lunedì 25 giugno 2012

VITTORIA DELL'ISLAM NELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI EGIZIANE

Per sapere qualcosa di più dettagliato sulla figura di Muhammad Morsi, vincitore delle elezioni presidenziali in Egitto come candidato dei Fratelli Musulmani ho dovuto sincronizzarmi sui programmi televisivi di Al Jazeera perché sui mezzi di informazione italiani, nessuno escluso, non si è mai andati oltre le solite generiche mezze bugie, non esenti da afaziosità e da anti islamismo più o meno velato: "I Fratelli Musulmani sono il pericolo numero uno per il Medio Oriente e per la pace nel Mediterraneo", "Morsi è un candidato di ripiego perché i militari non potevano accettare che i loro nemici di sempre si presentassero con una figura di primo piano", "Nonostante ciò Morsi resta pur sempre un pericoloso estremista che sogna di imporre al popolo egiziano la Shari'a" e, magari, "Di rilanciare il barbarico costume delle mutilazioni genitali femminile, tanto care agli islamisti". Va da se che il primo vero punto del programma dei Fratelli Musulmani egiziani e di Morsi in particolare è la ripresa della guerra con Israele, l'applicazione integrale della legge islamica e ovviamente una sostanziale tirannia religiosa sulla falsa riga del regime di repubblica islamica degli Ayatollah iraniani: il tutto come inevitabile conseguenza contrabbandata come "Primavera Araba", che ha rovesciato i regimi diretti da personaggi sostanzialmente tirannici ma garanti degli interessi dell'occidente e del "mondo libero".
Seguendo i programmi di Al Jazeera abbiamo così saputo che Morsi, dopo aver trascorso qualche anno di galera per la sua appartenenza ai Fratelli Musulmani, ad opera da una condanna combinatagli da uno degli illuminati giudici pro-Mubarak, e dopo aver conseguito una laurea in ingegneria all'università del Cairo, è emigrato negli Stati Uniti d'America in cerca di lavoro come molti giovani laureati egiziani, ed ha svolto una qualificata attività lavorativa come tecnico della NASA lavorando al progetto Shuttle: i tre figli, nati in America, hanno la cittadinanza americana. Che un personaggio di questo tipo potesse essere credibile come una sorta di fanatico islamista diviso tra vocazione terroristiche e fanatismi misticheggianti è qualcosa che richiede un livello di credulità che soltanto qualche fanatico elettore di Berlusconi (di quelli che gridano: "Per fortuna che c'è Silvio!") è circostanza estremamente improbabile. E a commentare la lunga attesa della pronuncia della suprema corte egiziana, su chi fosse il vincitore delle elezioni e primo presidente democraticamente eletto del popolo egiziano, Mediaset ci ha propinato una deputata di Forza Italia, Tal Suad di origine marocchina, appartenente di diritto ad uno di quei personaggi rinnegati che stanno in buona compagnia col convertito in mondo visione Magdi Allam, battezzato personalmente da Papa Benedetto XVI e affetto da un'islamofobia talmente acuta che il Corriere della Sera, che pure è stato editore di una assatanata mangia musulmani come Oriana Fallaci, lo ha cacciato da vice direttore; e ora Cristiano Magdi Allam collabora nel giornale di Sallusti.
