"Non abbiate paura delle rivolte arabe è la nostra strada verso la democrazia"
TUNISI - L´Europa non deve aver paura delle rivoluzioni arabe, se queste portano la democrazia. Il presidente tunisino Moncef Marzouki non parla di quello che succede in altri paesi, ma ci tiene a sottolineare che attraverso i movimenti della "Primavera" la sponda Sud del Mediterraneo è diventata più vicina.
Presidente, che cosa succede nel mondo arabo, fra rivoluzioni laiche ed estremismo islamico?
«L´Europa si chiede se quello che succede sia o no un bene. Credo che debba essere molto contenta: per la prima volta il vecchio continente e il Sud del Mediterraneo condividono gli stessi valori di democrazia. Anche le nazioni europee sono dovute passare attraverso la guerra per liberarsi delle dittature. E i paesi democratici possono godere di stabilità e sviluppo».
Che cosa direbbe a chi, in Europa, guarda al trionfo dei movimenti islamici con una certa inquietudine?
«Non è corretto parlare di trionfo dell´islamismo, è la vittoria della democrazia. Una parte molto importante del mondo islamico ha accettato il sistema democratico, tenendo ferma l´identità musulmana. Da noi Ennahda è un po´ come in Italia era la Democrazia cristiana. Poi ci sono altri piccoli partiti, pericolosi dal punto di vista dei diritti umani, dei diritti delle donne. Ma chi usa la democrazia ne diventa ostaggio. Ci vorrà un periodo di transizione, altre elezioni, per arrivare a un regime stabile e democratico. E assieme alla stabilità arriverà lo sviluppo, con gli investimenti stranieri. Insomma, la "Primavera" non è un pericolo, ma un´opportunità».
Lei è un laico, come convive con le tensioni religiose?
«Una parte della popolazione tunisina è laica, secolare, modernista. L´altra è più tradizionale, legata all´identità islamica. Contrariamente a quello che succede in Egitto, queste due parti convivono tranquillamente. Io voglio essere il presidente di tutti i tunisini».
Ma come vanno interpretate le spinte dei radicali, per esempio dei salafiti tunisini?
«Oggi siamo una democrazia, c´è il diritto a manifestare il pensiero, e anche i salafiti lo possono sfruttare. Anche se le loro idee mi disgustano, rispetto il loro diritto di esprimerle. La linea rossa è la violenza, che non sarà tollerata. Ma non si ritornerà ai metodi di un tempo, con la tortura. Se i salafiti vogliono una rappresentanza politica, perché no? Così seguono le regole della democrazia. Urlano forte, ma non credo siano un pericolo reale. La società tunisina è fondamentalmente moderata, i salafiti sono giovani poco istruiti, poveri, a volte disperati. Non sono un movimento politico, ma sociale. La reazione dev´essere tolleranza, sviluppo, difesa dei diritti. Ben Ali usava la repressione, ma non ha funzionato».
Però ci sono anche segnali inquietanti: i predicatori che chiedono la caccia agli ebrei, che invitano a prendere le armi, che attaccano chi vende alcolici. L´ultimo è il leader del partito Jebher Al Islah che vuole abolire l´obbligo di monogamia. Che ne pensa?
«La poligamia in Tunisia è sparita prima che la vietasse Habib Bourghiba. La monogamia è semplicemente un adattamento alla situazione reale. Sono solo chiacchiere per attirare attenzione».
I salafiti vogliono la sharia, non c´è il rischio che impongano misure incompatibili con la presenza dei turisti, una risorsa fondamentale per il paese?
«E´ ridicolo pensare che qui si possa imporre la legge islamica. Questo paese è aperto e tollerante da trecento anni, continueremo ad avere ospiti europei senza problemi. Mi dispiace che i media seguano troppo le sciocchezze che dicono certi personaggi, perché possono danneggiare l´economia tunisina. Immagini come cambierebbe lo scenario se il paese restasse senza turisti, se mancasse lo sviluppo economico, se le famiglie non potessero permettersi di mandare i ragazzi a scuola».
C´è anche un altro aspetto che inquieta l´Europa, e l´Italia in particolare, quello delle migrazioni incontrollate. Qual è secondo lei la soluzione possibile?
«In passato una delle ragioni più importanti per il sostegno alle dittature in Libia, in Tunisia, in Egitto - mi dispiace molto dirlo - era che i dittatori difendevano l´Europa dalle migrazioni illegali, perché fermavano i poveri e i disperati. Ma ora se l´Europa vuole fermare le migrazioni, l´unica strada è quello dello sviluppo e della democrazia».
Che cosa si aspetta la Tunisia dalla comunità internazionale?
«Maggior sostegno economico e politico. Ma anche maggior comprensione di quello che accade. La paura è inaccettabile, quello che succede nel mondo arabo è un bene per tutti, anche per l´Europa».
Giampaolo Cadalanu
Questo Blog si propone di dare risposta agli interrogativi e alle polemiche che più frequentemente hanno per oggetto la religione islamica e il Corano. Tale attività è particolarmente necessaria in Italia, data la totale disinformazione che gli italiani hanno sulla religione di un miliardo seicento milioni di musulmani in tutto il mondo.
lunedì 28 maggio 2012
domenica 27 maggio 2012
SEMPRE PIU' FEROCE LA REPRESSIONE DEL REGIME SIRIANO
Nonostante l'invio di ripetuti distaccamenti da parte dell'Onu e le proteste internazionali, diventa sempre più feroce la repressione del popolo siriano ad opera del regime di Assad. Per molto meno Gheddafi venne spazzato via. E si provi ad immaginare cosa sarebbe avvenuto se il sangue versato da più di 10 mila vittime ad opera del regime baathista del macellaio di Damasco fosse stato il frutto avvelenato di qualche altro governo tirannico. La NATO, l'America e l'Europa sono in tutt'altre faccende affaccendate...
"Avvelenati i gerarchi del regime siriano" Giallo sull´attentato nel bunker di Assad
BEIRUT - Il tempo: sabato 21 maggio, al tramonto. Il luogo: il bunker della Difesa, a Damasco, dove ogni giorno si riunisce l´unità di crisi per fare il punto sulla situazione nel paese. I protagonisti: i componenti di questa sorta di consiglio di guerra quotidiano composto dal potente ex capo dell´intelligence militare e cognato del presidente Assad, Assef Shawkat, dai ministri della Difesa, Daud Rajha, e dell´Interno, Mohamed al Sahar, dal capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Hisham Baktjar, dal segretario del partito Baath, Mohammed Said Makhtian e da Hassan Turkmani, braccio destro del vicepresidente, Faruk al Sharaa. In pratica, il fior fiore del regime, più uno: una sconosciuta guardia del corpo. La talpa che l´opposizione armata sarebbe riuscita a piazzare nel cuore del potere con un compito letale: eliminare il vertice della piramide con un avvelenamento di gruppo.
Come sceneggiatura di un diabolico complotto ai danni del regime siriano è certamente ben studiata. Non a caso, domenica 22 maggio, il racconto di questa "missione impossibile", anticipato su You Tube da una fonte che s´è detta appartenente al Libero Esercito Siriano, ha fatto il giro delle redazioni, finendo poi per essere trasmesso da Al Jazeera e da Al Arabiya. Ma c´è un particolare: la notizia è stata smentita, giovedì, dal ministero degli Esteri di Damasco con un "post" del portavoce Jihad Makdissi su Facebook. Si tratterebbe di un episodio, l´ennesimo, di disinformazione propagata ad arte per gettare discredito sul nemico, una tattica di cui le due parti in conflitto si sono ampiamente servite dall´inizio della rivolta.
Il lettore può facilmente immaginare il seguito della storia. L´agente infiltrato riesce a portare a termine il suo piano. Quindici gocce di un potentissimo veleno «inodore, insapore e incolore» vengono iniettati in un arrosto ordinato per la cena dei potenti. L´effetto è devastante, ma non immediatamente mortale. Le vittime vengono trasportate di fretta e furia all´ospedale. Qualcuno viene salvato per miracolo, qualcun altro soccombe. Il misterioso avvelenatore viene condotto dai complici fuori dal paese (e questo è francamente incredibile). Ma tant´è.
Ben prima che Makdissi rendesse nota la sua smentita, alcuni degli "avvelenati" si sono presentati davanti alla Tv per dimostrare che erano vivi e vegeti. Di tutti s´è saputo qualcosa, tranne che del generale Assef Shawkat, il cognato di Assad, persona di per se schiva e ombrosa, che forse era l´obbiettivo principale della "disinformazia".
Non è la prima volta che fonti dell´opposizione danno Shawkat per morto. L´interesse dell´opposizione è evidente: Shawkat non è soltanto un gerarca ad altissimo livello è anche un componente della famiglia presidenziale. Colpire lui vorrebbe dire che per i ribelli non ci sono obbiettivi invulnerabili.
Ma la notizia non fa molta strada. Il New York Times la riprende con tutti i condizionali del caso. La stampa libanese, che ben conosce Shawkat essendo stato il generale coinvolto nella prima fase delle indagini sull´uccisione dell´ex premier Rafik Hariri, ne accenna di sfuggita. Soltanto il sito del giornale israeliano Haaretz dà rilievo alla storia, affermando che, nonostante le smentite siriane, Israele avrebbe informazioni «affidabili» secondo cui un tentativo di avvelenare alcuni alti gradi del regime è stato compiuto alcuni giorni fa. «Ma il tentativo è fallito - avrebbe detto una fonte ben informata al giornale - e quelli che erano alla riunione sono ancora vivi». Shawkat compreso.
Alberto Stabile
Siria, Obama e il piano per l'esilio di Assad
MILANO- La soluzione potrebbe arrivare dallo Yemen. Questa è l'idea di Barack Obama, anticipata dal New York Times, per trovare una soluzione alla Siria. E porre fine alle violenze. Il presidente americano vorrebbe che Bashir al-Assad, andasse in esilio e mantenere però parte del suo governo al potere nel Paese. Un piano che potrebbe funzionare solo se anche la Russia decide di partecipare.
L'INCONTRO- Obama e Putin si incontreranno a giugno. E tra i temi di discussione ci sarà sicuramente la situazione siriana. Paese chiave per gli equilibri di tutto il Medioriente. Proprio durante il vertice verrà illustrato, appunto, il piano già anticipato durante il G8 a Medvedev. Obama vuole premere per la partenza di Assad e gestire il periodo di transizione con parte del suo governo così come è stato fatto in Yemen. Dopo mesi di violenze, il presidente Ali Abdullah Saleh accettò di cedere il potere al suo vice, Agbdu Rabbu Mansour Hadi, attraverso un accordo mediato dai Paesi arabi vicini. Hadi, successivamente confermato con un'elezione, guida ora la transizione.
Siria, Obama propone soluzione 'morbida'
I ribelli: "Attacchiamo, no al piano Annan"
ROMA - Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, proporrà una soluzione alla yemenita, cioè con una transizione morbida, per risolvere la crisi in Siria, premendo per la partenza del presidente Bashar al-Assad, ma lasciando parte del governo al potere. Lo scrive con ampio rilievo il New York Times online, secondo cui la proposta verrà illustrata dallo stesso Obama al presidente russo Vladimir Putin quando si incontreranno il mese prossimo. La Russia si oppone fimo ad ora a qualsiasi cambiamento di regime ed auspica una soluzione negoziata tra governo e ribelli.
Il piano Obama prevede una soluzione politica negoziata che possa soddisfare l'opposizione, lasciando però al potere parte del governo di Assad. L'obiettivo della Casa Bianca è di mettere in piedi una transizione simile a quello in corso nello Yemen. Dopo mesi di violenze il presidente Ali Abdullah Saleh ha accettato di lasciare il potere cedendo il controllo del paese al suo vice Agbdu Rabbu Mansour Hadi, attraverso un accordo negoziato con i paesi arabi vicini. Hadi, pur essendo in seguito stato eletto, viene percepito come un leader di transizione.
No dei ribelli. I disertori dell'Esercito siriano libero (Esl), citati dalla Cnn, annunciano rappresaglie contro i militari fedeli al presidente Bashar al Assad, perchè "non è più possibile rispettare il piano di Pace di Kofi Annan, utilizzato dal regime per perpetrare massacri contro la popolazione disarmata". "Dopo questa lunga attesa, una prova di pazienza e costanza, il comando congiunto dell'Esl in Siria annuncia che non è più possibile rispettare il piano di pace mediato da Kofi Annan, che il regime utilizza a proprio vantaggio per perpetrare altri massacri contro i civili disarmati", ha affermato il portavoce dell'Esl, colonnello Qasim Saad Eddine, in un video postato su Youtube.
"E' chiaro che il piano Annan è morto, e Bashar al Assaf e la sua gang criminale non capiscono altro che il linguaggio della forza e della violenza", ha aggiunto. "Esortiamo i nostri combattenti, i soldati e i rivoluzionari a condurre attacchi organizzati e pianificati contro i battaglioni di Assad e i membri del regime", tuona un altro leader dell'opposizione armata, il generale Mustafa Al-Sheikh.
"L'unico linguaggio che il regime capirà è quello delle armi: aspettate e vedrete, faremo pagare loro ogni singola goccia di sangue che è stata versata", tuona Bassim al-Khaled, portavoce di un altro gruppo armato.
Ue e Usa condannano attacco a Hula. Ferma condanna per l'"atto odioso commesso dal regime" di Damasco, che ha portato al massacro di 92 persone nella città siriana di Hula 1 è stata espressa dal capo della diplomazia dell'Unione europea, Catherine Ashton, che si è detta "costernata" e ha chiesto che cessi immediatamente ogni violenza: "Sono costernata dalle informazioni che riferiscono di un massacro brutale commesso dalle forze armate siriane nella città di Hula, che è costato la vita a più di 90 persone, fra le quali un gran numero di bambini - ha detto la Ashton in un comunicato -. Condanno nel modo più forte questo atto odioso commesso dal regime siriano contro la propria popolazione civile, in disprezzo del cessate il fuoco accettato e alla presenza degli osservatori dell'Onu". "Chiedo al governo siriano - ha aggiunto Ashton - di mettere in atto integralmente il piano in sei punti dell'inviato speciale dell'Onu Kofi Annan, che è stato approvato con la risoluzione 2043 del Consiglio di sicurezza dell'Onu". Dure parole di condanna sono arrivate anche dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton: "Gli Stati Uniti condannano nel modo più forte il massacro di ieri nel villaggio siriano di Hula - ha detto Clinton in un comunicato -. Quelli che hanno perpetrato questa atrocità devono essere identificati e devono renderne conto - ha aggiunto -. Gli Stati Uniti lavoreranno con la comunità internazionale per intensificare la nostra pressione su Assad e i suoi, perché le uccisioni e la paura devono cessare. Noi siamo solidali con il popolo siriano e i manifestanti pacifici nelle città siriane che scendono in strada per denunciare il massacro di Hula".
Regime smentisce responsabilità attacco. Le autorità di Damasco smentiscono ogni responsabilità nel massacro di Hula. Lo riferisce un portavoce del ministero degli Esteri di Damasco. Secondo i media di Stato la responsabilità sarebbe di gruppi legati a Al Qaeda: "Gruppi terroristici di Al Qaeda hanno commesso due odiosi massacri contro le famiglie nella campagna di Homs", riferisce l'agenzia Sana che cita un funzionario governativo della zona. Il governo siriano, inoltre, ha annunciato la costituzione di una commissione d'inchiesta sul massacro. Intanto il ministero degli esteri siriano ha annunciato che domani l'inviato speciale di Onu e Lega Araba, Kofi Annan, si recherà in Siria.
Bomba contro veicolo sicurezza a Damasco. Una bomba ha colpito un veicolo della sicurezza a Damasco, provocando alcune vittime. Lo riferiscono l'Osservatorio siriano per i diritti umani e i Comitati locali di coordinamento, precisando che l'esplosione è avvenuta nel quartiere di Mazzeh. Un video pubblicato online dagli attivisti mostra una fitta colonna di fumo nero e afferma che le immagini provengono da Mazzeh. I Comitati sostengono che l'esplosione si sia verificata in prossimità di un aeroporto militare. Damasco è sotto rigido controllo da parte delle forze del regime, ma è stata colpita negli ultimi mesi da diversi attacchi in cui sono morte decine di persone e la maggior parte delle esplosioni ha preso di mira agenzie siriane di sicurezza. L'Osservatorio parla anche di altre esplosioni nella città, ma non fornisce dettagli.
Le vittime dall'inizio della rivolta. Oltre 13.000 persone, in maggioranza civili, sono morte dall'inizio della rivolta in Siria a metà marzo 2011. Lo riferisce l'Osservatorio per i diritti dell'uomo precisando che le vittime sono 9.183 civili, 3.072 membri dell'esercito e 794 disertori.
Strage dei bambini, il mondo accusa la Siria
Damasco: «Non siamo noi i responsabili»
MILANO - Il regime siriano ha negato ogni responsabilità per il massacro di Hula, in cui hanno perso la vita un centinaio persone, tra cui 32 bambini, attribuendolo a gruppi terroristici. «Rifiutiamo totalmente ogni responsabilità governativa per questo massacro terroristico che ha colpito gli abitanti», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Damasco, Jihad Makdissi, aggiungendo che sarà aperta un'inchiesta che farà luce sulla vicenda in pochi giorni. Il ministro ha anche riferito che da lunedì sarà in visita in Siria l'inviato dell'Onu e della Lega araba, Kofi Annan. Intanto gli attivisti spiegano che sono almeno 13mila i morti dall'inizio dell'anno.
