giovedì 10 maggio 2012

Palestina L' Intifada della fame il digiuno dei detenuti diventa una bandiera


È stato un altro lungo giorno di digiuno per Taher Halahla e Bilal Diab, i due detenuti palestinesi arrivati al settantaduesimo giorno senza cibo. Non sono soli, altri sette detenuti da qualche giorno si sono uniti a loro. Sono pronti ad andare avanti a oltranza fino alle estreme conseguenze, lasciarsi morire di inedia dietro le mura grigie del famigerato carcere di Ofer, l' Incarceration Facility 385 secondo il linguaggio burocratico dell' Amministrazione penitenziaria israeliana. Altri 1600 li stanno seguendo ormai da quasi un mese. Perché lo sciopero della fame è l' unico mezzo che i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza accuse formali - qui li chiamano "arresti amministrativi", si tratta dell' equivalente di una detenzione preventiva - hanno per ottenere la liberazione. Comei ragazzi dell' Iraa Belfast nel penitenziario di Maze nel 1981, Taher, Diab e gli altri hanno intenzione di andare avanti fino alla fine, come gli otto che seguirono il destino di Bobby Sands, il primo che si lasciò morire scuotendo le coscienze nel maggio del 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Se dovesse morire uno di loro questa "Intifada della fame" dietro le sbarre potrebbe scatenare violenze in tutti i Territori palestinesi occupati, dove questa protesta è sentita, sostenuta e appoggiata. Ieri la Croce rossa internazionale ha chiesto per sei di questi detenuti il ricovero in ospedale per le loro gravi condizioni e ha chiesto anche, per ora invano, che sia consentito loro di ricevere le visite dei parenti in carcere. Dopo la rivolta della rete, le denunce su Facebook e Twitter, sono decine le manifestazioni anche nei paesi più piccoli della Cisgiordania e le marce di sostegno, con la gente che mostra le foto dei parenti incarcerati che partecipano alla protesta nelle celle. Lo scorso 17 aprile in occasione della "giornata del detenuto" tre quarti dei 4700 prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo. Non è il primo grande sciopero nelle carceri israeliane - nel 2004 diecimila detenuti rifiutarono il cibo per 17 giorni - ma è la prima volta che un gruppo ha deciso di portare avanti fino alla fine. L' iniziatore di questa protesta è stato un fornaio di 34 anni, Khadnan Adnan, militante della Jihad islamica, che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere finito in cella lo scorso anno senza imputazioni. In carcere per un "arresto amministrativo" - e senza essere mai stato portato davanti a un giudice - Adnan ha rifiutato il cibo per 73 giorni prima di vincere la sua battaglia ed essere rilasciato. L' avvocato Jawad Boulos, che rappresenta l' Associazione dei palestinesi detenuti in Israele, spiega a Repubblica che lo sciopero della fame a oltranza nelle prigioni israeliane viene condotto da due gruppi distinti, che hanno obiettivi diversi. Il primo gruppo di sette carcerati ha iniziato lo sciopero della fame circa due mesi fa. Alcuni, come appunto Diab e Halahla, vogliono l' annullamento degli arresti amministrativi decretati da un tribunale militare. Un altro, Muhammed Taj, chiede di essere riconosciuto "prigioniero di guerra". Un altro ancora, catturato a Gaza, chiede di tornare libero nella Striscia. Il secondo gruppo - che conta circa 1.600 prigionieri - lotta per un miglioramento delle condizioni di reclusione. Fra le richieste, l' abolizione dell' isolamento e l' accesso a siti accademici online. Poi ci sono settecento detenuti originari di Gaza - sempre secondo l' avvocato Boulos - che non ricevono visite dei loro congiunti da cinque anni, come ritorsione per il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, che però nel frattempo ha riacquistato la libertà. Il trattamento dei detenuti in Israele è uno dei temi più sentiti tra i palestinesi. I crimini per cui vengono arrestati sono dei più vari, dal semplice lancio di pietre all' organizzazione di attacchi terroristici. Trai 4700 palestinesi detenuti nelle carceri 302 sono in regime di detenzione amministrativa. Una misura usata prevalentemente nei casi in cui gli indizi disponibili consistono in informazioni ottenute dai servizi segreti (come lo Shin Bet), e nei casi in cui un processo pubblico potrebbe rilevare informazioni ritenute di sicurezza dalle forze israeliane. Ogni comandante dell' esercito locale può diramare un ordine di detenzione amministrativa, che può essere appellato presso la locale Corte militare e, se negato, alla Corte Suprema. Anche in questo caso, l' ordineè valido per sei mesi, ma può essere rinnovato a tempo indefinito dall' autorità. Nel territorio palestinese questa forma di detenzione extra giudiziale esisteva sin dal mandato britannico del 1945. L' ordine militare che legifera la detenzione amministrativa è il n. 1651 del 1970 che nel 1979 è stato ribadito, nonostante il Parlamento israeliano avesse stabilito già nel 1951 che questa misura andava abolita. Dietro le quinte i contatti fra la direzione del Servizio carcerario israeliano e una rappresentanza di reclusi per trovare uno sbocco alla crisi si sono fatti febbrili. Ieri sera il governo palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e all' Europa di intervenire, ammonendo che «riterrà Israele responsabile della vita dei prigionieri palestinesi». Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese.


