Fatta questa premessa forniamo un florilegio degli articoli firmati da giornalisti italiani sull'argomento.
In Egitto sarà sfida tra islamici e generali
IL CAIRO - La rivoluzione di Piazza Tahrir sembra lontana, quella Primavera che portò milioni di egiziani in piazza per la democrazia e la libertà ed ebbe la forza di far cadere un tiranno trentennale in soli 18 giorni, adesso somiglia a una foto sbiadita. Perché dalle urne al primo turno delle presidenziali sono stati premiati due candidati agli estremi dello schieramento politico egiziano. Saranno - dopo che i dati ufficiosi saranno confermati oggi - il rappresentante dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi e l´ultimo premier dell´era Mubarak, Ahmad Shafik a sfidarsi nel ballottaggio di metà giugno.
Il primo è esponente dell´ala conservatrice della Fratellanza - che aderì alle proteste del 2011 solo negli ultimi giorni - mentre l´altro fu costretto alle dimissioni dal crollo del raìs. Uno scenario che solo 15 mesi sarebbe stato impensabile, con l´Egitto animato da nuovi gruppi e movimenti, e che invece oggi è diviso tra un salto nell´islamismo conservatore e un ritorno al passato, al vecchio regime. Sia Shafik che Morsi sono detestati da settori significativi della popolazione, lo scontro diretto fra loro è lo scenario più incandescente immaginabile. Che ricrea lo stesso schema degli ultimi tre decenni in Egitto, quando la Fratellanza era la "bestia nera" del governo e il principale avversario del regime di Mubarak.
L´altra sorpresa venuta dai seggi - dove sono andati oltre 20 milioni di egiziani, circa il 50% degli elettori - è l´affermazione del candidato nasseriano Hamdeen Sabbahi con oltre quattro milioni di voti al terzo posto, che ha superato di gran lunga l´altro candidato laico Amr Moussa e l´islamico moderato Moneim Abol Fotoh, che ieri sera ha fatto capire che per «far argine al vecchio regime» al secondo turno darà il suo appoggio al "nemico" Morsi. La Fratellanza, che già domina il Parlamento, ha promesso di applicare la Sharia - legge islamica - in Egitto, questo ha allarmato molti musulmani moderati, i laici e la minoranza cristiana (oltre 10 milioni di egiziani sono copti) e le donne egiziane che temono restrizioni di molti diritti acquisiti. Morsi, infatti, ha ottenuto solo la metà dei voti che la Fratellanza ha rastrellato durante le elezioni parlamentari lo scorso anno, un segno evidente di disincanto dell´elettorato.
L´affermazione di Shafik è sorprendente. È stato l´ultimo primo ministro del Faraone, investito quando ormai la rivolta era arrivata al palazzo presidenziale di Heliopolis ed estromesso dalla Giunta militare solo due settimane più tardi. L´ex comandante dell´Aviazione e amico personale di Mubarak, ha fatto una campagna elettorale apertamente come candidato "anti-rivoluzione", puntando su «sicurezza e stabilità», cercando i voti di quegli egiziani esasperati dai continui disordini e dalla grave situazione economica. L´industria del turismo, seconda voce nel bilancio dello Stato, è ferma. Proteste, marce, incidenti tengono lontano da più di un anno investimenti stranieri, ma soprattutto i turisti. Gli hotel sono vuoti nei templi del turismo come Cairo, Giza, Luxor; appena migliore la situazione nei resort sul Mar Rosso. Su Shafik si sono anche concentrati i voti di quel complesso militar-industriale che in Egitto - è stato negli anni passati anche ministro della Difesa - conta molto e il sostegno aperto della comunità copta.
I prossimi venti giorni, quelli che separano l´Egitto dal ballottaggio, saranno al calor bianco con uno scenario che già si annuncia carico di tensione, con l´inquietudine, la rabbia di tutti coloro che hanno creduto nel cambiamento perché, come recita uno striscione appeso ieri sera a Piazza Tahrir, la «rivoluzione è stata tradita».