AL QAEDA - I video del massacro sono stati caricati su YouTube dagli abitanti di Hula. Si vedono i corpi insanguinati di tanti piccoli raccolti sopra delle coperte. Per questa strage i media di stato siriani accusano i gruppi legati a Al Qaeda: «Gruppi terroristici di Al Qaeda hanno commesso due odiosi massacri contro le famiglie nella campagna di Homs», riferisce l'agenzia Sana che cita un funzionario governativo della zona.
CLINTON E ASHTON - Il massacro è avvenuto due giorni fa, e domenica gli osservatori dell'Onu da Hula hanno confermato che oltre 92 persone sono morte nel bombardamento. La strage ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale. Anche il segretario di stato americano Hillary Clinton ha condannato «l'atrocità» del massacro unendosi all'appello mondiale per mettere fine al bagno di sangue nel paese arabo. «Gli Stati Uniti condannano nel modo più forte il massacro. Quelli che hanno perpetrato questa atrocità devono essere identificati e devono renderne conto - ha aggiunto -. Gli Stati Uniti lavoreranno con la comunità internazionale per intensificare la nostra pressione su Assad e i suoi, perché le uccisioni e la paura devono cessare». Anche l'Alto rappresentante della politica estera dell'Unione europea, Catherine Ashton, si è detta «inorridita dalle notizie del brutale massacro». In una nota diffusa nella notte, la Ashton condanna «nel modo più forte questo atto efferato perpetrato dal regime siriano contro il suo stesso popolo nonostante l'accordo per il cessate il fuoco e la presenza degli osservatori Onu» e invita la comunità internazionale a continuare a «parlare a una sola voce per chiedere la fine dello spargimento di sangue e le dimissioni di Bashar Assad per consentire una transizione democratica». L'Alto rappresentante Ue chiede inoltre al governo di Damasco di applicare il piano di pace dell'inviato speciale Kofi Annan in sei punti.
ANCORA BOMBARDAMENTI - Intanto bombardamenti delle truppe governative siriane hanno colpito domenica le città di Hama e Rastan, nel centro della Siria. È quanto denunciano l'Osservatorio siriano per i diritti umani e i Comitati locali di coordinamento, aggiungendo che a Hama si sono anche verificati scontri fra le truppe e i ribelli. Diverse esplosioni invece sono state avvertite domenica mattina a Damasco. In una delle esplosioni sarebbero rimasti feriti numerosi militari delle forze di sicurezza. L'Osservatorio non fornisce dettagli sulle altre esplosioni verificatesi nella capitale siriana.
I RIBELLI: «ATTACCHIAMO»- I disertori dell'Esercito siriano libero (Esl), citati dalla Cnn, annunciano rappresaglie contro i militari fedeli al presidente Bashar al Assad, perchè «non è più possibile rispettare il piano di Pace di Kofi Annan, utilizzato dal regime per perpetrare massacri contro la popolazione disarmata». «Esortiamo i nostri combattenti, i soldati e i rivoluzionari a condurre attacchi organizzati e pianificati contro i battaglioni di Assad e i membri del regime», tuona un altro leader dell'opposizione armata, il generale Mustafa Al-Sheikh.
"Assad lasci il potere al suo vice" Obama ha un piano per la Siria ma Mosca vieta la condanna Onu
BEIRUT - "The Yemenskij variant", o "variante yemenita", non è una nuova difesa nel gioco degli scacchi, ma la formula che, secondo il New York Times, Barack Obama proporrà al sempiterno Vladimir Putin per risolvere la crisi siriana. Si vedrà soltanto dopo l´incontro tra i due leader, a giugno, se la proposta di Obama farà strada. Ma per ora nulla sembra impedire alla crisi siriana di scivolare ogni giorno di più nel baratro della guerra civile. Tantomeno le divergenze in seno al Consiglio di Sicurezza dove la Russia, solitamente schierata con il regime di Damasco, si è opposta ad una dichiarazione di condanna del massacro di Hula, se prima fosse stato ascoltato il capo degli Osservatori dell´Onu, il generale norvegese Rober Mood.
Mood ha parlato in serata al Consiglio di Sicurezza, collegandosi da Damasco in videoconferenza. Il generale, che il giorno prima aveva avallato l´ipotesi di un attacco dell´artiglieria contro Hula, si sarebbe mostrato più cauto, sottolineando che non è ancora possibile una chiara ricostruzione del massacro. Il fatto che molte delle vittime (116 i morti accertati, fra cui decine di bambini) siano state uccise con colpi sparati a bruciapelo o addirittura accoltellate escluderebbe un attacco d´artiglieria da parte dell´esercito regolare.
Tuttavia la comunità internazionale punta l´indice contro Damasco. Hillary Clinton ha promesso che gli Stati Uniti faranno di tutto perché il «dominio di Assad e dei suoi accoliti, esercitato attraverso il delitto e la paura, finisca». Il governo britannico ha convocato l´ambasciatore siriano. I francesi, nonostante il fallimento delle due riunioni precedenti, cercheranno di organizzare un nuovo vertice degli "amici della Siria". Le monarchie sunnite del Golfo, notoriamente favorevoli ad un intervento militare contro il regime di Assad, sono tornare alla carica chiedendo all´Occidente di «assumersi le sue responsabilità per far cessare il quotidiano bagno di sangue in Siria».
Ma non è un caso che la Russia, non abbia fatto alcun commento sulla carneficina e soltanto ieri il rappresentante russo al Consiglio di Sicurezza abbia parlato di un «tragico evento meritevole di condanna», non prima, tuttavia, che ne vengano accertate le cause.
Ora, quello che si ripromette Obama è di convincere Putin ad abbandonare la posizione di protettore ad ogni costo di Assad. E qui veniamo alla "variante yemenita" (così chiamata perché si tratta di una proposta originariamente ideata della corona saudita in veste di mediatrice della rivolta esplosa nello Yemen). Proposta che, in sostanza, consiste in una sorta di transizione controllata ad un nuovo assetto politico, attraverso il trasferimento indolore dei poteri nell´ambito del regime. Nel caso dello Yemen, il presidente Alì Abdallah Saleh ha accettato di uscire di scena trasferendo le funzioni al vice presidente Abedrabu Mansur Hadi. Analogamente Assad dovrebbe accettare di dimettersi ed investire dei pieni poteri il sui vice, Faruk Al Sharaa.
Da li, partirebbe poi un processo di democratizzazione ma «in un quadro di stabilità», vale a dire soddisfacendo, da un lato, le richieste di cambiamento avanzate dall´opposizione e preservando, dall´altro, parti importanti del vecchio regime. Ma si potrebbe facilmente obiettare che Assad non è Alì Abdalla Saleh. Soprattutto Obama dovrà convincere la Russia che i suoi interessi militari, economici e strategici in Siria rimarranno inalterati.
Quel che resta, di concreto, sul versante internazionale di questa crisi che si trascina da 16 mesi è soltanto la presenza degli osservatori, voluti da Annan, il quale si appresta a volare in Siria nello scetticismo generale e soprattutto dell´opposizione. La quale considera (e non è la prima volta) il piano di pace dell´ex segretario delle Nazioni Unite non soltanto morto e sepolto, ma uno strumento nelle mani del regime di Assad. Secondo l´Osservatorio per i diritti umani, organizzazione militante stabilita a Londra, i morti dall´inizio della protesta sono più di 13 mila, di cui oltre 9 mila civili. Dunque, come recita l´appello del Consiglio Nazionale siriano, organizzazione ombrello dell´opposizione all´estero, non resta che combattere. Un appello che nasconde una profonda crisi di leadership e di coesione.
Alberto Stabile
"Avvelenati i gerarchi del regime siriano" Giallo sull´attentato nel bunker di Assad
BEIRUT - Il tempo: sabato 21 maggio, al tramonto. Il luogo: il bunker della Difesa, a Damasco, dove ogni giorno si riunisce l´unità di crisi per fare il punto sulla situazione nel paese. I protagonisti: i componenti di questa sorta di consiglio di guerra quotidiano composto dal potente ex capo dell´intelligence militare e cognato del presidente Assad, Assef Shawkat, dai ministri della Difesa, Daud Rajha, e dell´Interno, Mohamed al Sahar, dal capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Hisham Baktjar, dal segretario del partito Baath, Mohammed Said Makhtian e da Hassan Turkmani, braccio destro del vicepresidente, Faruk al Sharaa. In pratica, il fior fiore del regime, più uno: una sconosciuta guardia del corpo. La talpa che l´opposizione armata sarebbe riuscita a piazzare nel cuore del potere con un compito letale: eliminare il vertice della piramide con un avvelenamento di gruppo.
Come sceneggiatura di un diabolico complotto ai danni del regime siriano è certamente ben studiata. Non a caso, domenica 22 maggio, il racconto di questa "missione impossibile", anticipato su You Tube da una fonte che s´è detta appartenente al Libero Esercito Siriano, ha fatto il giro delle redazioni, finendo poi per essere trasmesso da Al Jazeera e da Al Arabiya. Ma c´è un particolare: la notizia è stata smentita, giovedì, dal ministero degli Esteri di Damasco con un "post" del portavoce Jihad Makdissi su Facebook. Si tratterebbe di un episodio, l´ennesimo, di disinformazione propagata ad arte per gettare discredito sul nemico, una tattica di cui le due parti in conflitto si sono ampiamente servite dall´inizio della rivolta.
Il lettore può facilmente immaginare il seguito della storia. L´agente infiltrato riesce a portare a termine il suo piano. Quindici gocce di un potentissimo veleno «inodore, insapore e incolore» vengono iniettati in un arrosto ordinato per la cena dei potenti. L´effetto è devastante, ma non immediatamente mortale. Le vittime vengono trasportate di fretta e furia all´ospedale. Qualcuno viene salvato per miracolo, qualcun altro soccombe. Il misterioso avvelenatore viene condotto dai complici fuori dal paese (e questo è francamente incredibile). Ma tant´è.
Ben prima che Makdissi rendesse nota la sua smentita, alcuni degli "avvelenati" si sono presentati davanti alla Tv per dimostrare che erano vivi e vegeti. Di tutti s´è saputo qualcosa, tranne che del generale Assef Shawkat, il cognato di Assad, persona di per se schiva e ombrosa, che forse era l´obbiettivo principale della "disinformazia".
Non è la prima volta che fonti dell´opposizione danno Shawkat per morto. L´interesse dell´opposizione è evidente: Shawkat non è soltanto un gerarca ad altissimo livello è anche un componente della famiglia presidenziale. Colpire lui vorrebbe dire che per i ribelli non ci sono obbiettivi invulnerabili.
Ma la notizia non fa molta strada. Il New York Times la riprende con tutti i condizionali del caso. La stampa libanese, che ben conosce Shawkat essendo stato il generale coinvolto nella prima fase delle indagini sull´uccisione dell´ex premier Rafik Hariri, ne accenna di sfuggita. Soltanto il sito del giornale israeliano Haaretz dà rilievo alla storia, affermando che, nonostante le smentite siriane, Israele avrebbe informazioni «affidabili» secondo cui un tentativo di avvelenare alcuni alti gradi del regime è stato compiuto alcuni giorni fa. «Ma il tentativo è fallito - avrebbe detto una fonte ben informata al giornale - e quelli che erano alla riunione sono ancora vivi». Shawkat compreso.
Alberto Stabile
Siria, Obama e il piano per l'esilio di Assad
MILANO- La soluzione potrebbe arrivare dallo Yemen. Questa è l'idea di Barack Obama, anticipata dal New York Times, per trovare una soluzione alla Siria. E porre fine alle violenze. Il presidente americano vorrebbe che Bashir al-Assad, andasse in esilio e mantenere però parte del suo governo al potere nel Paese. Un piano che potrebbe funzionare solo se anche la Russia decide di partecipare.
L'INCONTRO- Obama e Putin si incontreranno a giugno. E tra i temi di discussione ci sarà sicuramente la situazione siriana. Paese chiave per gli equilibri di tutto il Medioriente. Proprio durante il vertice verrà illustrato, appunto, il piano già anticipato durante il G8 a Medvedev. Obama vuole premere per la partenza di Assad e gestire il periodo di transizione con parte del suo governo così come è stato fatto in Yemen. Dopo mesi di violenze, il presidente Ali Abdullah Saleh accettò di cedere il potere al suo vice, Agbdu Rabbu Mansour Hadi, attraverso un accordo mediato dai Paesi arabi vicini. Hadi, successivamente confermato con un'elezione, guida ora la transizione.
Siria, Obama propone soluzione 'morbida'
I ribelli: "Attacchiamo, no al piano Annan"
ROMA - Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, proporrà una soluzione alla yemenita, cioè con una transizione morbida, per risolvere la crisi in Siria, premendo per la partenza del presidente Bashar al-Assad, ma lasciando parte del governo al potere. Lo scrive con ampio rilievo il New York Times online, secondo cui la proposta verrà illustrata dallo stesso Obama al presidente russo Vladimir Putin quando si incontreranno il mese prossimo. La Russia si oppone fimo ad ora a qualsiasi cambiamento di regime ed auspica una soluzione negoziata tra governo e ribelli.
Il piano Obama prevede una soluzione politica negoziata che possa soddisfare l'opposizione, lasciando però al potere parte del governo di Assad. L'obiettivo della Casa Bianca è di mettere in piedi una transizione simile a quello in corso nello Yemen. Dopo mesi di violenze il presidente Ali Abdullah Saleh ha accettato di lasciare il potere cedendo il controllo del paese al suo vice Agbdu Rabbu Mansour Hadi, attraverso un accordo negoziato con i paesi arabi vicini. Hadi, pur essendo in seguito stato eletto, viene percepito come un leader di transizione.
No dei ribelli. I disertori dell'Esercito siriano libero (Esl), citati dalla Cnn, annunciano rappresaglie contro i militari fedeli al presidente Bashar al Assad, perchè "non è più possibile rispettare il piano di Pace di Kofi Annan, utilizzato dal regime per perpetrare massacri contro la popolazione disarmata". "Dopo questa lunga attesa, una prova di pazienza e costanza, il comando congiunto dell'Esl in Siria annuncia che non è più possibile rispettare il piano di pace mediato da Kofi Annan, che il regime utilizza a proprio vantaggio per perpetrare altri massacri contro i civili disarmati", ha affermato il portavoce dell'Esl, colonnello Qasim Saad Eddine, in un video postato su Youtube.
"E' chiaro che il piano Annan è morto, e Bashar al Assaf e la sua gang criminale non capiscono altro che il linguaggio della forza e della violenza", ha aggiunto. "Esortiamo i nostri combattenti, i soldati e i rivoluzionari a condurre attacchi organizzati e pianificati contro i battaglioni di Assad e i membri del regime", tuona un altro leader dell'opposizione armata, il generale Mustafa Al-Sheikh.
"L'unico linguaggio che il regime capirà è quello delle armi: aspettate e vedrete, faremo pagare loro ogni singola goccia di sangue che è stata versata", tuona Bassim al-Khaled, portavoce di un altro gruppo armato.
Ue e Usa condannano attacco a Hula. Ferma condanna per l'"atto odioso commesso dal regime" di Damasco, che ha portato al massacro di 92 persone nella città siriana di Hula 1 è stata espressa dal capo della diplomazia dell'Unione europea, Catherine Ashton, che si è detta "costernata" e ha chiesto che cessi immediatamente ogni violenza: "Sono costernata dalle informazioni che riferiscono di un massacro brutale commesso dalle forze armate siriane nella città di Hula, che è costato la vita a più di 90 persone, fra le quali un gran numero di bambini - ha detto la Ashton in un comunicato -. Condanno nel modo più forte questo atto odioso commesso dal regime siriano contro la propria popolazione civile, in disprezzo del cessate il fuoco accettato e alla presenza degli osservatori dell'Onu". "Chiedo al governo siriano - ha aggiunto Ashton - di mettere in atto integralmente il piano in sei punti dell'inviato speciale dell'Onu Kofi Annan, che è stato approvato con la risoluzione 2043 del Consiglio di sicurezza dell'Onu". Dure parole di condanna sono arrivate anche dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton: "Gli Stati Uniti condannano nel modo più forte il massacro di ieri nel villaggio siriano di Hula - ha detto Clinton in un comunicato -. Quelli che hanno perpetrato questa atrocità devono essere identificati e devono renderne conto - ha aggiunto -. Gli Stati Uniti lavoreranno con la comunità internazionale per intensificare la nostra pressione su Assad e i suoi, perché le uccisioni e la paura devono cessare. Noi siamo solidali con il popolo siriano e i manifestanti pacifici nelle città siriane che scendono in strada per denunciare il massacro di Hula".
