli musulmani, che adesso possono sperare di esercitare il potere senza i veti dei militari. Quest'ultimi, come risulta con chiarezza dalle dichiarazioni distensive del presidente, non rischiano di perdere i privilegi acquisiti nei sessant'anni in cui la società militare si è imposta in Egitto. Per la prima volta il capo dello Stato non è uno di loro, ma il borghese Morsi non mette in discussione gli interessi economici della Forze Armate (industrie, ospedali, alberghi, raffinerie..), che dovrebbero aggirarsi sul dieci per cento del Pil. Forse più.

I rischiosi problemi della transizione restano tuttavia da risolvere. Morsi ha conquistato negli ultimi giorni poteri quasi dittatoriali e resta un'incognita l'uso che ne farà. Si tratta anzitutto di scrivere la nuova Costituzione, la quale dovrà essere approvata da un referendum, destinato ad aprire la strada a nuove elezioni legislative (dopo che la Corte suprema ha invalidato quelle tenute nel corso dell'anno). Insomma il presidente dovrà legittimare i suoi poteri. Non può diventare un raìs. Piazza Tahrir potrebbe riaccendersi. Non può essere un altro Mubarak. Ma quale sarà il suo profilo politico? Altro capitolo è la disastrosa situazione economica, sulla quale i Fratelli musulmani, ormai pienamente al governo, subiranno il primo decisivo esame.

Non pochi egiziani, forse la maggioranza, sono favorevoli a un ridimensionamento del ruolo dei militari. Ma molti li considerano un'utile barriera allo strapotere degli islamisti, anche se tra i nuovi generali non mancano i simpatizzanti dei Fratelli musulmani. Tra una settimana, il 24 agosto, il presidente non più dimezzato, anzi con troppi poteri, dovrà comunque affrontare un grande rischio: una manifestazione di protesta è stata infatti indetta quel giorno dai nostalgici del vecchio regime, e quindi dei vecchi generali.

Bernardo Valli


SIRIA

Siria, l'Islam mette al bando Assad

NEL giorno in cui il mondo musulmano mette al bando Damasco e in cui il Consiglio di sicurezza annuncia che la missione di monitoraggio Onu in Siria non verrà rinnovata, l'aviazione del presidente Bashar al Assad ha compiuto la sua ennesima strage di civili. Stavolta le bombe dei Mig hanno colpito un villaggio a circa 50 chilometri a nord di Aleppo, Azaz, uccidendo almeno quaranta persone, tra cui molte donne e molti bambini. «Questo orribile attacco ha distrutto un intero quartiere residenziale», ha detto Anna Neistat, direttore di Human Rights Watch per le emergenze.
«Ancora una volta le forze del governo siriano hanno attaccato con un cinico disprezzo per la vita civile». Nel timore di altri raid, gli ospedali della cittadina hanno chiuso i battenti e i feriti sono ora costretti a fuggire in Turchia per potersi curare. Da Azaz è una fila continua di uomini e donne in auto, a piedi o in pulmino, che scappano per trovare protezione oltre confine.
Poche ore prima era giunta la notizia che l'Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci) ha sospeso la Siria dai Paesi membri. Al termine del summit dell'Organizzazione che si è tenuto alla Mecca, in Arabia saudita, i partecipanti si sono trovati d'accordo sulla «necessità di mettere fine immediatamente agli atti di violenza», dichiarandosi fortemente inquieti per i massacri e gli atti inumani subiti dal popolo siriano. Solo Teheran, alleato storico del regime di Damasco, ha contestato questa sia pur simbolica decisione, dichiarandola «ingiusta».
Due giorni fa, il rapporto finale della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite aveva accusato le forze governative siriane e le milizie fedeli al regime di aver commesso crimini di guerra e contro l'umanità, sarebbe a dire omicidi, stupri e torture soprattutto sui civili. Sempre secondo il rapporto, anche gli insorti dell'Esercito libero siriano che combattono il regime di Assad hanno perpetrato crimini di guerra, ma le violazioni «non raggiungono la gravità, la frequenza e l'intensità» di quelli delle truppe lealiste. Riguardo al massacro di Houla, in cui lo scorso maggio si contarono 108 morti, tra cui 49 bambini, e che il regime attribuì agli insorti, o meglio ai «terroristi», la Commissione ha invece decretato che a compierlo furono proprio le milizie fedeli al presidente.
Quanto al mandato dell'Onu in Siria, che scade dopodomani, l'ambasciatore francese presso il Palazzo di vetro di New York, Gérard Araud, ha dichiarato che non sarà rinnovato perché «non ci sono le condizioni per il proseguimento della missione». I 101 osservatori militari ancora presenti in Siria lasceranno dunque Damasco nei prossimi giorni. Il Consiglio di sicurezza ha tuttavia trovato un accordo sull'apertura di un ufficio nella capitale siriana per sostenere gli sforzi internazionali destinati a porre fine al conflitto.
Sempre ieri, cinque paesi arabi del Golfo hanno chiesto ai loro connazionali di lasciare il Libano a causa dei rischi per la sicurezza legati all'aggravarsi della crisi in Siria. Si tratta di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e Kuwait, che temono possibili rappresaglie di sciiti (vicini agli alauiti di Assad) contro quei cittadini di Paesi sunniti che sostengono gli oppositori al regime di Damasco.
E sono ormai 2,5 milioni le persone colpite dall'emergenza umanitaria in Siria: un numero più che raddoppiato negli ultimi quattro mesi. «Le persone sono stanche, vogliono far ritorno alle loro case, ma il dato cruciale che fa la differenza è metter fine ai combattimenti», ha detto l'inviato dell'Onu a Damasco, Valérie Amos.