Fabio Scuto
ISLAM, LAICITÀ E DEMOCRAZIA PER CAPIRE LE STAGIONI ARABE
Tunisia, Egitto, Libia – la "primavera araba", che ora viene chiamata più cautamente "transizione", ha reso forti dappertutto i partiti islamici. E´ un tradimento della libertà? Ci sono oggi nel mondo più democrazie ma meno democrazia? Alla quinta edizione degli Istanbul Seminars, lodevolmente organizzati ogni anno all´Università Bilgi di Istanbul da Reset/Dialogues on civilizations (e aperti da Giancarlo Bosetti), gli eventi della primavera araba hanno quanto meno obbligato tutti i partecipanti a resettarsi dalla teoria alla realtà politica, e a mettere i teoremi alla prova dei fatti, sforzandosi di ricavarne prospettive e strategie politiche.
Cominciando intanto dalle definizioni. Democrazia o democrazie? Di che cosa si parla nei paesi musulmani quando si parla di democrazia? La libertà dalla tirannide non è un valore soltanto occidentale. E quando viene conquistata non deve per forza sfociare, per non perdere il proprio valore, in forme di società che siano fotocopie delle società occidentali. Una società libera e autodeterminata è pensabile anche con partiti islamici al governo, è stato detto. Pensabile, beninteso, non garantita. Perfino in Turchia, il paese che a noi occidentali appare come l´esempio più riuscito sotto il profilo del funzionamento dei meccanismi della democrazia, i laici lamentano la crescente pressione sociale che spinge verso una "omogeneizzazione" sul terreno dei princìpi religiosi (permettere l´uso del velo nelle università, proibire l´alcol etc).
Tunisia e Egitto, almeno per il modo in cui è cominciata la rivolta, hanno smentito tutte le interpretazioni "orientaliste" di quelle società, e hanno rivelato una forte domanda di democrazia. Il fatto che poi si siano rafforzati i movimenti islamici ha portato semplicemente alla superficie quello che era stato represso per molto tempo: la coscienza di una identità musulmana, che secondo buona parte dei tunisini e degli egiziani (e di altri paesi come il Marocco) dovrebbe riflettersi nella costruzione degli ordini politici. E´ stata per così dire una normalizzazione, non uno snaturamento della rivolta. Tanto più che i partiti islamici vengono visti dalla gente semplice come i più capaci di affrontare i problemi della povertà e delle enormi differenze sociali: sia perché nell´islam la giustizia sociale ha un ruolo preminente, sia perché i leader dei partiti islamici non appartenevano alle élite ultraricche del paese.
E´ vero che la forza trainante della rivolta erano stati i giovani, che chiedevano democrazia. Senza i laici, per i quali la religione dovrebbe restare un fatto privato e non un affare di Stato, la rivoluzione non sarebbe nemmeno cominciata (almeno in Egitto). Avishai Margalit, professore di filosofia a Princeton e a Gerusalemme, ha visto un parallelo con la rivoluzione russa del ‘17: spontanea e pluralistica in febbraio, sotto il pieno controllo dei bolscevichi in ottobre. Ma è un fatto che né in Tunisia né in Egitto né in Libia i laici sarebbero stati abbastanza forti per fare la rivoluzione. Può dispiacere, ma è così. E per fortuna nessun nuovo Lenin sembra affacciarsi sul fronte islamico.
Previsioni sul futuro nessuno naturalmente poteva farne, ma l´esperimento è senza dubbio appassionante: per la prima volta le società arabe hanno la possibilità di fare dei compromessi, dei nuovi patti sociali in cui nessuno detti dispoticamente le regole e tutti siano rappresentati. Ma quanto sul serio prenderanno i governi islamici i diritti dei non musulmani, delle donne, della stampa, la libertà di opinione? E come si distingue una democrazia da sistemi maggioritari che, per quanto legittimati dai risultati elettorali, possono poi ridurre lo spazio per le minoranze e il pluralismo? Giuliano Amato si è detto contrario all´idea di una moltitudine di interpretazioni diverse della democrazia: alcuni suoi cardini non possono venir limitati.
Le divergenze più profonde si sono riscontrate nelle risposte a un messaggio dell´ex presidente iraniano Mohammad Khatami, letto al convegno dal suo consigliere Khoshroo. Khatami critica l´Occidente per aver trascurato "il sacro" e invita a guardare alla democrazia "non come parte integrante della laicità". Secolarismo e democrazia non sono la stessa cosa, afferma. Tra i partecipanti alcuni gli hanno dato in qualche modo ragione: sostenendo, con un richiamo a Habermas, la necessità di adottare un "post-secolarismo", nel senso di accettare un ruolo positivo della religione nello spazio pubblico. Altri invece, come l´ambasciatore Roberto Toscano, hanno contestato questa impostazione habermasiana, affermando che "secolarismo non equivale a ateismo o a ‘anti-religione´, bensì alla necessità di garantire quella separazione tra religione e Stato senza la quale il conflitto - e la perdita di democrazia - sarebbero difficilmente evitabili". Anche gli islamici possono essere democratici, ha concluso Mehmet Pacaci, esperto di esegesi coranica all´Università di Ankara. Ora avranno l´opportunità di dimostrarlo.