Regime smentisce responsabilità attacco. Le autorità di Damasco smentiscono ogni responsabilità nel massacro di Hula. Lo riferisce un portavoce del ministero degli Esteri di Damasco. Secondo i media di Stato la responsabilità sarebbe di gruppi legati a Al Qaeda: "Gruppi terroristici di Al Qaeda hanno commesso due odiosi massacri contro le famiglie nella campagna di Homs", riferisce l'agenzia Sana che cita un funzionario governativo della zona. Il governo siriano, inoltre, ha annunciato la costituzione di una commissione d'inchiesta sul massacro. Intanto il ministero degli esteri siriano ha annunciato che domani l'inviato speciale di Onu e Lega Araba, Kofi Annan, si recherà in Siria.
Bomba contro veicolo sicurezza a Damasco. Una bomba ha colpito un veicolo della sicurezza a Damasco, provocando alcune vittime. Lo riferiscono l'Osservatorio siriano per i diritti umani e i Comitati locali di coordinamento, precisando che l'esplosione è avvenuta nel quartiere di Mazzeh. Un video pubblicato online dagli attivisti mostra una fitta colonna di fumo nero e afferma che le immagini provengono da Mazzeh. I Comitati sostengono che l'esplosione si sia verificata in prossimità di un aeroporto militare. Damasco è sotto rigido controllo da parte delle forze del regime, ma è stata colpita negli ultimi mesi da diversi attacchi in cui sono morte decine di persone e la maggior parte delle esplosioni ha preso di mira agenzie siriane di sicurezza. L'Osservatorio parla anche di altre esplosioni nella città, ma non fornisce dettagli.
Le vittime dall'inizio della rivolta. Oltre 13.000 persone, in maggioranza civili, sono morte dall'inizio della rivolta in Siria a metà marzo 2011. Lo riferisce l'Osservatorio per i diritti dell'uomo precisando che le vittime sono 9.183 civili, 3.072 membri dell'esercito e 794 disertori.
Strage dei bambini, il mondo accusa la Siria
Damasco: «Non siamo noi i responsabili»
MILANO - Il regime siriano ha negato ogni responsabilità per il massacro di Hula, in cui hanno perso la vita un centinaio persone, tra cui 32 bambini, attribuendolo a gruppi terroristici. «Rifiutiamo totalmente ogni responsabilità governativa per questo massacro terroristico che ha colpito gli abitanti», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Damasco, Jihad Makdissi, aggiungendo che sarà aperta un'inchiesta che farà luce sulla vicenda in pochi giorni. Il ministro ha anche riferito che da lunedì sarà in visita in Siria l'inviato dell'Onu e della Lega araba, Kofi Annan. Intanto gli attivisti spiegano che sono almeno 13mila i morti dall'inizio dell'anno.
AL QAEDA - I video del massacro sono stati caricati su YouTube dagli abitanti di Hula. Si vedono i corpi insanguinati di tanti piccoli raccolti sopra delle coperte. Per questa strage i media di stato siriani accusano i gruppi legati a Al Qaeda: «Gruppi terroristici di Al Qaeda hanno commesso due odiosi massacri contro le famiglie nella campagna di Homs», riferisce l'agenzia Sana che cita un funzionario governativo della zona.
CLINTON E ASHTON - Il massacro è avvenuto due giorni fa, e domenica gli osservatori dell'Onu da Hula hanno confermato che oltre 92 persone sono morte nel bombardamento. La strage ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale. Anche il segretario di stato americano Hillary Clinton ha condannato «l'atrocità» del massacro unendosi all'appello mondiale per mettere fine al bagno di sangue nel paese arabo. «Gli Stati Uniti condannano nel modo più forte il massacro. Quelli che hanno perpetrato questa atrocità devono essere identificati e devono renderne conto - ha aggiunto -. Gli Stati Uniti lavoreranno con la comunità internazionale per intensificare la nostra pressione su Assad e i suoi, perché le uccisioni e la paura devono cessare». Anche l'Alto rappresentante della politica estera dell'Unione europea, Catherine Ashton, si è detta «inorridita dalle notizie del brutale massacro». In una nota diffusa nella notte, la Ashton condanna «nel modo più forte questo atto efferato perpetrato dal regime siriano contro il suo stesso popolo nonostante l'accordo per il cessate il fuoco e la presenza degli osservatori Onu» e invita la comunità internazionale a continuare a «parlare a una sola voce per chiedere la fine dello spargimento di sangue e le dimissioni di Bashar Assad per consentire una transizione democratica». L'Alto rappresentante Ue chiede inoltre al governo di Damasco di applicare il piano di pace dell'inviato speciale Kofi Annan in sei punti.
ANCORA BOMBARDAMENTI - Intanto bombardamenti delle truppe governative siriane hanno colpito domenica le città di Hama e Rastan, nel centro della Siria. È quanto denunciano l'Osservatorio siriano per i diritti umani e i Comitati locali di coordinamento, aggiungendo che a Hama si sono anche verificati scontri fra le truppe e i ribelli. Diverse esplosioni invece sono state avvertite domenica mattina a Damasco. In una delle esplosioni sarebbero rimasti feriti numerosi militari delle forze di sicurezza. L'Osservatorio non fornisce dettagli sulle altre esplosioni verificatesi nella capitale siriana.
I RIBELLI: «ATTACCHIAMO»- I disertori dell'Esercito siriano libero (Esl), citati dalla Cnn, annunciano rappresaglie contro i militari fedeli al presidente Bashar al Assad, perchè «non è più possibile rispettare il piano di Pace di Kofi Annan, utilizzato dal regime per perpetrare massacri contro la popolazione disarmata». «Esortiamo i nostri combattenti, i soldati e i rivoluzionari a condurre attacchi organizzati e pianificati contro i battaglioni di Assad e i membri del regime», tuona un altro leader dell'opposizione armata, il generale Mustafa Al-Sheikh.
"Assad lasci il potere al suo vice" Obama ha un piano per la Siria ma Mosca vieta la condanna Onu
BEIRUT - "The Yemenskij variant", o "variante yemenita", non è una nuova difesa nel gioco degli scacchi, ma la formula che, secondo il New York Times, Barack Obama proporrà al sempiterno Vladimir Putin per risolvere la crisi siriana. Si vedrà soltanto dopo l´incontro tra i due leader, a giugno, se la proposta di Obama farà strada. Ma per ora nulla sembra impedire alla crisi siriana di scivolare ogni giorno di più nel baratro della guerra civile. Tantomeno le divergenze in seno al Consiglio di Sicurezza dove la Russia, solitamente schierata con il regime di Damasco, si è opposta ad una dichiarazione di condanna del massacro di Hula, se prima fosse stato ascoltato il capo degli Osservatori dell´Onu, il generale norvegese Rober Mood.
Mood ha parlato in serata al Consiglio di Sicurezza, collegandosi da Damasco in videoconferenza. Il generale, che il giorno prima aveva avallato l´ipotesi di un attacco dell´artiglieria contro Hula, si sarebbe mostrato più cauto, sottolineando che non è ancora possibile una chiara ricostruzione del massacro. Il fatto che molte delle vittime (116 i morti accertati, fra cui decine di bambini) siano state uccise con colpi sparati a bruciapelo o addirittura accoltellate escluderebbe un attacco d´artiglieria da parte dell´esercito regolare.
Tuttavia la comunità internazionale punta l´indice contro Damasco. Hillary Clinton ha promesso che gli Stati Uniti faranno di tutto perché il «dominio di Assad e dei suoi accoliti, esercitato attraverso il delitto e la paura, finisca». Il governo britannico ha convocato l´ambasciatore siriano. I francesi, nonostante il fallimento delle due riunioni precedenti, cercheranno di organizzare un nuovo vertice degli "amici della Siria". Le monarchie sunnite del Golfo, notoriamente favorevoli ad un intervento militare contro il regime di Assad, sono tornare alla carica chiedendo all´Occidente di «assumersi le sue responsabilità per far cessare il quotidiano bagno di sangue in Siria».
Ma non è un caso che la Russia, non abbia fatto alcun commento sulla carneficina e soltanto ieri il rappresentante russo al Consiglio di Sicurezza abbia parlato di un «tragico evento meritevole di condanna», non prima, tuttavia, che ne vengano accertate le cause.
Ora, quello che si ripromette Obama è di convincere Putin ad abbandonare la posizione di protettore ad ogni costo di Assad. E qui veniamo alla "variante yemenita" (così chiamata perché si tratta di una proposta originariamente ideata della corona saudita in veste di mediatrice della rivolta esplosa nello Yemen). Proposta che, in sostanza, consiste in una sorta di transizione controllata ad un nuovo assetto politico, attraverso il trasferimento indolore dei poteri nell´ambito del regime. Nel caso dello Yemen, il presidente Alì Abdallah Saleh ha accettato di uscire di scena trasferendo le funzioni al vice presidente Abedrabu Mansur Hadi. Analogamente Assad dovrebbe accettare di dimettersi ed investire dei pieni poteri il sui vice, Faruk Al Sharaa.
Da li, partirebbe poi un processo di democratizzazione ma «in un quadro di stabilità», vale a dire soddisfacendo, da un lato, le richieste di cambiamento avanzate dall´opposizione e preservando, dall´altro, parti importanti del vecchio regime. Ma si potrebbe facilmente obiettare che Assad non è Alì Abdalla Saleh. Soprattutto Obama dovrà convincere la Russia che i suoi interessi militari, economici e strategici in Siria rimarranno inalterati.
Quel che resta, di concreto, sul versante internazionale di questa crisi che si trascina da 16 mesi è soltanto la presenza degli osservatori, voluti da Annan, il quale si appresta a volare in Siria nello scetticismo generale e soprattutto dell´opposizione. La quale considera (e non è la prima volta) il piano di pace dell´ex segretario delle Nazioni Unite non soltanto morto e sepolto, ma uno strumento nelle mani del regime di Assad. Secondo l´Osservatorio per i diritti umani, organizzazione militante stabilita a Londra, i morti dall´inizio della protesta sono più di 13 mila, di cui oltre 9 mila civili. Dunque, come recita l´appello del Consiglio Nazionale siriano, organizzazione ombrello dell´opposizione all´estero, non resta che combattere. Un appello che nasconde una profonda crisi di leadership e di coesione.
Alberto Stabile
sabato 26 maggio 2012
IL PRIMO TURNO DELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI EGIZIANE
I giornali italiani hanno seguitato a sparare le loro sciocchezze a proposito del primo primo turno delle elezioni presidenziali in Egitto e, a dispetto delle previsioni ispirate alle loro interessate previsioni, risulta in testa il candidato dei Fratelli Musulmani, mentre quello su cui si erano appuntati i favori, Amr Moussa, non è andato sopra il 7%. I nostri cronisti non vogliono ancora capire che l'Egitto è un paese musulmano e che il popolo egiziano non può che indirizzare le sue preferenze verso il partito di chi, rischiando le patrie galere di Mubarak, ha per decenni provveduto a finanziare i bisogni elementari delle classi più povere, dalle scuole all'assistenza sanitaria e alle mense popolari. Per i Fratelli Musulmani hanno votato anche una buona fetta dei cristiani copti.
Fatta questa premessa forniamo un florilegio degli articoli firmati da giornalisti italiani sull'argomento.
In Egitto sarà sfida tra islamici e generali
IL CAIRO - La rivoluzione di Piazza Tahrir sembra lontana, quella Primavera che portò milioni di egiziani in piazza per la democrazia e la libertà ed ebbe la forza di far cadere un tiranno trentennale in soli 18 giorni, adesso somiglia a una foto sbiadita. Perché dalle urne al primo turno delle presidenziali sono stati premiati due candidati agli estremi dello schieramento politico egiziano. Saranno - dopo che i dati ufficiosi saranno confermati oggi - il rappresentante dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi e l´ultimo premier dell´era Mubarak, Ahmad Shafik a sfidarsi nel ballottaggio di metà giugno.
Il primo è esponente dell´ala conservatrice della Fratellanza - che aderì alle proteste del 2011 solo negli ultimi giorni - mentre l´altro fu costretto alle dimissioni dal crollo del raìs. Uno scenario che solo 15 mesi sarebbe stato impensabile, con l´Egitto animato da nuovi gruppi e movimenti, e che invece oggi è diviso tra un salto nell´islamismo conservatore e un ritorno al passato, al vecchio regime. Sia Shafik che Morsi sono detestati da settori significativi della popolazione, lo scontro diretto fra loro è lo scenario più incandescente immaginabile. Che ricrea lo stesso schema degli ultimi tre decenni in Egitto, quando la Fratellanza era la "bestia nera" del governo e il principale avversario del regime di Mubarak.
L´altra sorpresa venuta dai seggi - dove sono andati oltre 20 milioni di egiziani, circa il 50% degli elettori - è l´affermazione del candidato nasseriano Hamdeen Sabbahi con oltre quattro milioni di voti al terzo posto, che ha superato di gran lunga l´altro candidato laico Amr Moussa e l´islamico moderato Moneim Abol Fotoh, che ieri sera ha fatto capire che per «far argine al vecchio regime» al secondo turno darà il suo appoggio al "nemico" Morsi. La Fratellanza, che già domina il Parlamento, ha promesso di applicare la Sharia - legge islamica - in Egitto, questo ha allarmato molti musulmani moderati, i laici e la minoranza cristiana (oltre 10 milioni di egiziani sono copti) e le donne egiziane che temono restrizioni di molti diritti acquisiti. Morsi, infatti, ha ottenuto solo la metà dei voti che la Fratellanza ha rastrellato durante le elezioni parlamentari lo scorso anno, un segno evidente di disincanto dell´elettorato.
L´affermazione di Shafik è sorprendente. È stato l´ultimo primo ministro del Faraone, investito quando ormai la rivolta era arrivata al palazzo presidenziale di Heliopolis ed estromesso dalla Giunta militare solo due settimane più tardi. L´ex comandante dell´Aviazione e amico personale di Mubarak, ha fatto una campagna elettorale apertamente come candidato "anti-rivoluzione", puntando su «sicurezza e stabilità», cercando i voti di quegli egiziani esasperati dai continui disordini e dalla grave situazione economica. L´industria del turismo, seconda voce nel bilancio dello Stato, è ferma. Proteste, marce, incidenti tengono lontano da più di un anno investimenti stranieri, ma soprattutto i turisti. Gli hotel sono vuoti nei templi del turismo come Cairo, Giza, Luxor; appena migliore la situazione nei resort sul Mar Rosso. Su Shafik si sono anche concentrati i voti di quel complesso militar-industriale che in Egitto - è stato negli anni passati anche ministro della Difesa - conta molto e il sostegno aperto della comunità copta.
I prossimi venti giorni, quelli che separano l´Egitto dal ballottaggio, saranno al calor bianco con uno scenario che già si annuncia carico di tensione, con l´inquietudine, la rabbia di tutti coloro che hanno creduto nel cambiamento perché, come recita uno striscione appeso ieri sera a Piazza Tahrir, la «rivoluzione è stata tradita».
Fabio Scuto
ISLAM, LAICITÀ E DEMOCRAZIA PER CAPIRE LE STAGIONI ARABE
Tunisia, Egitto, Libia – la "primavera araba", che ora viene chiamata più cautamente "transizione", ha reso forti dappertutto i partiti islamici. E´ un tradimento della libertà? Ci sono oggi nel mondo più democrazie ma meno democrazia? Alla quinta edizione degli Istanbul Seminars, lodevolmente organizzati ogni anno all´Università Bilgi di Istanbul da Reset/Dialogues on civilizations (e aperti da Giancarlo Bosetti), gli eventi della primavera araba hanno quanto meno obbligato tutti i partecipanti a resettarsi dalla teoria alla realtà politica, e a mettere i teoremi alla prova dei fatti, sforzandosi di ricavarne prospettive e strategie politiche.
Cominciando intanto dalle definizioni. Democrazia o democrazie? Di che cosa si parla nei paesi musulmani quando si parla di democrazia? La libertà dalla tirannide non è un valore soltanto occidentale. E quando viene conquistata non deve per forza sfociare, per non perdere il proprio valore, in forme di società che siano fotocopie delle società occidentali. Una società libera e autodeterminata è pensabile anche con partiti islamici al governo, è stato detto. Pensabile, beninteso, non garantita. Perfino in Turchia, il paese che a noi occidentali appare come l´esempio più riuscito sotto il profilo del funzionamento dei meccanismi della democrazia, i laici lamentano la crescente pressione sociale che spinge verso una "omogeneizzazione" sul terreno dei princìpi religiosi (permettere l´uso del velo nelle università, proibire l´alcol etc).
Tunisia e Egitto, almeno per il modo in cui è cominciata la rivolta, hanno smentito tutte le interpretazioni "orientaliste" di quelle società, e hanno rivelato una forte domanda di democrazia. Il fatto che poi si siano rafforzati i movimenti islamici ha portato semplicemente alla superficie quello che era stato represso per molto tempo: la coscienza di una identità musulmana, che secondo buona parte dei tunisini e degli egiziani (e di altri paesi come il Marocco) dovrebbe riflettersi nella costruzione degli ordini politici. E´ stata per così dire una normalizzazione, non uno snaturamento della rivolta. Tanto più che i partiti islamici vengono visti dalla gente semplice come i più capaci di affrontare i problemi della povertà e delle enormi differenze sociali: sia perché nell´islam la giustizia sociale ha un ruolo preminente, sia perché i leader dei partiti islamici non appartenevano alle élite ultraricche del paese.
