La faccia di Erdogan sorride da ogni angolo della strada. «Benvenuto» si legge sugli striscioni. Il primo ministro turco è ad Adana, nel sud del Paese, per inaugurare un nuovo ospedale e parlare al Congresso provinciale del suo partito, l’Akp, al governo dal 2002. Bacia un paio di bambini, saluta la folla, stringe mani, mangia il cibo che gli viene immancabilmente offerto. Recep Tayyip Erdogan è il solito fiume in piena, un istrione in perenne movimento. Camicia celeste, giacca a quadri, nonostante il caldo, il leader del partito filo-islamico appare in grande forma dopo l’operazione dello scorso febbraio: «Sta talmente bene—dice un suo stretto collaboratore — che non riusciamo a stargli dietro». Accanto a lui, come sempre, la figlia Sümeyye e la moglie Emine, entrambe elegantissime, il viso incorniciato dal velo. L’intervista esclusiva con il Corriere della Sera comincia sull’aereo che ci riporta ad Ankara. Sono ormai le otto di sabato sera. Domenica Erdogan si sposterà al confine con la Siria per visitare il campo rifugiati di Kilis, poi partirà per la Slovenia, infine per Roma dove è atteso stanotte. Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu nel suo ultimo discorso ha detto che la Turchia guiderà l’onda del cambiamento in Medio Oriente. Lei aspira a diventare il leader della regione? «Non siamo nella posizione di guidare o di essere i leader del cambiamento in maniera sistematica ma forse ci sono persone che sono ispirate dai passi che abbiamo compiuto. La Turchia non è uno stato religioso ma una repubblica parlamentare funzionante. Abbiamo dimostrato che Islam e democrazia possono convivere. Se ci sono dei regimi autocratici che opprimono il popolo, allora la gente cercherà di cambiare e noi possiamomostrare loro la strada per farlo, cioè quella del sistema parlamentare. Finora siamo stati disponibili con chi ci ha chiesto consiglio ». La situazione in Siria sta degenerando e sono migliaia i profughi che hanno cercato rifugio nel suo Paese. Secondo lei c’è ancora un futuro per Assad? State valutando seriamente l’opzione militare? «Il regime di Assad è finito. Ci sono stati 10mila morti, 25 mila rifugiati in Turchia, 100 mila in Giordania. Se un Paese opprime la sua stessa gente, la attacca con i cannoni e i carri armati, se, come conseguenza, centinaia dimigliaia di persone fuggono, dov’è la giustizia? Noi condividiamo con la Siria un confine lungo 900 chilometri. E abbiamo sempre avuto legami di grande amicizia. Sfortunatamente Assad non ha onorato la nostra fiducia. Quando le cose si sono cominciate a muovere in Tunisia l’abbiamo avvisato. Gli abbiamo detto: scegli la via giusta, lascia che nascano i partiti politici, apri la strada alla libertà, rilascia i prigionieri politici, ferma la corruzione. Ora la situazione èmolto grave. Finora siamo stati pazienti con la Siria ma se il governo commetterà ancora degli errori alla frontiera questo sarà un problema della Nato come recita l’articolo 5. Assad non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte ad Annan. Le uccisioni continuano. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe prendere la cosa più seriamente. La Ue non dovrebbe rimanere un osservatore esterno. Se penso a un intervento armato? Questo non è solo un problema della Turchia. Servono passi comuni del Consiglio di sicurezza, della Lega araba ». Quattro anni fa le relazioni tra Turchia e Israele erano molto buone e rappresentavano una speranza per l’intera regione, oggi quei rapporti sembrano essersi compromessi per sempre. È impossibile ricucire? «È vero, la Turchia era il più importate alleato di Israele nell’area ma loro hanno fatto dei grandissimi errori nei nostri confronti. L’attacco di Israele alla nostra Flotilla di aiuti umanitari non può essere perdonato. È avvenuto in acque internazionali. Nove persone sono morte e sui loro cadaveri c’erano più di 30 proiettili, anche sparati da vicino. Abbiamo dettato a Israele delle condizioni: vogliamo scuse pubbliche, un risarcimento per le famiglie delle vittime, la fine dell’assedio di Gaza. Oggi Gaza è ancora bloccata e a volte viene pure bombardata. Se non saranno soddisfatte queste condizioni le nostre relazioni non si normalizzeranno mai». Ankara oggi sembra guardare sempre più ad Oriente. Cosa ne è delle ambizioni di entrare nell’Unione Europea? Lei lo considera un capitolo chiuso? «No, questo è fuori questione. Come lei sa nel 1996 siamo diventati parte dell’unione doganale, una cosa che di solito si ottiene solo quando si è già membri Ue a pieno titolo. Ora, però, i Paesi membri della Ue fanno di tutto per non lasciarci entrare. Perché? Siamo l’unico Paese musulmano nella Nato ma questo non danneggia le nostre relazioni con i Paesi del Medio Oriente con i quali abbiamo valori in comune. Le assicuro che faremo di tutto per diventare membri della Ue. Ma loro non mantengono le promesse. Spero che la smettano di fare questi errori e che colgano al volo l’opportunità di diventare un grande attore globale accogliendoci nell’Unione».