La faziosità stupida e priva di ogni conoscenza dei fatti reali è stata l'unica ombra di uno spettacolo entusiasmante andato in onda quando l'immensa folla di milioni di persone, alla notizia della vittoria dei Fratelli Musulmani e di Muhammad Morsi, raccolta da almeno due giorni in piazza Tahrir al Cairo è esplosa in una gioia incontenibile. Da musulmano ho provato un'emozione così intensa che nonostante le mie precarie condizioni di salute sono riuscito a compiere la genuflessione rituale per ringraziare Allah di avermi fatto assistere a un evento come il trionfo della democrazia in un paese e in un popolo che secondo i nostrani puristi della libertà vengono considerati refrattari alla democrazia e alla libertà. Il momento più alto è stato quando tre giovani si sono arrampicati su una specie di pennone improvvisato e hanno fatto discendere una lunga sciarpa di bandiere: non solo quella egiziana, ma quella dei popoli martiri palestinese e siriano; e ancora le bandiere di Algeria e di Tunisia, di Libia e di Turchia: una visualizzazione sintetica e commovente di quello che è il vero Islam, tanto bene rappresentato dalle parole che la sera prima Monsignor Dall'Oglio, recentemente espulso dalla Siria da Assad per i sinceri sforzi che stava profondendo per la pace, ha pronunciato da una rete televisiva non italiana rispondendo a una domanda un pò tendenziosa di un giornalista, sul perché facesse tanti sforzi a favore di popolazioni musulmane. Il prete, ben convinto che la religione cristiana e la religione islamica sono strettamente legate dalla profonda fede nell'unico Dio, ha risposto: "Io credo profondamente nelle parole di Gesù e nello stesso tempo amo profondamente l'Islam: sono consapevole infatti che i miliardi di fedeli musulmani rappresentano un immenso patrimonio di spiritualità contro la miseria di un mondo nel quale tutto è ridotto a merce e a mercato".
Allahu Akbar, Dio è il più Grande. Ma cosa possono capirne di questa verità, elementare come il fatto di esistere, popoli che pensano soltanto ad accumulare ricchezze con una ferocia che non prova compassione neppure per povera gente fatta morire affogata nello stretto di Messina o morta soffocata in una bus mentre cercava di fuggire dall'inferno dell'Afghanistan.
Mi viene sempre in mente quando venivano respinti i profughi dalla Libia, sconvolta da pochi giorni di guerra civile, che fecero gridare come un gallinaccio l'allora ministro degli interni Maroni per qualche migliaio di persone sbarcate a Lampedusa. Il responsabile di uno dei campi profughi predisposti dal popolo tunisino negli stessi giorni e trovatosi a fronteggiare l'esodo di oltre 100 mila persone commentò: "Cos'ha da gridare tanto il signor Maroni? Noi siamo un piccolo paese che è appena uscito da un duro scontro politico; abbiamo disoccupati e gente affamata e tuttavia ospitiamo senza tanto strillare quasi 100 mila profughi e gli forniamo cibo e acqua. Forse perché noi abbiamo la pietà musulmana mentre il signor Maroni e quelli come lui hanno dimenticato la pietà di Gesù".
Fatta questa premessa pubblichiamo alcuni degli articoli comparsi sui principali giornali italiani per commentare la vittoria dei Fratelli Musulmani nelle elezioni presidenziali egiziane.


IL PRESIDENTE DIMEZZATO

Un fratello musulmano eletto presidente della Repubblica egiziana è, perlomeno in apparenza, un avvenimento eccezionale. Al Cairo, in queste ore, la notizia esalta e sconcerta. Intimorisce i laici. Entusiasma i ferventi musulmani, per i quali ha un valore storico. Tiene in allerta i militari, registi della situazione. I fondatori della confraternita, nel passato segreta e non estranea al terrorismo, venivano mandati da monarchi e presidenti al patibolo o a marcire in prigione. Mohammed Morsi, il neo eletto, appartiene alla generazione dei dirigenti che fanno politica alla luce del sole, nella legalità, e che si presentano in giacca e cravatta, con la quasi immancabile barba, e con lauree soprattutto scientifiche e tecniche, cioè non contaminate dalla cultura umanistica occidentale, e con il progetto di una nebulosa “democrazia islamica”, adatta all’epoca di Facebook. Lui, Morsi, ha sessant’anni e si è laureato in ingegneria all’University of Southern California. La confraternita di cui è l’esponente è stata fondata ottantaquattro anni fa e ha messo le radici in tutto il paese, tra ricchi e poveri. Si occupa, non da oggi, di ospedali, di assistenza sociale, dell’insegnamento del Corano, e ha come espressione politica il Partito della libertà e della giustizia. Il quale si ispira adesso all’islamismo moderno del turco Erdogan. La sua elezione avvicina più che mai i Fratelli un tempo fuorilegge alla realizzazione, appunto, della sognata e confusa “democrazia islamica”, nella più grande nazione araba, quale è l’Egitto.