E´ vero che la forza trainante della rivolta erano stati i giovani, che chiedevano democrazia. Senza i laici, per i quali la religione dovrebbe restare un fatto privato e non un affare di Stato, la rivoluzione non sarebbe nemmeno cominciata (almeno in Egitto). Avishai Margalit, professore di filosofia a Princeton e a Gerusalemme, ha visto un parallelo con la rivoluzione russa del ‘17: spontanea e pluralistica in febbraio, sotto il pieno controllo dei bolscevichi in ottobre. Ma è un fatto che né in Tunisia né in Egitto né in Libia i laici sarebbero stati abbastanza forti per fare la rivoluzione. Può dispiacere, ma è così. E per fortuna nessun nuovo Lenin sembra affacciarsi sul fronte islamico.
Previsioni sul futuro nessuno naturalmente poteva farne, ma l´esperimento è senza dubbio appassionante: per la prima volta le società arabe hanno la possibilità di fare dei compromessi, dei nuovi patti sociali in cui nessuno detti dispoticamente le regole e tutti siano rappresentati. Ma quanto sul serio prenderanno i governi islamici i diritti dei non musulmani, delle donne, della stampa, la libertà di opinione? E come si distingue una democrazia da sistemi maggioritari che, per quanto legittimati dai risultati elettorali, possono poi ridurre lo spazio per le minoranze e il pluralismo? Giuliano Amato si è detto contrario all´idea di una moltitudine di interpretazioni diverse della democrazia: alcuni suoi cardini non possono venir limitati.
Le divergenze più profonde si sono riscontrate nelle risposte a un messaggio dell´ex presidente iraniano Mohammad Khatami, letto al convegno dal suo consigliere Khoshroo. Khatami critica l´Occidente per aver trascurato "il sacro" e invita a guardare alla democrazia "non come parte integrante della laicità". Secolarismo e democrazia non sono la stessa cosa, afferma. Tra i partecipanti alcuni gli hanno dato in qualche modo ragione: sostenendo, con un richiamo a Habermas, la necessità di adottare un "post-secolarismo", nel senso di accettare un ruolo positivo della religione nello spazio pubblico. Altri invece, come l´ambasciatore Roberto Toscano, hanno contestato questa impostazione habermasiana, affermando che "secolarismo non equivale a ateismo o a ‘anti-religione´, bensì alla necessità di garantire quella separazione tra religione e Stato senza la quale il conflitto - e la perdita di democrazia - sarebbero difficilmente evitabili". Anche gli islamici possono essere democratici, ha concluso Mehmet Pacaci, esperto di esegesi coranica all´Università di Ankara. Ora avranno l´opportunità di dimostrarlo.
Vanna Vannuccini
Egitto alla sfida finale fra Islam e esercito
Il figlio di Omar Abdelrahman, l’anziano «sceicco cieco» condannato all’ergastolo in Usa per l’attacco al World Trade Center nel 1993, è entusiasta della vittoria di Mohammad Morsi al primo turno delle presidenziali egiziane. «Ha promesso che farà liberare mio padre e gli credo», ci dice nel suo accampamento a fianco all’ambasciata americana dove staziona da mesi sotto gli striscioni con il volto del padre. Non è l’unico ad aver fiducia nel candidato dei Fratelli Musulmani: per lui hanno votato oltre il 25% degli egiziani. Preferendolo di poco—secondo i risultati incompleti ma considerati affidabili — all’ex generale Ahmed Shafiq, il rappresentante ufficioso della Giunta e l’esplicito difensore del regime di cui fu l’ultimo premier e che la rivoluzione credeva abbattuto. Quindici mesi dopo la caduta del Faraone Mubarak l’Egitto ha infatti liberamente riproposto la polarizzazione che lo divide da sempre. Islam contro esercito, «barbe» contro «felùl», ovvero islamisti contro residui del vecchio regime. Morsi, appunto, contro Shafiq, che il 16 giugno si fronteggeranno per il ballottaggio. I giovani di Tahrir, gli intellettuali, le femministe, i laici, in poche parole l’Egitto che ha fatto la rivoluzione o ne è stato almeno contento sembra svanito nel nulla. Vero è che al terzo posto, e per alcune ore sembrava perfino al secondo, s’è qualificato a sorpresa Hamdin Sabahi, il nasseriano per cui quell’Egitto ha votato. Ed è vero anche che i due grandi favoriti di «centro» sono finiti in coda: sia Abdel Monem Abul Futuh, l’ex leader della Fratellanza presentatosi come «islamico moderato », sia Amr Moussa, l’ex ministro degli Esteri di Mubarak e capo della Lega araba, non hanno convinto. Il buon piazzamento di Sabahi è tuttavia un consolazione assai magra. «Morsi o Shafiq: sarà come scegliere tra suicidarsi buttandosi in una vasca di squali o dalla finestra», era uno dei mille commenti ieri su Twitter. «Io non andrò a votare, quei due sono la vergogna del nostro Paese», aggiunge un signore in piazza Tahrir, in un capannello di gente concorde con lui. Al di là di quanto esprime a caldo la piazza virtuale e reale, al di là delle dichiarazioni delle diplomazie a partire da quella Usa («siamo pronti a lavorare con il governo eletto democraticamente») resta il fatto che questo è il peggior scenario possibile, quello che potrebbe portare secondo molti analisti anche a nuove violenze. «Se tenteranno di respingerci li getteremo nella spazzatura, sappiamo bene chi sono», ha dichiarato ieri Morsi, noto per la scarsa diplomazia che lo aveva escluso inizialmente come candidato della Fratellanza. «Dopo un anno emezzo la rivoluzione è finita e ora salveremo l’Egitto dalle forze oscure», ha ribattuto il portavoce di Shafiq, riferendosi ai Fratelli e ai salafiti, che già hanno i due terzi del Parlamento. Toni che nei prossimi giorni, con l’avvicinarsi del ballottaggio, si faranno più duri. Anche perché l’esito dell’ultimo voto non è scontato. Difficile fare previsioni, ma con Shafiq si schiereranno ancora i cristiani e molti elettori di Moussa, oltre a un certo numero di laici. Altri, tra quest’ultimi, voteranno Morsi, e lo stesso vale per chi ora ha scelto Abul Futuh. E la Fratellanza, l’unica forza organizzata e capillare del Paese, s’è dimostrata indebolita rispetto alle elezioni politiche ma sempre formidabile. Mentre i Generali, dietro le quinte, faranno di tutto per evitare un «cappotto islamico».
Fatta questa premessa forniamo un florilegio degli articoli firmati da giornalisti italiani sull'argomento.
In Egitto sarà sfida tra islamici e generali
IL CAIRO - La rivoluzione di Piazza Tahrir sembra lontana, quella Primavera che portò milioni di egiziani in piazza per la democrazia e la libertà ed ebbe la forza di far cadere un tiranno trentennale in soli 18 giorni, adesso somiglia a una foto sbiadita. Perché dalle urne al primo turno delle presidenziali sono stati premiati due candidati agli estremi dello schieramento politico egiziano. Saranno - dopo che i dati ufficiosi saranno confermati oggi - il rappresentante dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi e l´ultimo premier dell´era Mubarak, Ahmad Shafik a sfidarsi nel ballottaggio di metà giugno.
Il primo è esponente dell´ala conservatrice della Fratellanza - che aderì alle proteste del 2011 solo negli ultimi giorni - mentre l´altro fu costretto alle dimissioni dal crollo del raìs. Uno scenario che solo 15 mesi sarebbe stato impensabile, con l´Egitto animato da nuovi gruppi e movimenti, e che invece oggi è diviso tra un salto nell´islamismo conservatore e un ritorno al passato, al vecchio regime. Sia Shafik che Morsi sono detestati da settori significativi della popolazione, lo scontro diretto fra loro è lo scenario più incandescente immaginabile. Che ricrea lo stesso schema degli ultimi tre decenni in Egitto, quando la Fratellanza era la "bestia nera" del governo e il principale avversario del regime di Mubarak.
L´altra sorpresa venuta dai seggi - dove sono andati oltre 20 milioni di egiziani, circa il 50% degli elettori - è l´affermazione del candidato nasseriano Hamdeen Sabbahi con oltre quattro milioni di voti al terzo posto, che ha superato di gran lunga l´altro candidato laico Amr Moussa e l´islamico moderato Moneim Abol Fotoh, che ieri sera ha fatto capire che per «far argine al vecchio regime» al secondo turno darà il suo appoggio al "nemico" Morsi. La Fratellanza, che già domina il Parlamento, ha promesso di applicare la Sharia - legge islamica - in Egitto, questo ha allarmato molti musulmani moderati, i laici e la minoranza cristiana (oltre 10 milioni di egiziani sono copti) e le donne egiziane che temono restrizioni di molti diritti acquisiti. Morsi, infatti, ha ottenuto solo la metà dei voti che la Fratellanza ha rastrellato durante le elezioni parlamentari lo scorso anno, un segno evidente di disincanto dell´elettorato.
L´affermazione di Shafik è sorprendente. È stato l´ultimo primo ministro del Faraone, investito quando ormai la rivolta era arrivata al palazzo presidenziale di Heliopolis ed estromesso dalla Giunta militare solo due settimane più tardi. L´ex comandante dell´Aviazione e amico personale di Mubarak, ha fatto una campagna elettorale apertamente come candidato "anti-rivoluzione", puntando su «sicurezza e stabilità», cercando i voti di quegli egiziani esasperati dai continui disordini e dalla grave situazione economica. L´industria del turismo, seconda voce nel bilancio dello Stato, è ferma. Proteste, marce, incidenti tengono lontano da più di un anno investimenti stranieri, ma soprattutto i turisti. Gli hotel sono vuoti nei templi del turismo come Cairo, Giza, Luxor; appena migliore la situazione nei resort sul Mar Rosso. Su Shafik si sono anche concentrati i voti di quel complesso militar-industriale che in Egitto - è stato negli anni passati anche ministro della Difesa - conta molto e il sostegno aperto della comunità copta.
I prossimi venti giorni, quelli che separano l´Egitto dal ballottaggio, saranno al calor bianco con uno scenario che già si annuncia carico di tensione, con l´inquietudine, la rabbia di tutti coloro che hanno creduto nel cambiamento perché, come recita uno striscione appeso ieri sera a Piazza Tahrir, la «rivoluzione è stata tradita».
Fabio Scuto
ISLAM, LAICITÀ E DEMOCRAZIA PER CAPIRE LE STAGIONI ARABE
Tunisia, Egitto, Libia – la "primavera araba", che ora viene chiamata più cautamente "transizione", ha reso forti dappertutto i partiti islamici. E´ un tradimento della libertà? Ci sono oggi nel mondo più democrazie ma meno democrazia? Alla quinta edizione degli Istanbul Seminars, lodevolmente organizzati ogni anno all´Università Bilgi di Istanbul da Reset/Dialogues on civilizations (e aperti da Giancarlo Bosetti), gli eventi della primavera araba hanno quanto meno obbligato tutti i partecipanti a resettarsi dalla teoria alla realtà politica, e a mettere i teoremi alla prova dei fatti, sforzandosi di ricavarne prospettive e strategie politiche.
Cominciando intanto dalle definizioni. Democrazia o democrazie? Di che cosa si parla nei paesi musulmani quando si parla di democrazia? La libertà dalla tirannide non è un valore soltanto occidentale. E quando viene conquistata non deve per forza sfociare, per non perdere il proprio valore, in forme di società che siano fotocopie delle società occidentali. Una società libera e autodeterminata è pensabile anche con partiti islamici al governo, è stato detto. Pensabile, beninteso, non garantita. Perfino in Turchia, il paese che a noi occidentali appare come l´esempio più riuscito sotto il profilo del funzionamento dei meccanismi della democrazia, i laici lamentano la crescente pressione sociale che spinge verso una "omogeneizzazione" sul terreno dei princìpi religiosi (permettere l´uso del velo nelle università, proibire l´alcol etc).
Tunisia e Egitto, almeno per il modo in cui è cominciata la rivolta, hanno smentito tutte le interpretazioni "orientaliste" di quelle società, e hanno rivelato una forte domanda di democrazia. Il fatto che poi si siano rafforzati i movimenti islamici ha portato semplicemente alla superficie quello che era stato represso per molto tempo: la coscienza di una identità musulmana, che secondo buona parte dei tunisini e degli egiziani (e di altri paesi come il Marocco) dovrebbe riflettersi nella costruzione degli ordini politici. E´ stata per così dire una normalizzazione, non uno snaturamento della rivolta. Tanto più che i partiti islamici vengono visti dalla gente semplice come i più capaci di affrontare i problemi della povertà e delle enormi differenze sociali: sia perché nell´islam la giustizia sociale ha un ruolo preminente, sia perché i leader dei partiti islamici non appartenevano alle élite ultraricche del paese.
E´ vero che la forza trainante della rivolta erano stati i giovani, che chiedevano democrazia. Senza i laici, per i quali la religione dovrebbe restare un fatto privato e non un affare di Stato, la rivoluzione non sarebbe nemmeno cominciata (almeno in Egitto). Avishai Margalit, professore di filosofia a Princeton e a Gerusalemme, ha visto un parallelo con la rivoluzione russa del ‘17: spontanea e pluralistica in febbraio, sotto il pieno controllo dei bolscevichi in ottobre. Ma è un fatto che né in Tunisia né in Egitto né in Libia i laici sarebbero stati abbastanza forti per fare la rivoluzione. Può dispiacere, ma è così. E per fortuna nessun nuovo Lenin sembra affacciarsi sul fronte islamico.
Previsioni sul futuro nessuno naturalmente poteva farne, ma l´esperimento è senza dubbio appassionante: per la prima volta le società arabe hanno la possibilità di fare dei compromessi, dei nuovi patti sociali in cui nessuno detti dispoticamente le regole e tutti siano rappresentati. Ma quanto sul serio prenderanno i governi islamici i diritti dei non musulmani, delle donne, della stampa, la libertà di opinione? E come si distingue una democrazia da sistemi maggioritari che, per quanto legittimati dai risultati elettorali, possono poi ridurre lo spazio per le minoranze e il pluralismo? Giuliano Amato si è detto contrario all´idea di una moltitudine di interpretazioni diverse della democrazia: alcuni suoi cardini non possono venir limitati.
Le divergenze più profonde si sono riscontrate nelle risposte a un messaggio dell´ex presidente iraniano Mohammad Khatami, letto al convegno dal suo consigliere Khoshroo. Khatami critica l´Occidente per aver trascurato "il sacro" e invita a guardare alla democrazia "non come parte integrante della laicità". Secolarismo e democrazia non sono la stessa cosa, afferma. Tra i partecipanti alcuni gli hanno dato in qualche modo ragione: sostenendo, con un richiamo a Habermas, la necessità di adottare un "post-secolarismo", nel senso di accettare un ruolo positivo della religione nello spazio pubblico. Altri invece, come l´ambasciatore Roberto Toscano, hanno contestato questa impostazione habermasiana, affermando che "secolarismo non equivale a ateismo o a ‘anti-religione´, bensì alla necessità di garantire quella separazione tra religione e Stato senza la quale il conflitto - e la perdita di democrazia - sarebbero difficilmente evitabili". Anche gli islamici possono essere democratici, ha concluso Mehmet Pacaci, esperto di esegesi coranica all´Università di Ankara. Ora avranno l´opportunità di dimostrarlo.