Pietro Del Re


Kurdistan, l' altra guerra di Assad Arma l' offensiva del Pkk in Turchia
KILIS (Confine turco-siriano) - I carri armati turchi sono schierati in ordine sparso, nascosti tra gli alberi di una collina che sovrasta un' ampia pianura. Hanno il cannone puntato verso Aleppo, anche se il loro obiettivo non è né l' Esercito libero siriano né quello fedele al regime di Damasco. I tank di Ankara mirano altri nemici, più interni e più insidiosi: i ribelli curdi del Pkk che, dopo aver trovato rifugio in Siria, hanno lanciato una grande offensiva con centinaia di miliziani nel Kurdistan turco. Il rincrudirsi di quest' annosa guerra all' ombra del recente e sanguinoso conflitto siriano ha già provocato, in Turchia, centocinquanta morti dal 23 luglio scorso. Due giorni fa, per la prima volta dall' inizio della rivolta armata del Pkk, i ribelli hanno sequestrato un parlamentare turco, il deputato dell' opposizione socialdemocratica Huseyin Aygun. L' ultimo attacco armato della "primavera curda" risale al 5 agosto, e s' è svolto proprio lungo questo confine, quando alcuni miliziani hanno assaltato tre avamposti militari e ucciso 8 soldati turchi. Di questo risveglio militare, Ankara accusa Damasco, sostenendo che gli attacchi sono stati perpetrati dai ribelli curdi con lanciarazzi Rpg7 forniti dai servizi siriani. Sempre secondo le autorità turche, il regime del presidente Bashar al Assad avrebbe consegnato al partito curdo siriano Pyd, vicino al Pkk, il controllo di cinque province del nord lungo la frontiera con la Turchia. E lo avrebbe fatto per contrastare la ribellione degli oppositori locali al regime. «Durante le manifestazioni contro Assad, ci capita spesso di essere aggrediti da esponenti del Pkk armati da Damasco», racconta Hossam Sayda, uno degli organizzatori delle proteste. «Tra gli attivisti curdi ce ne sono molti di estrazione pacifista ma la maggior parte sostiene l' Esercito libero siriano, che già controlla le aree di alcune città. Non si capisce se quelle regioni "liberate" siano già un pezzo della Siria post-Assad o un tassello di un possibile, nuovo Kurdistan». La prima conseguenza internazionale della guerra civile in Siria è dunque l' inasprirsi di un conflitto mai sopito, quello tra Ankara e il braccio armato dei secessionisti del "Kurdistan turco", una lotta che dura da 28 anni e che ha mietuto almeno 40 mila vittime, per lo più curde. La risposta del premier turco Recep Tayyip Erdogan non si è fatta attendere, soprattutto alla luce della nuova alleanza che il Pkk ha stretto in chiave antiturca con il potere siriano. Un' Alleanza che molti analisti interpretano anche come la vendetta dell' appoggio turco alla ribellione siriana sunnita contro il regime alauita di Assad. Dopo aver minacciato di inseguire i "terroristi" curdi anche oltre il confine siriano, il premier turco ha dispiegato mezzi corazzati e tank lungo quel tratto di frontiera. Il suo governo ha anche chiuso ai civili sette aree della provincia di Hakkari, nell' Anatolia orientale, teatro di violenti scontri nelle ultime due settimane. Queste "zone militari" sono state vietate anche ai giornalisti e ai deputati dell' opposizione. Alcuni testimoni raccontano che l' esercito turcoe il Pkk combattono in queste ore una battaglia con diverse centinaia di uomini per parte. Dal 1979, quando Abdullah Ocalan, assieme ai vertici del Pkk che aveva appena fondato, trovò per vent' anni ospitalità a Damasco, la Siria era governata da Hafez al Hassad, padre di Bashar. Oggi come allora, il regime sembra utilizzare i ribelli curdi per punzecchiare il Paese confinante. Venerdì scorso, Ankara ha ricevuto l' appoggio di Washington: in visitaa Istanbul, il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha detto che la Siria non deve diventare un «santuario per i terroristi del Pkk». E del sostegno degli Stati Uniti, lo Stato turco ha gran bisogno: se Assad rimanesse al suo posto, Ankara avrebbe per vicino un Paese sempre pronto a proteggere e armare i suoi storici nemici; se invece il regime di Damasco cadesse, il Consiglio nazionale siriano, diretto dal curdo Abdel Basset Sayda, farebbe di tutto per offrire alla minoranza l' autonomia che rivendica da decenni.

giovedì 16 agosto 2012

SIRIA







Nell’inferno di Aleppo
“Ecco il massacro di Assad”

ALEPPO - I cadaveri che ingombrano le strade non li raccoglie più nessuno, neanche i combattenti più intrepidi osano farlo. Perciò, come provvisorio sudario, i morti di Aleppo devono accontentarsi della polvere che da giorni e giorni rende l'aria della città irrespirabile.

Tra le vittime, molte sono uomini delle brigate d'opposizione. Ma vediamo anche numerosi civili: una donna orrendamente sfigurata dalla scheggia di una granata, un anziano che sembra essersi addormentato tra due cumuli di calcinacci, il corpo disarticolato di un bimbo che, come un grottesco bambolotto, s'affaccia dal buco di una casa colpita da un carro armato. Pochi giorni fa, quando in tv proclamò che avrebbe ripulito la città dai "terroristi", il presidente siriano Bashar al Assad faceva sul serio. Salvo che, tra ciò che rimane dei quartieri sventrati dal fuoco dei suoi caccia, di "terroristi", magari ceceni o pachistani, non ce n'è neanche l'ombra. Questi corpi, ci dice Issam Mohammed, il comandante dell'Esercito siriano libero che ci accompagna, hanno tutti un nome, e appartengono tutti a ragazzi di Aleppo: "Ahmed, 22 anni, studente di informatica, Talah, 20 anni, panettiere, Khaled, 24 anni, ex poliziotto... ".