Ma avere un presidente non significa disporre del potere. L’avvento di Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato appare in queste ore piuttosto simbolico. La “primavera araba” nella versione cairota sopravvive sotto il controllo della società militare. Agonizza. Perché i generali del Supremo Consiglio delle Forze Armate sono tutt’altro che disposti a cedere le leve di comando di cui dispongono in tutte le principali attività. Dalla difesa, con annesse fabbriche d’armi, all’economia, con industrie di elettrodomestici, alberghi, ospedali, fattorie. Dall’amministrazione della giustizia, grazie alla legge d’emergenza, ai servizi di polizia, poiché l’esercito ha il diritto di arrestare i civili. Dalla facoltà di promulgare le leggi, poiché, sciolto il Parlamento appena eletto, il Supremo consiglio delle Forze Armate si è arrogato il potere legislativo, al diritto di decidere quel che è costituzionale o non lo è, poiché non esiste la nuova promessa Costituzione. E quindi non si sa quali saranno le prerogative del nuovo presidente della Repubblica. L’impressione è che i militari abbiano prima imprigionato e condannato all’ergastolo Hosni Mubarak, che era il loro capo, per placare la rivoluzione di piazza Tahrir, e che adesso abbiano consentito la nomina di Mohammed Morsi per placare i Fratelli musulmani che hanno visto sciogliere il Parlamento in cui avevano appena conquistato la maggioranza.
L’interpretazione più edulcorata di questa abile, per certi versi sfacciata sceneggiata, sostiene che si è trattato di un compromesso, raggiunto con negoziati più o meno diretti. Da un lato i generali che hanno le armi, dall’altro i Fratelli musulmani che hanno e forse continueranno a disporre della piazza. Stando ai calcoli politici del momento, le due forze a confronto si equivalgono e quindi hanno stipulato un contratto, inevitabilmente provvisorio. I generali non potevano reprimere con i carri armati un movimento di massa, e il movimento di massa non aveva e non ha i mezzi per relegare i militari nelle caserme. Un’intesa effimera, dettata dall’emergenza, era dunque inevitabile. La conclusione è che i primi, i militari, conservano il potere reale, e che i secondi, i Fratelli musulmani, hanno ottenuto un presidente dimezzato, ma carico di simboli tutt’altro che trascurabili. Questo è il significato della proclamazione del primo capo dello Stato egiziano, dopo la destituzione di Hosni Mubarak, travolto dalla “primavera egiziana” nel febbraio 2011. Piazza Tahrir ha esultato quando si è saputo, dopo una lunga attesa, che Mohammed Morsi, avendo ottenuto più di tredici milioni di voti aveva sconfitto Ahmed Shafiq, il candidato dei militari, che ne aveva ottenuto soltanto più di dodici milioni. Quella piazza nel cuore del Cairo è come un altare su cui si celebrano i riti di una rivoluzione che a tratti sembra ancora viva ma che ha comunque perduto l’identità iniziale.