Vanna Vannuccini
Egitto alla sfida finale fra Islam e esercito
Il figlio di Omar Abdelrahman, l’anziano «sceicco cieco» condannato all’ergastolo in Usa per l’attacco al World Trade Center nel 1993, è entusiasta della vittoria di Mohammad Morsi al primo turno delle presidenziali egiziane. «Ha promesso che farà liberare mio padre e gli credo», ci dice nel suo accampamento a fianco all’ambasciata americana dove staziona da mesi sotto gli striscioni con il volto del padre. Non è l’unico ad aver fiducia nel candidato dei Fratelli Musulmani: per lui hanno votato oltre il 25% degli egiziani. Preferendolo di poco—secondo i risultati incompleti ma considerati affidabili — all’ex generale Ahmed Shafiq, il rappresentante ufficioso della Giunta e l’esplicito difensore del regime di cui fu l’ultimo premier e che la rivoluzione credeva abbattuto. Quindici mesi dopo la caduta del Faraone Mubarak l’Egitto ha infatti liberamente riproposto la polarizzazione che lo divide da sempre. Islam contro esercito, «barbe» contro «felùl», ovvero islamisti contro residui del vecchio regime. Morsi, appunto, contro Shafiq, che il 16 giugno si fronteggeranno per il ballottaggio. I giovani di Tahrir, gli intellettuali, le femministe, i laici, in poche parole l’Egitto che ha fatto la rivoluzione o ne è stato almeno contento sembra svanito nel nulla. Vero è che al terzo posto, e per alcune ore sembrava perfino al secondo, s’è qualificato a sorpresa Hamdin Sabahi, il nasseriano per cui quell’Egitto ha votato. Ed è vero anche che i due grandi favoriti di «centro» sono finiti in coda: sia Abdel Monem Abul Futuh, l’ex leader della Fratellanza presentatosi come «islamico moderato », sia Amr Moussa, l’ex ministro degli Esteri di Mubarak e capo della Lega araba, non hanno convinto. Il buon piazzamento di Sabahi è tuttavia un consolazione assai magra. «Morsi o Shafiq: sarà come scegliere tra suicidarsi buttandosi in una vasca di squali o dalla finestra», era uno dei mille commenti ieri su Twitter. «Io non andrò a votare, quei due sono la vergogna del nostro Paese», aggiunge un signore in piazza Tahrir, in un capannello di gente concorde con lui. Al di là di quanto esprime a caldo la piazza virtuale e reale, al di là delle dichiarazioni delle diplomazie a partire da quella Usa («siamo pronti a lavorare con il governo eletto democraticamente») resta il fatto che questo è il peggior scenario possibile, quello che potrebbe portare secondo molti analisti anche a nuove violenze. «Se tenteranno di respingerci li getteremo nella spazzatura, sappiamo bene chi sono», ha dichiarato ieri Morsi, noto per la scarsa diplomazia che lo aveva escluso inizialmente come candidato della Fratellanza. «Dopo un anno emezzo la rivoluzione è finita e ora salveremo l’Egitto dalle forze oscure», ha ribattuto il portavoce di Shafiq, riferendosi ai Fratelli e ai salafiti, che già hanno i due terzi del Parlamento. Toni che nei prossimi giorni, con l’avvicinarsi del ballottaggio, si faranno più duri. Anche perché l’esito dell’ultimo voto non è scontato. Difficile fare previsioni, ma con Shafiq si schiereranno ancora i cristiani e molti elettori di Moussa, oltre a un certo numero di laici. Altri, tra quest’ultimi, voteranno Morsi, e lo stesso vale per chi ora ha scelto Abul Futuh. E la Fratellanza, l’unica forza organizzata e capillare del Paese, s’è dimostrata indebolita rispetto alle elezioni politiche ma sempre formidabile. Mentre i Generali, dietro le quinte, faranno di tutto per evitare un «cappotto islamico».
giovedì 24 maggio 2012
ELEZIONI EGIZIANE
La sfida di Amr Moussa "Vincerò le elezioni e porterò la democrazia"
Alle otto di sera di una giornata davvero fuori dell´ordinario, Amr Moussa segue l´andamento del voto, fra il gongolante e il sereno: «Certo, che oggi è un giorno straordinario», la sua voce stentorea arriva al telefono dal Cairo: non solo perché lui spera in un risultato positivo - «O una vittoria o un testa a testa col passaggio al secondo turno» - ma anche perché, continua tutto d´un soffio, «queste elezioni sono l´avvenimento più significativo nella storia dell´Egitto dal 1952, e cioè dalla rivoluzione di Nasser. C´è, però, una differenza fondamentale: allora il cambiamento avvenne attraverso un colpo di Stato, invece ora siamo guidati dalla democrazia».
Per una parte dei 50 milioni di elettori in Egitto, i suoi vent´anni ai vertici della diplomazia egiziana non l´hanno logorato, prima alle Nazioni Unite, poi agli Esteri, poi catapultato alla guida della Lega Araba. E forse gli giova in queste ore il ricordo che il suo spostamento alla Segreteria della Lega sia stato interpretato, con una punta di malizia, come il viatico amministrato da Mubarak a un concorrente troppo popolare. Mediatore ideale per alcuni, è parte dell´establishment - un "fouloul", un reduce del regime, secondo i rivali. Ha carisma e - questa è forse la sua arma più formidabile - è simpatico ai giovani, per quella sua vecchia abitudine di calare tra la moltitudine di studenti. Ancora a 75 anni, Moussa era sceso fra i manifestanti a piazza Tahrir.
Cosa promette al nuovo Egitto, che esce frammentato dalla rivoluzione?
«Non è una mia promessa, è una svolta evidente: questo giorno segna un cambiamento epocale nel Paese. Da questo nascerà la Seconda Repubblica egiziana, guidata dalla democrazia. Spero che sia una repubblica efficiente, stabile, funzionante».
E lei si aspetta un buon risultato dalle urne?
«Secondo i nostri calcoli, io sto procedendo bene. C´è un´ottima possibilità che io vinca, oppure che il voto finisca con un testa a testa; in quel caso passerei al secondo turno, per andare al ballottaggio. In entrambi i casi, il risultato è positivo. Intanto, aspettiamo e vediamo».
Non la preoccupa il fatto che le elezioni presidenziali si svolgano nell´assenza di una Costituzione definitiva? Che il suo programma si riveli impraticabile alla luce di una futura carta costituzionale?
«Niente affatto. Già esiste un documento programmatico, un accordo riguardo alle linee fondamentali della Costituzione, e riguardo ai poteri che spettano al Presidente. Restano da chiarire gli ultimi dettagli, però una cosa è certa: stiamo parlando di un sistema politico presidenziale».
Nelle urne è in gioco anche l´identità dell´Egitto, il futuro di un Paese laico, contro una deriva teocratica impressa dagli islamisti?
«Dimenticate la teocrazia. L´identità dell´Egitto è, e sarà, una: un Paese laico e democratico. E, possibilmente, ben funzionante. Lo so, gli islamisti stanno distribuendo sacchi di riso e taniche di olio da cucina, promettendo il Paradiso. Ma la gente non è stolta; mi creda, è esperta: sa che questa elezione è cruciale: non si farà sviare da una botte di olio o dalla promessa di un paradiso».
Alix Van Buren
"Il futuro lo decidiamo noi" viaggio tra i seggi del Cairo presi d´assalto dalle donne
IL CAIRO - Eccitati, ansiosi e talvolta anche un po´ smarriti, oltre cinquanta milioni di egiziani hanno iniziato a votare ieri per la prime elezioni presidenziali dopo la caduta di Hosni Mubarak. Alla scuola "Gamal Abdel Nasser", nel quartiere di Dokki, ieri mattina molti elettori sono arrivati anche un´ora prima dell´apertura delle urne. Uomini e donne, come si conviene in un Paese islamico, sono allineati in due file differenti, sotto l´occhio vigile dei soldati armati.
Rania Mohammed, elegante signora in tailleur grigio e foulard sul capo, sembra esitare tra due candidati. «Deciderò nella cabina elettorale. Si può dire che sarà la penna a decidere». Una ragionamento che riflette perfettamente gli umori degli elettori egiziani dominati dall´incertezza. Sono dodici, dopo un ritiro dell´ultimo minuto, i candidati che si sfidano per la presidenza. Tra loro difficilmente qualcuno raggiungerà il 50 per cento dei voti e il rinvio al ballottaggio del 16 e 17 giugno sembra inevitabile. La vittoria di un candidato islamico a queste presidenziali chiuderebbe un cerchio. La Fratellanza che già insieme ai salafiti domina il Parlamento eletto a novembre, sostiene che la religione avrà un peso relativo nel futuro Egitto, che nessuno costringerà le donne a indossare il velo, né verranno applicate le punizioni della legge islamica, come le amputazioni. Si pensa a una versione più moderata della Sharia, che però sostengono a ragione, liberali, moderati e laici, limiterà gravemente molti diritti, soprattutto delle donne, che non a caso ieri hanno votato in massa.
I due principali sfidanti islamisti sono Mohammed Morsi, dei Fratelli musulmani, e Abdel-Moneim Abol Fotoh, moderato che ha ottenuto anche il sostegno di parte di liberali, cristiani e intellettuali di sinistra. I candidati islamici sperano di bissare la quota di voti raggiunta nelle parlamentari di novembre, ma registrano un evidente calo; specie dopo che una delle tv pubbliche ha iniziato a trasmettere in diretta tutte le sedute del Parlamento - una novità assoluta per l´Egitto - mostrando a milioni di egiziani l´inanità del dibattito e l´assurdità delle proposte di legge di buona parte dei deputati islamici. I due candidati laici con speranza di arrivare al ballottaggio sono l´ex premier Ahmed Shafik e l´ex capo della Lega Araba Amr Moussa, entrambi veterani del regime Mubarak, per questo i loro oppositori temono che faranno poco per cambiare status quo. Soprattutto Moussa ha raccolto dietro di sé un fronte ampio di consensi, compresi alcuni religiosi moderati; conosce la macchina dello Stato, ha esperienza internazionale, gode di buona fama nel mondo arabo e in Occidente. I militari, i veri arbitri del futuro Egitto, ufficialmente non sostengono nessun candidato ma è innegabile che il prossimo 1 luglio - come promesso dai generali della Giunta - vorrebbero passare i poteri a un presidente non islamista.
All´interno della scuola "Nasser", dove le pareti sono coperte di manifesti sbiaditi e cartine geografiche ingiallite, un giudice controlla come in tutti i seggi nel Paese lo svolgimento delle operazioni di voto, uno scrutatore allunga schede agli elettori in cambio della carta d´identità. Dietro una cabina elettorale, gli elettori fanno la loro scelta e poi bagnano il dito con inchiostro indelebile (prova della partecipazione al voto) e recuperano il documento. Youssra Amin, 22 anni, è una rappresentante di lista per il candidato dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi. Tiene conto degli elettori che sono venuti a votare in questo seggio, dove sono registrati più di 4.000 cairoti. Indossa il velo e suoi occhi, evidenziati dall´eyeliner turchese, scintillano d´entusiasmo. «Non riesco a immaginare che stia succedendo davvero. Stiamo votando per eleggere il nostro primo vero presidente, solo molto felice».
Nella scuola "Chayma", nel quartiere operaio Sayeda Zeinab, le code sono più lunghe, gli elettori perdono la pazienza con l´aumentare della temperatura. Alla fine della giornata elettorale, che si è svolta nella massima calma, si registreranno in tutto l´Egitto solo 13 feriti per la ressa e per il caldo. Ahmed Gassan, architetto, sorride sulla porta del seggio mostrando il dito macchiato di inchiostro blu: «E´ stato perfetto, è così bello sentire che si può decidere qualcosa». Anche qui il giudice segue con attenzione il via vai dei votanti. Si avvicina un elettore piuttosto anziano, curvato dagli anni e da una vita di stenti. Sembra un po´ smarrito. «Posso scegliere più di un nome?», chiede al magistrato. Lui bonario replica sorridendo: «Dipende. Cosa vuole un presidente oppure due?».
Fabio Scuto
Amr Moussa, come i lettori avranno già capito da tempo, è uno dei begnamini del cosiddetto laicismo occidentale: per questo la maggior parte dei giornali fanno il tifo per lui così come avevano fatto il tifo per El Barade'i. Sempre per questo gli si attribuiscono dichiarazioni molto risolute del tipo di quelle riportate nel titolo del secondo articolo. In realtà, se non sono un'invenzione dell'autore del testo, le dichiarazioni di Moussa ci sembrano quanto meno presuntuose:
I - La democrazia egiziana è in marcia da quando milioni di persone sono scese in piazza e hanno costretto Mubarak ad andarsene;
I - La democrazia egiziana è in marcia da quando milioni di persone sono scese in piazza e hanno costretto Mubarak ad andarsene;
II - Il compito di costruire la democrazia, già in fase avanzata di realizzazione, non può che essere opera dell'elettorato egiziano: il fatto che l'opinione pubblica è mobilitata con un'intensità di mobilitazioni che noi in Italia ormai ci sogniamo è la migliore testimonianza che in Egitto la democrazia ha ripreso la sua marcia, che era stata interrotta dal colpo di stato provocato dagli inglesi nel 1910 e successivamente bloccata da monarchi corrotti e asserviti allo straniero e da dittatori militari che, con l'eccezione di Nasser, sono sempre stati disposti a fare le guardie armate per gli interessi petroliferi americani e le aspirazioni finali del sionismo internazionale;
III - Finalmente il popolo egiziano, musulmano all'85%, dimostrerà ai paladini di certo democraticismo occidentale che la democrazia come regime di libertà è perfettamente compatibile con il vero Islam.
III - Finalmente il popolo egiziano, musulmano all'85%, dimostrerà ai paladini di certo democraticismo occidentale che la democrazia come regime di libertà è perfettamente compatibile con il vero Islam.
mercoledì 23 maggio 2012
IN RICORDO DI GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO, MAGISTRATI SICILIANI UCCISI DALLA MAFIA
"O Sicilia, mia diletta patria natia dove riposano i miei avi, terra ove germoglia abbondante la pianta dell'onore, dove cavalieri ricchi di coraggio affrontano i pericoli della guerra andando in contro alla morte con il sorriso sulle labbra".
Ibn Al Ballanubi, poeta arabo di Palermo espulso dall'isola quando essa venne conquistata dai Normanni.
Gli arabi hanno governato la Sicilia per più di 200 anni che sono stati tra i migliori della storia dell'isola. La poesia è del 1079. Ogni volta che la leggo penso a quella bella foto in cui appaiono i due magistrati sorridenti.
martedì 22 maggio 2012
EGITTO
Egitto, la febbre delle presidenziali
IL CAIRO - Finalmente sono iniziate le 48 ore di silenzio elettorale prima del voto per le presidenziali. In un Paese dove fino a quindici mesi fa si scompariva nel nulla solo per aver pubblicamente criticato il raìs Mubarak, i 52 milioni di egiziani chiamati al voto sono stati sottoposti a una martellante campagna elettorale in stile americano dai 13 candidati rimasti in lizza. Marce, sit-in, comizi, gigantografie per le strade, manifesti sui taxi, sulle macchine private, dibattiti in tv che hanno tenuto incollati allo schermo milioni di egiziani, sms sui telefonini e video sugli smartphone. Un diluvio di denaro investito che fa gridare allo scandalo un paese nel quale metà della popolazione vive con 2 dollari al giorno. Ma nei bar, per strada negli uffici non si parla d´altro.
Sono le prime "vere" elezioni presidenziali nella storia del mondo arabo. La combinazione di novità, alta posta in gioco, suspense e confusione, hanno contagiato l´Egitto come se fosse alla finale dei mondiali di calcio. Non ci sono sondaggi affidabili qui per capire come andrà a finire. Né una Costituzione che imposti le funzioni e i poteri del presidente che verrà eletto; né quale sarà il ruolo dei militari nel futuro del Paese, loro che da sempre sono i veri arbitri dei destini dell´Egitto. E non è un caso che tutti i presidenti (Nasser, Sadat, Mubarak) siano venuti proprio dalle loro file. Ma c´è una diffusa convinzione che chiunque vinca le elezioni avrà un ruolo importante nella creazione del nuovo Egitto per decenni a venire.
Così nei caffè dei quartieri popolari come in quelli più eleganti del centro un ronzio costante di nomi dei candidati aleggia sopra i tavoli e gli avventori si dividono in campi di appassionati a favore dei quattro-cinque contendenti plausibili ancora in pista. Da "Groppi", storico locale del centro - dove Nasser andava a bere il caffè al mattino prima di andare in "ufficio" - frequentato da artisti, intellettuali, studenti ma anche da tassisti e negozianti è certamente Amr Moussa, l´ex segretario generale della Lega Araba, il nome più ricorrente. Ma basta sedersi al caffè in un quartiere popolare per sentire i consensi crescere per l´islamico Abdul Moneim Abol Fotoh, fuoriuscito dei Fratelli Musulmani, e per il candidato ufficiale della Fratellanza, Mohammed Morsi. L´ultimo premier dell´era Mubarak, Ahmed Shafik, sale nelle valutazioni dei giornali ma non tanto in quelle dell´uomo della strada.
Tra i più "papabili" a sedersi sulla sedia che Mubarak occupò con ogni mezzo per più di trent´anni, c´è certamente Amr Moussa, che è stato anche ministro degli Esteri durante il regime del raìs e gode dell´appoggio di parte della minoranza cristiana, circa il 10 per cento della popolazione. Il 75enne Moussa, sostenuto dalla classe media dei laici e liberali, durante la campagna elettorale ha fatto leva soprattutto sulla sua grande esperienza diplomatica conquistata sulla scena internazionale. Altro favorito è il prescelto della Fratellanza, Mohamed Morsi, che risulta già in vantaggio nel voto all´estero, grazie al massiccio sostegno della comunità egiziana in Arabia Saudita. Candidato di peso anche Abdul Moneim Abol Fotoh, storica anima riformista dei Fratelli Musulmani ma espulso dall´organizzazione per volontà dell´ala più conservatrice. Rinchiuso per molti anni in carcere sotto Mubarak, Fotoh è sostenuto dagli islamisti moderati ma anche da parte dei giovani della rivoluzione e da alcuni liberali e socialisti. Se sono profondamente divisi sulla politica interna, sulla politica estera tutti i candidati hanno fatto delle relazioni future con Israele - con cui esiste il trattato di pace di Camp David firmato nel 1979 - il centro del loro programma: quel trattato va rivisto ed emendato e relazioni diplomatiche fra i due Paesi vanno inserite in un contesto diverso.