Entriamo in città alle prime luci dell'alba. La nostra visita precede di poco la ritirata degli insorti dalla loro roccaforte, il quartiere di Salaheddin, colpito da mercoledì scorso da un bombardamento violentissimo e ininterrotto dell'aviazione, i tank e i mortai delle forze lealiste. "La nostra è una ritirata strategica", dirà più tardi un generale del braccio armato dell'opposizione. Ma è difficile credergli, vista la quantità di piombo che su questa porzione della città continua a piovere.

Il risultato dell'offensiva del regime di Damasco, o piuttosto della sua feroce repressione, ricorda altre, apocalittiche distruzioni, quelle di spaventosi terremoti o di tsunami. Tra palazzi scapitozzati o ampiamente mutilati dagli obici del regime fuoriesce di tutto: televisori, letti, credenze, cucine, valige, abiti, tinozze. E cadaveri, ovviamente. "Ma quante bombe può assorbire una città come questa? Quante tonnellate di proiettili servono per cancellarla dalle mappe?", mi chiede il comandante Mohammed. Il pezzo di cielo giallognolo che si staglia tra le rovine delle case è improvvisamente rigato dal passaggio di un Mig. Vola sorprendentemente basso. È nero, grifagno, veloce come un insetto impazzito. Le sue bombe le sgancia però su un altro quartiere, non lontano da dove siamo appostati noi. Esplodendo provocano una deflagrazione sorda e potente, ogni volta seguita dagli scaramantici "Allah akbar" dei combattenti che mi circondano. La base militare che saranno costretti ad abbandonare dopo poche ore è nel seminterrato di un palazzo miracolosamente ancora intatto. Ospita una trentina di uomini. Alcuni dormono un sonno così profondo che neanche le bombe li disturbano. Molti sono giovanissimi e ricordano i loro coetanei di Bengasi, quelli che nel febbraio dell'anno scorso si fecero i protagonisti della "primavera" libica.

I siriani, tuttavia, pur essendo anch'essi ignoranti in fatto di strategia militare e altrettanto impreparati all'uso delle armi, sembrano avere una consapevolezza diversa. Non ostentano, come invece facevano i bengasini, la vocazione al martirio. Si direbbe che questi portino con più fatica il peso della loro missione. Prima di organizzare il loro ripiegamento "strategico", il comandante vuole assicurarsi che qualcuno mi riaccompagni fuori città. Gli insorti devono occuparsi anche di sgomberare i civili che sono ancora intrappolati tra quelle rovine. Da un portone sbuca un combattente con il kalashnikov a tracollo che porta sulle spalle un uomo grasso e visibilmente sofferente. Altri insorti evacuano altrove i feriti di precedenti bombardamenti, alcuni direttamente sul loro materasso.

Arrivando in periferia di Aleppo incrociamo gli sfollati più recenti, quelli che hanno resistito fino ad oggi, ma che l'infittirsi delle granate o l'assoluta mancanza di cibo e di acqua o ancora la puzza delle fogne sfondate hanno finalmente costretto alla fuga. È incredibile costatare quante famiglie abbiano vissuto fino ad ora l'incubo della guerra, quante donne e quanti bambini erano rimasti nei quartieri che il regime bombarda ciecamente dal 20 luglio scorso.

I primi villaggi che attraversiamo sulla strada che ci riporta verso il confine turco, forse per evitare che diventassero preziose retrovie per l'Esercito libero siriano, sono stati anch'essi rasi al suolo dall'aviazione delle forze fedeli ad Assad. Nei campi che li circondano, così come vicino alle fattorie o al centro degli abitati, scorgiamo quei crateri che, fotografati dal satellite, avevano pochi giorni fa provocato la denuncia di Amnesty International sulla brutalità degli scontri in corso.

Ci fermiamo in una cittadina a trenta chilometri dal centro di Aleppo. Troviamo distruzione anche qui. Un commerciante ci dice che tutti i pomeriggi, dopo le cinque, l'esercito lealista la bersaglia con colpi di mortaio. Un ragazzetto che mastica due parole d'inglese, e che per questo s'improvvisa addetto stampa degli insorti, mi trascina in un ospedale che da giorni, sostiene, dovrebbe servire a smistare i malati. È appena arrivata una macchina con tre feriti gravi, per i quali mancano letti, sangue e farmaci. Quando ci rimettiamo in cammino verso la Turchia il traffico degli sfollati s'è infoltito. Sono civili che fuggono su camioncini, auto, pullman. Portano con loro coperte, taniche d'olio e cibo in conserva da poter rivendere oltre confine.