Ieri sera festeggiava Mohammed Morsi appena eletto presidente della Repubblica, ma di una repubblica diversa da quella chiesta dai primi gruppi laici, di sinistra, insorti un anno e mezzo fa. I fratelli musulmani hanno occupato piazza Tahrir da tempo, appropriandosi della “primavera”, dalla quale erano stati sorpresi. Il terreno era sgombro perché gli insorti laici della prima ora non erano stati capaci di organizzarsi, di darsi una leadership, di stringere alleanze tra le varie correnti. Lo smarrimento è stato tale tra di loro che alcuni esponenti di rilievo, come il giornalista Hamdeen Sabbahi, arrivato terzo alle elezioni presidenziali, ha approvato lo scioglimento del Parlamento decretato dalla Corte costituzionale, agli ordini dei militari. I promotori della “primavera” si erano del resto opposti alle elezioni politiche, volute dai militari, perché temevano quel che è poi avvenuto, ossia il successo delle formazioni religiose, quella moderata dei Fratelli musulmani e quella integralista dei salafiti. Organizzando le elezioni, i militari hanno ammansito i Fratelli musulmani che sapevano di poterle vincere, ma poi hanno sciolto il Parlamento appena eletto e per attenuare la loro collera hanno concesso ai Fratelli musulmani un presidente dimezzato, quale è Mohammed Morsi. Nel braccio di ferro con i generali i Fratelli musulmani hanno esibito un “fronte nazionale” in cui apparivano alcuni esponenti dei movimenti laici, attirati dalla promessa di una loro partecipazione al futuro governo. Alla testa del quale il presidente avrebbe addirittura messo un primo ministro non appartenente a un partito religioso. In realtà molti attivisti laici sono apparsi alla televisione per sostenere i generali che avevano appena decretato lo scioglimento del Parlamento. Essi hanno accusato i Fratelli musulmani di avere “rapito” la rivoluzione e di voler soffocare gli ideali progressisti di piazza Tahrir, imponendo la sharia, la legge religiosa.
Da questo discorso i militari sono usciti come i difensori della laicità. Sono stati registi molto abili. Non sarà tuttavia facile per loro tenere a bada le masse musulmane eccitate dalla vittoria del loro candidato e domani deluse nel vederlo privo di reali poteri. La Confraternita dei Fratelli musulmani e l’Esercito sono in Egitto due istituzioni con radici profonde, al Cairo come nelle campagne lungo il Nilo. E nella lontana Nubia. La prima, la Confraternita, è malleabile. È abituata a piegarsi («come canna al vento») di fronte a una forza superiore. La società militare emersa nel 1952 con la rivoluzione repubblicana degli «ufficiali liberi » ha saputo a sua volta adeguarsi a diverse realtà: al socialismo arabo di Nasser, al liberismo di Sadat, alla pace con Israele con il quale aveva combattuto quattro guerre, alla dinamica e corrotta economia di mercato di Mubarak. Per la prima volta, ieri, ha accettato l’elezione di un presidente non uscito dai ranghi delle Forze Armate. Ha dovuto inghiottire l’umiliazione, ma non ha ceduto, in apparenza, alcun potere. Il nuovo presidente non potrà neppure controllare il bilancio dell’esercito. Il quale non è trascurabile, poiché la società militare controlla un terzo dell’economia e riceve dagli Stati Uniti, da decenni, quasi un miliardo e mezzo di dollari l’anno. I generali dovranno adesso abituarsi a convivere con i Fratelli musulmani che un tempo impiccavano o rinchiudevano in prigione o nei campi di concentramento. Non sarà facile.
Intanto il nuovo presidente chiederà nuove elezioni per il Parlamento appena sciolto ed anche la formazione di un’Assemblea costituente. Si riaccenderà cosi un clima elettorale, non favorevole alla convivenza. E in piazza Tahrir ritorneranno i movimenti rivoluzionari della prima ora. Insomma la “primavera” è agonizzante, ma non del tutto spenta. Non mancheranno altri problemi. L’elezione (sia pure simbolica) di un fratello musulmano alla massima carica dello Stato può ringagliardire i gruppi islamici, alcuni dei quali jiadisti, installatisi negli ultimi mesi nel Sinai, a ridosso di Israele. E le Forze armate, garanti degli accordi di Camp David, che portarono alla pace tra il Cairo e Gerusalemme, faticano già a disciplinare l’attività di quei gruppi.