Vanna Vannuccini
Egitto alla sfida finale fra Islam e esercito
Il figlio di Omar Abdelrahman, l’anziano «sceicco cieco» condannato all’ergastolo in Usa per l’attacco al World Trade Center nel 1993, è entusiasta della vittoria di Mohammad Morsi al primo turno delle presidenziali egiziane. «Ha promesso che farà liberare mio padre e gli credo», ci dice nel suo accampamento a fianco all’ambasciata americana dove staziona da mesi sotto gli striscioni con il volto del padre. Non è l’unico ad aver fiducia nel candidato dei Fratelli Musulmani: per lui hanno votato oltre il 25% degli egiziani. Preferendolo di poco—secondo i risultati incompleti ma considerati affidabili — all’ex generale Ahmed Shafiq, il rappresentante ufficioso della Giunta e l’esplicito difensore del regime di cui fu l’ultimo premier e che la rivoluzione credeva abbattuto. Quindici mesi dopo la caduta del Faraone Mubarak l’Egitto ha infatti liberamente riproposto la polarizzazione che lo divide da sempre. Islam contro esercito, «barbe» contro «felùl», ovvero islamisti contro residui del vecchio regime. Morsi, appunto, contro Shafiq, che il 16 giugno si fronteggeranno per il ballottaggio. I giovani di Tahrir, gli intellettuali, le femministe, i laici, in poche parole l’Egitto che ha fatto la rivoluzione o ne è stato almeno contento sembra svanito nel nulla. Vero è che al terzo posto, e per alcune ore sembrava perfino al secondo, s’è qualificato a sorpresa Hamdin Sabahi, il nasseriano per cui quell’Egitto ha votato. Ed è vero anche che i due grandi favoriti di «centro» sono finiti in coda: sia Abdel Monem Abul Futuh, l’ex leader della Fratellanza presentatosi come «islamico moderato », sia Amr Moussa, l’ex ministro degli Esteri di Mubarak e capo della Lega araba, non hanno convinto. Il buon piazzamento di Sabahi è tuttavia un consolazione assai magra. «Morsi o Shafiq: sarà come scegliere tra suicidarsi buttandosi in una vasca di squali o dalla finestra», era uno dei mille commenti ieri su Twitter. «Io non andrò a votare, quei due sono la vergogna del nostro Paese», aggiunge un signore in piazza Tahrir, in un capannello di gente concorde con lui. Al di là di quanto esprime a caldo la piazza virtuale e reale, al di là delle dichiarazioni delle diplomazie a partire da quella Usa («siamo pronti a lavorare con il governo eletto democraticamente») resta il fatto che questo è il peggior scenario possibile, quello che potrebbe portare secondo molti analisti anche a nuove violenze. «Se tenteranno di respingerci li getteremo nella spazzatura, sappiamo bene chi sono», ha dichiarato ieri Morsi, noto per la scarsa diplomazia che lo aveva escluso inizialmente come candidato della Fratellanza. «Dopo un anno emezzo la rivoluzione è finita e ora salveremo l’Egitto dalle forze oscure», ha ribattuto il portavoce di Shafiq, riferendosi ai Fratelli e ai salafiti, che già hanno i due terzi del Parlamento. Toni che nei prossimi giorni, con l’avvicinarsi del ballottaggio, si faranno più duri. Anche perché l’esito dell’ultimo voto non è scontato. Difficile fare previsioni, ma con Shafiq si schiereranno ancora i cristiani e molti elettori di Moussa, oltre a un certo numero di laici. Altri, tra quest’ultimi, voteranno Morsi, e lo stesso vale per chi ora ha scelto Abul Futuh. E la Fratellanza, l’unica forza organizzata e capillare del Paese, s’è dimostrata indebolita rispetto alle elezioni politiche ma sempre formidabile. Mentre i Generali, dietro le quinte, faranno di tutto per evitare un «cappotto islamico».
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