martedì 26 giugno 2012

EGITTO

L’ex clandestino nella stanza di Mubarak per Morsi primo giorno da presidente

IL CAIRO — È come se entrasse in punta di piedi, quasi trattenendo il fiato, nella stanza di colui che fu il suo persecutore e da domani sarà il suo ufficio. Non è la prima vendetta della storia, quella che spalanca a Mohammed Morsi, il neoeletto presidente egiziano, i cancelli della reggia di Heliopolis, dove per 30 anni ha regnato, indiscusso sovrano, Hosni Mubarak. E tuttavia la scena racconta di una svolta appena qualche mese fa impensabile, legata all’ascesa di un islamista militante, un Fratello Musulmano, con alle spalle una storia di clandestinità, di emarginazione e di arresti subiti, al seggio più alto del potere egiziano.
«Morsi porta la rivoluzione nel Palazzo», titolano le televisioni e le agenzie di stampa. Ma a vedere quell’uomo di mezz’età, la figura arrotondata avvolta nell’abito scuro, scivolare impacciato sui pavimenti di marmo lucidati a specchio e poi avvicinarsi alla scrivania presidenziale di legno scuro con i bordi dorati, accennando a mettere una mano in tasca come a cercare una chiave, qualcosa che dia un senso a quel gesto, non sembrerebbe che in questo momento si stia compiendo l’assalto al Palazzo d’Inverno da parte dei Fratelli Musulmani. Piuttosto, si direbbe l’immagine di un burocrate capitato lì per rinnovare l’inventario.
In realtà, c’è grande attesa intorno a Mohammed Morsi. Il quale nel secondo fotogramma destinato agli archivi, sotto la voce: la prima giornata del nuovo leader egiziano, ci viene mostrato a colloquio con il maresciallo Mohammed Hussein Tantawi, il capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, la giunta militare che governa di fatto e di diritto la transizione, e con il premier dimissionario, Kamal al Ganzuri a suo tempo nominato dalla stessa giunta alla testa di un governofantoccio. Qui si respira un’atmosfera marziale, ma per nulla operosa. Morsi sembra ingessato nel suo ruolo. Ganzuri ha lo sguardo perso nel vuoto di chi non vede l’ora che finisca. Nessuno saprà mai cosa si cela dietro al sorriso enigmatico di Tantawi. Ma forse si può immaginare. Lo scontro tra i due poteri forti della società egiziana, gli islamisti da un lato e l’esercito dall’altro, non è finito. Piuttosto comincia una nuova fase, ancora più complicata. La capacità di mobilitare masse dei Fratelli Musulmani (o partito Libertà e Giustizia, che dir si voglia) contro il monopolio dell’uso della forza. La posta in gioco è il futuro assetto costituzionale dello Stato. Morsi ha aperto al dialogo con tutte le componenti della società: laici, liberali, donne, minoranze. Ha promesso che a guidare il nuovo governo, di unità nazionale, non sarà un islamista. Gira da tempo, tra le diverse personalità consultate, il nome del premio Nobel, Mohammed el Baradei, il quale, però, sembra tentennare.
Come può un laico rispettoso dei valori democratici accettare di presiedere un governo che non poggia su una maggioranza, non può ricevere la fiducia, né rispondere del suo operato al parlamento dal momento che il parlamento è stato sciolto da una sentenza dell’Alta Corte Costituzionale, incoraggiata dagli stessi militari? Nella furia preventiva di svuotare la carica presidenziale dei sui poteri più rilevanti, i generali hanno fatto terra bruciata intorno a Morsi. Non soltanto, si sono assunti l’incarico di legiferare al posto del Parlamento, ma hanno imposto, può sembrare un dettaglio ma non lo è, che il neoeletto presidente giuri davanti alla Corte Costituzionale e non davanti al Parlamento. Ebbene, Morsi, si è saputo ieri sera, ha accettato di giurare davanti a quegli stessi giudici che hanno passato un colpo di spugna sulla prima assemblea parlamentare liberamente eletta nella storia dell’Egitto. E giurerà, anche se la folla militante continua a presidiare Piazza Tahir chiedendo la reintegrazione del parlamento. Realpolitik, ovvero, opportunismo. Un giuramento con cui Morsi, di fatto, avallerà tutti i decreti, gli emendamenti, le misure e i sotterfugi messi in atto dai militari per continuare a controllare la transizione e a mantenere i loro considerevoli privilegi.
Forse perché è una delle poche prerogative rimastegli, sembrerebbe che Mohammed Morsi in questa sua prima giornata di lavoro abbia voluto rimarcare la sua autonomia in politica estera. Con un’intervista all’agenzia iraniana Fars, destinata a suscitare l’allarme degli Stati Uniti e d’Israele, il presidente egiziano s’è impegnato ad estendere i rapporti con l’Iran per creare un “equilibrio di pressione nella regione”. A domanda, Morsi ha risposto, inoltre, che il trattato di Camp David (1978) cui si devono 35 anni di pace tra Egitto e Israele, “sarà rivisto”. Poi il suo ufficiostampa ha precisato: «... Ma soltanto dopo un referendum».