Bernardo Valli

EGITTO, STORICA VITTORIA DEI MUSULMANI: MORSI PRESIDENTE

Roma - Svolta storica in Egitto. Il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, ha vinto le elezioni col 51,8 per cento dei voti. Il suo avversario, Ahmad Shafiq, ha ottenuto il 48,2 per cento dei voti. Morsi è il primo presidente democraticamente eletto nella storia d’Egitto ed ha annunciato che rispetterà i trattati internazionali e che intende applicare alcuni principi della sharia. Franco Venturini sul CORRIERE DELLA SERA così commenta la notizia: “Non inganni la pesante tutela impostagli dai militari, non porti fuori strada la definizione di ‘faraone dimezzato’ che già molti hanno creduto di potergli attribuire: il fratello musulmano Mohammed Morsi, vincendo le elezioni ha cambiato la storia dell’Egitto (…)”. Nel suo primo discorso alla nazione, riporta LA REPUBBLICA, “il presidente eletto ha voluto rassicurare la comunità internazionale confermando l’impegno ‘a rispettare i trattati’, un evidente riferimento agli accordi di pace di Camp David tra Egitto e Israele. Da parte di Israele un atteggiamento attendista basato, comunque, sull’accettazione del risultato del voto. Agli egiziani Morsi ha chiesto ‘unità’, pur affermando che ‘la lotta per la democrazia ‘, vale a dire contro le interferenze del potere militare, ‘continueranno ‘. Nella notte anche la telefonata di Barack Obama. Il presidente Usa si è congratulato con Morsi e ha garantito il sostegno alla transizione dell'Egitto verso la democrazia. All’annuncio dei risultati, un boato s’è levato da piazza Tahrir, presidiata per sei giorni di fila da una folla di centinaia di migliaia di persone mobilitata dai Fratelli Musulmani al culmine di una drammatica prova di forza tra l’organizzazione islamica e il potere militare incarnato dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf), di fatto, dalla deposizione di Mubarak in poi, il governo reale del paese. Una protesta che, promettono i militanti, andrà avanti”.
LA STAMPA fa un ritratto del neo presidente egiziano, descrivendolo come un uomo “senza spigoli, senza angoli, dal mite volto domestico, vive nell’armonia di un mondo in cui lotte per noi titaniche neppure turbano il silenzio. La sua serenità regna su quei confini del cuore e della ragione dove non penetra nessuno spirito che non sia islamico, la sola ideologia capace di tener testa a tutte le mode. L’Egitto, invece, è un Paese di superstiti. Ciascuno viaggia con un suo incubo nel bagaglio, con una funesta memoria da cancellare. Ma una barba non spaventa nessuno, è quella di un buon zio arrivato dall’America con le tasche piene di caramelle. Devoto, devotissimo, per carità, ma nessuno potrebbe immaginarlo partigiano di un dio inesorabile, inveire contro i miscredenti, zuppificare anatemi, pestiferare jihad. In America è andato davvero, a specializzarsi nella sua laurea in ingegneria. La permanenza in quel paese di crociati o miscredenti, detentori di una malefica potenza, non sembrano davvero averlo contagiato. Ne è uscito purissimo, fortificato, ed è tornato a fare il suo dovere di bravo egiziano a fianco dei Fratelli, attento a non allontanarsi mai dalla linea zigzagante tracciata dai pontefici del partito. Il suo slogan elettorale - ‘L’Islam è la soluzione’ - certo non lo ha escogitato negli anni in cui è stato assistant professor all’università di California. È stato in galera sotto Mubarak; ovviamente, verrebbe voglia di dire. Come se quel passaggio non fosse che una inevitabile casella della sua biografia politicamente correttissima per i tempi che dicono Nuovi. I tempi della rivoluzione (fatta da altri) e del potere. Non ci rimane che cercarlo nelle sue promesse: se ce lo nascondono è forse perché lo contengono. La sua ideologia, a quel che raccontano, sembra un sacco rigonfio, da cui può trarre ogni volta qualcosa per accontentare i dubbi e le paure degli osservatori più diversi, occidentali e folli di dio, miliardari e senzatutto. Adora il libero mercato e questo manda in estasi gli americani (il semplice fatto che abbia studiato negli Stati Uniti oltreoceano rende qualsiasi biografia accettabile fino a prova contraria). Ma ha già garantito di voler porre un argine alla dipendenza dell’Egitto da Washington, grottesca eredità dell’era Mubarak (…)”.