Se al voto di domani e giovedì nessun candidato dovesse ottenere la maggioranza assoluta, è previsto un ballottaggio il 16 e 17 giugno. E proprio entro la fine di giugno il Consiglio Supremo delle Forze Armate, la Giunta che regge il Paese, ha promesso che cederà i poteri al neo-eletto presidente; un passaggio invocato a gran voce in questi mesi dalle numerose proteste che hanno continuato ad animare e insanguinare piazza Tahrir. Ieri sera l´icona della rivolta anti-regime era sporca e piena di spazzatura, invasa dagli ambulanti che vendono di tutto. Sui marciapiedi male illuminati il solito piccolo contrabbando, i ragazzi che spacciano l´hashish all´angolo con la Talaat Harb. Ma potrebbe ricambiare volto in un attimo.
Fabio Scuto
IL CAIRO - Finalmente sono iniziate le 48 ore di silenzio elettorale prima del voto per le presidenziali. In un Paese dove fino a quindici mesi fa si scompariva nel nulla solo per aver pubblicamente criticato il raìs Mubarak, i 52 milioni di egiziani chiamati al voto sono stati sottoposti a una martellante campagna elettorale in stile americano dai 13 candidati rimasti in lizza. Marce, sit-in, comizi, gigantografie per le strade, manifesti sui taxi, sulle macchine private, dibattiti in tv che hanno tenuto incollati allo schermo milioni di egiziani, sms sui telefonini e video sugli smartphone. Un diluvio di denaro investito che fa gridare allo scandalo un paese nel quale metà della popolazione vive con 2 dollari al giorno. Ma nei bar, per strada negli uffici non si parla d´altro.
Sono le prime "vere" elezioni presidenziali nella storia del mondo arabo. La combinazione di novità, alta posta in gioco, suspense e confusione, hanno contagiato l´Egitto come se fosse alla finale dei mondiali di calcio. Non ci sono sondaggi affidabili qui per capire come andrà a finire. Né una Costituzione che imposti le funzioni e i poteri del presidente che verrà eletto; né quale sarà il ruolo dei militari nel futuro del Paese, loro che da sempre sono i veri arbitri dei destini dell´Egitto. E non è un caso che tutti i presidenti (Nasser, Sadat, Mubarak) siano venuti proprio dalle loro file. Ma c´è una diffusa convinzione che chiunque vinca le elezioni avrà un ruolo importante nella creazione del nuovo Egitto per decenni a venire.
Così nei caffè dei quartieri popolari come in quelli più eleganti del centro un ronzio costante di nomi dei candidati aleggia sopra i tavoli e gli avventori si dividono in campi di appassionati a favore dei quattro-cinque contendenti plausibili ancora in pista. Da "Groppi", storico locale del centro - dove Nasser andava a bere il caffè al mattino prima di andare in "ufficio" - frequentato da artisti, intellettuali, studenti ma anche da tassisti e negozianti è certamente Amr Moussa, l´ex segretario generale della Lega Araba, il nome più ricorrente. Ma basta sedersi al caffè in un quartiere popolare per sentire i consensi crescere per l´islamico Abdul Moneim Abol Fotoh, fuoriuscito dei Fratelli Musulmani, e per il candidato ufficiale della Fratellanza, Mohammed Morsi. L´ultimo premier dell´era Mubarak, Ahmed Shafik, sale nelle valutazioni dei giornali ma non tanto in quelle dell´uomo della strada.
Tra i più "papabili" a sedersi sulla sedia che Mubarak occupò con ogni mezzo per più di trent´anni, c´è certamente Amr Moussa, che è stato anche ministro degli Esteri durante il regime del raìs e gode dell´appoggio di parte della minoranza cristiana, circa il 10 per cento della popolazione. Il 75enne Moussa, sostenuto dalla classe media dei laici e liberali, durante la campagna elettorale ha fatto leva soprattutto sulla sua grande esperienza diplomatica conquistata sulla scena internazionale. Altro favorito è il prescelto della Fratellanza, Mohamed Morsi, che risulta già in vantaggio nel voto all´estero, grazie al massiccio sostegno della comunità egiziana in Arabia Saudita. Candidato di peso anche Abdul Moneim Abol Fotoh, storica anima riformista dei Fratelli Musulmani ma espulso dall´organizzazione per volontà dell´ala più conservatrice. Rinchiuso per molti anni in carcere sotto Mubarak, Fotoh è sostenuto dagli islamisti moderati ma anche da parte dei giovani della rivoluzione e da alcuni liberali e socialisti. Se sono profondamente divisi sulla politica interna, sulla politica estera tutti i candidati hanno fatto delle relazioni future con Israele - con cui esiste il trattato di pace di Camp David firmato nel 1979 - il centro del loro programma: quel trattato va rivisto ed emendato e relazioni diplomatiche fra i due Paesi vanno inserite in un contesto diverso.
Se al voto di domani e giovedì nessun candidato dovesse ottenere la maggioranza assoluta, è previsto un ballottaggio il 16 e 17 giugno. E proprio entro la fine di giugno il Consiglio Supremo delle Forze Armate, la Giunta che regge il Paese, ha promesso che cederà i poteri al neo-eletto presidente; un passaggio invocato a gran voce in questi mesi dalle numerose proteste che hanno continuato ad animare e insanguinare piazza Tahrir. Ieri sera l´icona della rivolta anti-regime era sporca e piena di spazzatura, invasa dagli ambulanti che vendono di tutto. Sui marciapiedi male illuminati il solito piccolo contrabbando, i ragazzi che spacciano l´hashish all´angolo con la Talaat Harb. Ma potrebbe ricambiare volto in un attimo.
Fabio Scuto
domenica 20 maggio 2012
LA GIUSTIZIA E LA COLLERA DI ALLAH LI INCENERISCA
Quando avvengono crimini senza limiti di orrore come l'attentato che in una scuola della provincia di Brindisi ha ucciso una giovinetta nel fiore degli anni e nel periodo più ricco di sogni, non può esservi limite all'indignazione e alla sete di giustizia: e in questi casi solo la giustizia divina, prima ancora che quella degli uomini, può lavare l'infamia. Purtroppo viviamo in un paese dove neppure la giustizia degli uomini è stata sempre in grado di punire gli assassini: troppo spesso parti degli apparati dello stato (i famosi servizi deviati) sono stati complici degli assassini materiali; e non vi è niente, nella situazione attuale del nostro splendido e infelice paese, che possa far sperare a una giustizia operata dalla mano degli uomini. Le complicità arrivano infatti a coinvolgere anche occulti settori di coloro che dovrebbero fare giustizia.
Ecco perché, oltre al dolore per l'evento luttuoso (non posso fare a meno di distogliere la mente dall'immagine di quella bella ragazza dal volto tipico del nostro sud), non possiamo non provare in aggiunta allo sdegno senza limite il fastidio delle ipocrisie e del chiacchiericcio inconcludente che inonda in circostanze del genere i mezzi di informazione: gracidio di ranocchie ubriache, dove vengono ripetute come litanie formali le solite frasi di circostanza, nel quale non manca di esplodere qualche miserabile infamia.
Anche questa volta il primato spetta a quell'odioso individuo che risponde al nome di Belpietro, lo pseudo giornalista direttore di un giornalaccio, che in più occasioni ha già battuto il vertice dell'infamia:
Tra le possibili piste indicate come responsabili dell'infamia l'insulso personaggio non manca di indicare la matrice islamica, naturalmente fondamentalista. Finge di ignorare che anche i più efferati attentati di Al Qaeda hanno sempre una matrice che affonda le sue radici in situazioni di guerra vera e propria; e non si capisce quale potrebbe essere la molla che spinge anche il più fanatico dei terroristi islamisti a compiere un atto di guerra contro la scuola di una località delle Puglie.
Al secondo posto merita di essere collocato il comico neo-politico Beppe Grillo, il quale sente che deve premere l'acceleratore per prendere il posto del cialtrone che forse libererà presto l'orizzonte politico del nostro paese: Grillo mi pare il più accreditato personaggio in grado di sostituire la buffoneria del leader varesotto, spazzato via dall'associazione di ladri cui è stata data il nome di Lega Nord: Grillo, uomo di teatro di vecchia esperienza buffonesca, ha tutti i numeri per prendere il posto di Bossi nel fare appello ai peggiori istinti politici che proliferano nel nostro paese: chi lo segue ha a sua scusante le drammatiche condizioni di miseria e di disperazione che la crisi dell'Occidente ha provocato anche nel nostro paese, ma le sue recite a pagamento in forma di comizi hanno come unico scopo quello di accrescere il livello di rifiuto sostanziale della democrazia. Anche il commento che il buffone genovese ha fatto commentando l'attentato di Brindisi è sintomatico: raffinato meteorologo degli atti criminali volti a creare terrore di massa: "L'attentato appena compiuto si sentiva nell'aria già da molti giorni...Prima o poi doveva accadere"". Si potrebbe consigliare il Ministero degli Interni ad assumerlo in pianta stabile per prevedere i prossimi attentati come si fa con le previsioni del tempo.
Non possiamo escludere dai personaggi che c'hanno dato più fastidio il neo ministro degli interni, dott.ssa Cancelieri, la quale, a quanti insistevano troppo sull'ipotesi che la responsabilità del crimine era con ogni probabilità della mafia, ha replicato: "Le modalità dell'attentato ricordano di più episodi analoghi tipici del Medio Oriente, in particolare del Libano e della Palestina. La pista della mafia è secondo me troppo scoperta". Il nostro ministro nominato come "esperto" sembra dimenticare che in Libano e in Palestina c'è una guerra che va avanti da quasi 80 anni; e ad inaugurare la moda degli attentati terroristici nelle scuole, nei mercati e nei luoghi di spettacolo furono le organizzazioni ebraiche nominate nei libri di storia e che rispondono al nome di Irgun e Brigata Stern, i cui capi divennero qualche decennio più tardi primi ministri di Israele (Menachem Begin e Yitzhak Shamir). E' notevole il fatto che nella intuizione da "esperta" del neo-ministro brilli di luce più intensa il rinvio alle vicende medio orientali piuttosto che al fatto che la scuola colpita era intitolata alla dott.ssa Morvillo, morta con il marito Giovanni Falcone nell'attentato di Capaci di cui ricorre proprio in questi giorni il 20 anniversario.
Non mancano altri esperti i quali fanno notare che la mafia in genere non colpisce a casaccio e non ammazza persone completamente innocenti: si dimentica la strage di Portella della Ginestra in Sicilia e l'attentato ai Georgofili di Firenze. In realtà la mafia colpisce ogni qualvolta la sua cupola individua le condizioni ideali per una sua impresa eclatante: la difficile ed esplosiva situazione socio-economica del paese, la crisi profonda delle forze politiche e delle istituzioni e la convinzione che il quadro d'assieme è in grado di incrementare i propri affari.
E' strano che nessuno abbia sufficientemente insistito sul fatto che gli attentati più gravi della mafia non sono l'operato in solitaria dell'organizzazione criminale: quasi sempre quando la mafia colpisce duro esistono fasce di complicità proprio all'interno degli apparati di sicurezza dello stato: circostanza questa che spiega le troppo frequenti impunità, latitanze che durano mezzo secolo e la super regia occulta di servizi segreti anche stranieri. Che il terribile cocktail ora delineato possa tornare, anche con intenti eversivi nella situazione che stiamo vivendo, è qualcosa che appartiene anche all'oggi. Non va trascurato neppure che quello di colpire i giovani come forse l'unica forza in grado di rendere vivi gli ideali di libertà e di democrazia, equivale a colpire l'unico vero possibile avversario che ha a cuore i valori di libertà e di giustizia.
La pace sia con te, Melissa. Che Allah nella sua infinita misericordia ti dia posto su una piccola nuvola dorata dove potrai aspettare le persone che ti sono state care nella tua breve vita terrena.
Ecco perché, oltre al dolore per l'evento luttuoso (non posso fare a meno di distogliere la mente dall'immagine di quella bella ragazza dal volto tipico del nostro sud), non possiamo non provare in aggiunta allo sdegno senza limite il fastidio delle ipocrisie e del chiacchiericcio inconcludente che inonda in circostanze del genere i mezzi di informazione: gracidio di ranocchie ubriache, dove vengono ripetute come litanie formali le solite frasi di circostanza, nel quale non manca di esplodere qualche miserabile infamia.
Anche questa volta il primato spetta a quell'odioso individuo che risponde al nome di Belpietro, lo pseudo giornalista direttore di un giornalaccio, che in più occasioni ha già battuto il vertice dell'infamia:
Tra le possibili piste indicate come responsabili dell'infamia l'insulso personaggio non manca di indicare la matrice islamica, naturalmente fondamentalista. Finge di ignorare che anche i più efferati attentati di Al Qaeda hanno sempre una matrice che affonda le sue radici in situazioni di guerra vera e propria; e non si capisce quale potrebbe essere la molla che spinge anche il più fanatico dei terroristi islamisti a compiere un atto di guerra contro la scuola di una località delle Puglie.
Al secondo posto merita di essere collocato il comico neo-politico Beppe Grillo, il quale sente che deve premere l'acceleratore per prendere il posto del cialtrone che forse libererà presto l'orizzonte politico del nostro paese: Grillo mi pare il più accreditato personaggio in grado di sostituire la buffoneria del leader varesotto, spazzato via dall'associazione di ladri cui è stata data il nome di Lega Nord: Grillo, uomo di teatro di vecchia esperienza buffonesca, ha tutti i numeri per prendere il posto di Bossi nel fare appello ai peggiori istinti politici che proliferano nel nostro paese: chi lo segue ha a sua scusante le drammatiche condizioni di miseria e di disperazione che la crisi dell'Occidente ha provocato anche nel nostro paese, ma le sue recite a pagamento in forma di comizi hanno come unico scopo quello di accrescere il livello di rifiuto sostanziale della democrazia. Anche il commento che il buffone genovese ha fatto commentando l'attentato di Brindisi è sintomatico: raffinato meteorologo degli atti criminali volti a creare terrore di massa: "L'attentato appena compiuto si sentiva nell'aria già da molti giorni...Prima o poi doveva accadere"". Si potrebbe consigliare il Ministero degli Interni ad assumerlo in pianta stabile per prevedere i prossimi attentati come si fa con le previsioni del tempo.
Non possiamo escludere dai personaggi che c'hanno dato più fastidio il neo ministro degli interni, dott.ssa Cancelieri, la quale, a quanti insistevano troppo sull'ipotesi che la responsabilità del crimine era con ogni probabilità della mafia, ha replicato: "Le modalità dell'attentato ricordano di più episodi analoghi tipici del Medio Oriente, in particolare del Libano e della Palestina. La pista della mafia è secondo me troppo scoperta". Il nostro ministro nominato come "esperto" sembra dimenticare che in Libano e in Palestina c'è una guerra che va avanti da quasi 80 anni; e ad inaugurare la moda degli attentati terroristici nelle scuole, nei mercati e nei luoghi di spettacolo furono le organizzazioni ebraiche nominate nei libri di storia e che rispondono al nome di Irgun e Brigata Stern, i cui capi divennero qualche decennio più tardi primi ministri di Israele (Menachem Begin e Yitzhak Shamir). E' notevole il fatto che nella intuizione da "esperta" del neo-ministro brilli di luce più intensa il rinvio alle vicende medio orientali piuttosto che al fatto che la scuola colpita era intitolata alla dott.ssa Morvillo, morta con il marito Giovanni Falcone nell'attentato di Capaci di cui ricorre proprio in questi giorni il 20 anniversario.
Non mancano altri esperti i quali fanno notare che la mafia in genere non colpisce a casaccio e non ammazza persone completamente innocenti: si dimentica la strage di Portella della Ginestra in Sicilia e l'attentato ai Georgofili di Firenze. In realtà la mafia colpisce ogni qualvolta la sua cupola individua le condizioni ideali per una sua impresa eclatante: la difficile ed esplosiva situazione socio-economica del paese, la crisi profonda delle forze politiche e delle istituzioni e la convinzione che il quadro d'assieme è in grado di incrementare i propri affari.
E' strano che nessuno abbia sufficientemente insistito sul fatto che gli attentati più gravi della mafia non sono l'operato in solitaria dell'organizzazione criminale: quasi sempre quando la mafia colpisce duro esistono fasce di complicità proprio all'interno degli apparati di sicurezza dello stato: circostanza questa che spiega le troppo frequenti impunità, latitanze che durano mezzo secolo e la super regia occulta di servizi segreti anche stranieri. Che il terribile cocktail ora delineato possa tornare, anche con intenti eversivi nella situazione che stiamo vivendo, è qualcosa che appartiene anche all'oggi. Non va trascurato neppure che quello di colpire i giovani come forse l'unica forza in grado di rendere vivi gli ideali di libertà e di democrazia, equivale a colpire l'unico vero possibile avversario che ha a cuore i valori di libertà e di giustizia.
La pace sia con te, Melissa. Che Allah nella sua infinita misericordia ti dia posto su una piccola nuvola dorata dove potrai aspettare le persone che ti sono state care nella tua breve vita terrena.
venerdì 18 maggio 2012
SIRIA
Ban Ki-moon: "Al Qaeda dietro attacco Damasco
Nel Paese 10 mila vittime in quindici mesi"
Nel Paese 10 mila vittime in quindici mesi"
NEW YORK - Il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, ammette che in modo "allarmante e sorprendente" Al Qaeda deve essere stata dietro l'attentato del 10 maggio a Damasco 1, in cui hanno perso la vita 55 persone. Il coinvolgimento di Al Qaeda nella regione, ha detto Ban, "ha creato problemi molto gravi". Parlando davanti a circa 2.500 studenti che hanno partecipato all'annuale conferenza Model United Nations, il segretario ha inoltre notato che ci sono stati due attacchi contro i disarmati osservatori dell'Onu in Siria.