Fabio Scuto




Siria, attacco agli osservatori Onu il convoglio colpito da una bomba 


HOMS - Nella capitale della rivolta la linea del fuoco spezza in due il cuore della città. Alle
porte di Dera´a un ordigno artigianale esplode al passaggio di un convoglio degli osservatori
dell´Onu su cui viaggia il comandante della missione, il generale Robert Mood. Otto militari
dell´esercito siriano, su un camion di scorta, vengono leggermente feriti. E´ l´ennesimo attacco
alla tregua, ma stavolta nel mirino sembrano essere i "caschi blu", gli uomini mandanti dalla
comunità internazionale a verificare la possibilità che la rivolta esplosa 14 mesi fa in Siria, ormai
sull´orlo di una guerra civile guerreggiata, possa ancora piegare verso una soluzione pacifica.
I nemici della tregua avrebbero certamente potuto impiegare mezzi ben più potenti della bomba
rudimentale piazzata ai margini del raccordo che, lasciata l´autostrada per Damasco, conduce
alle porte di Dera´a. Ma quello che conta è il tempo in cui è stato deciso di lanciare
l´avvertimento: la quasi perfetta sincronia con il passaggio del convoglio delle Nazioni Unite,
partito dalla capitale siriana per uno dei tanti sopralluoghi che vengon fatti giornalmente nelle
varie città-crateri della rivolta. Un´operazione di routine sotto agli occhi di Robert Mood, il
comandante del contingente, e di un gruppo di giornalisti cui il piano di pace proposto da Kofi
Anan ha voluto garantire l´accesso.
E´ dopo che il convoglio ha oltrepassato il camion dell´esercito siriano che avviene l´esplosione.
La fiancata del mezzo viene investita dalle schegge, ma le auto degli osservatori e quelle dei
corrispondenti vengono soltanto sfiorate dall´onda d´urto. Proprio ieri, lo stesso mediatore Kofi
Annan aveva sollevato dubbi sulla tenuta della tregua da lui stesso voluta. Ci si interroga su chi
fosse il vero obiettivo dell´attentato, perché sul fatto che il camion siriano scortasse il convoglio
c´è chi nutre qualche dubbio. Ma il generale Mood sembra per nulla turbato da questo episodio:
«La cosa più importante non è stabilire chi fosse l´obbiettivo ma affermare che questo è ciò che
vive ogni giorno il popolo siriano. E bisogna porvi fine».
D´altronde basta vedere Homs, la città che le autorità di Damasco pretendono di aver
normalizzato dopo mesi di battaglie furibonde e di bombardamenti pesanti, per capire quanto
ardua sia la missione degli osservatori delle Nazioni Unite. Se all´inizio dell´anno il fronte
passava per i quartieri periferici, oggi il centro politico ed economico è il fotogramma bloccato di
un città fantasma. La piazza principale, con il grande orologio fermo alle 12 di chissà quale
giorno, deserta. Municipio e Governatorato sbarrati da fortificazioni da cui emergono le sagome
di uomini armati. Negozi chiusi, o saccheggiati. I marciapiedi ricoperti da un tappeto
scricchiolante di vetri in frantumi. E lì, nel buio androne del ristorante Sky View, il comando delle
forze di polizia che, dopo l´approvazione del piano di pace di Kofi Annan, hanno sostituito
l´esercito. Dunque, niente mezzi pesanti, è pronto a giurare il comandante. Niente artiglieria
contro gli insorti. Eppure «la situazione - dice - è sotto controllo».
Però, neppure rasente ai muri ci si può allungare sul grande viale che conduce al quartiere di
Kaldyeh, da dove giunge l´eco ininterrotta degli spari. Né si può pensare di sterzare verso la
città vecchia, o l´adiacente quartiere di Amidyeh, dove alla fine di gennaio siamo potuti arrivare
per parlare con i cristiani che vi abitano da secoli. O per meglio dire, vi abitavano, perché
secondo un agente delle forze di sicurezza, «il 90 per cento dei cristiani di Amidyeh sono
fuggiti».
Tuttavia, la migrazione interna, effetto indotto della quasi-guerra-civile siriana, non riguarda
soltanto i cristiani ma anche e soprattutto i sunniti, considerati il serbatoio della rivolta. Abd el Jalib, 40 anni, una famiglia di dieci persone da sfamare con le misere entrate di un commercio
di frutta e verdura esposte sul marciapiede, vive in una traversa a non più di 200 metri dalla
piazza centrale. Viene da Bab Dreb, un quartiere colpito duramente, la sua casa, 5 mesi fa è
stata distrutta e lui e i suoi hanno trovato posto in un appartamento del centro da dove, a sua
volta, con l´avvicinarsi del fronte, era fuggita un´altra famiglia. Il turnover della disperazione.
Lui ci aspetta lì, sulla soglia di casa, circondato dai figli più piccoli, con l´orecchio teso ai suoni
dello scontro e lo sguardo alla sua povera mercanzia (cipolle, patate, qualche pomodoro sfatto).
Come va la vita? "Ringraziamo Iddio". Ma riesce a vendere qualcosa in questo deserto? "Si
vende poco". Potete uscire di casa? "No". I bambini, a scuola? "Le scuole sono chiuse". Un
collega chiede se ha mai visto carri armati da queste parti (vale a dire i mezzi corazzati che il
piano di Kofi Annan impone al regime di ritirare dalle zone abitate)? «Sono passati da quella
strada 3 o 4 giorni fa. Tremava tutto». 
E´ difficile dire che ne sarebbe del fragile immobilismo della tregua se non ci fossero i caschi
blu. Ma forse la risposta è qui, a Baba Amro, il quartiere-martire teatro della sanguinosa
battaglia di gennaio-febbraio durata sei settimane e conclusasi con il ritiro della guerriglia.
Passare per Baba Amro è come attraversare un cimitero di macerie. Nessuna edificio affacciato
sul vialone che l´attraversa è rimasto immune dal fuoco dell´artiglieria. Molte palazzine sono
annerite dal fuoco degli incendi. La cupola della Moschea è stata sfondata. Rare figure,
soprattutto femminili, punteggiano quà e là questa quinta di distruzione. Un gruppo di operai
lavora a liberare una fognatura. Ma nessuno vuole parlare. "Siamo soltanto operai. Andate via"!