La maggior parte di questi fuggiaschi sono donne e bambini, perché i loro mariti e i loro padri hanno preferito rimanere a combattere o a difendere quel che resta delle loro case. A sera, il bilancio stilato dalle organizzazioni umanitarie parla di 92 morti nella sola giornata di ieri. Ma questa guerra dura da troppo tempo perché si faccia menzione anche dei feriti, dei bimbi traumatizzati e delle madri impazzite dal dolore.


lunedì 6 agosto 2012

SIRIA

Siria, resa di Annan: «Il piano è fallito»

NEW YORK — Kofi Annan getta la spugna. L’ex segretario delle Nazioni Unite si è dimesso dal suo incarico di inviato in Siria per l’Onu e la Lega Araba, una decisione che sancisce il fallimento dell’iniziativa diplomatica di fronte a una rivolta popolare, quella contro la dittatura di Assad, ormai sfociata in guerra civile. «Lo spargimento di sangue continua. In primo luogo a causa dell’intransigenza del governo siriano e del continuo rifiuto di applicare il piano in sei punti». Nella conferenza stampa dopo l’annuncio delle dimissioni Annan ha criticato anche la «crescente militarizzazione della campagna dell’opposizione » in un quadro «aggravato dalle divisioni della comunità internazionale». Per le Nazioni Unite è l’ennesima sconfitta, l’ennesima dimostrazione di incapacità di fronte a conflitti che vedono da una parte dittatori sanguinari troppo spesso blanditi dalle superpotenza (nel caso di Assad Russia e Cina) e dall’altra popoli in rivolta che combattono per la libertà, vengono sacrificati sull’altare della “realpolitik” e alla fine rischiano di rimanere preda di organizzazioni integraliste. Alla Casa Bianca non hanno mai creduto fino in fondo alla possibilità che Assad lasciasse il potere per le pressioni internazionali. Con la guerra civile che divampa tra Aleppo e Damasco gli Stati Uniti sanno che i prossimi mesi sono decisivi, per far cadere la dittatura e per impedire che la Siria finisca in mano all’integralismo islamico. Alcuni mesi fa, anche se la notizia è stata confermata solo ieri, Barack Obama ha firmato una direttiva “segreta” che autorizza il pieno sostegno degli Stati Uniti ai ribelli che stanno tentando di rovesciare con le armi il regime.
La direttiva consente alla Cia e ad altre agenzie di intelligence statunitensi di realizzare operazioni “coperte”. Finora l’amministrazione Usa ha escluso di fornire aiuti militari diretti ai ribelli, fornendo materiale “non letale” per 25 milioni di dollari e aiuti per l’assistenza umanitaria quantificati dal portavoce del Dipartimento di Stato, Patrick Ventrell, in 64 milioni di dollari. Non è un segreto che parte del finanziamento americano ai ribelli sia stato utilizzato per fornire aiuti “logistici” in campo militare (soprattutto tecnologia per le comunicazioni) e la scorsa settimana il Tesoro americano ha approvato una direttiva che consente al Gruppo di Supporto Siriano (in Usa) di fornire assistenza finanziaria diretta all’Esercito Libero Siriano (Els).
Sul terreno i ribelli guadagnano posizioni. Ieri, per la prima volta dall’inizio della rivolta popolare contro Assad, le milizie dell’Els hanno conquistato alcune zone del centro di Aleppo, la seconda città del paese, dove da una settimana è in corso una brutale battaglia contro i soldati del regime. Smentendo le notizie della tv ufficiale siriana, un inviato di Al Jazeera ha mostrato le immagini dei quartieri centrali in mano ai ribelli. Le forze fedeli ad Assad si preparano alla controffensiva, ma non sono ancora in grado di controllare totalmente l’aeroporto, da dove partono gli aerei pronti a bombardare decine di migliaia di civili innocenti.

ALBERTO FLORES D’ARCAIS

venerdì 3 agosto 2012

ISRAELE

L’Iran, re Bibi e il “popolo eterno” di Israele

ECCO un possibile scenario:
Israele attaccherà l’Iran contrariamente alla ferma presa di posizione del presidente Obama che quasi supplica di lasciare questa incombenza agli Stati Uniti d’America. E questo perché? Perché Benjamin Netanyahu ha una linea di pensiero e una visione storica secondo le quali — riassumendo a brevi linee — Israele è il “popolo eterno” mentre gli Stati Uniti, con tutto il rispetto, sono una specie di Assiria o di Babilonia, di Grecia o di Roma dei giorni nostri. Vale a dire: noi siamo per sempre, destinati a rimanere, mentre loro, nonostante tutto il potere che possiedono, sono momentanei, transitori, motivati da considerazioni politiche ed economiche limitate ed immediate, preoccupati delle ripercussioni che un eventuale attacco potrebbe avere sul prezzo del petrolio e sui risultati elettorali. Noi invece sussistiamo nella sfera dell’“Israele eterno” e portiamo in noi una memoria storica in cui balenano miracoli e imprese di salvezza che vanno oltre la logica e i limiti della realtà. Il loro presidente è “un’anima candida” che crede che i nemici ragionino in maniera razionale come lui mentre noi, già da quattromila anni, ci troviamo ad affrontare le forze più cruente e gli istinti umani più incontrollabili e oscuri della storia e sappiamo bene come comportarci per sopravvivere in queste zone d’ombra. C’è chi si sentirebbe in ansia dinanzi a una simile descrizione ma non è da escludere che il primo ministro la ritenga appropriata e persino elogiativa nei suoi confronti. Il capo del governo gode, come si sa, del supporto di un’ampia coalizione e non deve fare i conti con una forte opposizione. In un certo senso agisce come un leader unico – “re Bibi”, l’ha definito la rivista Time– e ciò significa che nel momento in cui Netanyahu dovrà prendere una decisione cruciale, il futuro e il destino della popolazione israeliana dipenderanno più che altro dalla sua visione del mondo estremista, inflessibile e radicata.