Alberto Stabile


Egitto, il giallo dell’apertura all’Iran
Poteva essere la prima, devastante «bomba» lanciata dal neopresidente egiziano, il Fratello Musulmano Mohammed Morsi. Per l’ingegnere islamico, già al lavoro nell’ufficio che fu di Mubarak e in attesa di giurare da raìs, «il trattato di pace con Israele va rivisto, le relazioni con l’Iran riattivate e rafforzate ». Parole bomba, appunto, diramate ieri mattina dall’agenzia iraniana Fars all’interno di «un’intervista rilasciata da Morsi prima dell’annuncio della vittoria ». Frasi che hanno fatto il giro del mondo e suscitato allarme in Israele e non solo, confermando i timori dei nemici della Fratellanza e sollevando in altri molti dubbi e il sospetto che fossero un «siluro» contro il nuovo raìs. «Tali affermazioni sarebbero assurde ora e in contrasto con la linea di Morsi, che nel suo primo discorso da vincitore ha anzi ribadito il rispetto dei trattati internazionali», ha commentato subito Ayman Hamed, caporedattore del quotidiano egiziano Tahrir. «Le frasi su Camp David non hanno senso, e anche l’uscita sull’asse strategico con Teheran è imprudente, e Morsi è uomo cauto e preparato », aggiunge una fonte diplomatica, pur osservando che la ripresa delle relazioni con l’Iran, dopo 30 anni di gelo, è nell’aria da mesi in Egitto anche tra imilitari. Per un altro diplomatico «la priorità del Cairo sono i rapporti con Ankara e Riad, è piuttosto Teheran a volere l’alleanza con l’Egitto contro Israele». Insomma, c’era molto di strano in quella «notizia». E infatti poi è arrivata la smentita ufficiale della Fratellanza e dell’ufficio della presidenza del Cairo («L’intervista non èmai esistita »), seguita a sorpresa da quella di un’altra agenzia iraniana, la Irna. Prova che in questo ennesimo caso di disinformazija all’egiziana (si pensi alla «morte» di Mubarak), si è inserito pure il contrasto ai vertici della Repubblica Islamica iraniana: la Irna è vicina al presidente Ahmadinejad, la Fars alla Guida Suprema Khamenei. In Israele le paure sulle mosse future di Morsi restano comunque alte. E grande attenzione riserva il mondo intero all’Egitto a «guida» islamica, nonostante i poteri del nuovo raìs siano ancora indefiniti e la Giunta militare destinata a mantenere un forte controllo sul Paese. Perfino ilministro degli Esteri, girava voce ieri al Cairo, potrebbe venir nominato dai generali, come quelli della Difesa e degli Interni. Le trattative per l’esecutivo che sostituirà quello di Ghanzouri dimessosi ieri sono in corso con mille ipotesi su chi ne farà parte, quasi certamente in rappresentanza anche del mondo laico. E se le priorità di Morsi (e dei generali) sono la sicurezza interna, la ripresa dell’economia e la conciliazione in un Paese diviso, è indubbio che il ruolo che il più importante Paese arabo avrà sullo scacchiere internazionale è cruciale. Ancora ieri i leader occidentali si sono felicitati con Morsi, tra loro il premier italiano MarioMonti. Tutti hanno espresso l’augurio che il Paese continui sulla via della democrazia e della pace, velata espressione del timore che così non sarà. Perché non è solo Israele in allarme. Per restare nella regione, lo sono le monarchie del Golfo, che rimpiangono un Egitto «debole », come in fondo fu con Mubarak. La paura è che imovimenti islamici locali, anti-regimi, ora si rafforzino.

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