Alberto Stabile


"Come una scossa, poi il fumo"

Agguato ieri in Siria, a Deraa, contro un convoglio di auto composto da osservatori dell'Onu
e giornalisti, tra cui l'inviata del Corriere della Sera. L'ordigno ha colpito di striscio un mezzo
dell'esercito, ferendo diversi soldati, sollevando fumo e facendo sobbalzare le auto dei
reporter. Fuori dal finestrino scorre un paesaggio bucolico, una pianura con ulivi, pastori e
pecorelle sotto il sole caldo delle 11 del mattino. Il convoglio di auto con in testa gli osservatori
dell'Onu disarmati e, al seguito, su mezzi a noleggio, inviati di giornali siriani e stranieri tra cui il 
Corriere della Sera
, percorre la trafficata autostrada da Damasco a Deraa, la città simbolo dov'è iniziata la rivolta
siriana contro il presidente Bashar Assad 14 mesi fa. 
È su questa strada che ieri un ordigno artigianale, forse azionato a distanza, è esploso,
colpendo di striscio un mezzo dell'esercito siriano in coda al convoglio Onu, ferendo diversi
soldati, sollevando fumo e terra sul ciglio della strada, e facendo sobbalzare le auto dei
reporter. 
Da 10 giorni gli osservatori Onu monitorano la cessazione delle violenze accettata dal 12 aprile
dal governo siriano e dai ribelli armati dell'Esercito siriano libero: hanno registrato violazioni, ma
— insistono — anche progressi. Stavolta a bordo di una delle auto c'è anche il capo della
missione, il generale norvegese Robert Mood. La destinazione viene rivelata solo al momento
della partenza, e la presenza del generale solo più tardi. Il convoglio è quasi arrivato a Deraa
quando il furgone di scorta supera le auto di alcuni giornalisti: i militari posano sorridenti, fucili in
pugno, per le telecamere. Si passa senza fermarsi un posto di blocco dell'esercito con la foto di
Assad in mostra. Pochi minuti dopo, l'esplosione, che frantuma i vetri del furgone militare, e
alcune schegge perforano il fianco destro. Ma l'autista rimette in moto e in un paio di chilometri
arriva a Deraa. I soldati feriti, uno con rivoli di sangue sul volto, altri quattro con ferite lievi al
volto o alle braccia, vengono portati via dalla polizia e in taxi. Giovani, in un paese dove la leva
è obbligatoria. Tremano, sotto choc, mentre parlano con la stampa. 
Le parti in campo si accusano reciprocamente. I media siriani attribuiscono l'attentato a terroristi
pagati e armati dall'estero. Il comandante dell'Esercito siriano libero, Riad al-Assad, aveva
appena minacciato di «ricominciare gli attacchi», perché «il governo non ha rispettato il cessate
il fuoco»: «il popolo ci chiede di difenderlo». Invece, il Consiglio nazionale siriano (Cns), blocco
di oppositori con sede a Istanbul, accusa il regime di aver piantato l'ordigno «per dimostrare la
presenza di terroristi» e «per cacciare gli osservatori, mentre cresce la domanda di aumentarne
il numero».
«Non starò a speculare su chi fosse l'obiettivo», dice il generale Robert Mood nell'hotel degli
osservatori a Deraa. «Il punto importante è un altro — sottolinea —. C'è un aumento
preoccupante di ordigni come questo ed esplosioni che minacciano la vita della popolazione
siriana ogni giorno. A tutti coloro che fuori o dentro la Siria stanno considerando l'opzione di più
esplosivi e più armi il mio messaggio è molto chiaro: non è la cosa giusta. Non è la scelta che
dobbiamo prendere, e abbiamo ancora una scelta». Arabia Saudita e Qatar nei mesi passati si
sono detti favorevoli a fornire armi ai ribelli dell'Esercito siriano libero, che chiede sostegno
contro il regime. La priorità sottolineata ieri dal generale Mood è fermare le uccisioni, per evitare
la guerra civile paventata dall'inviato Kofi Annan. In un rapporto duro nei confronti di Damasco,
Annan ha sottolineato che le violazioni non riguardano solo le operazioni militari: «le autorità
siriane stanno usando meno le armi pesanti, ma hanno intensificato le campagne di arresti». Che 300 osservatori siano pochi lo riconosce anche il generale, ma non spetta a lui decidere.
Oggi ai 70 sul campo se ne aggiungeranno altri 30. Gli altri 200 entro fine maggio. «It's a tough
job», è un lavoro duro, conclude Mood.