In altre parole molti cittadini israeliani appartenenti all’intero arco politico che non vogliono che Israele attacchi l’Iran – e anche una parte dei capi dei vari settori della sicurezza che si oppongono a una simile iniziativa – sono oggi prigionieri, in maniera inequivocabile, delle ermetiche convinzioni del primo ministro. Netanyahu ha fedeli partner di governo che condividono con lui opinioni e scelte. Il vantaggio di questi partner rispetto ai cittadini che si affidano alle loro decisioni sta nel fatto che, all’apparenza, costoro “conoscono tutti i fatti e le valutazioni”. È vero che così funziona un governo democratico ma i cittadini di Israele hanno ormai imparato sulla propria pelle che i loro leader non sono immuni da gravi errori e, come ciascuno di noi (e forse anche un po’ di più), sono inclini a fallimenti o a essere trascinati dall’euforia del potere.
Trattandosi quindi di una questione tanto vitale abbiamo il diritto e il dovere di fare ripetute domande, o almeno di esigere che chi prende le decisioni ponga a se stesso delle domande e risponda onestamente: quelli che dovrebbero sapere, sanno davvero? E sarebbero in grado (sempre che qualcuno lo sia) di conoscere e fornire “tutti i fatti e le valutazioni” coinvolti in una tale azione? Sono persuasi al di là di ogni dubbio di non esagerare nel considerare la capacità dell’esercito israeliano di risolvere definitivamente il problema nucleare iraniano? Non sottovalutano forse la forza degli iraniani?
Sono completamente sicuri che se Israele bombarderà l’Iran gli iraniani non abbiano a disposizione un’atomica? E se ce l’hanno, che non la useranno contro Israele?
In altre parole la “conoscenza” dei nostri leader si basa solo ed esclusivamente sui fatti oppure è distorta e influenzata da ansie, desideri ed echi di traumi del passato che nessuno è esperto nell’ingigantire quanto il capo del governo? E, la cosa più importante: i nostri leader capiscono che la decisione di attaccare una potenza come l’Iran (peraltro contrariamente all’opinione degli Stati Uniti) potrebbe rivelarsi il più grosso errore mai commesso da un governo israeliano?
Chi è a favore di un intervento contro l’Iran si muove lungo un asse i cui estremi sono “o la bomba atomica iraniana o il bombardamento dell’Iran” e dal
quale pende un’insegna: “Per sempre divorerà la spada” (II Samuele, 2, 26). I
leader israeliani sono talmente prigionieri di questo ragionamento automatico che sembra che, dinanzi a qualunque dilemma o a qualunque decisione relativa alla sicurezza, un verdetto celeste o una legge di natura condanni quasi sempre Israele a muoversi solo ed esclusivamente tra “o la bomba o il bombardamento”. Ad aggredire o a essere aggredito. Certo, un Iran dotato di armi nucleari rappresenta un pericolo reale, non è una paranoia del governo israeliano. Ma nella situazione attuale esistono altre direzioni di movimento, altre possibilità di azione – o di inazione.
E naturalmente esiste l’inequivocabile promessa americana che l’Iran non avrà armi nucleari. Ma Israele sembra già essere al culmine di un processo in cui agiscono forze ben note e più potenti di lui, quasi primordiali, alimentate dalla percezione storica ricordata in precedenza che fa sì che di solito i timori si realizzino e che calamita verso situazioni di minaccia esistenziale.
Quindi, con maggiore enfasi, si pone la domanda: perché ministri e alti dirigenti di tutti i settori della sicurezza – quelli ancora in carica, non solo quelli del passato – non si alzano a dire la loro?
Quelli che in conversazioni private si oppongono all’iniziativa di un attacco, che ritengono che un’aggressione israeliana prorogherebbe soltanto di poco la nuclearizzazione dell’Iran e temono le conseguenze a lungo termine di un’aggressione simile per Israele, per la sua stessa esistenza. Perché non si alzano adesso, quando ancora è possibile, per dichiarare: noi non collaboreremo con questo delirio megalomane, con questa disastrosa concezione messianica?
La fedeltà al “sistema” è forse più importante della fedeltà a ciò a cui hanno dedicato la vita: la sicurezza e il futuro di Israele? Un’iniziativa di questo tipo sarebbe il gesto più significativo che potrebbero fare oggi per Israele, per la sua sicurezza e il suo futuro.
Anche noi cittadini, improvvisamente silenziosi dinanzi alle ombre che si addensano su di noi, raggelati, rassegnati a priori, con gli occhi chiusi dinanzi a ciò che appare di giorno in giorno più minaccioso e frastornante nella sua rapidità, come potremo poi affrontare noi stessi e i nostri figli quando ci domanderanno perché abbiamo taciuto? Perché non siamo usciti a frotte a manifestare nelle strade contro la possibilità di un’altra guerra scatenata da noi? Perché non abbiamo eretto nemmeno una tenda di protesta, simbolica, davanti alla residenza del primo ministro per mettere in guardia dalla catastrofe che ci sta franando addosso?
Dopo tutto, parafrasando un verso del poeta Haim Nachman Bialik scritto in un contesto completamente diverso, saremo noi “con la nostra linfa e il nostro sangue a pagare l’incendio”.

David Grossman

QUANDO SI MUORE PER LA RELIGIONE

Con l'articolo che segue riprendiamo i nostri contributi alle vicende delle primavere arabe, non avendo ritenuto opportuno interrompere la documentazione giornalistica di vicende tanto drammatiche quanto la tragica guerra civile siriana e il faticoso avvio delle istituzioni democratiche nella Libia post-Gheddafi.
L'articolo ci consente inoltre di entrare nell'argomento, certamente non banale, del taglio menzognero che di norma i cattolici (o la maggior parte di essi) è solita dedicare all'Islam. Purtroppo quando passeremo a considerare le vicende riguardanti le relazioni tra Islam vicentino e istituzioni politiche e religiose della realtà berica, ci toccherà scadere naturalmente nel banale: è difficile infatti affrontare il tema in una dimensione che lo sottragga dalla ridicola piccineria di segno provinciale e tutto sommato abbastanza miserevole.