«Una vittoria che ridà la spinta ai rivoluzionari del mondo arabo»

IL CAIRO — «La vittoria dei Fratelli musulmani in Egitto ha un profondo significato in tutto il
mondo arabo. I movimenti rivoluzionari in Libia, Tunisia, Siria o Yemen guardano alle folle in
festa al Cairo e ne sono inspirati, vedono il successo dell'attivismo sociale.       Sono rassicurati,
specie in questo periodo di grande difficoltà per tutto il movimento delle cosiddette primavere
arabe». È tutto sommato ottimista Eugene Rogan. Noto studioso dell'università di Oxford del
Medio Oriente moderno-contemporaneo (la sua recente storia degli arabi pubblicata in Italia da
Bompiani è già considerata un classico), vede nell'elezione di Mohammed Morsi alla presidenza
egiziana un importante passo avanti nella lotta alle dittature così come sviluppate dalla
decolonizzazione negli anni Cinquanta.
Non teme che il carattere antidemocratico dell'estremismo islamico possa di fatto uccidere lo
spirito originario di apertura della primavera araba?
«Non c'erano molte alternative. Gli egiziani sono stati chiamati a scegliere tra Ahmed Shafiq,
che rappresentava la vecchia giunta militare e la dittatura di Hosni Mubarak, e invece il
cambiamento radicale incarnato da Morsi. Direi che hanno ottenuto il meglio possibile, date le
circostanze. La restaurazione sarebbe stata molto peggio».
Al Cairo si parla già di intese segrete con la benedizione di Washington tra Morsi e la giunta
militare, che in realtà detiene tutto il potere effettivo. Che ne pensa?
«Senza dubbio le avanguardie laiche che l'anno scorso hanno guidato le prime sommosse in
piazza Tahrir sono state tradite. Posso capire la loro delusione. Ma ora saranno loro le prime a
cercare di comprendere e denunciare le intese sottobanco tra Morsi e i militari. È nel loro diritto,
anzi un dovere per lo sviluppo del Paese. Nei prossimi giorni si alzeranno la mattina pensando
di essere state imbrogliate. Il loro attivismo rabbioso sarà alla base delle nuove spinte
democratiche».
La questione è se i Fratelli musulmani saranno disposti a lasciarli agire. Non dimentichiamo
l'assassinio di intellettuali laici come Faruq Foda, il terrorismo islamico degli anni Novanta.
Come vede tra l'altro le paure dei cristiani nel Paese?
«Condivido i timori dei cristiani. Pure, l'universo islamico in Egitto non è monolitico. Alcuni dei
più estremisti tra i gruppi attivi negli anni Novanta, gli stessi che uccisero Foda, sono stati
largamente battuti. Ci sono però i salafiti, che già soffiano sul collo di Morsi, lo accusano di
essere troppo moderato. Non sono pochi, alle elezioni parlamentari in dicembre hanno ricevuto
il 25 per cento dei voti. Eppure il gruppo dirigente dei Fratelli musulmani potrebbe dimostrarsi
molto pragmatico. Sono per la prima volta al potere e faranno del loro meglio per tenerlo. Non
vogliono lo scontro frontale con le componenti laiche della società egiziana. Intendono
rassicurare la comunità internazionale».
Che faranno con Israele?
«Il loro rapporto con Hamas nella striscia di Gaza sarà molto migliore che la chiusura ostile di
Mubarak. Però manterranno gli accordi di pace con Israele. Ricordano bene cosa è capitato al
Libano, che nel 2006 non impedì all'Hezbollah di provocare Israele. E non vogliono affatto una
nuova guerra. Certo non in questa congiuntura».
La primavera araba è in crisi?
«Le speranze sollevate dai movimenti del 2011 sono in dubbio. In Libia è lotta primitiva tra tribù
e così anche in Yemen. In Siria la guerra civile miete migliaia di vittime e non se ne vede la fine.