Ban Ki-moon ha, inoltre, sottolineato che il presidente Bashar al-Assad non ha ancora attuato completamente il piano di pace proposto dall'inviato speciale di Nazioni Unite e Lega Araba per la crisi in Siria, Kofi Annan.
Diecimila vittime. "Sono almeno più di 9mila, forse 10mila, le persone uccise negli ultimi 15 mesi" in Siria.
Lo ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel corso di un incontro al Palazzo di Vetro, durante il quale ha rivelato il bilancio delle vittime dall'inizio della rivolta contro il presidente siriano Bashar al-Assad. "Ora si è raggiunta una situazione intollerabile", ha aggiunto Ban Ki-moon.
Osservatori non bastano, più dialogo. Nessun numero di osservatori internazionali sarà sufficiente a ottenere la fine delle violenze in Siria se non ci sarà dialogo tra le parti, ha detto il capo della missione degli osservatori dell'Onu nel Paese, il generale norvegese Robert Mood, durante una conferenza stampa a Damasco. Mood ha lanciato un appello per porre fine alle ostilità in modo che gli osservatori possano promuovere colloqui tra le parti del conflitto. Attualmente oltre 200 osservatori delle Nazioni unite stanno monitorando l'applicazione del cessate il fuoco previsto dal piano di pace dell'inviato speciale Kofi Annan, ma ogni giorno ci sono notizie di violazioni della tregua da entrambe le parti. Mood ha avvertito che nessun numero di osservatori potrà ottenere "una fine permanente delle violenze se l'impegno a dare una chance al dialogo non sarà sincero da parte di tutte le parti interne ed esterne". Il generale ha aggiunto di essere "più convinto che mai che nessuna violenza potrà risolvere questa crisi". Secondo Mood, i recenti attacchi suicidi ed esplosioni di bombe sul ciglio della strada sono allarmanti. "Sono preoccupato - ha affermato - per gli incidenti in cui ordigni esplosivi improvvisati prendono di mira civili innocenti, persone innocenti, perché questo non aiuterà a risolvere la situazione".
Entro un mese nuovo leader Cns. Il presidente uscente del Consiglio nazionale siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, che ieri ha annunciato le sue dimissioni, ha fatto appello a una riunione del movimento di qui a un mese per eleggere il nuovo leader. L'obiettivo, ha dichiarato Ghalioun in una nota, è "evitare un eventuale vuoto o divergenza e rispondere alle richieste della rivoluzione e dei rivoluzionari", ma anche "ribadire il serio impegno a voltare pagina e preparare il Consiglio a stare al passo con la rivoluzione, adeguando la sua azione alle sfide che il popolo deve affrontare". La rielezione di Ghalioun a un nuovo mandato mercoledì aveva suscitato ampie critiche, sia all'interno del gruppo che da parte dell'opposizione interna al regime del presidente siriano Bashar al-Assad, che accusa il Cns di non agire in modo democratico. In particolare, i Comitati di coordinamento locale, che fanno parte del Cns, hanno accusato il movimento di "impotenza politica" e di "mancanza totale di accordo con la visione della mobilitazione rivoluzionaria", ma anche di "emarginare la maggior parte dei rappresentanti della mobilitazione e dei membri del comitato generale del Consiglio stesso".
giovedì 10 maggio 2012
Palestina L' Intifada della fame il digiuno dei detenuti diventa una bandiera
È stato un altro lungo giorno di digiuno per Taher Halahla e Bilal Diab, i due detenuti palestinesi arrivati al settantaduesimo giorno senza cibo. Non sono soli, altri sette detenuti da qualche giorno si sono uniti a loro. Sono pronti ad andare avanti a oltranza fino alle estreme conseguenze, lasciarsi morire di inedia dietro le mura grigie del famigerato carcere di Ofer, l' Incarceration Facility 385 secondo il linguaggio burocratico dell' Amministrazione penitenziaria israeliana. Altri 1600 li stanno seguendo ormai da quasi un mese. Perché lo sciopero della fame è l' unico mezzo che i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza accuse formali - qui li chiamano "arresti amministrativi", si tratta dell' equivalente di una detenzione preventiva - hanno per ottenere la liberazione. Comei ragazzi dell' Iraa Belfast nel penitenziario di Maze nel 1981, Taher, Diab e gli altri hanno intenzione di andare avanti fino alla fine, come gli otto che seguirono il destino di Bobby Sands, il primo che si lasciò morire scuotendo le coscienze nel maggio del 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Se dovesse morire uno di loro questa "Intifada della fame" dietro le sbarre potrebbe scatenare violenze in tutti i Territori palestinesi occupati, dove questa protesta è sentita, sostenuta e appoggiata. Ieri la Croce rossa internazionale ha chiesto per sei di questi detenuti il ricovero in ospedale per le loro gravi condizioni e ha chiesto anche, per ora invano, che sia consentito loro di ricevere le visite dei parenti in carcere. Dopo la rivolta della rete, le denunce su Facebook e Twitter, sono decine le manifestazioni anche nei paesi più piccoli della Cisgiordania e le marce di sostegno, con la gente che mostra le foto dei parenti incarcerati che partecipano alla protesta nelle celle. Lo scorso 17 aprile in occasione della "giornata del detenuto" tre quarti dei 4700 prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo. Non è il primo grande sciopero nelle carceri israeliane - nel 2004 diecimila detenuti rifiutarono il cibo per 17 giorni - ma è la prima volta che un gruppo ha deciso di portare avanti fino alla fine. L' iniziatore di questa protesta è stato un fornaio di 34 anni, Khadnan Adnan, militante della Jihad islamica, che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere finito in cella lo scorso anno senza imputazioni. In carcere per un "arresto amministrativo" - e senza essere mai stato portato davanti a un giudice - Adnan ha rifiutato il cibo per 73 giorni prima di vincere la sua battaglia ed essere rilasciato. L' avvocato Jawad Boulos, che rappresenta l' Associazione dei palestinesi detenuti in Israele, spiega a Repubblica che lo sciopero della fame a oltranza nelle prigioni israeliane viene condotto da due gruppi distinti, che hanno obiettivi diversi. Il primo gruppo di sette carcerati ha iniziato lo sciopero della fame circa due mesi fa. Alcuni, come appunto Diab e Halahla, vogliono l' annullamento degli arresti amministrativi decretati da un tribunale militare. Un altro, Muhammed Taj, chiede di essere riconosciuto "prigioniero di guerra". Un altro ancora, catturato a Gaza, chiede di tornare libero nella Striscia. Il secondo gruppo - che conta circa 1.600 prigionieri - lotta per un miglioramento delle condizioni di reclusione. Fra le richieste, l' abolizione dell' isolamento e l' accesso a siti accademici online. Poi ci sono settecento detenuti originari di Gaza - sempre secondo l' avvocato Boulos - che non ricevono visite dei loro congiunti da cinque anni, come ritorsione per il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, che però nel frattempo ha riacquistato la libertà. Il trattamento dei detenuti in Israele è uno dei temi più sentiti tra i palestinesi. I crimini per cui vengono arrestati sono dei più vari, dal semplice lancio di pietre all' organizzazione di attacchi terroristici. Trai 4700 palestinesi detenuti nelle carceri 302 sono in regime di detenzione amministrativa. Una misura usata prevalentemente nei casi in cui gli indizi disponibili consistono in informazioni ottenute dai servizi segreti (come lo Shin Bet), e nei casi in cui un processo pubblico potrebbe rilevare informazioni ritenute di sicurezza dalle forze israeliane. Ogni comandante dell' esercito locale può diramare un ordine di detenzione amministrativa, che può essere appellato presso la locale Corte militare e, se negato, alla Corte Suprema. Anche in questo caso, l' ordineè valido per sei mesi, ma può essere rinnovato a tempo indefinito dall' autorità. Nel territorio palestinese questa forma di detenzione extra giudiziale esisteva sin dal mandato britannico del 1945. L' ordine militare che legifera la detenzione amministrativa è il n. 1651 del 1970 che nel 1979 è stato ribadito, nonostante il Parlamento israeliano avesse stabilito già nel 1951 che questa misura andava abolita. Dietro le quinte i contatti fra la direzione del Servizio carcerario israeliano e una rappresentanza di reclusi per trovare uno sbocco alla crisi si sono fatti febbrili. Ieri sera il governo palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e all' Europa di intervenire, ammonendo che «riterrà Israele responsabile della vita dei prigionieri palestinesi». Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese.
Fabio Scuto
Siria, attacco agli osservatori Onu il convoglio colpito da una bomba
Oggi ai 70 sul campo se ne aggiungeranno altri 30. Gli altri 200 entro fine maggio. «It's a tough
job», è un lavoro duro, conclude Mood.
Viviana Mazza
Damasco, i kamikaze rompono la tregua due autobomba fanno più di 50 morti
siriani e, a quanto pare, uno dei più temuti) e, sul lato di fronte, le palazzine del quartiere di
Zahra al Jiadida. E´ qui che sarebbero stati colpiti alcuni bambini che stavano andando a
scuola.
Ma ecco che il silenzio avvolgente viene spezzato da un coro ritmato. Come sorto dal nulla, ma
probabilmente uscito da uno degli edifici militari, un corteo di Shabiha, i miliziani armati fedeli al
regime di Assad, kalashnikov in pugno, tascapani pieni di munizioni, ma in abiti civili, avanzano
sulla strada gridando slogan di fedeltà al presidente. Brandendo i fucili mitragliatori al cielo,
sfiorano il cratere dell´esplosione e avanzano verso la piccola folla di curiosi e le poche
telecamere che il cordone stretto intorno alla scena ha lasciato filtrare. Hanno la rabbia segnata
sul volto: «Assad/libertà», continuano a gridare. Anche perché, appena 48 prima, nove
Shabiha, miliziani come loro, erano stati uccisi alla periferia di Damasco in un attacco della
guerriglia a colpi di lancia granate contro l´autobus su cui viaggiavano.
E´ in un momento come questo che, raffigurandosi come le vittime di una manovra ordita
dall´esterno, i sostenitori di Assad fanno sentire la loro voce. Un giovane ci viene incontro
ripetendo come in un rosario: «Tutto questo è opera dell´Arabia Saudita». Nadine Haddad,
un´insegnante di 40 anni, cristiana, lancia la sua fredda invettiva contro il primo ministro del
Qatar, Hamad bin Jassim al Thani: «Hamad - dice Nadine serrando le labbra - tu stai
distruggendo il popolo siriano, non il regime. Tu stai uccidendo i nostri figli».
Qatar e Arabia Saudita sono, fra i paesi arabi, i più risoluti a sostenere che l´unico modo di
risolvere la crisi siriana sia armando i ribelli. Dunque, sui leader di Qatar e Arabia Saudita si
concentra il fuoco della propaganda che li accusa di essere ispiratori e finanziatori della
protesta contro il regime. Così come, contro gli stessi paesi sembrano indirizzati gli strali del
ministro degli Esteri, Muhallam, che ieri ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di proceder «contro
gli Stati e i gruppi che praticano il terrorismo». Il Consiglio di sicurezza ha condannato con
fermezza l´«attentato terroristico», il più grave compiuto contro la capitale siriana da quando, 14
mesi fa, è esplosa la rivolta.
Ieri Damasco ha continuato per ore a rabbrividire dietro l´urlo ininterrotto delle sirene. Poi, sotto
l´incalzare della calura quasi estiva, la città s´è come rilassata. Il traffico è ripreso a scorrere
normalmente sulle strade chiuse dalla polizia per lasciare corridoi aperti ai soccorsi. «Vedi -
commentava un amico siriano - qualche settimana fa, dopo un attentato anche meno grave di
questo la gene sarebbe tornata a casa. Oggi disgraziatamente ci stiamo abituando».
Alberto Stabile, 11/05/2012
È stato un altro lungo giorno di digiuno per Taher Halahla e Bilal Diab, i due detenuti palestinesi arrivati al settantaduesimo giorno senza cibo. Non sono soli, altri sette detenuti da qualche giorno si sono uniti a loro. Sono pronti ad andare avanti a oltranza fino alle estreme conseguenze, lasciarsi morire di inedia dietro le mura grigie del famigerato carcere di Ofer, l' Incarceration Facility 385 secondo il linguaggio burocratico dell' Amministrazione penitenziaria israeliana. Altri 1600 li stanno seguendo ormai da quasi un mese. Perché lo sciopero della fame è l' unico mezzo che i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza accuse formali - qui li chiamano "arresti amministrativi", si tratta dell' equivalente di una detenzione preventiva - hanno per ottenere la liberazione. Comei ragazzi dell' Iraa Belfast nel penitenziario di Maze nel 1981, Taher, Diab e gli altri hanno intenzione di andare avanti fino alla fine, come gli otto che seguirono il destino di Bobby Sands, il primo che si lasciò morire scuotendo le coscienze nel maggio del 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Se dovesse morire uno di loro questa "Intifada della fame" dietro le sbarre potrebbe scatenare violenze in tutti i Territori palestinesi occupati, dove questa protesta è sentita, sostenuta e appoggiata. Ieri la Croce rossa internazionale ha chiesto per sei di questi detenuti il ricovero in ospedale per le loro gravi condizioni e ha chiesto anche, per ora invano, che sia consentito loro di ricevere le visite dei parenti in carcere. Dopo la rivolta della rete, le denunce su Facebook e Twitter, sono decine le manifestazioni anche nei paesi più piccoli della Cisgiordania e le marce di sostegno, con la gente che mostra le foto dei parenti incarcerati che partecipano alla protesta nelle celle. Lo scorso 17 aprile in occasione della "giornata del detenuto" tre quarti dei 4700 prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo. Non è il primo grande sciopero nelle carceri israeliane - nel 2004 diecimila detenuti rifiutarono il cibo per 17 giorni - ma è la prima volta che un gruppo ha deciso di portare avanti fino alla fine. L' iniziatore di questa protesta è stato un fornaio di 34 anni, Khadnan Adnan, militante della Jihad islamica, che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere finito in cella lo scorso anno senza imputazioni. In carcere per un "arresto amministrativo" - e senza essere mai stato portato davanti a un giudice - Adnan ha rifiutato il cibo per 73 giorni prima di vincere la sua battaglia ed essere rilasciato. L' avvocato Jawad Boulos, che rappresenta l' Associazione dei palestinesi detenuti in Israele, spiega a Repubblica che lo sciopero della fame a oltranza nelle prigioni israeliane viene condotto da due gruppi distinti, che hanno obiettivi diversi. Il primo gruppo di sette carcerati ha iniziato lo sciopero della fame circa due mesi fa. Alcuni, come appunto Diab e Halahla, vogliono l' annullamento degli arresti amministrativi decretati da un tribunale militare. Un altro, Muhammed Taj, chiede di essere riconosciuto "prigioniero di guerra". Un altro ancora, catturato a Gaza, chiede di tornare libero nella Striscia. Il secondo gruppo - che conta circa 1.600 prigionieri - lotta per un miglioramento delle condizioni di reclusione. Fra le richieste, l' abolizione dell' isolamento e l' accesso a siti accademici online. Poi ci sono settecento detenuti originari di Gaza - sempre secondo l' avvocato Boulos - che non ricevono visite dei loro congiunti da cinque anni, come ritorsione per il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, che però nel frattempo ha riacquistato la libertà. Il trattamento dei detenuti in Israele è uno dei temi più sentiti tra i palestinesi. I crimini per cui vengono arrestati sono dei più vari, dal semplice lancio di pietre all' organizzazione di attacchi terroristici. Trai 4700 palestinesi detenuti nelle carceri 302 sono in regime di detenzione amministrativa. Una misura usata prevalentemente nei casi in cui gli indizi disponibili consistono in informazioni ottenute dai servizi segreti (come lo Shin Bet), e nei casi in cui un processo pubblico potrebbe rilevare informazioni ritenute di sicurezza dalle forze israeliane. Ogni comandante dell' esercito locale può diramare un ordine di detenzione amministrativa, che può essere appellato presso la locale Corte militare e, se negato, alla Corte Suprema. Anche in questo caso, l' ordineè valido per sei mesi, ma può essere rinnovato a tempo indefinito dall' autorità. Nel territorio palestinese questa forma di detenzione extra giudiziale esisteva sin dal mandato britannico del 1945. L' ordine militare che legifera la detenzione amministrativa è il n. 1651 del 1970 che nel 1979 è stato ribadito, nonostante il Parlamento israeliano avesse stabilito già nel 1951 che questa misura andava abolita. Dietro le quinte i contatti fra la direzione del Servizio carcerario israeliano e una rappresentanza di reclusi per trovare uno sbocco alla crisi si sono fatti febbrili. Ieri sera il governo palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e all' Europa di intervenire, ammonendo che «riterrà Israele responsabile della vita dei prigionieri palestinesi». Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese.