L'articolo ora pubblicato è comparso sul Giornale di Vicenza in una rubrica enfaticamente intitolata "l'Opinione": il che, considerata la totale mancanza di obbiettività del quotidiano berico e il non eccelso livello culturale di molti dei suoi "autori", è una sequela pressoché continua di falsificazioni, menzogne e strafalcioni storici.
Naturalmente non possiamo dare una risposta completa ed esaustiva allo sciocchezzaio di un autore che quasi sicuramente appartiene a quei cattolici che della menzogna hanno fatto lo strumento consueto del loro modo di esprimersi. Ci limiteremo perciò a mettere in evidenza le falsificazioni più macroscopiche:

I - Non risulta che esista un'antica tradizione cristiana e men che meno cattolica (Gesù che è stato un grande Profeta ebreo non c'entra nulla) "Fonte di equilibrio ed avanguardia culturale ed economica": a meno che non si considerino manifestazioni di equilibrio e di progresso i terribili massacri che caratterizzarono i primi secoli di vita del Cristianesimo come religione ufficiale dell'Impero Romano d'occidente e d'oriente. Seguendo le decisioni dogmatiche dei vari concili ecumenici, da Nicea, a Efeso a Calcedonia, ortodossi, monofisiti, trinitari, anti-trinitari, ariani si scannarono allegramente in tutte le principali città del Mediterraneo dopo essersi scagliati contro vicendevoli scomuniche. L'illustre opinionista cita Sant'Agostino di Ippona, filosofo geniale che certamente non può essere indicato come campione di tolleranza religiosa e comunque responsabile dell'odio o per lo meno del disprezzo verso le donne ereditato dal Cristianesimo; avremmo preferito un esaustivo accenno a San Cirillo vescovo di Alessandria d'Egitto che, dopo aver fatto massacrare dai suoi seguaci più di mezzo milione di ebrei, si dedicò alla conversione forzata dei pagani, soprattutto filosofi, letterati e astronomi. Tra le sue vittime ci fu Ipazia, geniale studiosa delle leggi astronomiche che quasi certamente anticipò di 1000 anni le scoperte di Ceplero. Nella sua principale opera è dato leggere che le donne non debbono imparare a leggere e a scrivere e, se lo fanno, sono certamente ispirate dal demonio e quindi streghe. Ipazia fu aggredita da una masnada dei seguaci di Cirillo che la scuoiarono viva; e poiché non era ancora morta, la fecero sbranare dai cani. Cirillo non fu solo elevato agli onori degli altari ma dichiarato "Dottore della Chiesa"; questo ulteriore titolo di gloria gli fu attribuito da Papa Leone XIII negli ultimi decenni del XIX secolo.

II - Massacri di carattere genocida furono compiuti da Carlo Magno il quale sterminò Sassoni, Avari e Alani: un milione di persone. In quello stesso periodo i musulmani avevano conquistato quasi senza combattere l'intera Asia minore, il Nord Africa fino all'Atlantico, la Spagna e  la Sicilia, senza commettere massacri ma praticando la regola della tolleranza nei confronti delle "Religioni del Libro" (Cristiani, Ebrei, Zoloastriani e Sabei). Grazie a questa tolleranza Spagna e Sicilia furono per parecchi secoli sede di una civiltà scientifica e artistica tra le più luminose della storia; ma anche quando i Mongoli di Gengis Khan si islamizzarono e dettero vita all'impero Mogul in India, la tolleranza venne estesa agli induisti, perché anche essi in possesso di un libro sacro come Veda. La tolleranza religiosa in India ebbe fine con la regina Vittoria che inondò la conquistata India di una folla di fanatici missionari evangelici che provocarono rivolte represse con milioni di morti. In Spagna e in Sicilia arabi ed ebrei vennero cancellati a centinaia di migliaia, mentre l'impero turco lasciò che Grecia, Jugoslavia, Romania e Bulgaria conservassero la loro fede cristiano ortodossa. Per venire a tempi più recenti durante i non lontani, tragici eventi della penisola Balcanica furono soprattutto cristiani cattolici e ortodossi a massacrare centinaia di migliaia di musulmani. Srebrenica reca la firma degli ortodossi serbi, mentre la distruzione di Mostar è firmata dai cattolici croati.
Non so a cosa si riferisca l'opinionista poco informato quando si riferisce ad Algeria, Etiopia, Somalia e Iraq. Questi paesi furono soggiogati dal colonialismo francese e italiano con guerre di sterminio che solo in Algeria provocarono un milione di morti di religione musulmana. Gli italiani non furono da meno quando in pochi mesi annientarono tutto il clero copto abissino. In Somalia  e in Eritrea fu necessaria la pazienza dei musulmani per non reagire con la violenza all'inciviltà dei colonizzatori cattolici. E' famoso l'episodio degli scaricatori portuali di Mogadisho che programmarono uno sciopero contro gli armatori italiani a causa dell'intercalare dei loro discorsi con continue bestemmie. Ci fermiamo qui e non torniamo a ripetere quanto i popoli europei, quasi sempre in nome della fede, fecero nelle Americhe, in Africa, in Asia e in Oceania: il numero dei Genocidi all'attivo dei cosiddetti cristiani è, secondo quanto scrive Claude Levis-Strauss, praticamente incalcolabile. Cosa va cianciando l'incolto opinionista del Giornale di Vicenza che non vorremmo fosse un prete cattolico? 