Nei Paesi del Golfo non ci sono progressi. Persino nella piccola e tutto sommato laica Tunisia,
che era vista come il fiore all'occhiello del movimento di rinnovamento democratico, ora i salafiti
estremisti minacciano le avanguardie progressiste, attaccano le studentesse laiche nelle
università. Però queste sono difficoltà direi inevitabili. Ogni rivoluzione ha i suoi alti e bassi».È favorevole all'intervento internazionale in Siria?
«Sì. Ma non come quello della Nato in Libia l'anno scorso. Io sarei favorevole invece all'invio di
50.000 caschi blu con il mandato di impedire il massacro di civili».
Anche la Nato contro Gheddafi dichiarò inizialmente di voler difendere i civili. Poi arrivò sino a
Tripoli.
«Sì, ma in verità la missione non dichiarata sin dalle prime mosse mirava a defenestrare la
dittatura. La Nato ha difeso le vittime di Gheddafi, ma non i lealisti dall'aggressione delle milizie
ribelli. In Siria ci saranno sicuramente massacri di civili fedeli al regime di Bashar al Assad
dovessero vincere i rivoluzionari. Compito delle truppe Onu sarebbe dunque creare delle zone
cuscinetto in tutto il Paese per evitare una situazione di pulizia etnica come avvenne nella ex
Jugoslavia degli anni Novanta. Ma toccherà poi alle forze sul campo di negoziare tra loro la
Siria del futuro. Non può essere imposta dalla comunità internazionale».




Lorenzo Cremonesi


Egitto, vince Mohammed Morsi
«Sarò il presidente di tutti gli egiziani»
Un risultato impensabile fino a un anno e mezzo fa. Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani è il nuovo presidente dell'Egitto, con il 51.7% dei voti. Sconfitto l'avversario Ahmed Shafik, che conquista il 48.3% dei voti. La commissione elettorale egiziana, per voce del suo presidente Faruk Sultan, dopo una lunghissima conferenza stampa che ha suscitato grande ilarità su Twitter per la sua prolissità e che ha ripercorso tutti i casi di brogli elettorali, alle 16.30 di domenica ha annunciato i risultati ufficiali del secondo turno delle elezioni presidenziali. La proclamazione era attesa tre giorni fa, ma la commissione ha richiesto ulteriore tempo per valutare i ricorsi presentati dai due candidati in lizza che entrambi rivendicavano la vittoria.UN MILIONE DI VOTI IN PIU' - Si tratta di una vittoria abbastanza di stretta misura: Morsi ha ottenuto oltre 13 milioni di voti contro gli oltre 12 milioni andati al suo sfidante, Ahmad Shafik, ex premier di Hosni Mubarak. L'affluenza alle urne è stata del 51% degli aventi diritto. Il capo del consiglio militare egiziano Hussen Tantawi ha telefonato al vincitore per congratularsi della sua vittoria, mentre il portavoce del nuovo presidente ha dichiarato: «Siamo arrivati a questo momento grazie al sangue versato dai martiri della rivoluzione. L'Egitto inizierà una nuova fase della sua storia». Le parole, ha aggiunto, non possono descrivere la «gioia in questo momento storico».PRESIDENTE DI TUTTI - E Mohammed Morsi lancia messaggi di riconciliazione. «Sarò il presidente di tutti gli egiziani» ha detto nel suo primo discorso da presidente dell'Egitto. Il candidato dei Fratelli musulmani ha anche reso omaggio ai «martiri» della rivoluzione e ha assicurato che intende rispettare i trattati internazionali e che vuole la pace. «Manterremo tutti gli accordi e i trattati internazionali perché siamo interessati alla pace dinanzi a tutto il mondo». Il riferimento evidente è all'accordo di pace firmato nel 1979 dall'Egitto con Israele e che è stato tradizionalmente criticato dagli islamisti. L'Egitto è stato il primo Paese arabo e confinante a firmare la pace con Israele e il regime di Hosni Mubarak manteneva una situazione di stabilità alle relazioni bilaterali, anche se questo non coincideva con i sentimenti della strada e della comunità intellettuale. Intanto il Consiglio militare egiziano ha augurato buona fortuna al presidente Mohamed Morsi sottolineando che «questo momento storico necessita di una grande riconciliazione nazionale». Sulla pagina Facebook il Consiglio militare augura a Morsi che possa assumersi la responsabilità «di questo popolo in rivolta che gli ha dato fiducia». Quindi l'invito a migliaia di manifestanti radunati in piazza Tahrir da parte di Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito della Fratellanza, Giustizia e Libertà: «Abbiamo un presidente che è il comandate in capo delle forze armate e sta quindi ai militari di ritornare nelle loro caserme».