Viviana Mazza




Damasco, i kamikaze rompono la tregua due autobomba fanno più di 50 morti

Sono 55 i cadaveri che è stato possibile contare, 372 i feriti, molti dei quali destinati a morire.
Gli obiettivi che i kamikaze alla guida delle due autobomba avevano in animo di colpire erano
probabilmente due installazioni militari: una caserma e la sede della Sezione "Palestina"
dell´Intelligence militare, ma l´onda delle esplosioni s´è riversata sulla gente che, in macchina,
stava andando al lavoro e su un quartiere popolare, trasformando quello che avrebbe dovuto
essere un atto di guerra tra fazioni armate in un massacro di civili.
Anche la fragile tregua, faticosamente raggiunta il 12 Aprile dall´inviato delle Nazioni Unite e
della Lega Araba, Kofi Annan, ne esce ulteriormente scheggiata. L´ex segretario generale
dell´Onu (un attentato «abominevole», ha detto) non smette di invitare le due parti contrapposte
a rispettare l´accordo per il cessate il fuoco da lui stesso promosso come primo passo verso
una soluzione negoziata della crisi. Ma è un´immagine di solitudine quella del convoglio con il
generale Robert Mood, comandante degli osservatori, soltanto ieri bersaglio di un ordigno
artigianale mentre viaggiava sulla strada per Dera´a, che s´avvicina scortato dalla polizia verso
il luogo dell´attentato.
Nel dramma siriano anche un´azione terroristica viene risucchiata dalla contesa politica. Le
profonde fratture aperte nella comunità internazionale si sono riproposte anche ieri, con gli Stati
Uniti riluttanti ad intervenire ma pronti a contestare ad Assad le violazioni della tregua e la
Russia che difende il Raìs e non esita ad evocare una «mano straniera» nella duplice
autobomba.
Ma gli strateghi del caos che alle otto del mattino hanno teleguidato gli attentatori suicidi sulla
tangenziale di Damasco, nel distretto di al Qazaz in direzione dell´aeroporto, sembrano avere in
mente scenari conosciuti. I modelli ispiratori non mancano: l´Iraq dilaniato dalle esplosioni con
l´obiettivo di mettere sciiti e sunniti gli uni contro gli altri, così realizzando una partizione di fatto
del paese, o il Libano della guerra civile che ha portato, se non alla dissoluzione, a una sorta di
irreversibile indebolimento della sovranità libanese.
Quando arriviamo sulla tangenziale non è passata più di un´ora da quando, qualche minuto
prima delle otto, Damasco è stata scossa dai due boati. La scena che si apre davanti a noi
sembra dettata da un´agghiacciante architettura dell´orrore. Decine di macchine sembrano fuse
in un unico ammasso fumante di lamiere. L´odore di tutto quello che ancora brucia, gomma,
benzina, brandelli di vita umana, è acre e irrespirabile. Un tir che trasportava cemento sembra
ridotto ad una carcassa scheletrita, la cabina di guida girata di 180 gradi contro il rimorchio. Una
berlina giapponese catapultata in aria è atterrata sull´aiuola che separa le due corsie della
superstrada. Un taxi giallo, ricoperto di uno spesso strato di polvere s´è inchiodato con il cofano
sul terreno. Dentro, riverso sul volante c´è il cadavere dell´autista.
Oltre a provocare un cratere largo più di tre metri e profondo due, le due autobomba,