Fabio Scuto
Siria, attacco agli osservatori Onu il convoglio colpito da una bomba
HOMS - Nella capitale della rivolta la linea del fuoco spezza in due il cuore della città. Alle
porte di Dera´a un ordigno artigianale esplode al passaggio di un convoglio degli osservatori
dell´Onu su cui viaggia il comandante della missione, il generale Robert Mood. Otto militari
dell´esercito siriano, su un camion di scorta, vengono leggermente feriti. E´ l´ennesimo attacco
alla tregua, ma stavolta nel mirino sembrano essere i "caschi blu", gli uomini mandanti dalla
comunità internazionale a verificare la possibilità che la rivolta esplosa 14 mesi fa in Siria, ormai
sull´orlo di una guerra civile guerreggiata, possa ancora piegare verso una soluzione pacifica.
I nemici della tregua avrebbero certamente potuto impiegare mezzi ben più potenti della bomba
rudimentale piazzata ai margini del raccordo che, lasciata l´autostrada per Damasco, conduce
alle porte di Dera´a. Ma quello che conta è il tempo in cui è stato deciso di lanciare
l´avvertimento: la quasi perfetta sincronia con il passaggio del convoglio delle Nazioni Unite,
partito dalla capitale siriana per uno dei tanti sopralluoghi che vengon fatti giornalmente nelle
varie città-crateri della rivolta. Un´operazione di routine sotto agli occhi di Robert Mood, il
comandante del contingente, e di un gruppo di giornalisti cui il piano di pace proposto da Kofi
Anan ha voluto garantire l´accesso.
E´ dopo che il convoglio ha oltrepassato il camion dell´esercito siriano che avviene l´esplosione.
La fiancata del mezzo viene investita dalle schegge, ma le auto degli osservatori e quelle dei
corrispondenti vengono soltanto sfiorate dall´onda d´urto. Proprio ieri, lo stesso mediatore Kofi
Annan aveva sollevato dubbi sulla tenuta della tregua da lui stesso voluta. Ci si interroga su chi
fosse il vero obiettivo dell´attentato, perché sul fatto che il camion siriano scortasse il convoglio
c´è chi nutre qualche dubbio. Ma il generale Mood sembra per nulla turbato da questo episodio:
«La cosa più importante non è stabilire chi fosse l´obbiettivo ma affermare che questo è ciò che
vive ogni giorno il popolo siriano. E bisogna porvi fine».
D´altronde basta vedere Homs, la città che le autorità di Damasco pretendono di aver
normalizzato dopo mesi di battaglie furibonde e di bombardamenti pesanti, per capire quanto
ardua sia la missione degli osservatori delle Nazioni Unite. Se all´inizio dell´anno il fronte
passava per i quartieri periferici, oggi il centro politico ed economico è il fotogramma bloccato di
un città fantasma. La piazza principale, con il grande orologio fermo alle 12 di chissà quale
giorno, deserta. Municipio e Governatorato sbarrati da fortificazioni da cui emergono le sagome
di uomini armati. Negozi chiusi, o saccheggiati. I marciapiedi ricoperti da un tappeto
scricchiolante di vetri in frantumi. E lì, nel buio androne del ristorante Sky View, il comando delle
forze di polizia che, dopo l´approvazione del piano di pace di Kofi Annan, hanno sostituito
l´esercito. Dunque, niente mezzi pesanti, è pronto a giurare il comandante. Niente artiglieria
contro gli insorti. Eppure «la situazione - dice - è sotto controllo».
Però, neppure rasente ai muri ci si può allungare sul grande viale che conduce al quartiere di
Kaldyeh, da dove giunge l´eco ininterrotta degli spari. Né si può pensare di sterzare verso la
città vecchia, o l´adiacente quartiere di Amidyeh, dove alla fine di gennaio siamo potuti arrivare
per parlare con i cristiani che vi abitano da secoli. O per meglio dire, vi abitavano, perché
secondo un agente delle forze di sicurezza, «il 90 per cento dei cristiani di Amidyeh sono
fuggiti».
Tuttavia, la migrazione interna, effetto indotto della quasi-guerra-civile siriana, non riguarda
soltanto i cristiani ma anche e soprattutto i sunniti, considerati il serbatoio della rivolta. Abd el Jalib, 40 anni, una famiglia di dieci persone da sfamare con le misere entrate di un commercio
di frutta e verdura esposte sul marciapiede, vive in una traversa a non più di 200 metri dalla
piazza centrale. Viene da Bab Dreb, un quartiere colpito duramente, la sua casa, 5 mesi fa è
stata distrutta e lui e i suoi hanno trovato posto in un appartamento del centro da dove, a sua
volta, con l´avvicinarsi del fronte, era fuggita un´altra famiglia. Il turnover della disperazione.
Lui ci aspetta lì, sulla soglia di casa, circondato dai figli più piccoli, con l´orecchio teso ai suoni
dello scontro e lo sguardo alla sua povera mercanzia (cipolle, patate, qualche pomodoro sfatto).
Come va la vita? "Ringraziamo Iddio". Ma riesce a vendere qualcosa in questo deserto? "Si
vende poco". Potete uscire di casa? "No". I bambini, a scuola? "Le scuole sono chiuse". Un
collega chiede se ha mai visto carri armati da queste parti (vale a dire i mezzi corazzati che il
piano di Kofi Annan impone al regime di ritirare dalle zone abitate)? «Sono passati da quella
strada 3 o 4 giorni fa. Tremava tutto».
E´ difficile dire che ne sarebbe del fragile immobilismo della tregua se non ci fossero i caschi
blu. Ma forse la risposta è qui, a Baba Amro, il quartiere-martire teatro della sanguinosa
battaglia di gennaio-febbraio durata sei settimane e conclusasi con il ritiro della guerriglia.
Passare per Baba Amro è come attraversare un cimitero di macerie. Nessuna edificio affacciato
sul vialone che l´attraversa è rimasto immune dal fuoco dell´artiglieria. Molte palazzine sono
annerite dal fuoco degli incendi. La cupola della Moschea è stata sfondata. Rare figure,
soprattutto femminili, punteggiano quà e là questa quinta di distruzione. Un gruppo di operai
lavora a liberare una fognatura. Ma nessuno vuole parlare. "Siamo soltanto operai. Andate via"!
Alberto Stabile
"Come una scossa, poi il fumo"
Agguato ieri in Siria, a Deraa, contro un convoglio di auto composto da osservatori dell'Onu
e giornalisti, tra cui l'inviata del Corriere della Sera. L'ordigno ha colpito di striscio un mezzo
dell'esercito, ferendo diversi soldati, sollevando fumo e facendo sobbalzare le auto dei
reporter. Fuori dal finestrino scorre un paesaggio bucolico, una pianura con ulivi, pastori e
pecorelle sotto il sole caldo delle 11 del mattino. Il convoglio di auto con in testa gli osservatori
dell'Onu disarmati e, al seguito, su mezzi a noleggio, inviati di giornali siriani e stranieri tra cui il
Corriere della Sera
, percorre la trafficata autostrada da Damasco a Deraa, la città simbolo dov'è iniziata la rivolta
siriana contro il presidente Bashar Assad 14 mesi fa.
È su questa strada che ieri un ordigno artigianale, forse azionato a distanza, è esploso,
colpendo di striscio un mezzo dell'esercito siriano in coda al convoglio Onu, ferendo diversi
soldati, sollevando fumo e terra sul ciglio della strada, e facendo sobbalzare le auto dei
reporter.
Da 10 giorni gli osservatori Onu monitorano la cessazione delle violenze accettata dal 12 aprile
dal governo siriano e dai ribelli armati dell'Esercito siriano libero: hanno registrato violazioni, ma
— insistono — anche progressi. Stavolta a bordo di una delle auto c'è anche il capo della
missione, il generale norvegese Robert Mood. La destinazione viene rivelata solo al momento
della partenza, e la presenza del generale solo più tardi. Il convoglio è quasi arrivato a Deraa
quando il furgone di scorta supera le auto di alcuni giornalisti: i militari posano sorridenti, fucili in
pugno, per le telecamere. Si passa senza fermarsi un posto di blocco dell'esercito con la foto di
Assad in mostra. Pochi minuti dopo, l'esplosione, che frantuma i vetri del furgone militare, e
alcune schegge perforano il fianco destro. Ma l'autista rimette in moto e in un paio di chilometri
arriva a Deraa. I soldati feriti, uno con rivoli di sangue sul volto, altri quattro con ferite lievi al
volto o alle braccia, vengono portati via dalla polizia e in taxi. Giovani, in un paese dove la leva
è obbligatoria. Tremano, sotto choc, mentre parlano con la stampa.
Le parti in campo si accusano reciprocamente. I media siriani attribuiscono l'attentato a terroristi
pagati e armati dall'estero. Il comandante dell'Esercito siriano libero, Riad al-Assad, aveva
appena minacciato di «ricominciare gli attacchi», perché «il governo non ha rispettato il cessate
il fuoco»: «il popolo ci chiede di difenderlo». Invece, il Consiglio nazionale siriano (Cns), blocco
di oppositori con sede a Istanbul, accusa il regime di aver piantato l'ordigno «per dimostrare la
presenza di terroristi» e «per cacciare gli osservatori, mentre cresce la domanda di aumentarne
il numero».
«Non starò a speculare su chi fosse l'obiettivo», dice il generale Robert Mood nell'hotel degli
osservatori a Deraa. «Il punto importante è un altro — sottolinea —. C'è un aumento
preoccupante di ordigni come questo ed esplosioni che minacciano la vita della popolazione
siriana ogni giorno. A tutti coloro che fuori o dentro la Siria stanno considerando l'opzione di più
esplosivi e più armi il mio messaggio è molto chiaro: non è la cosa giusta. Non è la scelta che
dobbiamo prendere, e abbiamo ancora una scelta». Arabia Saudita e Qatar nei mesi passati si
sono detti favorevoli a fornire armi ai ribelli dell'Esercito siriano libero, che chiede sostegno
contro il regime. La priorità sottolineata ieri dal generale Mood è fermare le uccisioni, per evitare
la guerra civile paventata dall'inviato Kofi Annan. In un rapporto duro nei confronti di Damasco,
Annan ha sottolineato che le violazioni non riguardano solo le operazioni militari: «le autorità
siriane stanno usando meno le armi pesanti, ma hanno intensificato le campagne di arresti». Che 300 osservatori siano pochi lo riconosce anche il generale, ma non spetta a lui decidere.Oggi ai 70 sul campo se ne aggiungeranno altri 30. Gli altri 200 entro fine maggio. «It's a tough
job», è un lavoro duro, conclude Mood.
Viviana Mazza
Damasco, i kamikaze rompono la tregua due autobomba fanno più di 50 morti
Sono 55 i cadaveri che è stato possibile contare, 372 i feriti, molti dei quali destinati a morire.
Gli obiettivi che i kamikaze alla guida delle due autobomba avevano in animo di colpire erano
probabilmente due installazioni militari: una caserma e la sede della Sezione "Palestina"
dell´Intelligence militare, ma l´onda delle esplosioni s´è riversata sulla gente che, in macchina,
stava andando al lavoro e su un quartiere popolare, trasformando quello che avrebbe dovuto
essere un atto di guerra tra fazioni armate in un massacro di civili.
Anche la fragile tregua, faticosamente raggiunta il 12 Aprile dall´inviato delle Nazioni Unite e
della Lega Araba, Kofi Annan, ne esce ulteriormente scheggiata. L´ex segretario generale
dell´Onu (un attentato «abominevole», ha detto) non smette di invitare le due parti contrapposte
a rispettare l´accordo per il cessate il fuoco da lui stesso promosso come primo passo verso
una soluzione negoziata della crisi. Ma è un´immagine di solitudine quella del convoglio con il
generale Robert Mood, comandante degli osservatori, soltanto ieri bersaglio di un ordigno
artigianale mentre viaggiava sulla strada per Dera´a, che s´avvicina scortato dalla polizia verso
il luogo dell´attentato.
Nel dramma siriano anche un´azione terroristica viene risucchiata dalla contesa politica. Le
profonde fratture aperte nella comunità internazionale si sono riproposte anche ieri, con gli Stati
Uniti riluttanti ad intervenire ma pronti a contestare ad Assad le violazioni della tregua e la
Russia che difende il Raìs e non esita ad evocare una «mano straniera» nella duplice
autobomba.
Ma gli strateghi del caos che alle otto del mattino hanno teleguidato gli attentatori suicidi sulla
tangenziale di Damasco, nel distretto di al Qazaz in direzione dell´aeroporto, sembrano avere in
mente scenari conosciuti. I modelli ispiratori non mancano: l´Iraq dilaniato dalle esplosioni con
l´obiettivo di mettere sciiti e sunniti gli uni contro gli altri, così realizzando una partizione di fatto
del paese, o il Libano della guerra civile che ha portato, se non alla dissoluzione, a una sorta di
irreversibile indebolimento della sovranità libanese.
Quando arriviamo sulla tangenziale non è passata più di un´ora da quando, qualche minuto
prima delle otto, Damasco è stata scossa dai due boati. La scena che si apre davanti a noi
sembra dettata da un´agghiacciante architettura dell´orrore. Decine di macchine sembrano fuse
in un unico ammasso fumante di lamiere. L´odore di tutto quello che ancora brucia, gomma,
benzina, brandelli di vita umana, è acre e irrespirabile. Un tir che trasportava cemento sembra
ridotto ad una carcassa scheletrita, la cabina di guida girata di 180 gradi contro il rimorchio. Una
berlina giapponese catapultata in aria è atterrata sull´aiuola che separa le due corsie della
superstrada. Un taxi giallo, ricoperto di uno spesso strato di polvere s´è inchiodato con il cofano
sul terreno. Dentro, riverso sul volante c´è il cadavere dell´autista.
Oltre a provocare un cratere largo più di tre metri e profondo due, le due autobomba,
esplodendo, hanno scatenato una pioggia di schegge, pezzi di motore, lamiere taglienti, vetri in
frantumi che ha investito non soltanto la superstrada per centinaia di metri, ma anche un edificio di sette piani, la sede dell´Intelligence sugli affari palestinesi (uno dei 22 servizi di sicurezzasiriani e, a quanto pare, uno dei più temuti) e, sul lato di fronte, le palazzine del quartiere di
Zahra al Jiadida. E´ qui che sarebbero stati colpiti alcuni bambini che stavano andando a
scuola.
Ma ecco che il silenzio avvolgente viene spezzato da un coro ritmato. Come sorto dal nulla, ma
probabilmente uscito da uno degli edifici militari, un corteo di Shabiha, i miliziani armati fedeli al
regime di Assad, kalashnikov in pugno, tascapani pieni di munizioni, ma in abiti civili, avanzano
sulla strada gridando slogan di fedeltà al presidente. Brandendo i fucili mitragliatori al cielo,
sfiorano il cratere dell´esplosione e avanzano verso la piccola folla di curiosi e le poche
telecamere che il cordone stretto intorno alla scena ha lasciato filtrare. Hanno la rabbia segnata
sul volto: «Assad/libertà», continuano a gridare. Anche perché, appena 48 prima, nove
Shabiha, miliziani come loro, erano stati uccisi alla periferia di Damasco in un attacco della
guerriglia a colpi di lancia granate contro l´autobus su cui viaggiavano.
E´ in un momento come questo che, raffigurandosi come le vittime di una manovra ordita
dall´esterno, i sostenitori di Assad fanno sentire la loro voce. Un giovane ci viene incontro
ripetendo come in un rosario: «Tutto questo è opera dell´Arabia Saudita». Nadine Haddad,
un´insegnante di 40 anni, cristiana, lancia la sua fredda invettiva contro il primo ministro del
Qatar, Hamad bin Jassim al Thani: «Hamad - dice Nadine serrando le labbra - tu stai
distruggendo il popolo siriano, non il regime. Tu stai uccidendo i nostri figli».
Qatar e Arabia Saudita sono, fra i paesi arabi, i più risoluti a sostenere che l´unico modo di
risolvere la crisi siriana sia armando i ribelli. Dunque, sui leader di Qatar e Arabia Saudita si
concentra il fuoco della propaganda che li accusa di essere ispiratori e finanziatori della
protesta contro il regime. Così come, contro gli stessi paesi sembrano indirizzati gli strali del
ministro degli Esteri, Muhallam, che ieri ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di proceder «contro
gli Stati e i gruppi che praticano il terrorismo». Il Consiglio di sicurezza ha condannato con
fermezza l´«attentato terroristico», il più grave compiuto contro la capitale siriana da quando, 14
mesi fa, è esplosa la rivolta.
Ieri Damasco ha continuato per ore a rabbrividire dietro l´urlo ininterrotto delle sirene. Poi, sotto
l´incalzare della calura quasi estiva, la città s´è come rilassata. Il traffico è ripreso a scorrere
normalmente sulle strade chiuse dalla polizia per lasciare corridoi aperti ai soccorsi. «Vedi -
commentava un amico siriano - qualche settimana fa, dopo un attentato anche meno grave di
questo la gene sarebbe tornata a casa. Oggi disgraziatamente ci stiamo abituando».
Alberto Stabile, 11/05/2012
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