LA CASA BIANCA - «Gli Stati Uniti si congratulano con Mohamed Morsi per la sua vittoria alle elezioni presidenziali egiziane», è il primo commento arrivato dalla Casa Bianca. Gli Usa hanno definito la sua elezione «una pietra miliare nella transizione dell'Egitto verso la democrazia» e si sono augurati che l'Egitto rimanga «un pilastro di pace, sicurezza e stabilità regionale» e auspicano anche che nelle trattative per il nuovo governo siano consultate tutte le componenti sociali e politiche.«BUON GIORNO CAIRO» - È la prima volta che i Fratelli Musulmani vanno democraticamente al potere. Nel frattempo migliaia di egiziani che avevano affollato piazza Tahrir in attesa di conoscere, il nome del primo presidente del dopo Mubarak. E all'annuncio della vittoria un boato si alzato dalla piazza, dove i sostenitori di Morsi stanno ballando e cantando. Islamisti fedeli Mohamed Morsi, si sono aggiunti ad altri sostenitori dei Fratelli Musulmani che già affollavano la piazza per protestare contro lo scioglimento del Parlamento da parte della giunta militare. Nel resto della metropoli egiziana ha regnato una calma carica di attesa, inusuale per un giorno lavorativo. Su Twitter la giornalista e attivista Mona Eltahawy, aggredita dalla polizia in piazza Tahrir lo scorso novembre, scrive: «Buongiorno Cairo. Oggi avremo un nuovo presidente. Augurateci buona fortuna». In vista della comunicazione ufficiale dei risultati delle elezioni, nelle strade del Cairo e intorno ai luoghi sensibili è stata rafforzata la sicurezza. Alla polizia è stato ordinato di «affrontare con durezza» ogni violazione della legge, mentre il clima resta teso e si temono violenze successive all'annuncio del risultato del ballottaggio del 16 e 17 giugno. Entrambi i candidati avevano rivendicato la vittoria.
LA RINUNCIA ALLA MILITANZA - E Morsi ha rinunciato alla sua militanza nei Fratelli Musulmani, come aveva promesso che avrebbe fatto se avesse vinto. Lo ha annunciato il Partito Libertà e Giustizia, espressione del gruppo islamista e presieduto dallo stesso Morsi, attraverso il suo account su Twitter.
Il presidente della commissione Faruk Sultan (Afp)
LA TENSIONE - Circa 2mila sostenitori di Ahmed Shafik si sono radunati invece nel distretto di Nasr City, al Cairo, in attesa del risultato ufficiale. A proposito del timore di disordini, un ufficiale dell'esercito ha dichiarato, dopo che agli agenti schierati in forze è stato ordinato di rispondere con fermezza a eventuali violenze: «Questa volta non scherzeremo, prima siamo stati gentili» con chi ha violato la legge, se necessario sarà imposto un coprifuoco. Blindati e agenti sono stati schierati alle uscite ed entrate dell'aeroporto del Cairo, intorno al Parlamento e nelle strade verso il palazzo del governo.
SI FESTEGGIA ANCHE A GAZA - Festeggiamenti e colpi d'arma da fuoco esplosi in aria a Gaza per celebrare la vittoria dell'islamista Mohamed Morsi . Per Hamas si tratta di un «momento storico». In campagna elettorale il leader della Fratellanza ha promesso sostegno ai palestinesi «nella loro lotta legittima». Peccato però che una persona sia morta e cinque siano rimaste ferite dagli spari in aria a Rafah.

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