esplodendo, hanno scatenato una pioggia di schegge, pezzi di motore, lamiere taglienti, vetri in
frantumi che ha investito non soltanto la superstrada per centinaia di metri, ma anche un edificio di sette piani, la sede dell´Intelligence sugli affari palestinesi (uno dei 22 servizi di sicurezza
siriani e, a quanto pare, uno dei più temuti) e, sul lato di fronte, le palazzine del quartiere di
Zahra al Jiadida. E´ qui che sarebbero stati colpiti alcuni bambini che stavano andando a
scuola.
Ma ecco che il silenzio avvolgente viene spezzato da un coro ritmato. Come sorto dal nulla, ma
probabilmente uscito da uno degli edifici militari, un corteo di Shabiha, i miliziani armati fedeli al
regime di Assad, kalashnikov in pugno, tascapani pieni di munizioni, ma in abiti civili, avanzano
sulla strada gridando slogan di fedeltà al presidente. Brandendo i fucili mitragliatori al cielo,
sfiorano il cratere dell´esplosione e avanzano verso la piccola folla di curiosi e le poche
telecamere che il cordone stretto intorno alla scena ha lasciato filtrare. Hanno la rabbia segnata
sul volto: «Assad/libertà», continuano a gridare. Anche perché, appena 48 prima, nove
Shabiha, miliziani come loro, erano stati uccisi alla periferia di Damasco in un attacco della
guerriglia a colpi di lancia granate contro l´autobus su cui viaggiavano.
E´ in un momento come questo che, raffigurandosi come le vittime di una manovra ordita
dall´esterno, i sostenitori di Assad fanno sentire la loro voce. Un giovane ci viene incontro
ripetendo come in un rosario: «Tutto questo è opera dell´Arabia Saudita». Nadine Haddad,
un´insegnante di 40 anni, cristiana, lancia la sua fredda invettiva contro il primo ministro del
Qatar, Hamad bin Jassim al Thani: «Hamad - dice Nadine serrando le labbra - tu stai
distruggendo il popolo siriano, non il regime. Tu stai uccidendo i nostri figli».
Qatar e Arabia Saudita sono, fra i paesi arabi, i più risoluti a sostenere che l´unico modo di
risolvere la crisi siriana sia armando i ribelli. Dunque, sui leader di Qatar e Arabia Saudita si
concentra il fuoco della propaganda che li accusa di essere ispiratori e finanziatori della
protesta contro il regime. Così come, contro gli stessi paesi sembrano indirizzati gli strali del
ministro degli Esteri, Muhallam, che ieri ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di proceder «contro
gli Stati e i gruppi che praticano il terrorismo». Il Consiglio di sicurezza ha condannato con
fermezza l´«attentato terroristico», il più grave compiuto contro la capitale siriana da quando, 14
mesi fa, è esplosa la rivolta.
Ieri Damasco ha continuato per ore a rabbrividire dietro l´urlo ininterrotto delle sirene. Poi, sotto
l´incalzare della calura quasi estiva, la città s´è come rilassata. Il traffico è ripreso a scorrere
normalmente sulle strade chiuse dalla polizia per lasciare corridoi aperti ai soccorsi. «Vedi -
commentava un amico siriano - qualche settimana fa, dopo un attentato anche meno grave di
questo la gene sarebbe tornata a casa. Oggi disgraziatamente ci stiamo abituando».


Alberto Stabile, 11/05/2012

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