Monica Sargentini
Il grido dei ribelli agli osservatori Onu: «Qui ci ammazzano tutti»
«Quando voi ve ne andrete, verranno a prenderci, ci arresteranno tutti», dice una vecchia col velo bianco intorno al volto all’osservatore Onu in giubbotto antiproiettile. È uno dei membri del team che dovrebbe assicurare il cessate il fuoco tra esercito e ribelli in Siria dopo 9.000 morti in 14 mesi, come prevede il piano di pace di Kofi Annan approvato il 12 aprile. Settanta dei 300 osservatori sono arrivati. E alle 10, ieri mattina, tre auto bianche con la scritta «UN» sono partite sfrecciando seguite da uno stuolo di macchine cariche di giornalisti, siriani e stranieri, dirette a Zabadani e ai villaggi vicini. Zabadani è un centro per lo più sunnita di 35 mila abitanti a 30 chilometri da Damasco, appena prima del confine col Libano. I buchi di kalashnikov nelle saracinesche e i fori di granate in alcuni edifici testimoniano la battaglia tra ribelli e soldati avvenuta a gennaio. Faris Muhammad, che si definisce un attivista politico, consegna all’Onu un foglio di carta con l’immagine ricostruita su Google Earth dei punti dove si troverebbero i checkpoint e i tank dell’esercito, una decina tutt’intorno al villaggio. Il piano di pace di Annan prevede il ritiro dei mezzi pesanti dai centri abitati e l’inizio della rimozione delle concentrazionimilitari intorno; ai ribelli si chiede di cessare i combattimenti. Molte perplessità sono state espresse: gli Stati Uniti giovedì hanno accusato il presidente siriano Bashar Assad di non fare «alcun tentativo di rispettare» il piano. L’Onu invece dichiara che «sta avendo un effetto calmante sugli scontri». Piccoli passi, ma pur sempre passi. Un osservatore fa l’esempio di tre tank rimossi da Hama, dove presidiavano una scuola. La riduzione del numero di morti non tranquillizza tutti: sia Amnesty che Human Rights Watch hanno denunciato un’escalation di uccisioni prima del cessate il fuoco e che gli arresti continuano. Venerdì oltre 20 manifestanti sono morti durante proteste nel Paese, il giorno prima 5 studenti ad Aleppo. Dopo la visita degli osservatori, ieri, secondo l’Associated Press i soldati hanno sparato sulla gente a Dael: tre feriti. Il piano di Annan prevede anche l’ingresso libero dei giornalisti: 40 visti a media stranieri sono stati concessi l’altro ieri secondo il governo, anche se per pochi giorni. Ed è prevista la fine delle detenzioni arbitrarie: Mohammed Ibrahim, un magistrato egiziano, in giacca e cravatta faceva colazione ieri nell’hotel degli osservatori vicino a tre yemeniti in camouflage: è appena arrivato per fornire la consulenza legale. A Zabadani e dintorni, gli osservatori trovano una mezza dozzina di tank e blindati, alcuni coperti da plaid a quadretti o teli di plastica. Uno è circondato da un forte odore di polvere da sparo. Un altro ha il cannone puntato verso l’entrata del villaggio di Seghaya. «Dov’è il caricatore?», chiede l’osservatore ad un soldato. «Rimosso il 12 aprile », è la risposta. «Quanto tempo ci vorrebbe per rimetterlo in funzione? », chiede una giornalista al casco blu, che risponde: «Buona domanda ». La propaganda è da ambo i lati. A Zabadani, più d’un giovane dalla lunga barba assicura: «Qui siamo tutti civili, nessun miliziano». «Sono estremisti finanziati dai sauditi e dal Qatar», urla un funzionario governativo a Seghaya. L’altro ieri due ordigni sono esplosi al mattino e uno la sera a Damasco, senza vittime; un altro ad Aleppo con tre morti. L’opposizione addita l’intelligence siriana, ma la comunità internazionale teme l’infiltrazione di jihadisti, seppure in minoranza tra i ribelli. Un uomo dai baffi neri e la kefia in testa dice al Corriere che il figlio è stato arrestato 9 mesi fa a Deir El-Zor, nell’Est dove ieri c’erano nuovi scontri. L’uomo, che dice di chiamarsi Abid, giura che il figlio aveva un fucile, «solo per andare a caccia». Oggi in Siria ci sono le elezioni parlamentari, le prime multipartitiche, presentate dal regime come segno di riforma, mentre gli oppositori le definiscono una farsa. Damasco è tappezzata di poster elettorali, ma a Zabadani sui muri ci sono le facce dei martiri, non dei candidati.
Viviana Mazza
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