P.S: Non abbiamo fatto cenno alle guerre di religione tra cattolici e protestanti che per 200 anni hanno insanguinato l'intera Europa

giovedì 2 agosto 2012

SIRIA

La caccia all’uomo degli insorti sulla strada che porta a Damasco “Qui non passate, vi uccidiamo”

DAMASCO — Nella Siria dilaniata da una guerra civile che sembra non finire mai, l’ultimo rischio è quello di una deriva fondamentalista e settaria. Lo dimostra anche un rustico check-point dei ribelli alle porte di Qusayr, verso Homs: dietro un filare di pioppi, due bidoni arrugginiti e un pneumatico nel mezzo bloccano la viuzza laterale. C’è aria di caccia all’uomo, in particolare di alawiti, la minoranza al potere. «Ruh!», forza, muovetevi, fuori! Strepita uno scugnizzo gesticolando con un AK-47 alto quasi quanto lui. Bisogna uscire dall’automobile. «Dove andate, chi siete, fuori la carta d’identità». All’ombra di un capanno sotto un tetto di foglie di palma, s’indovinano le sagome di una dozzina di adulti e dei caricatori a serpentina in terra. «Fermi qui, aspettate il capo». Spunta un uomo, barba lunga senza baffi, berretto calcato sulla fronte, maglietta nera sopra le brache mimetiche, Kalashnikov in spalla. Andiamo a Qusayr. «Perché?»: dai cristiani. «Siete Masihiyya, cristiani?». Elias, l’autista, conferma. «Non l’ho chiesto a te», abbaia quello. «Certificato di battesimo ». Elias balbetta che gli stranieri non lo portano con sé. Lui lo azzittisce col fucile in faccia. «Recita il Libro». Vorrà dire il Vangelo? Difficile ricordarlo, figurarsi in arabo. La catenina al collo ha l’immagine della Vergine. Non la riconosce. «Recita!». Nella mente si affastellano l’Ave Maria, i Dieci comandamenti. Bisogna mostrarsi calmi. Il Padre nostro, ecco, tante volte ascoltato in arabo:«Abana alladhi fi as Samawati…Padre nostro che sei nei cieli…». Funziona. Tocca a Elias. Dallo specchietto retrovisore della Honda, visibili dall’esterno, pendono un rosario con i grani bianchi di plastica, e una grossa croce di metallo. Per loro è un simbolo di comodo. Elias ha anche una croce tatuata all’interno dell’avambraccio, lunga dall’incavo del gomito al polso. «Sei druso, ismailita, alawita?», impreca il capo: «Gli alawiti sono senza Dio, infedeli peggio degli ebrei e dei cristiani». Gli tende un trabocchetto linguistico. Dove si combatte a Damasco? Elias esita: «Nel Rif», in campagna. «T’ho chiesto dove»: pretende il nome dei luoghi. Vuole fargli pronunciare Qaboun, con la “q” iniziale. Gli alawiti, infatti, la aspirano un po’ come i toscani. Elias supera l’esame. «Va bene, andate». Restituisce i documenti con una sfilza di improperi: «Tornate a Damasco e dite che adesso arriviamo, e tutti quelli che ci hanno voltato le spalle, e fra loro e gli alawiti non faremo differenza, li passeremo al tritacarne per darli in pasto ai cani». Sono parole già sentite nei deliranti sermoni di uno sceicco, Adnan al Arur, osannato dai ribelli nella regione di Homs e di Aleppo, trasmessi dalla Wesal tv, un canale saudita. «E tu», fissa gli occhi sullo straniero, «portati via i tuoi amici. Qualche cristiano di meno, tanto meglio».
D’improvviso Elias, coi suoi baffi pettinati e l’abbigliamento modesto, i sandali cuciti, sembra uscito da un’epoca diversa al cospetto dei barbuti con le Nike taroccate ai piedi. Figurante di un tempo, appena poco fa, quando alla Grande Moschea degli Omayyadi accanto al sacrario con la testa del Giovanni Battista si prostravano assieme sunniti, sciiti, cristiani. E la fonte battesimale era rimasta per il sacramento dei cristiani. Capitava di vedere il Gran Mufti Hassoun cedere il palco al Patriarca Isidoro, con questo saluto: «Io mi rispecchio in te. Tu sei dentro di me. Senza di te io non esisterei», in riferimento ai cristiani “fratelli maggiori”.
Il figlio del Mufti è stato ucciso lo scorso ottobre. Hassoun predica ancora la riconciliazione.
Ma ora s’ascolta un nuovo linguaggio. La geografia sociale scaturita dalla militarizzazione della rivolta rischia di frantumare il Paese in tribù: più s’avvicina lo scontro finale ad Aleppo, più si combatte nelle periferie, e più si sente distinguere fra sunniti, alawiti, drusi, cristiani, ismaeliti, kurdi, palestinesi. Affiorano nuove identità a sottolineare le rivalità: i baathisti, fedeli al governo, gli
Shwam, i damasceni accusati di non sostenere la rivolta, gli Umalaa, i traditori, i Mushriqiyyn ossia gli infedeli. Da un po’ s’aggiungono i “senza scarpe”, gli Abu Shahhata, padri delle ciabatte per indicare nella propaganda classista chi può permettersi soltanto le pantofole, la concentrazione della rivolta nelle zone rurali contrapposte alle città e alla media borghesia.
«Io», si stringe nelle spalle Elias, «vorrei dirmi semplicemente siriano, come fate voi italiani, i francesi, gli inglesi. C’è gente di ogni comunità fra oppositori e lealisti». Il buon autista esprime in parole più semplici quel che vanno ammonendo gi studiosi. Ad esempio Patrick Seale, occhiuto conoscitore di questo Paese: «Soltanto un cessate il fuoco, un negoziato e un governo nazionale che guidi la transizione eviterà questo incubo e la distruzione della Siria». Ma mentre torniamo in città, arriva il boato di quattro esplosioni dalle periferie di Mouadamiyeh e di Qaboun. Per ora, sul terreno, non c’è tregua: come Sansone alla battaglia decisiva, costi quel che costi.

Alix Van Buren


“Non basta cacciare il regime senza un vero cambiamento”

NEW YORK — L’uomo che combatteva con Albert Einstein per la pace guarda alla Siria e dall’alto della sua storia guarda ovviamente più in là. «Accadde lo stesso in Russia: la rivoluzione del 1905» dice Gene Sharp, 84 anni, il padre della Primavera Araba, l’uomo che la Cnn ha definito «l’incubo peggiore dei dittatori», il professore finito in galera a 30 anni per l’obiezione alla guerra di Corea, l’autore di veri e propri manuali (“198 metodi di azione non violenta”) che hanno ispirato le rivolte di mezzo mondo, dalla Serbia di Slobodan Milosevic all’Egitto di Hosni Mubarak. «Allora, nel 1905, l’esercito dello zar sparò sui soldati che avevano disertato. Un massacro. Ma poi a disertar furono gli stessi soldati che spararono sui disertori. Qui invece il grande errore dei militari in rivolta è stato di rivoltare le armi contro gli stessi compagni: dando il via a una guerra civile che il regime è stato pronto a schiacciare ».
Ma perché in Siria sembra tutto così più complicato?
«La prima difficoltà è nelle differenze etniche e nella natura del regime. C’è una lunga storia di crudeltà estrema e di massacri di centinaia di migliaia di persone: e ciononostante la protesta non violenta è andata avanti con straordinaria disciplina. Ma eccoci al secondo punto: non si aiuta la rivoluzione prendendo le armi, il regime ne ha sempre di più».
Qui in America crescono le critiche a Obama: sta lasciando affogare la Siria nel sangue. Perché il mondo non interviene come in Libia?
«Quell’intervento è stato un errore. Credete davvero che la Nato e
gli Usa abbiano salvato la popolazione? Le vittime in Libia sono state immense».
Scusi professore: ma lei crede davvero che i movimenti spontanei, da soli, possono far cadere regimi che lei stesso definisce sanguinari?
«Ma l’Arab Spring non è stato per niente un movimento spontaneo. Qui in Occidente abbiamo una falsa percezione ma lì la gente ha studiato, pianificato, s’è preparata per anni: altro che spontaneo. Ma sono battaglie che non si vincono all’istante. Richiedono tempo. Pianificazione».
Insomma un anno dopo e malgrado il caos dall’Egitto in giù lei pensa che l’Arab Spring resti un successo.
«Una conquista straordinaria: paragonabile alle battaglie dell’Europa dell’est, al successo della rivoluzione in Polonia, negli Stati baltici».
Quali rischi vede adesso?
«I soliti dei cambi di regime. Quelli che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: le élite militari che vogliono imporre il loro governo, per esempio. Per questo non basta ribaltare il regime: bisogna vigilare sostenere il cambiamento».
In un cable da Damasco trafugato da WikiLeaks si legge che la resistenza siriana studiava sui suoi testi: che contatti ha?
«Negli anni abbiamo ospitato diversi esponenti. Ma il centro Einstein non dà istruzioni e ogni paese è un caso a sé: non si può entrare nel merito di ogni singola lotta. Noi spingiamo all’azione: ma l’azione è loro».
Sulla Siria pesa l’incognita Iran. E di un intervento occidentale per impedire che si faccia l’atomica.
«In Iran spediscono chi protesta in galera anche con l’accusa di leggere i miei libri. Lì sì che temono la non violenza. Sanno di cosa è capace: è così che loro stessi hanno abbattuto lo scià. Sì, anche loro guardano alla Siria. Ma a costo di ripetermi: spetta all’opposizione calcolare anche questo e muoversi di conseguenza. Spetta a loro solo. Certo un intervento armato nel Golfo non aiuterebbe».
Ancora pochi anni i Fratelli Musulmani erano per l’America dei pericolosi sovversivi. Ora il segretario di stato Hillary Clinton siede al Cairo di fronte al presidente Morsi. C’è una lezione da trarne?
«I Fratelli Musulmani hanno rilanciato per anni sui loro siti i nostri manuali. Se avessero avuto intenzione, saliti al potere, di instaurare
un regime, sarebbe stato folle mettere su Internet le istruzioni per abbatterlo. I Fratelli Musulmani sono stati continuamente travisati».
Albert Einstein scrisse l’introduzione al suo primo libro e una lettera per denunciare il suo arresto. A lui ha intitolato il suo centro. Che cosa direbbe lo scienziato pacifista guardando al mondo di oggi?
«Sto scrivendo proprio su questo il nuovo libro: il pensiero di Einstein su pace, guerra, giustizia sociale. Già allora diceva che quello di Gandhi era l’unico metodo da seguire. E sono convinto che rimarrebbe piacevolmente sorpreso a scoprire come sta cambiando il mondo anche nel suo nome».

Angelo Aquaro